Gabriel García Márquez, 1985.
PARTE PRIMA
Recensione
L'amore ai tempi del colera è senza alcun dubbio un romanzo sull'amore, ma è ben lontano dal poter essere definito un libro romantico: seppur Garcίа Márquez riesca a descrivere in maniera straordinaria le centinaia di donne con le quali Florentino intrattiene dei rapporti amorosi, l'amore borghese e soddisfatto di Fermina per il marito o, ancora, quello platonico, inconfessato ma irremovibile del telegrafista, nelle quasi 400 pagine di quest'opera mai una volta viene menzionato l'amore perfetto, quello stucchevole, che sa di finzione, poiché anche la felice conclusione della storia che lega i due protagonisti non ha nulla a che vedere con gli amori da commedia, ma appare piuttosto come l'esito di una volontà, di una caparbietà e di una ostinazione che ce lo fa apparire assai realistico.
Quello che lo zio León XII non sospettò mai fu che il carattere del nipote non gli veniva dalla necessità di sopravvivere, né da una flemma da cretino ereditata dal padre, ma da un'ambizione d'amore che nessuna contrarietà di questo né dell'altro mondo sarebbe riuscita a eliminare (p. 180).
E forse uno degli aspetti più pregevoli di questo libro risiede proprio nel fatto che l'autore consente al lettore di immedesimarsi nei protagonisti: Fermina è sì una donna bellissima, ma anche testarda, volubile, e perfino razzista (quando scopre che il marito l'ha tradita, ciò che le fa più male è che lo abbia fatto con una donna di colore). D'altra parte, Florentino è un uomo antiquato, preda di mille manie, preoccupato della forma e dell'esteriorità (i suoi tentativi di porre rimedio alla calvizie sono assai comici), addirittura pedofilo (instaurerà un rapporto anche con una ragazzina quindicenne).
Ad uno sguardo superficiale Florentino ci apparirà come il più scontato dei donnaioli, ma in realtà egli non concederà mai il suo cuore a nessuna, perché la sua anima appartiene a colei che nelle sue poesie definisce come una "Dea incoronata".
Florentina finalmente si innamorerà di quest'uomo così perseverante, ma non del ragazzo che è stato, non del ricordo sbiadito che ne ha: amerà l'anziano, l'ultrasettantenne oramai calvo, ma infinitamente romantico, dolce e paziente.
https://www.criticaletteraria.org/2020/02/l-amore-ai-tempi-del-colera-marquez.html?m=1
L'AMORE AI TEMPI DEL COLERA
Recensione
L'amore ai tempi del colera è senza alcun dubbio un romanzo sull'amore, ma è ben lontano dal poter essere definito un libro romantico: seppur Garcίа Márquez riesca a descrivere in maniera straordinaria le centinaia di donne con le quali Florentino intrattiene dei rapporti amorosi, l'amore borghese e soddisfatto di Fermina per il marito o, ancora, quello platonico, inconfessato ma irremovibile del telegrafista, nelle quasi 400 pagine di quest'opera mai una volta viene menzionato l'amore perfetto, quello stucchevole, che sa di finzione, poiché anche la felice conclusione della storia che lega i due protagonisti non ha nulla a che vedere con gli amori da commedia, ma appare piuttosto come l'esito di una volontà, di una caparbietà e di una ostinazione che ce lo fa apparire assai realistico.
Quello che lo zio León XII non sospettò mai fu che il carattere del nipote non gli veniva dalla necessità di sopravvivere, né da una flemma da cretino ereditata dal padre, ma da un'ambizione d'amore che nessuna contrarietà di questo né dell'altro mondo sarebbe riuscita a eliminare (p. 180).
E forse uno degli aspetti più pregevoli di questo libro risiede proprio nel fatto che l'autore consente al lettore di immedesimarsi nei protagonisti: Fermina è sì una donna bellissima, ma anche testarda, volubile, e perfino razzista (quando scopre che il marito l'ha tradita, ciò che le fa più male è che lo abbia fatto con una donna di colore). D'altra parte, Florentino è un uomo antiquato, preda di mille manie, preoccupato della forma e dell'esteriorità (i suoi tentativi di porre rimedio alla calvizie sono assai comici), addirittura pedofilo (instaurerà un rapporto anche con una ragazzina quindicenne).
Ad uno sguardo superficiale Florentino ci apparirà come il più scontato dei donnaioli, ma in realtà egli non concederà mai il suo cuore a nessuna, perché la sua anima appartiene a colei che nelle sue poesie definisce come una "Dea incoronata".
Florentina finalmente si innamorerà di quest'uomo così perseverante, ma non del ragazzo che è stato, non del ricordo sbiadito che ne ha: amerà l'anziano, l'ultrasettantenne oramai calvo, ma infinitamente romantico, dolce e paziente.
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L'AMORE AI TEMPI DEL COLERA
"A Mercedes, senza dubbio".
"In anticipo vanno questi luoghi: hanno già la loro dea incoronata".
Leandro Díaz.
Era inevitabile: l'odore delle mandorle amare gli ricordava sempre il destino degli amori contrastati. Il dottor Juvenal Urbino lo sentì appena entrato nella casa ancora in penombra, dove era accorso d'urgenza per occuparsi di un caso che per lui aveva cessato di essere urgente da molti anni. Il rifugiato antillano Jeremiah de Saint-Amour, invalido di guerra, fotografo di bambini e il suo avversario di scacchi più pietoso, si era messo in salvo dai tormenti della memoria con un suffumigio di cianuro di oro.
Trovò il cadavere sotto una coperta nella branda da campo dove aveva dormito sempre, vicino a uno sgabello con la bacinella che era servita a vaporizzare il veleno. Per terra, legato a una gamba della branda, c'era il corpo disteso di un gran danese col petto spruzzato di bianco, e vicino a lui c'erano le grucce. La stanza soffocante e confusionata che serviva al tempo stesso da camera da letto e da laboratorio, incominciava appena a illuminarsi col bagliore dell'alba dalla finestra aperta, ma era una luce sufficiente per riconoscere immediatamente l'autorità della morte. Le altre finestre, così come qualsiasi altra fessura della stanza, erano imbavagliate da stracci o sigillate da cartoni neri, e questo ne aumentava la densità oppressiva. C'erano un bancone pieno di flaconi e boccette senza etichetta, e due bacinelle di peltro corroso sotto un fornello comune coperto di carta rossa. La terza bacinella, quella del fissante, era vicino al cadavere. Dappertutto c'erano riviste e giornali vecchi, pile di negativi su lastre di vetro, mobili rotti, ma tutto era preservato dalla polvere da una mano diligente. Anche se l'aria della finestra aveva purificato l'ambiente, rimaneva ancora, per chi l'avesse saputo riconoscere, il sentore tiepido degli amori disgraziati delle mandorle amare. Il dottor Juvenal Urbino aveva pensato più di una volta, senza animo premonitore, che quello non era un luogo propizio per morire in grazia di Dio. Ma col tempo aveva finito per supporre che il disordine che vi regnava obbedisse a una risoluzione cifrata della Divina Provvidenza.
Un commissario di polizia era arrivato prima con uno studente di medicina molto giovane che faceva pratica nell'ambulatorio municipale, erano stati loro a ventilare la stanza e a coprire il cadavere fino all'arrivo del dottor Urbino. Tutti e due lo salutarono con una solennità che questa volta era più di condoglianze che di venerazione, dato che nessuno ignorava il grado di amicizia che aveva per Jeremiah de Saint-Amour. L'eminente maestro strinse loro la mano, come faceva da sempre con tutti i suoi allievi prima di incominciare la lezione quotidiana di clinica medica, poi prese il bordo della coperta con i polpastrelli dell'indice e del pollice, come se fosse un fiore, e scoprì il cadavere poco per volta con una circospezione sacramentale. Era completamente nudo, rigido e ritorto, con gli occhi aperti e il corpo azzurro, e come più vecchio di cinquant'anni rispetto alla notte precedente. Aveva le pupille diafane, la barba e i capelli giallognoli, e il ventre attraversato da una cicatrice di vecchia data cucita con punti da imballaggio. Il torace e le braccia avevano la larghezza da galeotto per il disagio delle grucce, ma le gambe inermi parevano quelle di un orfano. Il dottor Juvenal Urbino lo contemplò per un attimo con il cuore addolorato come pochissime volte nei lunghi anni della sua contesa sterile contro la morte. «Vigliacco» gli disse. «Il peggio era già passato.»
Lo ricoprì e riassunse la sua aria accademica. L'anno prima aveva celebrato gli ottant'anni con un giubileo ufficiale di tre giorni, e nel discorso di ringraziamento aveva resistito ancora una volta alla tentazione di ritirarsi a vita privata. Aveva detto: «Mi avanzerà parecchio tempo per riposare quando sarò morto, ma questa eventualità non rientra ancora nei miei progetti». Anche se sentiva sempre di meno dall'orecchio destro e si appoggiava a un bastone con l'impugnatura d'argento per nascondere l'incertezza dei suoi passi, continuava a indossare con il portamento dei suoi anni giovanili il completo di lino con il gilè attraversato dalla catenella d'oro dell'orologio. La barba alla Pasteur, color madreperla, e i capelli dello stesso colore, con l'abito perfettamente stirato e con la riga netta in mezzo, erano espressioni fedeli del suo carattere. L'erosione della memoria, sempre più inquietante, la compensava fin dove gli era possibile con note scritte frettolosamente su fogliettini scompagnati, che finivano per confondersi in tutte le tasche, proprio come gli strumenti, le boccette di medicine, e tante altre cose disordinate nella valigetta strapiena. Non era solo il medico più vecchio e illustre della città, ma l'uomo più elegante. Tuttavia, il suo scibile troppo ostentato e il modo per nulla ingenuo di usare il potere del suo nome gli avevano procurato meno affetti di quanto meritasse.
Le istruzioni al commissario e al praticante furono precise e rapide. Non era necessario fare l'autopsia. L'odore della casa bastava a stabilire che causa della morte erano state le emanazioni del cianuro attivato nella bacinella da qualche acido fotografico, e Jeremiah de Saint-Amour ne sapeva abbastanza per non farlo per caso. Di fronte a un dubbio del commissario, lo parò con una stoccata tipica del suo modo di essere: «Non si dimentichi che sono io a firmare il certificato di morte». Il medico giovane rimase deluso: non aveva mai avuto la possibilità di studiare gli effetti del cianuro di oro su un cadavere. Il dottor Juvenal Urbino era rimasto sorpreso di non averlo visto alla Scuola di Medicina, ma lo capì subito dal suo facile rossore e dalla pronuncia andina: probabilmente era uno arrivato da poco in città. Gli disse: «Non le mancherà qui qualche pazzo d'amore che gliene darà l'occasione, uno di questi giorni». E solo mentre lo diceva si rese conto che fra gli innumerevoli suicidi che ricordava, quello era il primo col cianuro che non fosse provocato da amori disgraziati. Qualcosa nella sua voce allora mutò.
«Quando lo troverà, stia molto attento» disse al praticante: «di solito hanno della sabbia nel cuore».
Poi parlò con il commissario come avrebbe fatto con un subalterno. Gli ordinò di darsi da fare perché il funerale fosse fatto quella sera stessa e con il massimo riserbo. Disse: «Ne parlerò poi con il sindaco». Sapeva che Jeremiah de Saint-Amour era di un'austerità primitiva, e che guadagnava con la sua arte più di quanto avesse bisogno per vivere, cosicché in qualche cassetto della casa doveva esserci denaro in abbondanza per le spese del funerale.
«Ma se non lo trovate, non importa» disse. «Mi faccio carico io di tutto.»
Ordinò di comunicare ai giornali che il fotografo era morto di morte naturale, anche se pensava che la notizia non li avrebbe interessati in nessun modo. Disse: «Se necessario, parlerò con il governatore». Il commissario, un impiegato serio e umile, sapeva che il rigore civico del maestro esasperava perfino i suoi amici più cari, ed era sorpreso dalla facilità con cui saltava le formalità legali per accelerare il funerale. L'unica cosa che non riuscì a fare fu parlare con l'arcivescovo, perché Jeremiah de Saint-Amour fosse seppellito in terra consacrata. Il commissario, addolorato per la sua impertinenza, cercò di scusarsi.
«Avevo capito che quest'uomo era un santo» disse.
«Qualcosa di ancora più strano» disse il dottor Urbino, «un santo ateo. Ma questi sono affari di Dio.»
Lontano, dall'altra parte della città coloniale, si udirono le campane della cattedrale che chiamavano alla messa solenne. Il dottor Urbino inforcò gli occhiali a mezza luna con la montatura d'oro, e guardò l'orologio con la catenella, che era quadrato e sottile, con il coperchio a molla: stava per perdere la messa di Pentecoste. Nella sala c'era un'enorme macchina fotografica su ruote come quelle dei giardini pubblici e lo sfondo di un crepuscolo sul mare dipinto artigianalmente, e le pareti erano tappezzate di ritratti di bambini nelle loro date memorabili: la prima comunione, il mascheramento da coniglio, il compleanno felice. Il dottor Urbino aveva visto quei muri ricoprirsi giorno dopo giorno, anno dopo anno, durante le cavillosità assorte dei pomeriggi di scacchi, e aveva pensato spesso con un palpito di desolazione che in quella galleria di ritratti casuali c'era il germe della città futura, governata e pervertita da quei bambini incerti, e nella quale non sarebbero più rimaste neanche le ceneri della sua gloria.
Sulla scrivania, vicino a un barattolo pieno di pipe da lupo di mare, c'era la scacchiera con una partita non conclusa. Malgrado la fretta e l'animo malinconico, il dottor Urbino non resistette alla tentazione di studiarla. Sapeva che era la partita della sera prima, dato che Jeremiah de Saint-Amour giocava tutti i pomeriggi della settimana e almeno con tre avversari diversi, ma arrivava sempre fino alla fine e poi metteva la scacchiera e le pedine nella scatola, e metteva la scatola in un cassetto della scrivania. Sapeva che giocava con i bianchi, e quella volta era evidente che sarebbe stato sconfitto senza rimedio in quattro mosse. «Se fosse stato un assassinio, qui ci sarebbe una buona pista» disse tra sé. «Conosco solo un uomo capace di preparare questa imboscata maestra.» Non avrebbe potuto vivere senza scoprire più tardi perché quel soldato indomito, abituato a battersi fino all'ultimo sangue, avesse lasciato inconclusa la guerra finale della sua vita.
Alle sei di mattina, quando faceva l'ultima ronda, la guardia notturna aveva visto il cartello attaccato alla porta: "Entrate senza bussare e avvisate la polizia". Poco dopo era accorso il commissario con il praticante, e ambedue avevano ispezionato la casa in cerca di qualche evidenza contro l'odore inconfondibile delle mandorle amare. Ma nei pochi minuti che indugiò ad analizzare la partita incompiuta il commissario scoprì fra le carte della scrivania una busta indirizzata al dottor Juvenal Urbino, e protetta da tanti sigilli di ceralacca che fu necessario farla a pezzi per estrarne la lettera. Il medico scostò la tenda nera della finestra per avere più luce, diede prima un rapido sguardo agli undici fogli scritti da tutte e due le parti con una calligrafia comprensibile, e non appena ebbe letto il primo periodo capì di aver perso la comunione di Pentecoste. Lesse con l'animo agitato, tornando indietro in più pagine per riprendere il filo che aveva perso, e quando ebbe finito sembrava che tornasse da molto lontano e da molto tempo. La sua prostrazione era visibile nonostante lo sforzo che faceva per impedirlo: sulle labbra aveva lo stesso colore azzurro del cadavere, e non riuscì a dominare il tremore delle dita quando ripiegò la lettera e se la mise nel taschino del gilè. Allora si ricordò del commissario e del giovane medico, e gli sorrise dalle brume del dolore.
«Niente di particolare» disse. «Sono le sue ultime volontà.»
Era una mezza verità, ma loro la credettero completa perché lui ordinò di sollevare una mattonella non cementata del pavimento e lì trovarono un libro di conti molto usato che conteneva le chiavi per aprire la cassaforte. Non c'era tanto denaro quanto pensavano, ma ce n'era in abbondanza per le spese del funerale e per saldare altre incombenze minori. Il dottor Urbino era conscio in quel momento di non riuscire ad arrivare alla cattedrale prima del Vangelo.
«E' la terza volta che perdo la messa della domenica da quando ho l'uso della ragione» disse. «Ma Dio capisce.»
Cosicché preferì attardarsi qualche minuto di più per lasciare tutti i dettagli risolti, anche se riusciva a stento a sopportare l'ansia di dividere con sua moglie le confidenze della lettera. Si impegnò ad avvisare i numerosi rifugiati del Caribe che vivevano in città, nel caso avessero voluto rendere gli ultimi onori a chi si era comportato come il più rispettabile di tutti, il più attivo e radicale, anche dopo che era stato troppo evidente che aveva dovuto soccombere alla remora della disillusione. Avrebbe avvisato anche i suoi amici di scacchi, fra i quali c'erano da insigni professionisti fino a operai senza nome, e altri amici meno assidui, ma che probabilmente avrebbero voluto assistere alla cerimonia funebre. Prima di conoscere il contenuto della lettera postuma aveva deciso di essere il primo, ma dopo averla letta non era sicuro di niente. In ogni modo avrebbe mandato una corona di gardenie, nel caso che Jeremiah de Saint-Amour avesse avuto un ultimo minuto di pentimento. La cerimonia sarebbe stata alle cinque, che era l'ora più propizia nei mesi più caldi. Se avessero avuto bisogno di lui, da mezzogiorno sarebbe stato nella casa di campagna del dottor Lácides Olivella, suo amato discepolo, che quel giorno celebrava con un pranzo di gala le nozze d'argento con la professione.
Il dottor Juvenal Urbino aveva abitudini facili da seguire, da quando erano passati gli anni tormentati delle prime armi, e aveva ottenuto una rispettabilità e un prestigio senza eguali nella provincia. Si alzava al primo canto del gallo, e a quell'ora incominciava a prendere le sue medicine segrete: bromuro di potassio per sollevarsi l'animo, salicilati per i dolori delle ossa quando pioveva, gocce di segale cornuta per i capogiri, belladonna per dormire bene. Prendeva qualcosa in ogni momento, sempre di nascosto, perché nella sua lunga vita di medico e maestro era stato sempre contrario a prescrivere palliativi per la vecchiaia: gli era più facile sopportare i dolori degli altri che i suoi. In tasca portava sempre un sacchettino di canfora che aspirava a fondo quando nessuno lo vedeva per togliersi la paura di tante medicine ingarbugliate.
Restava un'ora nel suo studio, a preparare la lezione di clinica medica che tenne alla Scuola di Medicina tutti i giorni dal lunedì al sabato, alle otto in punto, fino alla vigilia della sua morte. Era anche un lettore attento alle novità letterarie che gli mandava per posta il suo libraio di Parigi, o quelle che ordinava a Barcellona dal suo libraio locale, anche se non seguiva la letteratura di lingua castigliana con tanta attenzione come quella francese. Comunque non leggeva mai di mattina, ma dopo la siesta per un'ora, e la sera prima di dormire. Finito lo studio, faceva quindici minuti di esercizi respiratori nel bagno, davanti alla finestra aperta, respirando sempre verso il lato da cui cantavano i galli, che era dove c'era l'aria nuova. Poi faceva il bagno, si regolava la barba e si impomatava i baffi in un ambiente saturo di acqua di colonia di Farina Gegenüber, e si vestiva di lino bianco, con gilè e cappello floscio, e stivaletti di pelle di capra. A ottantun anni conservava i modi facili e lo spirito allegro di quando era tornato da Parigi, poco dopo la grande epidemia di colera, e i capelli ben pettinati con la scriminatura in mezzo che continuava a essere uguale a quella della gioventù, salvo per il colore metallico. Faceva colazione in famiglia, ma con una dieta personale: un infuso di fiori di assenzio maggiore per il benessere dello stomaco e una testa d'aglio i cui spicchi pelava e mangiava a uno a uno masticandoli coscienziosamente con una pagnotta di pane, per prevenire gli affanni del cuore. Di rado non aveva dopo la lezione qualche impegno legato alle sue iniziative civiche o alla sua militanza cattolica o alle sue invenzioni artistiche e sociali. Pranzava quasi sempre a casa, faceva una siesta di dieci minuti seduto nella terrazza del patio, udendo in sogno le canzoni delle domestiche sotto le fronde dei manghi, udendo le urla dei venditori ambulanti della strada, il fragore di olii e motori della baia, i cui effluvi aleggiavano intorno alla casa nei pomeriggi caldi come un angelo condannato al marciume. Poi leggeva per un'ora i libri più recenti, specialmente romanzi e saggi storici, e dava lezioni di francese e di canto al pappagallo di casa che da diversi anni era un'attrazione locale. Alle quattro usciva a visitare i suoi malati, dopo essersi sorbito un gran boccale di limonata con ghiaccio. Nonostante l'età era contrario a ricevere i pazienti in studio, e continuava a seguirli a casa loro, come aveva fatto sempre, da quando la città era così domestica da potersene andare a piedi dovunque.
Dopo che era arrivato dall'Europa, nei primi tempi girava sul landò di famiglia con due sauri dorati, ma quando questo era diventato inservibile lo aveva cambiato con una vittoria a un solo cavallo, e aveva continuato a usarla sempre con un certo disdegno nei confronti della moda, quando le carrozze incominciavano ormai a sparire dal mondo e le uniche che restavano in città servivano solo per portare in giro i turisti e le corone ai funerali. Anche se continuava a non volersi ritirare, sapeva benissimo che lo chiamavano solo per occuparsi di casi persi, ma considerava che anche questo fosse un tipo di specializzazione. Era capace di sapere quello che aveva un malato solo dal suo aspetto, e ogni volta si fidava meno delle medicine di moda e guardava allarmato alla volgarizzazione della chirurgia. Diceva: «Il bisturi è la prova maggiore dell'insuccesso della medicina». Pensava che con stretto criterio ogni medicina fosse un veleno e che il settanta per cento degli alimenti correnti affrettasse la morte. «In ogni caso» era solito dire nelle sue lezioni, «la poca medicina che si sa la sanno solo pochi medici.» Dai suoi entusiasmi giovanili era passato a una posizione che lui stesso definiva un umanesimo fatalista. «Ognuno è padrone della propria morte, e l'unica cosa che possiamo fare, arrivato il momento, è aiutarlo a morire senza paura né dolore.» Ma nonostante queste idee estreme, che facevano parte del folklore medico locale, i suoi antichi alunni continuavano a consultarlo anche quando erano già professionisti affermati, dato che gli riconoscevano quello che allora si chiamava occhio clinico. Comunque era sempre stato un medico caro ed esclusivo, e la sua clientela si era sempre concentrata nelle case avite del quartiere dei Viceré.
Aveva una giornata così metodica che sua moglie sapeva dove mandargli un messaggio se succedeva qualcosa di urgente nel corso del pomeriggio. Da giovane si attardava al Caffè della Parrocchia prima di tornare a casa, e così aveva perfezionato i suoi scacchi con gli amici di suo suocero e con alcuni rifugiati del Caribe. Ma dagli albori del nuovo secolo non era più tornato al Caffè della Parrocchia e aveva cercato di organizzare tornei nazionali patrocinati dal Club Social. Era stata quella l'epoca in cui era venuto Jeremiah de Saint-Amour, già con i suoi ginocchi morti e ancora senza l'attività di fotografo di bambini, e prima che fossero passati tre mesi era conosciuto da chiunque sapesse muovere un alfiere sulla scacchiera, perché nessuno era riuscito a vincergli una partita. Per il dottor Juvenal Urbino era stato un incontro miracoloso, in un momento in cui gli scacchi si erano trasformati per lui in una passione indomabile e non gli restavano più molti avversari per saziarla.
Grazie a lui, Jeremiah de Saint-Amour aveva potuto essere quello che era stato fra di noi. Il dottor Urbino si era trasformato nel suo protettore incondizionato, nel suo garante di tutto, senza prendersi nemmeno la fatica di verificare chi fosse, né che cosa facesse, né da quali guerre senza gloria venisse in quello stato di invalidità e di sconcerto. Infine gli aveva prestato il denaro per metter su la bottega da fotografo, che Jeremiah de Saint-Amour gli aveva pagato con un rigore da passamantiere, fino all'ultimo centesimo, da quando aveva ritratto il primo bambino impaurito dal lampo di magnesio. Tutto era stato per gli scacchi. All'inizio giocavano alle sette di sera, dopo cena, con ragionevoli vantaggi per il medico vista la superiorità notevole dell'avversario, ma ogni volta con meno vantaggi, finché erano stati pari. Più tardi, quando don Galileo Daconte aprì la prima sala cinematografica, Jeremiah de Saint-Amour era uno dei suoi clienti più puntuali, e le partite di scacchi si erano ridotte alle sere in cui non c'erano "prime".
A quell'epoca era diventato così amico del medico che questi lo accompagnava al cinema, ma sempre senza la moglie, un po' perché lei non aveva la pazienza di seguire il filo degli argomenti difficili, un po' perché gli era sempre parso, a naso, che Jeremiah de Saint-Amour non fosse una buona compagnia per nessuno.
Il suo giorno diverso era la domenica. Assisteva alla messa solenne nella cattedrale, e poi tornava a casa e lì rimaneva a riposare e a leggere sulla terrazza del patio. Raramente usciva a visitare un malato in una festa di precetto, se non era di estrema urgenza, e da molti anni non accettava un impegno sociale che non fosse strettamente obbligatorio. Quel giorno di Pentecoste, per un caso eccezionale, erano successi contemporaneamente due avvenimenti rari: la morte di un amico e le nozze d'argento di un suo eminente discepolo. Tuttavia, invece di ritornare direttamente a casa, come aveva previsto dopo aver certificato la morte di Jeremiah de Saint-Amour, si era lasciato prendere dalla curiosità.
Appena salito in carrozza, aveva riletto rapidissimamente la lettera postuma, e aveva ordinato al cocchiere di portarlo a un indirizzo difficile nel vecchio quartiere degli schiavi. Quella decisione era così estranea alle sue abitudini che il cocchiere volle assicurarsi che non ci fosse qualche errore. Non c'era: l'indirizzo era chiaro, e chi lo aveva scritto aveva motivi a iosa per conoscerlo molto bene. Il dottor Urbino era tornato allora al primo foglio, e si era immerso di nuovo in quella sorgente di rivelazioni sgradevoli che avrebbero potuto cambiargli la vita, persino alla sua età, se fosse riuscito a convincersi che non erano i deliri di uno privo di ogni speranza. L'umore del cielo aveva incominciato ad alterarsi da molto presto, ed era nuvoloso e fresco, ma non c'erano rischi di pioggia prima di mezzogiorno. Cercando di trovare un cammino più breve, il cocchiere si era infilato nelle vie impervie di pietra della città coloniale, e aveva dovuto fermarsi parecchie volte perché il cavallo non si spaventasse con il disordine dei collegi e delle confraternite religiose che ritornavano dalla liturgia della Pentecoste. C'erano ghirlande di carta per le strade, musiche e fiori, e ragazze con ombrellini colorati e abiti leggeri di mussolina che guardavano passare la festa dai balconi. Nella Piazza della Cattedrale, dove si distingueva solo la statua del Libertador (1) fra le palme africane e i nuovi lampioni a globo, c'era un imbottigliamento di automobili per l'uscita dalla messa e non c'era un posto libero nel venerabile e rumoroso Caffè della Parrocchia. L'unica carrozza era quella del dottor Urbino, e si distingueva dalle pochissime che restavano ancora in città perché aveva sempre mantenuto la cappotta di pelle verniciata lucida e aveva i ferramenti di bronzo perché non se li mangiasse il salino, e le ruote e le stanghe dipinte di rosso con i bordini dorati, come nelle serate di gala dell'Opera di Vienna. Per di più, mentre le famiglie più eleganti si accontentavano che i loro cocchieri avessero la camicia pulita, lui continuava a esigere dal suo la livrea di velluto vizzo e la tuba da domatore di circo, che, oltre a essere anacronistiche, venivano giudicate come una mancanza di misericordia nella canicola del Caribe.
Malgrado il suo amore quasi maniacale per la città, e benché la conoscesse meglio di chiunque altro, il dottor Juvenal Urbino aveva avuto molto raramente un motivo come quello di quella domenica per avventurarsi senza reticenze nel fragore del vecchio quartiere degli schiavi. Il cocchiere aveva dovuto fare parecchi giri e domandare diverse volte per trovare l'indirizzo. Il dottor Urbino aveva riconosciuto da vicino la pesantezza delle paludi, il loro silenzio fatidico, i loro olezzi da affogato che in tante albe insonni salivano su fino alla sua camera da letto confusi con la fragranza dei gelsomini del patio, e che lui sentiva passare come un vento di ieri che non aveva niente a che vedere con la sua vita. Ma quella pestilenza tante volte idealizzata dalla nostalgia si era trasformata in una realtà insopportabile quando la carrozza aveva incominciato a saltare nel fango delle strade dove gli avvoltoi si contendevano gli avanzi del mattatoio trascinati dalla marea. A differenza della città dei viceré, le cui case erano in muratura, lì erano fatte di legno scolorito e tetti di zinco, e la maggioranza poggiava su palafitte per non farci entrare le piene delle fogne all'aperto ereditate dagli spagnoli. Tutto aveva un aspetto miserabile e abbandonato, ma dalle taverne sordide veniva lo strepito di musica di festa senza Dio né legge della Pentecoste dei poveri. Quando infine trovarono l'indirizzo, la carrozza era seguita da comitive di bambini nudi che si burlavano dell'abbigliamento teatrale del cocchiere, e lui doveva scacciarli con la frusta. Il dottor Urbino, che si era preparato a una visita confidenziale, capì troppo tardi che non esisteva ingenuità più pericolosa di quella della sua età.
L'esterno della casa senza numero non aveva niente che la distinguesse dalle meno felici, all'infuori della finestra con le tende di pizzo e un portone smontato da qualche chiesa antica. Il cocchiere fece risuonare il batacchio della porta, e solo quando ebbe verificato che era l'indirizzo giusto aiutò il medico a scendere dalla carrozza. Il portone si era aperto senza fare rumore, e nella penombra dell'interno c'era una donna matura, vestita tutta di nero e con una rosa rossa dietro un orecchio. Malgrado i suoi anni, che non erano meno di quaranta, era ancora una mulatta superba, con gli occhi dorati e crudeli, e i capelli adattati alla forma del cranio come un casco di cotone di ferro. Il dottor Urbino non la riconobbe, anche se l'aveva vista diverse volte fra le nebbie delle partite a scacchi nello studio del fotografo, e in qualche occasione le aveva prescritto delle cartine di chinino per la febbre terzana. Le tese la mano, e lei la prese fra le sue, più per aiutarlo a entrare che per salutarlo. La
sala aveva il clima e il mormorio invisibile di una foresta, ed era piena di mobili e begli oggetti, ognuno al suo posto naturale. Il dottor Urbino si ricordò senza amarezza della bottega di un antiquario di Parigi, un lunedì d'autunno del secolo scorso, al numero 26 di Rue Montmartre. La donna si sedette davanti a lui e gli parlò in un castigliano difficile.
«Questa è casa sua, dottore» disse. «Non l'aspettavo così presto.» Il dottor Urbino si sentì denunciato. La osservò con il cuore, osservò il suo lutto intenso, la dignità della sua angoscia, e allora capì che quella era una visita inutile, perché lei sapeva più di lui tutto quanto era detto e giustificato nella lettera postuma di Jeremiah de Saint-Amour. Era così. Lei lo aveva accompagnato fino a pochissime ore prima della morte, così come lo aveva accompagnato per quasi vent'anni con una devozione e un affetto sottomessi che erano troppo simili all'amore, e senza che nessuno lo sapesse in questa sonnolenta capitale di provincia dove erano di dominio pubblico perfino i segreti di stato. Si erano conosciuti in un ricovero per viandanti di Port-au Prince, dove lei era nata e dove lui aveva passato i suoi primi tempi da fuggiasco, e lo aveva seguito fin qui un anno dopo per una visita breve, anche se tutti e due sapevano senza essersi messi d'accordo che era venuta per fermarsi per sempre. Lei si occupava di tenere pulito e in ordine lo studio una volta alla settimana, ma neanche i vicini più malpensanti avevano confuso le apparenze con la verità, perché supponevano come tutti che l'invalidità di Jeremiah de Saint-Amour non riguardasse solo il camminare. Lo stesso dottor Urbino lo supponeva per ragioni mediche ben fondate, e non avrebbe mai creduto che avesse una donna se lui stesso non glielo avesse rivelato nella lettera. In ogni modo stentava a capire come due adulti liberi e senza passato, ai margini di una società ripiegata su se stessa, avessero scelto il rischio degli amori proibiti. Lei glielo spiegò: «Era quello che gli piaceva». E, in più, la clandestinità divisa con un uomo che non era mai stato completamente suo, e nella quale più di una volta avevano conosciuto l'esplosione improvvisa della felicità, non le era sembrata una condizione indesiderabile. Anzi: la vita le aveva dimostrato che forse era stata esemplare.
La sera prima erano andati al cinema, ognuno per proprio conto e in posti lontani, come facevano almeno due volte al mese da quando l'immigrante italiano don Galileo Daconte aveva installato un salone all'aperto nei ruderi di un convento del diciassettesimo secolo. Avevano visto un film tratto da un libro che era stato di moda l'anno prima, e che il dottor Urbino aveva letto col cuore afflitto per la barbarie della guerra: "All'Ovest niente di nuovo". Si erano ritrovati poi nello studio, e le era sembrato sperduto e nostalgico, e aveva pensato che fosse per le scene brutali dei feriti moribondi nel fango. Cercando di distrarlo lo aveva invitato a giocare a scacchi, e lui aveva accettato per farla contenta, ma giocava senza attenzione, con i bianchi, naturalmente, finché aveva scoperto prima di lei che sarebbe stato sconfitto in quattro mosse, e si era arreso senza onore. Il medico capì allora che il contendente della partita finale era stata lei e non il generale Jerónimo Argote, come lui aveva supposto.
Mormorò sbigottito:
«Era una partita da maestro!»
Lei insistette che il merito non era suo, ma che Jeremiah de Saint Amour, già smarrito nelle brume della morte, muoveva le pedine senza amore. Interrotta la partita, verso le undici e un quarto, dato che era già finita la musica dei balli pubblici, lui le aveva chiesto di lasciarlo solo. Voleva scrivere una lettera al dottor Juvenal Urbino, che considerava l'uomo più rispettabile che avesse mai conosciuto, e anche un amico dell'anima, come gli piaceva dire, benché la loro unica affinità fosse il vizio degli scacchi inteso come un dialogo della ragione e non come una scienza. Allora lei aveva saputo che Jeremiah de Saint-Amour era arrivato al termine dell'agonia, e che non gli rimaneva più tempo di vita all'infuori di quello necessario per scrivere la lettera. Il medico non riusciva a crederci.
«E così lei lo sapeva!» esclamò.
Non solo lo sapeva, confermò lei, ma lo aveva aiutato a sopportare l'agonia con lo stesso amore con cui lo aveva aiutato a scoprire la felicità. Perché questo erano stati i suoi ultimi undici mesi: una crudele agonia.
«Doveva dirlo pubblicamente» disse il medico.
«Non avrei potuto fargli questo» disse lei, scandalizzata: «lo amavo troppo».
Il dottor Urbino, che credeva di averle sentite tutte, non aveva mai sentito nulla di simile, e detto in un modo così semplice. La guardò risolutamente con i cinque sensi per fissarla nella sua memoria come era in quel momento: sembrava un idolo fluviale, impavida nel suo vestito nero, con gli occhi da vipera e la rosa dietro l'orecchio. Molto tempo prima, su una spiaggia solitaria di Haiti dove tutti e due giacevano nudi dopo l'amore, Jeremiah de Saint-Amour aveva sospirato improvvisamente: «Non sarò mai vecchio». Lei lo aveva interpretato come un proposito eroico di lottare senza quartiere contro i danni del tempo, ma lui era stato più esplicito: aveva deciso irrevocabilmente di togliersi la vita a sessant'anni.
Li aveva compiuti, in effetti, il 23 gennaio di quell'anno, e allora aveva fissato come termine ultimo la vigilia di Pentecoste, che era la festa più importante della città consacrata al culto dello Spirito Santo. Non c'era nessun particolare della notte precedente che lei non avesse conosciuto anticipatamente, e ne parlavano spesso, sopportando insieme il torrente irreparabile dei giorni che ormai né lui né lei potevano arrestare. Jeremiah de Saint-Amour amava la vita con una passione senza senso, amava il mare e l'amore, amava il suo cane e lei, e più la data si avvicinava più soccombeva alla disperazione, come se la sua morte non fosse stata una decisione sua quanto un destino inesorabile.
«Ieri sera, quando l'ho lasciato solo, non era già più di questo mondo» disse lei.
Avrebbe voluto portarsi via il cane, ma lui lo aveva guardato mentre dormiva vicino alle grucce e lo aveva accarezzato con la punta delle dita. Aveva detto: «Mi dispiace, ma Mister Woodrow Wilson se ne va con me». Le aveva chiesto di legarlo alla gamba della branda mentre lui scriveva, e lei lo aveva fatto con un nodo finto perché potesse liberarsi. Era stato il suo unico atto di slealtà ed era giustificato dal desiderio di continuare a ricordare il padrone negli occhi invernali del suo cane. Ma il dottor Urbino la interruppe per dirle che il cane non si era liberato. Lei disse: «Allora è stato perché non ha voluto». E ne fu contenta, perché preferiva continuare a evocare l'amante morto come lui le aveva chiesto la sera prima, quando aveva interrotto la lettera che aveva incominciato e l'aveva guardata per l'ultima volta.
«Ricordami con una rosa» le aveva detto.
Era rientrata a casa sua poco dopo la mezzanotte. Si era sdraiata a fumare sul letto, vestita, accendendo una sigaretta col mozzicone dell'altra per dargli il tempo di finire la lettera che lei sapeva lunga e difficile, e poco prima delle tre, quando avevano incominciato a ululare i cani, aveva messo sul fuoco l'acqua per il caffè, si era vestita a lutto stretto e aveva tagliato nel patio la prima rosa dell'alba. Il dottor Urbino si era reso conto da un attimo di quanto avrebbe rifiutato il ricordo di quella donna irredimibile, e credeva di conoscerne il motivo: solo una persona senza principi poteva essere così compiacente con il dolore.
Lei gli diede più argomenti verso la fine della visita. Non sarebbe andata al funerale, anche se il dottor Urbino aveva creduto di capire il contrario in un paragrafo della lettera. Non avrebbe sparso una lacrima, non avrebbe sprecato il resto dei suoi anni a cuocersi a fuoco lento nel brodo di larve della memoria, non si sarebbe sepolta viva a cucire i suoi lenzuoli mortuari fra queste quattro pareti come era così benvisto che facessero le vedove del luogo. Pensava di vendere la casa di Jeremiah de Saint-Amour, che da quel momento era sua con tutto quello che aveva dentro secondo quanto era disposto nella lettera, e avrebbe continuato a vivere come sempre e senza lamentarsi di nulla in questo mortorio di poveri dove era stata felice.
Quella frase aveva perseguitato il dottor Juvenal Urbino mentre tornava a casa: «Questo mortorio di poveri». Non era una definizione gratuita. Perché la città, la sua, continuava a essere uguale ai margini del tempo: la stessa città ardente e arida dei suoi terrori notturni e dei piaceri solitari della pubertà, in cui si ossidavano i fiori e si corrompeva il sale, e alla quale non era accaduto nulla in quattro secoli, salvo l'invecchiare a poco a poco fra allori marciti e paludi imputridite. D'inverno, acquazzoni improvvisi e distruttori facevano strabordare le latrine e trasformavano le strade in fangaie nauseabonde. D'estate, una polvere invisibile, aspra come un tizzone rosso vivo, si intrufolava perfino negli interstizi più protetti dell'immaginazione, sollevata da alcuni venti folli che scoperchiavano case e che si portavano per aria i bambini. Il sabato, la povertà mulatta abbandonava chiassosamente le casette di cartone e latta sulle rive delle paludi, con i suoi animali domestici e i suoi arnesi da mangiare e bere, e prendeva in un assalto di giubilo le spiagge pietrose della zona coloniale. Alcuni fra i più vecchi portavano fino a pochi anni prima il marchio reale degli schiavi, impresso con ferri incandescenti nel petto. Durante il fine settimana ballavano senza clemenza, si ubriacavano a morte con alcoolici di alambicchi casalinghi, facevano liberi amori fra le macchie di arbusti, e alla mezzanotte della domenica scatenavano i loro "fandangos" con pandemoni sanguinosi di tutti contro tutti. Era la stessa folla impetuosa che per il resto della settimana si infiltrava nelle piazze e nelle viuzze dei quartieri antichi, con banchetti di quanto era possibile comprare e vendere, e infondeva alla città morta una frenesia di fiera umana odorosa di pesce fritto: una vita nuova.
L'indipendenza dal dominio spagnolo, e poi l'abolizione della schiavitù, avevano precipitato lo stato di decadenza onorevole in cui era nato e cresciuto il dottor Juvenal Urbino. Le grandi famiglie di un tempo sprofondavano in silenzio dentro le loro fortezze sguarnite. Agli angoli delle strade lastricate che erano state così efficaci in agguati di guerra e sbarchi di bucanieri, le erbacce apparivano improvvisamente su per i balconi e aprivano crepe nei muri di calce e sassi anche negli edifici meglio tenuti, e l'unico segno di vita alle due del pomeriggio erano i languidi esercizi di piano nella penombra della siesta. Dentro, nelle fresche camere da letto sature di incenso, le donne evitavano il sole come un contagio indegno, e anche nelle messe all'alba si coprivano la faccia con lo scialle. I loro amori erano lenti e difficili, spesso turbati da presagi sinistri, e la vita
pareva loro interminabile. Sul far della sera, nel momento oppressivo del passaggio dal giorno alla notte, si alzava dalle paludi una tempesta di zanzare carnivore, e una tenera esalazione di merda umana, calda e triste, rimestava nel fondo dell'anima la certezza della morte.
Dunque la vita stessa della città coloniale, che il giovane Juvenal Urbino era solito idealizzare nelle sue malinconie parigine, era allora un'illusione della memoria. Il suo commercio era stato il più prospero del Caribe nel diciottesimo secolo, soprattutto per il privilegio ingrato di essere il più grande mercato di schiavi africani nelle Americhe. Era stato, per di più, la residenza abituale dei viceré del Nuovo Regno di Granada, che preferivano governare da qui, davanti all'oceano del mondo, e non nella capitale distante e gelata la cui pioggerellina secolare ne scombussolava il senso della realtà. Spesso durante l'anno si concentravano nella baia le flotte di galeoni carichi dei frutti di Potosí, di Quito, di Veracruz, e la città viveva allora i suoi anni di gloria. Venerdì 8 giugno 1708 alle quattro del pomeriggio, il galeone "San José", che era appena salpato per Cadice con un carico di pietre e metalli preziosi per mezzo miliardo di "pesos" dell'epoca, fu affondato da una squadra inglese davanti all'entrata del porto, e dopo più di due secoli non era ancora stato recuperato. Quella fortuna che giaceva su fondali di coralli, con il cadavere del comandante che ondeggiava di fianco al posto di comando, era spesso evocata dagli storici come l'emblema della città affogata nei ricordi.
Dall'altro lato della baia, nel quartiere residenziale di La Manga, la casa del dottor Juvenal Urbino stava in un altro tempo. Era grande e fresca, a pianta unica e con un portico di colonne doriche sulla terrazza esterna, dalla quale si dominava la distesa di miasmi e rottami di naufragi della baia. Il pavimento era ricoperto di piastrelle a scacchi, bianche e nere, dalla porta di entrata fino alla cucina, e questo era stato attribuito ancora una volta alla passione dominante del dottor Urbino, senza ricordare che era una debolezza comune dei capomastri catalani che avevano costruito all'inizio di questo secolo quel quartiere di nuovi ricchi. La sala era ampia, coi soffitti molto alti come tutta la casa, con sei porte-finestre sulla strada, e era separata dalla sala da pranzo da una porta a vetri, enorme e istoriata, con ramaglie di vite e grappoli e donzelle sedotte da zufoli di fauni in una foresta di bronzo. I mobili dell'anticamera, perfino la pendola della sala che aveva l'aria di una sentinella viva, erano tutti originali inglesi della fine del diciannovesimo secolo, e i lampadari sospesi erano di gocce di cristallo di rocca, e dappertutto c'erano vasi e portafiori di Sèvres e statuette di idillii pagani in alabastro. Ma quella coerenza europea si esauriva nel resto della casa, dove le poltrone di vimini si confondevano con sedie a dondolo viennesi e sgabelli di cuoio di artigianato locale. Nelle camere da letto, oltre ai letti, c'erano splendide amache di San Jacinto con il nome del padrone ricamato a lettere gotiche con fili di seta e frange colorate dalle parti. Lo spazio concepito in origine per le serate di gala, a fianco della sala da pranzo, era stato utilizzato per una piccola sala da musica in cui si davano concerti per intimi quando venivano interpreti famosi. Per migliorare il silenzio dell'ambiente, le piastrelle erano state coperte con i tappeti turchi comprati all'Esposizione Universale di Parigi, c'era un fonografo di modello recente vicino a uno scaffale di dischi ben ordinati, e in un angolo, coperto da uno scialle di Manila, c'era il piano che il dottor Urbino non aveva più sfiorato da molti anni. In tutta la casa si notavano il senno e la diffidenza di una donna con i piedi ben piantati per terra.
Tuttavia, nessun altro luogo rivelava la solennità meticolosa della biblioteca, che era stata il santuario del dottor Urbino prima della vecchiaia. Lì, intorno alla scrivania di noce di suo padre, e alle poltrone di cuoio "capitonné", aveva fatto ricoprire i muri e perfino le finestre con scansie a vetri, e aveva messo in un ordine quasi demente tremila libri identici rilegati in pelle di vitello e con le sue iniziali dorate sul dorso. Al contrario delle altre stanze, che erano alla mercé del chiasso e dei cattivi effluvi del porto, la biblioteca aveva avuto sempre il riserbo e l'odore di un'abbazia. Nati e allevati sotto la superstizione del Caribe di aprire porte e finestre per chiamare un fresco che in realtà non esisteva, il dottor Urbino e sua moglie si erano sentiti all'inizio col cuore oppresso dalla clausura. Ma avevano finito per convincersi della bontà del metodo romano contro il caldo, che consisteva nel tenere le case chiuse nel torpore di agosto per non far entrare l'aria ardente della strada, e aprirle completamente ai venti della notte. La sua, da allora, era stata la più fresca nel sole feroce di La Manga, ed era un piacere fare la siesta nella penombra delle stanze da letto, e sedersi la sera nel portico a veder passare i cargo di New Orleans, pesanti e cenerini, e i battelli fluviali con la ruota di legno e le luci accese al tramonto, che purificavano con una scia di musiche l'immondezzaio ristagnante della baia. Era anche quella meglio protetta da dicembre a marzo, quando gli alisei del nord scoperchiavano i tetti e passavano la notte a girare come lupi affamati intorno alla casa in cerca di uno spiraglio in cui introdursi. Nessuno aveva mai pensato che il matrimonio stabilito su quelle basi avrebbe potuto avere qualche motivo per non essere felice.
Comunque, il dottor Urbino non lo era quel mattino, quando era tornato a casa prima delle dieci, frastornato dalle due visite che non solo gli avevano fatto perdere la messa di Pentecoste ma che minacciavano di cambiarlo a un'età in cui tutto ormai pareva compiuto. Avrebbe voluto fare una siesta da cane finché fosse arrivata l'ora del pranzo di gala del dottor Lácides Olivella, ma aveva trovato la servitù in agitazione, mentre cercavano di afferrare il pappagallo, che era volato fino al ramo più alto dell'albero di mango quando lo avevano tirato fuori della gabbia per tagliargli le ali. Era un pappagallo spelacchiato e maniaco, che non parlava quando glielo chiedevano bensì nelle occasioni più impensate, ma allora lo faceva con una chiarezza e un uso della ragione che non erano molto comuni negli esseri umani. Era stato ammaestrato dal dottor Urbino in persona, e questo fatto gli aveva reso dei privilegi che nessuno aveva mai avuto in famiglia, neanche i figli quando erano piccoli.
Era in casa da più di vent'anni, e nessuno sapeva quanti ne avesse vissuti prima. Tutti i pomeriggi dopo la siesta, il dottor Urbino si sedeva con lui nella terrazza del patio, che era il posto più fresco della casa, e aveva fatto ricorso ai mezzi più ardui della sua passione pedagogica finché il pappagallo aveva imparato a parlare il francese come un accademico. Poi, per puro vizio di virtù, gli aveva insegnato a seguire la messa in latino e qualche brano scelto del Vangelo secondo San Matteo, e aveva cercato senza fortuna di inculcargli una nozione meccanica delle quattro operazioni aritmetiche. Da uno dei suoi ultimi viaggi in Europa aveva portato il primo fonografo a tromba con molti dischi di moda e dei suoi compositori classici preferiti. Giorno dopo giorno, parecchie volte per vari mesi, faceva ascoltare al pappagallo le canzoni di Yvette Gilbert e Aristide Bruan, che avevano fatto le delizie della Francia nel secolo scorso, finché le aveva imparate a memoria. Le cantava con voce femminile, se erano quelle di lei, e con voce da tenore, se erano quelle di lui, e concludeva con delle sganasciate libertine che erano assolutamente identiche a quelle delle domestiche quando lo sentivano cantare in francese. La fama delle sue grazie era arrivata così lontano che a volte alcuni visitatori ragguardevoli che venivano dall'interno sui battelli fluviali chiedevano il permesso di vederlo, e in un'occasione dei turisti inglesi tra i molti che passavano a quell'epoca sulle barche di banane di New Orleans avevano cercato di comprarlo a qualsiasi prezzo. Ma il giorno della sua gloria maggiore era stato quando il Presidente della Repubblica, don Marco Fidel Suárez, e tutti i ministri del suo gabinetto, erano venuti in casa a verificare la verità della sua fama. Erano arrivati verso le tre del pomeriggio, soffocati dai cappelli a cilindro e dalle finanziere di panno che non si erano levati in tre giorni di visita ufficiale sotto il cielo incandescente di agosto, e avevano dovuto andarsene curiosi come erano venuti, perché il pappagallo si era rifiutato di dire persino questo becco è mio in due ore di disperazione, malgrado le suppliche e le minacce e la vergogna pubblica del dottor Urbino, che si era invischiato in quell'invito temerario contro i saggi consigli di sua moglie.
Il fatto che il pappagallo avesse mantenuto i suoi privilegi dopo questo sgarbo storico era stato la prova finale della sua sacra prerogativa. Nessun altro animale era permesso in casa, salvo la tartaruga di terra, che era ricomparsa in cucina dopo tre o quattro anni in cui l'avevano creduta perduta per sempre. Questa, però, non si comportava come un essere vivo, ma piuttosto come un amuleto minerale per la buona sorte, di cui non si sapeva scientificamente dove andasse. Il dottor Urbino si rifiutava di ammettere che odiava gli animali, e lo dissimulava con qualsiasi tipo di favole scientifiche e pretesti filosofici che convincevano molta gente ma non sua moglie. Diceva che quelli che li amavano eccessivamente erano capaci delle peggiori crudeltà con gli esseri umani. Diceva che i cani non erano fedeli ma servili, che i gatti erano opportunisti e traditori, che i pavoni reali erano araldi della morte, che gli ara erano solo impiastri ornamentali, che i conigli fomentavano la cupidigia, che i mandrilli contagiavano la febbre della lussuria, e che i galli erano maledetti perché si erano prestati a negare Cristo per tre volte. Invece Fermina Daza, sua moglie, che allora aveva settantadue anni e aveva ormai perduto l'andatura da cerva di altri tempi, idolatrava irrazionalmente i fiori equatoriali e gli animali domestici, e nei primi tempi del matrimonio si era approfittata della novità dell'amore per tenerne in casa molti più di quanti consigliasse la ragione. I primi erano stati tre dalmati col nome di imperatori romani che si erano fatti a pezzi fra di loro per i favori di una femmina che aveva fatto onore al suo nome di Messalina, dato che indugiava più nel partorire nove cuccioli che nel concepirne altri dieci. Poi era stata la volta dei gatti abissini con profilo da aquila e modi faraonici, i siamesi strabici, i persiani cortigiani dagli occhi aranciati, che passeggiavano sui letti come ombre di fantasmi e sconvolgevano le notti con i gridi dei loro sabba d'amore. Per qualche anno, incatenato al mango del patio, c'era stato un mandrillo dell'Amazzonia che suscitava una certa compassione perché aveva le sembianze afflitte dell'arcivescovo Obdulio y Rey, e lo stesso candore dei suoi occhi e l'eloquenza delle sue mani, ma non era stato per questo motivo che Fermina Daza se ne era liberata, quanto per la sua cattiva abitudine di compiacersi in onore delle signore.
C'era ogni tipo di uccelli del Guatemala nelle gabbie dei corridoi, e aironi premonitori e altri da pantano con le zampe grandi e gialle, e un giovane cervo che si affacciava alle finestre per mangiarsi gli anturi dei vasi di fiori. Poco prima dell'ultima guerra civile, quando si era parlato per la prima volta di una possibile visita del Papa, avevano portato dal Guatemala un uccello del paradiso che aveva tardato molto più a venire che a tornare nella sua terra, quando si era saputo che l'annuncio del viaggio pontificio era stato una panzana del governo per spaventare i liberali che tramavano fra loro. Un'altra volta avevano comprato sui velieri dei contrabbandieri di Curação una gabbia di fil di ferro con sei corvi profumati, uguali a quelli che Fermina Daza aveva avuto da bambina nella casa paterna e che voleva continuare ad avere da sposata. Ma nessuno era riuscito a sopportare i continui battiti d'ali che saturavano la casa con i loro effluvii di corone da morto. Avevano portato anche un anaconda di quattro metri, i cui sospiri di cacciatore insonne perturbavano l'oscurità delle camere da letto, anche se con lui avevano ottenuto quello che volevano, cioè spaventare col suo fiato mortale i pipistrelli e le salamandre, e le numerose specie di insetti nocivi che invadevano la casa nei mesi di pioggia. Al dottor Juvenal Urbino, a quell'epoca così richiesto per i suoi obblighi professionali, e così indaffarato nelle sue promozioni civiche e culturali, bastava supporre che in mezzo a tante creature abominevoli sua moglie non fosse solo la più bella nell'ambito del Caribe ma anche la più felice. Ma un pomeriggio piovoso, verso la fine di una giornata spossante, aveva trovato in casa un disastro che lo aveva fatto tornare alla realtà. Dal salone fin dove arrivava la vista c'era un rigagnolo di animali morti che galleggiavano in un pantano sanguinolento. Le domestiche, arrampicate sulle sedie senza sapere che fare, non si erano ancora rimesse dal panico della carneficina. Il caso aveva voluto che uno dei mastini tedeschi, impazzito per un improvviso attacco di rabbia, avesse fatto a pezzi ogni animale di qualsiasi tipo che aveva incontrato sul suo cammino, finché il giardiniere della casa vicina aveva avuto il coraggio di affrontarlo e lo aveva fatto a pezzi a colpi di machete. Non si sapeva quanti ne avesse morsi o contagiati con le sue schiume verdi, così il dottor Urbino aveva ordinato di uccidere i sopravvissuti e di incenerirne i corpi in un campo lontano, e aveva chiesto ai servizi dell'Ospedale della Misericordia una disinfezione della casa. L'unica che si era salvata, perché nessuno si era ricordato di lei, era stata la tartaruga della buona sorte.
Fermina Daza aveva dato ragione a suo marito per la prima volta in qualche argomento domestico e si era preoccupata di non parlare più di animali per parecchio tempo. Si consolava con le incisioni colorate della Storia Naturale di Linneo, che aveva fatto stampare e attaccare alle pareti della sala, e forse avrebbe finito per perdere le speranze di vedere ancora un animale in casa se non fosse stato che una mattina i ladri avevano forzato una finestra del bagno e si erano portati via il servizio di argenteria ereditato da cinque generazioni. Il dottor Urbino aveva messo doppi catenacci agli anelli delle finestre, aveva assicurato le porte dall'interno con spranghe di ferro, aveva nascosto le cose di maggior valore nella cassaforte e aveva preso la tardiva abitudine bellica di dormire con la pistola sotto il cuscino. Ma si era opposto all'acquisto di un cane feroce, vaccinato o no, libero o alla catena, anche se i ladri lo avevano spogliato.
«In questa casa non entrerà nulla che non parli» aveva detto. Lo aveva detto per porre fine alle arguzie di sua moglie, un'altra volta ostinata a comprare un cane, e senza nemmeno immaginare che quella generalizzazione frettolosa gli sarebbe costata la vita. Fermina Daza, il cui carattere selvatico si era andato addolcendo con gli anni, prese al volo la leggerezza di linguaggio del marito: pochi mesi dopo il furto era tornata ai velieri di Curação e aveva comprato un pappagallo reale di Paramaribo che sapeva dire solo bestemmie da marinaio, ma che le diceva con una voce così umana che ben valeva il suo prezzo eccessivo di dodici centesimi.
Era di quelli buoni, più leggero di quanto sembrasse, e aveva la testa gialla e la lingua nera, l'unico modo per distinguerlo dai pappagalli delle mangrovie che non imparavano a parlare neanche con le supposte di trementina. Il dottor Urbino, da buon perdente, si inchinò davanti all'ingegno di sua moglie, e lui stesso rimase sorpreso del piacere che provò per i progressi del pappagallo stuzzicato dalle domestiche. Nei pomeriggi di pioggia, quando gli si scioglieva la lingua per la contentezza delle piume bagnate, diceva frasi d'altri tempi che non aveva potuto apprendere in casa e che facevano pensare che fosse ancora più vecchio di quel che sembrasse. L'ultima reticenza del medico era crollata una notte in cui i ladri avevano cercato di entrare un'altra volta da un lucernario della terrazza e il pappagallo li aveva spaventati con dei latrati da mastino che non sarebbero stati così verosimili se fossero stati reali, e gridando ladri ladri ladri, due vezzi salvatori che non aveva imparato in casa. Era stato allora che il dottor Urbino si era fatto carico di lui, e aveva fatto costruire sotto il mango un bastone trasversale con un recipiente per l'acqua e un altro per le banane mature, e anche un trapezio per fare delle evoluzioni. Da dicembre a marzo, quando le notti si facevano più fredde e le intemperie diventavano invivibili per i venti del nord, lo portavano a dormire nelle stanze da letto dentro una gabbia coperta con uno scialle, anche se il dottor Urbino sospettava che il suo cimurro cronico potesse essere pericoloso per la buona respirazione degli esseri umani. Per molti anni gli avevano tagliato le piume delle ali e lo avevano lasciato libero di camminare a piacere con la sua andatura a gambe storte da vecchio cavaliere. Ma un giorno si era messo a fare grazie da acrobata sulle mensole della cucina ed era caduto nella pentola del lesso in mezzo al suo stesso putiferio navale di si salvi chi può, e con tanta buona sorte che la cuoca era riuscita a tirarlo su col mestolo, scottato e senza piume ma ancora vivo. Da allora lo avevano tenuto nella gabbia anche durante il giorno, contro la credenza popolare che i pappagalli in gabbia dimenticano quello che hanno imparato, e lo tiravano fuori solo con il fresco delle quattro per le lezioni del dottor Urbino sulla terrazza del patio. Nessuno si era accorto in tempo che aveva le ali troppo lunghe, e quel mattino stavano per tagliargliele quando era scappato fin sulla cima del mango.
Non erano riusciti a prenderlo per tre ore. Le domestiche, aiutate da altre del circondario, avevano fatto ricorso a ogni genere di artifizi per farlo scendere, ma lui continuava ostinato al suo posto, gridando morto dal ridere viva il partito liberale, viva il partito liberale cazzo, un grido temerario che era costato la vita a più di quattro ubriaconi felici. Il dottor Urbino riusciva a malapena a distinguerlo tra le fronde e cercò di convincerlo in spagnolo e in francese, e anche in latino, e il pappagallo gli rispondeva nelle stesse lingue e con la stessa enfasi e timbro di voce, ma non si mosse dalla cima. Convinto che nessuno sarebbe riuscito a prenderlo con le buone, il dottor Urbino ordinò di chiedere aiuto ai pompieri, che erano il suo giocattolo civico più recente.
Fino a poco tempo prima, in effetti, gli incendi venivano spenti da volontari con scale da muratore e secchi d'acqua trasportati da dove si poteva, ed era tale il disordine dei loro metodi da provocare a volte più danni degli incendi. Ma da un anno, grazie a una colletta promossa dalla Società di Migliorie Pubbliche, di cui Juvenal Urbino era presidente onorario, esisteva un corpo di pompieri professionisti e un camion-cisterna con sirena e campana e due idranti. Erano di moda, al punto che nelle scuole si sospendevano le lezioni quando si udivano le campane delle chiese suonare a martello, perché i bambini andassero a vederli combattere contro il fuoco. All'inizio era l'unica cosa che facevano. Ma il dottor Urbino aveva raccontato alle autorità municipali che ad Amburgo aveva visto i pompieri risuscitare un bambino che avevano trovato congelato in una cantina dopo una nevicata di tre giorni. Li aveva visti anche in un vicolo di Napoli tirar giù un morto nella bara dal balcone di un decimo piano perché le scale dell'edificio erano così torte che la famiglia non era riuscita a
portarlo in strada. Così i pompieri locali avevano imparato a prestare altri servizi d'emergenza, come forzare serrature o uccidere serpenti velenosi, e la Scuola di Medicina gli aveva impartito lezioni speciali di pronto soccorso per incidenti minori. E quindi non era uno sproposito chiedere loro il favore di tirar giù dall'albero un pappagallo distinto con tanti meriti come un signore. Il dottor Urbino aveva detto: «Dite che è da parte mia». E se n'era andato in camera da letto a vestirsi per il pranzo di gala. La verità era che in quel momento, seccato dalla lettera di Jeremiah de Saint-Amour, non lo preoccupava molto la sorte del pappagallo.
Fermina Daza aveva indossato un camicione di seta, ampio e sciolto, con la cintura sui fianchi, e si era messa una collana di perle vere a sei giri lunghi e disuguali, e delle scarpe di raso con i tacchi alti che usava solo nelle occasioni molto solenni, dato che gli anni non le permettevano tanti abusi. Quel vestito alla moda non sembrava adeguato a una vecchia veneranda, ma andava molto bene per il suo corpo dalle ossa grosse, ancora delicato e dritto, per le sue mani elastiche senza una sola macchia di vecchiaia, per i suoi capelli color azzurro acciaio, tagliati in diagonale all'altezza degli zigomi. L'unica cosa che ancora le rimaneva del suo ritratto di nozze erano gli occhi chiari a mandorla e l'orgoglio di nascita, ma quello che le mancava per l'età lo raggiungeva per il carattere e le avanzava per la diligenza. Si sentiva bene: erano ormai lontani i secoli dei corsetti di ferro, le cinture strette, i fianchi gonfiati con artifici di stracci. I corpi liberati, che respiravano a piacere, si mostravano come erano. Anche a settantadue anni.
Il dottor Urbino la trovò seduta davanti alla toilette, sotto le pale lente del ventilatore elettrico, mentre si stava mettendo il cappello di feltro a campana con un ornamento di violette. La camera da letto era ampia e luminosa, con un letto inglese protetto da una zanzariera di colore rosato lavorata a uncinetto, e due finestre aperte in direzione degli alberi del patio da cui veniva il baccano delle cicale stordite da presagi di pioggia. Da quando era tornata dal viaggio di nozze, Fermina Daza sceglieva la roba di suo marito d'accordo con il tempo e l'occasione e la metteva in ordine su una sedia dalla sera prima in modo che la trovasse pronta una volta uscito dal bagno. Non ricordava da quando avesse cominciato anche ad aiutarlo a vestirsi, e infine a vestirlo, e sapeva che all'inizio era stato per amore, ma da circa cinque anni doveva aiutarlo comunque perché lui non ce la faceva più a vestirsi da solo. Avevano già celebrato le nozze d'oro e non sapevano vivere neanche un momento l'una senza l'altro o senza pensare l'una all'altro, e lo sapevano sempre meno quanto più avanzava la vecchiaia. Né lui né lei potevano dire se questa servitù reciproca si fondasse sull'amore o sulla comodità, ma non se lo erano mai chiesto con la mano sul cuore perché tutti e due preferivano da sempre ignorare la risposta. Lei aveva scoperto a poco a poco l'incertezza dei passi di suo marito, i suoi improvvisi cambiamenti di umore, le crepe della sua memoria, la sua recente abitudine di singhiozzare nel sonno, ma non li aveva identificati come i segni inequivocabili dell'ossido finale bensì come un ritorno felice all'infanzia. Per questo non lo trattava come un vecchio difficile ma come un bambino senile, e quell'inganno era stato provvidenziale per tutti e due perché li aveva salvati dalla compassione.
Ben diversa sarebbe stata la vita per tutti e due se avessero saputo per tempo che era più facile eludere le grandi catastrofi matrimoniali che le minuscole miserie di ogni giorno. Ma se avevano imparato qualcosa insieme era che la saggezza ci arriva quando non serve più a nulla. Fermina Daza aveva sopportato a malincuore per anni le albe gioiose del marito. Si aggrappava agli ultimi fili di sonno per non affrontare il fatalismo di una nuova mattina di presagi infausti, mentre lui si svegliava con l'innocenza di un neonato: ogni giorno nuovo era un giorno in più che si guadagnava. Lo sentiva svegliarsi con i galli, e il suo primo segno di vita era una tosse senza motivo che sembrava fatta apposta perché anche lei si svegliasse. Lo sentiva borbottare, solo per farla inquietare, mentre cercava a tastoni le pantofole che dovevano essere vicino al letto. Lo sentiva farsi strada a tentoni verso il bagno nell'oscurità. Dopo un'ora nello studio, quando si era addormentata di nuovo, lo sentiva ritornare per vestirsi senza però accendere la luce. Una volta, in un gioco di società, gli avevano chiesto come si definisse e lui aveva detto: «Sono un uomo che si veste nelle tenebre». Lei lo sentiva sapendo che nessuno di quei rumori era indispensabile e che lui li faceva di proposito fingendo il contrario, così come lei era sveglia facendo finta di non esserlo. I suoi motivi erano evidenti: non aveva mai tanto bisogno di lei, viva e lucida, quanto in quei minuti di barcollamento.
Non c'era nessuno più elegante di lei nel dormire, con uno scorcio da danza e una mano sulla fronte, ma non c'era nemmeno nessuno più feroce di lei quando le disturbavano la sensualità di credersi addormentata quando non lo era più. Il dottor Urbino sapeva che lei pendeva dal minimo rumore che lui avesse fatto, e che lo avrebbe anche gradito per avere qualcuno da incolpare di averla svegliata alle cinque del mattino. Tanto era così, che nelle poche occasioni in cui doveva esplorare le tenebre perché non trovava le pantofole nel solito posto, lei diceva subito con voce mezzo sognante: «Le hai lasciate ieri sera in bagno». Poi, con la voce sveglia di rabbia, brontolava:
«La peggior disgrazia di questa casa è che non si può mai dormire.» Allora si rigirava nel letto, accendeva la luce senza la minima clemenza anche con se stessa, felice della sua prima vittoria della giornata. In fondo era un gioco di tutti e due, mitico e perverso, ma proprio per questo riconfortante: uno dei tanti piaceri pericolosi dell'amore domestico. Però era stato per uno di questi giochi triti che i primi trent'anni di vita in comune erano stati sul punto di finire perché un giorno non c'era sapone in bagno.
Era cominciato con la semplicità di sempre. Il dottor Juvenal Urbino era tornato in camera da letto, ai tempi in cui si lavava ancora senza aiuto, e aveva incominciato a vestirsi senza accendere la luce. Lei stava come sempre a quell'ora nel suo tiepido stato fetale, gli occhi chiusi, il respiro sottile, e quel braccio da danza sacra sulla testa. Ma stava mezz'addormentata, come sempre, e lui lo sapeva. Dopo un lungo rumore di amidi di lino nell'oscurità, il dottor Urbino aveva parlato tra sé:
«E' quasi una settimana che mi sto lavando senza sapone» disse. Allora lei aveva finito di svegliarsi, si era ricordata, e si era arrabbiata con il mondo, perché in effetti aveva dimenticato di mettere il sapone in bagno. Ne aveva notato la mancanza tre giorni prima quando stava già sotto la doccia e aveva pensato di metterlo dopo ma poi se n'era dimenticata fino al giorno seguente. Il terzo giorno le era successa la stessa cosa. In realtà non era passata una settimana, come diceva lui per ingigantirle la colpa, ma di certo tre giorni imperdonabili, e la furia di sentirsi sorpresa in errore aveva finito per tirarla del tutto fuori dei gangheri. Come sempre, si era difesa attaccando:
«Ma se mi sono lavata in tutti questi giorni» aveva gridato fuori di sé, «e c'è sempre stato sapone.»
Benché lui conoscesse abbondantemente i suoi metodi di guerra, stavolta non aveva potuto sopportarli. Con un pretesto professionale se n'era andato a vivere nelle stanze per interni dell'Ospedale della Misericordia e compariva in casa solo per cambiarsi d'abito all'imbrunire, prima delle visite a domicilio. Lei se ne andava in cucina quando lo sentiva arrivare, facendo finta di fare qualsiasi cosa, e lì restava finché sentiva per la strada lo zoccolio dei cavalli della carrozza. Ogni volta che avevano cercato di risolvere la discordia nei tre mesi seguenti, l'unica cosa che avevano ottenuto era stata di attizzarla di più. Lui non era disposto a tornare finché lei non avesse ammesso che non c'era sapone in bagno, e lei non era disposta ad accoglierlo finché lui non avesse riconosciuto di aver mentito apposta per tormentarla.
L'incidente, certo, le aveva dato l'opportunità di evocare altri, molti altri minuscoli battibecchi di altrettante mattine torbide.
Alcuni risentimenti avevano rimestato gli altri, avevano riaperto vecchie cicatrici, le avevano trasformate in nuove ferite, e tutti e due si erano spaventati constatando desolati che in tanti anni di lotta coniugale non avevano fatto molto di più che pascolare rancori. Lui era arrivato a proporre di sottoporsi insieme a una confessione aperta, con il signor arcivescovo se era necessario, perché fosse Dio a decidere come arbitro finale se c'era o no sapone nel portasapone del bagno. Allora lei, che aveva tante buone staffe, le aveva perse tutte con un grido storico:
«A merda il signor arcivescovo!»
L'improperio aveva fatto vibrare le fondamenta della città, aveva dato origine a chiacchiere che non fu facile smentire, ed era rimasto mescolato al linguaggio popolare con arie da zarzuela: «A merda il signor arcivescovo!». Conscia di aver passato il limite, aveva anticipato la reazione che si aspettava dal marito, e lo aveva minacciato di andarsene ad abitare da sola nella vecchia casa di suo padre, che era ancora sua, anche se era affittata a uffici pubblici. Non era una bravata: voleva andarsene davvero, non le importava dello scandalo sociale, e il marito se ne rese conto in tempo. Non ebbe il coraggio di sfidare i suoi pregiudizi: cedette. Non nel senso di ammettere che c'era sapone in bagno, perché sarebbe stato un oltraggio alla verità, ma in quello di continuare a vivere nella stessa casa, seppure in stanze separate e senza rivolgersi la parola. Così mangiavano destreggiandosi nella situazione con tanta bravura da mandarsi messaggi da un lato all'altro del tavolo tramite i figli senza che questi si accorgessero che non si parlavano.
Dato che nello studio non c'era bagno, la formula aveva risolto il conflitto dei rumori mattutini, perché lui entrava a lavarsi dopo aver preparato la lezione, e prendeva reali precauzioni per non svegliare sua moglie. Spesso coincidevano e facevano a turno per lavarsi i denti prima di dormire. Dopo quattro mesi, lui si era sdraiato a leggere sul letto matrimoniale finché lei usciva dal bagno, come spesso succedeva, e si era addormentato. Lei gli si era sdraiata a fianco con abbastanza negligenza perché si svegliasse e se ne andasse. Lui si era svegliato a metà, in effetti, ma invece di alzarsi aveva spento la luce e si era accomodato sul suo cuscino. Lei gli aveva scosso una spalla per ricordargli che doveva andarsene in studio, ma lui si sentiva così bene di nuovo nel letto di piume dei bisnonni che aveva preferito capitolare:
«Lasciami qui» disse. «Sì, c'era sapone.»
Quando ricordavano questo episodio, già dopo la svolta della vecchiaia, né lui né lei potevano credere alla verità meravigliosa che quell'alterco fosse stato il più grave in mezzo secolo di vita in comune, e l'unico che aveva ispirato a tutti e due il desiderio di deviare e di cominciare la vita in un altro modo. Anche quando erano ormai vecchi e tranquilli stavano attenti a evocarlo, perché le ferite appena cicatrizzate tornavano a sanguinare come se fossero state di ieri.
Era stato il primo uomo che Fermina Daza aveva sentito orinare. Lo aveva sentito la prima notte di matrimonio nella cabina della nave che li portava in Francia, mentre era prostrata dal mal di mare, e il rumore della sua sorgente da cavallo le era parso tanto potente e investito di tanta autorità che aveva aumentato il suo terrore per i danni che temeva. Quel ricordo le tornava spesso alla memoria, a mano a mano che gli anni andavano indebolendo la sorgente, perché non aveva mai potuto rassegnarsi al fatto che lui lasciasse bagnato il bordo della tazza ogni volta che la usava. Il dottor Urbino cercava di convincerla con argomenti facili a capirsi per chi avesse voluto capirli che quell'incidente non si ripeteva tutti i giorni per sua disattenzione, come insisteva lei, ma per una ragione organica: la sua sorgente da giovane era così definita e diretta che in collegio aveva vinto tornei di mira per riempire bottiglie, ma con gli usi dell'età non solo era andata decadendo, ma si era fatta obliqua, si ramificava, e infine si era trasformata in una fonte di fantasia impossibile a dirigersi, malgrado i molti sforzi che lui faceva per indirizzarla. Diceva: «Il water-closet deve essere stato inventato da qualcuno che non sapeva niente di uomini». Contribuiva alla pace domestica con un atto quotidiano che era più di umiliazione che di umiltà: asciugava con la carta igienica i bordi della tazza ogni volta che la usava. Lei lo sapeva, ma non diceva mai niente finché non erano troppo evidenti i vapori ammoniacali dentro al bagno, e allora li proclamava come la scoperta di un delitto: «Questo appesta un allevamento di conigli». Alle soglie della vecchiaia, lo stesso impiccio del corpo aveva ispirato al dottor Urbino la soluzione finale: orinava seduto, come lei, cosa che lasciava la tazza pulita, e oltre a tutto lasciava lui in stato di grazia.
Già allora era molto poco autosufficiente, e uno scivolone in bagno che avrebbe potuto essergli fatale lo aveva messo in guardia contro la doccia. La casa, per il fatto di essere moderna, era priva della vasca da bagno di peltro con zampe di leone che era di uso comune nelle case della città vecchia. Lui l'aveva fatta togliere per un motivo igienico: la vasca da bagno era una delle tante porcherie degli europei, che facevano il bagno solo l'ultimo venerdì del mese e lo facevano per di più dentro l'acqua insozzata dalla stessa sporcizia che pretendevano di togliersi dal corpo. Così, avevano fatto fare una specie di grande mastello su misura, di guaiaco massiccio, in cui Fermina Daza faceva il bagno al marito con lo stesso rituale dei bambini appena nati. Il bagno durava più di un'ora, con acqua miscelata con quella in cui avevano bollito foglie di malva e bucce d'arancia, e aveva su di lui un effetto così sedativo che spesso si addormentava dentro l'infuso profumato. Dopo avergli fatto il bagno, Fermina Daza lo aiutava a vestirsi, gli spargeva polvere di talco fra le gambe, gli ungeva di burro di cacao le arrossature, gli metteva le mutande con tanto amore come se fossero state un pannolino, e continuava a vestirlo pezzo per pezzo, dalle calze fino al nodo della cravatta con il fermaglio di topazio. Le mattine coniugali si erano rappacificate, perché lui era tornato a impadronirsi dell'infanzia che gli avevano portato via i suoi figli. Lei, da parte sua, aveva finito per seguire conformemente l'orario familiare, perché anche per lei passavano gli anni: dormiva sempre meno, e prima di aver compiuto i settanta si svegliava prima del marito.
La domenica di Pentecoste, quando aveva alzato la coperta per guardare il cadavere di Jeremiah de Saint-Amour, il dottor Urbino aveva avuto la rivelazione di qualcosa che gli era stato negato fino a quel momento nelle sue navigazioni più lucide di medico e di credente. Era come se dopo tanti anni di familiarità con la morte, dopo tanto combatterla e toccarla al dritto e al rovescio, quella fosse la prima volta in cui aveva osato guardarla in faccia, e anche lei lo stava guardando. Non era la paura della morte. No: la paura stava dentro di lui da molti anni, conviveva con lui, era un'altra ombra sulla sua ombra, da una notte in cui si era svegliato turbato da un incubo e aveva preso coscienza che la morte non era solo un'eventualità permanente, come aveva sempre sentito, ma una realtà immediata. Invece quello che aveva visto quel giorno era la presenza fisica di qualcosa che fino ad allora non aveva superato una certezza dell'immaginazione. Era stato contento che lo strumento della Divina Provvidenza per quella rivelazione sorprendente fosse stato Jeremiah de Saint-Amour, che aveva sempre stimato come un santo che ignorava il suo stesso stato di grazia. Ma quando la lettera gli aveva rivelato la sua vera identità, il suo passato sinistro, la sua impensabile capacità d'astuzia, aveva sentito che qualcosa di definitivo e senza ritorno era accaduto nella sua vita.
Fermina Daza, però, non si era lasciata contagiare dal suo umore cupo. Lui ci aveva provato, subito, mentre lei lo aiutava a infilare le gambe nei pantaloni e gli abbottonava la camicia. Ma non ci era riuscito, perché Fermina Daza non si impressionava facilmente, e tantomeno per la morte di un uomo che non amava. Sapeva solo che Jeremiah de Saint-Amour era un invalido con le grucce che non aveva mai visto, che era sfuggito a un plotone di esecuzione in una delle tante insurrezioni di una delle tante isole delle Antille, che era diventato fotografo di bambini per necessità e che era arrivato a essere il più richiesto della provincia, e che aveva battuto in una partita a scacchi un tizio che lei ricordava come Torremolinos ma che in realtà si chiamava Capablanca.
«E invece era solo un profugo della Caienna condannato all'ergastolo per un crimine atroce» disse il dottor Urbino. «Pensa che aveva
mangiato persino carne umana.»
Le diede la lettera i cui segreti voleva portare con sé nella tomba, ma lei mise i fogli piegati nella toilette, senza leggerli, e chiuse il cassetto a chiave. Era abituata all'insondabile capacità di spavento di suo marito, ai suoi giudizi eccessivi che si facevano sempre più intricati col passare degli anni, a una ristrettezza di ragione che non era compatibile con la sua immagine pubblica. Quella volta però aveva proprio passato i limiti. Lei supponeva che suo marito non stimasse Jeremiah de Saint-Amour per quello che era stato prima, ma per quello che aveva incominciato a essere da quando era arrivato senza altre garanzie se non il suo zaino da esiliato, e non riusciva a capire perché lo costernasse tanto la rivelazione tardiva della sua identità. Non capiva perché gli sembrasse abominevole che avesse avuto una donna nascosta se questa era un'abitudine atavica degli uomini della sua classe, compreso lui in un momento ingrato, e per di più le sembrava una prova straziante che lei lo avesse aiutato a consumare la sua decisione di morire. Disse: «Se anche tu decidessi di farlo per ragioni tanto serie quanto quelle che aveva lui, il mio dovere sarebbe di fare la stessa cosa che ha fatto lei». Il dottor Urbino si trovò una volta di più nell'agguato di semplice incomprensione che lo aveva esasperato per mezzo secolo.
«Non capisci niente» disse. «Quello che mi indigna non è quello che è stato né quello che ha fatto, ma l'inganno in cui ha tenuto tutti noi per tanti anni.»
I suoi occhi incominciarono a riempirsi di lacrime facili, ma lei finse di ignorarle.
«Ha fatto bene» replicò. «Se avesse detto la verità, né tu né quella povera donna, né nessun altro in questo paese lo avrebbe amato tanto quanto l'hanno amato.»
Gli agganciò l'orologio a catena all'occhiello del gilè. Finì di fargli il nodo della cravatta e gli mise il fermaglio di topazio. Poi gli asciugò le lacrime e gli pulì la barba bagnata di pianto con il fazzoletto umido di Agua Florida, e glielo mise nel taschino della giacca con le cocche aperte come una magnolia. Gli undici rintocchi della pendola risuonarono nel laghetto della casa.
«Spicciati» disse lei, prendendolo per un braccio. «Arriveremo tardi.» Aminta Dechamps, moglie del dottor Lácides Olivella, e le loro sette figlie una più diligente dell'altra avevano previsto tutto perché il pranzo delle nozze d'argento fosse l'avvenimento sociale dell'anno. La residenza familiare in pieno centro storico era la vecchia Casa de la Moneda, snaturata da un architetto fiorentino che era passato da queste parti come un cattivo vento di rinnovamento e aveva trasformato in basiliche di Venezia più di quattro reliquie del diciassettesimo secolo. Aveva sei camere da letto e due saloni per mangiare e ricevere, ampi e ben ventilati, ma non sufficienti per gli invitati cittadini, oltre a quelli molto selezionati che sarebbero venuti da fuori. Il patio era uguale al chiostro di un'abbazia, con una fonte di pietra che cantava nel centro e aiuole di eliotropi che profumavano la casa all'imbrunire, ma lo spazio delle arcate non era sufficiente per tanti nomi così importanti. Cosicché avevano deciso di dare il pranzo nella villa di campagna della famiglia, a dieci minuti in automobile lungo la strada nazionale, che aveva un patio vastissimo e enormi allori dell'India e ninfee locali in un fiume di acque tranquille. Gli uomini del Mesón de don Sancho, diretti dalla moglie di Olivella, avevano disposto teloni colorati negli spazi senza ombra e avevano preparato sotto gli allori un rettangolo con tavoli per centoventidue coperti, con tovaglie di lino per tutti e tralci di rose appena colte sul tavolo d'onore. Avevano costruito anche una pedana per una banda di strumenti a fiato con un programma selezionato di quadriglie e valzer nazionali e per un quartetto di corde della Scuola di Belle Arti, che era una sorpresa della signora Olivella per il maestro venerabile di suo marito, che doveva presiedere al pranzo. Anche se la data non corrispondeva strettamente con l'anniversario della laurea, avevano scelto la domenica di Pentecoste per esaltare il senso della festa.
I preparativi erano cominciati tre mesi prima, per timore che qualcosa di indispensabile non lo si potesse fare per mancanza di tempo. Avevano fatto portare le galline vive dalla Ciénaga de Oro, famose in tutto il litorale non solo per la loro grandezza e delizia ma perché ai tempi della Colonia becchettavano in terre alluvionali e nel ventriglio gli trovavano pietrine d'oro puro. La moglie di Olivella in persona, accompagnata da qualche sua figlia e dal personale di servizio, saliva a bordo dei transatlantici di lusso a scegliere il meglio di qualsiasi cosa per onorare i meriti del marito. Aveva previsto tutto, salvo che la festa cadesse in una domenica di giugno in un anno di piogge tardive. Si rese conto di un simile rischio la mattina del giorno stesso, quando uscì per la messa solenne e si spaventò per l'umidità dell'aria e vide che il cielo era denso e basso e non si riusciva a vedere l'orizzonte del mare. Nonostante quei segni infausti, il direttore dell'osservatorio astronomico, che aveva incontrato a messa, le ricordò che nella disgraziatissima storia della città, anche negli inverni più crudeli, non era mai piovuto il giorno della Pentecoste. Tuttavia, allo scoccare delle dodici, quando i molti invitati stavano bevendo gli aperitivi all'aria aperta, il rombo di un tuono solitario fece tremare la terra e un vento di burrasca scompigliò i tavoli e si portò per aria i tendoni, e il cielo strapiombò in un acquazzone disastroso.
Il dottor Juvenal Urbino riuscì a stento ad arrivare nel disordine della tormenta, insieme con gli ultimi invitati che aveva incontrato lungo la strada, e voleva andare come loro dalle macchine alla casa saltando di gran fretta da una pietra all'altra attraverso il patio, ma finì per accettare l'umiliazione che gli uomini di Don Sancho lo portassero a braccia sotto un mantello di stoffa gialla. Le tavole separate erano state disposte di nuovo come meglio si poteva all'interno della casa, perfino nelle camere da letto, e gli invitati non facevano nessuno sforzo per dissimulare il loro umore da naufragio. Faceva un caldo da sala macchine di nave, perché avevano dovuto chiudere le finestre per impedire che entrasse la pioggia, portata obliqua dal vento. Nel patio, ogni posto della tavola aveva una targhetta col nome dell'invitato, ed era previsto un lato per gli uomini e uno per le donne, come era costume. Ma le targhette con i nomi si erano confuse dentro la casa e ognuno si sedette come poté, in una promiscuità di forza maggiore che almeno per una volta contraddisse le nostre superstizioni sociali. Durante il cataclisma, Aminta de Olivella sembrava stare dappertutto nello stesso tempo, con i capelli bagnati e lo splendido vestito inzaccherato di fango, ma sopportava la disgrazia col sorriso invincibile che aveva imparato da suo marito per non far piacere alle contrarietà. Con l'aiuto delle figlie, forgiate nella stessa fucina, riuscì fin dove le fu possibile a salvaguardare i posti del tavolo d'onore, con il dottor Juvenal Urbino al centro e l'arcivescovo Obdulio y Rey alla sua destra. Fermina Daza si sedette vicino al marito, come era solita fare, per paura che si addormentasse durante il pranzo o si sbrodolasse la minestra sul risvolto della giacca. Il posto di fronte lo occupò il dottor Lácides Olivella, un cinquantenne dall'aria femminea, molto ben conservato, il cui spirito festoso non aveva nessun legame con le sue diagnosi precise. Il resto della tavolata fu completato dalle autorità provinciali e municipali e dalla reginetta di bellezza dell'anno prima, che il governatore portò al suo braccio per farla sedere al suo fianco. Benché non fosse costume esigere negli inviti un abito speciale, e tantomeno per un pranzo in campagna, le signore indossavano vestiti da sera ornati di pietre preziose, e la maggior parte degli uomini era vestita di scuro con cravatta nera, e qualcuno con finanziera di panno. Solo quelli di gran mondo, e fra questi il dottor Urbino, avevano i loro abiti di sempre. A ogni posto c'era una copia del menù, stampata in francese e con incisioni dorate. La signora de Olivella, preoccupata per i danni del caldo, girava per la casa supplicando gli ospiti di togliersi la giacca per pranzare, ma nessuno si azzardò a dare l'esempio. L'arcivescovo fece notare al dottor Urbino che quello in un certo senso era un pranzo storico: lì, per la prima volta, stavano insieme allo stesso tavolo, cicatrizzate le ferite e dissipati i rancori, le due fazioni delle guerre civili che avevano insanguinato il paese fin dai tempi dell'indipendenza. Questo pensiero coincideva con l'entusiasmo dei liberali, soprattutto i giovani, che erano riusciti a eleggere un presidente del loro partito dopo quarantacinque anni di egemonia conservatrice. Il dottor Urbino non era d'accordo: un presidente liberale non gli sembrava né meglio né peggio di un presidente conservatore, solo era vestito peggio. Tuttavia non volle contrariare l'arcivescovo. Anche se gli sarebbe piaciuto fargli notare che nessuno si trovava a quel pranzo per quello che pensava quanto per i meriti del suo lignaggio, e questo era sempre stato al di sopra dei casi della politica e degli orrori della guerra. Visto così, in effetti, non mancava nessuno.
Il temporale cessò all'improvviso così come era incominciato, e il sole si incendiò immediatamente nel cielo senza nuvole, ma la burrasca era stata così violenta che aveva sradicato alcuni alberi, e l'acqua che era strabordata aveva trasformato il patio in un pantano. Il disastro maggiore si era verificato in cucina. Diversi fuochi a legna erano stati approntati su dei mattoni sul retro della casa, all'aria aperta, e i cuochi avevano fatto appena a tempo a mettere le pentole in salvo dalla pioggia. Perdettero un sacco di tempo ad aggottare la cucina inondata e a improvvisare dei nuovi fuochi nella galleria posteriore. Ma all'una l'emergenza era risolta, e mancava solo il dolce commissionato alle monache di Santa Clara, che avevano promesso di mandarlo prima delle undici. Si temeva che il torrente della strada nazionale fosse uscito dal letto, come accadeva in inverni meno rigidi, e in questo caso non sarebbe stato possibile contare sul dolce prima di due ore. Appena smise di piovere, riaprirono le finestre, e la casa si rinfrescò con l'aria purificata dallo zolfo del temporale. Poi ordinarono che la banda eseguisse il programma di valzer nella terrazza del portico, ma servì solo ad aumentare l'ansia perché il rimbombo degli ottoni dentro la casa obbligava a parlare gridando. Stanca di aspettare, sorridendo sull'orlo delle lacrime, Aminta de Olivella diede l'ordine di servire il pranzo.
Il gruppo della Scuola di Belle Arti iniziò il concerto, in mezzo a un silenzio formale che ottenne per le battute iniziali de "La Chasse" di Mozart. Malgrado le voci sempre più alte e confuse, e l'impiccio dei servi negri di Don Sancho che a malapena passavano fra i tavoli con i vassoi fumanti, il dottor Urbino riuscì a mantenere un canale aperto per la musica fino alla fine del programma. Il suo potere di concentrazione diminuiva di anno in anno al punto che doveva annotare su un foglietto ogni mossa di scacchi per sapere dove andare. Tuttavia, gli era ancora possibile occuparsi di una conversazione seria senza perdere il filo di un concerto, comunque senza arrivare agli estremi magistrali di un direttore d'orchestra tedesco, suo grande amico ai tempi dell'Austria, che leggeva la partitura del "Don Giovanni" mentre ascoltava il "Tannhäuser".
Il secondo brano del programma, che era "La morte e la fanciulla", di Schubert, gli sembrò eseguito con una facile drammaticità. Mentre lo ascoltava a stento, in mezzo al nuovo rumore delle posate nei piatti, guardava fisso un ragazzo dal volto rosato che lo salutò con un cenno del capo. Lo aveva visto da qualche parte, senza dubbio, ma non ricordava dove. Gli capitava spesso, soprattutto con i nomi delle persone, anche di quelle più conosciute, o con una melodia di altri tempi, e questo gli provocava un'angoscia così spaventosa che una notte avrebbe preferito morire piuttosto che doverla sopportare fino al mattino dopo. Era sul punto di ridursi in quello stato quando una vampata caritatevole gli illuminò la memoria: il ragazzo era stato suo alunno l'anno prima. Si sorprese di vederlo lì, nel regno degli eletti, ma il dottor Olivella gli ricordò che era il figlio del Ministro dell'Igiene, che era venuto a preparare una tesi di medicina legale. Il dottor Juvenal Urbino gli fece un saluto allegro con la mano, e il giovane medico si alzò in piedi e gli rispose con un inchino. Ma né allora né mai si rese conto che era il praticante che era stato con lui quella mattina nella casa di Jeremiah de Saint Amour.
Sollevato da un'altra vittoria sulla vecchiaia, si abbandonò al lirismo diafano e fluido dell'ultimo brano del programma, che non riuscì a identificare. Più tardi, il giovane violoncellista del complesso, che era appena tornato dalla Francia, gli disse che era il quartetto per corde di Gabriel Fauré, che il dottor Urbino non aveva mai sentito nominare malgrado fosse sempre stato molto attento alle novità europee. Pendendo da lui, come sempre, ma soprattutto quando lo vedeva astratto in pubblico, Fermina Daza smise di mangiare e posò la sua mano terrena su quella di lui. Gli disse: «Non pensarci più». Il dottor Urbino le sorrise dall'altra riva dell'estasi, e fu allora che ripensò a quello che lei temeva. Si ricordò di Jeremiah de Saint Amour, esposto a quell'ora dentro la bara con la sua falsa uniforme di guerriero e le sue decorazioni da bardatura da cavallo, sotto lo sguardo accusatore dei bambini dei ritratti. Si rivolse all'arcivescovo per dargli la notizia del suicidio, ma già la conosceva. Se n'era molto parlato dopo la messa solenne, e tra l'altro aveva ricevuto una supplica del colonnello Jerónimo Argote in nome dei rifugiati del Caribe perché fosse sepolto in terra consacrata. Disse: «La supplica stessa mi è sembrata una mancanza di rispetto». Poi, in tono più umano, chiese se si conosceva la causa del suicidio. Il dottor Urbino gli rispose con una parola corretta che credette di aver inventato in quel momento: "gerontofobia". Il dottor Olivella, che pendeva dai suoi invitati più prossimi, li abbandonò un momento per intervenire nel dialogo del suo maestro. Disse: «E' un peccato imbattersi ancora in un suicidio che non sia per amore». Il dottor Urbino non si sorprese di riconoscere i suoi stessi pensieri in quelli del discepolo prediletto.
«E peggio ancora» disse: «è stato con cianuro di oro».
Mentre lo diceva sentì che la compassione era tornata a prevalere sull'amarezza della lettera, e non ne fu riconoscente a sua moglie ma a un miracolo della musica. Allora parlò all'arcivescovo del santo laico che lui aveva conosciuto nei suo lenti pomeriggi di scacchi, gli parlò della consacrazione della sua arte alla felicità dei bambini, della sua rara erudizione su tutte le cose del mondo, delle sue abitudini spartane, e lui stesso rimase sorpreso della chiarezza d'animo con cui era riuscito a staccarlo improvvisamente e completamente dal suo passato. Parlò poi al sindaco dell'utilità di comprare l'archivio di lastre fotografiche per conservare le immagini di una generazione che forse non sarebbe tornata a essere felice fuori dei ritratti, e nelle cui mani stava il futuro della città. L'arcivescovo si era scandalizzato che un cattolico militante e colto si fosse azzardato a pensare alla santità di un suicida, ma fu d'accordo sull'iniziativa di archiviare i negativi. Il sindaco volle sapere da chi bisognava comprarli. Il dottor Urbino si bruciò la lingua con la brace del segreto, ma riuscì a sopportarlo senza rivelare l'erede clandestina degli archivi. Disse: «Me ne incarico io». E si sentì redento dalla sua stessa lealtà nei confronti della donna che aveva ripudiato cinque ore prima. Fermina Daza se ne accorse, e gli fece promettere a bassa voce che avrebbe assistito al funerale. Certo che lo avrebbe fatto, disse lui sollevato, non sarebbe certo mancato.
I discorsi furono brevi e facili. La banda di fiati attaccò un'aria popolaresca non prevista dal programma, e gli invitati passeggiavano sulle terrazze in attesa che gli uomini del Mesón de Don Sancho finissero di asciugare il patio, nel caso che qualcuno avesse avuto voglia di ballare. Gli unici che rimanevano in sala erano gli invitati del tavolo d'onore, a rallegrarsi che il dottor Urbino si fosse ingoiato in un colpo solo un mezzo bicchierino di brandy nel brindisi finale. Nessuno ricordava che lo avesse mai fatto salvo con un calice di vino di gran classe per accompagnare un piatto particolarmente speciale, ma il cuore glielo aveva chiesto quel pomeriggio, e la sua debolezza era ben ricompensata: un'altra volta, dopo tanti e tanti anni, aveva voglia di cantare. Lo avrebbe fatto, certamente, su richiesta del giovane violoncellista che si era offerto di accompagnarlo, ma non era stato possibile perché un'automobile di nuovo modello aveva improvvisamente attraversato la fangaia del patio, schizzando i musicisti e sconvolgendo le anatre nei recinti con la sua tromba da anatra, e si era fermata davanti al Portico della casa. Il dottor Marco Aurelio Urbino Daza e sua moglie scesero morti dal ridere, tenendo in ogni mano un vassoio coperto di merletti. Altri vassoi uguali stavano sui sedili posteriori, e persino sul pavimento vicino all'autista. Era il dolce ritardatario. Quando cessarono gli applausi e i fischi di scherzo cordiale, il dottor Urbino Daza spiegò seriamente che le clarisse gli avevano chiesto il favore di portare il dolce da prima della tempesta, ma che aveva deviato dalla strada nazionale perché qualcuno gli aveva detto che stava bruciando la casa dei suoi genitori. Il dottor Juvenal Urbino riuscì a spaventarsi senza aspettare che il figlio avesse finito di raccontare. Ma sua moglie gli ricordò per tempo che lui stesso aveva dato ordine di chiamare i pompieri perché catturassero il pappagallo. Aminta de Olivella, raggiante, decise di servire il dolce nelle terrazze, anche se dopo il caffè. Ma il dottor Juvenal Urbino e sua moglie se ne andarono senza assaggiarlo, perché c'era appena il tempo che lui facesse la sua sacra siesta prima del funerale.
La fece, ma breve e male, perché tornato a casa trovò che i pompieri avevano provocato danni tanto gravi quanto quelli del fuoco. Nel tentativo di spaventare il pappagallo avevano pelato un albero con gli idranti, e un getto mal diretto era entrato dalle finestre della camera da letto principale e aveva provocato danni irreparabili ai mobili e ai ritratti di avi ignoti attaccati alle pareti. I vicini erano accorsi quando avevano sentito la campana del camion dei pompieri, credendo che fosse un incendio, e se non erano avvenuti scompigli peggiori era perché di domenica le scuole erano chiuse. Quando si erano resi conto che non sarebbero arrivati al pappagallo neanche con le scale aggiuntive, i pompieri avevano incominciato a tagliare i rami a colpi di machete, e solo l'apparizione opportuna del dottor Urbino Daza aveva impedito che lo mutilassero fino al tronco. Avevano lasciato detto che sarebbero tornati dopo le cinque a vedere se li autorizzavano a potarlo, e passando avevano infangato la terrazza interna e la sala e avevano strappato un tappeto turco che era quello preferito di Fermina Daza. Disastri inutili, poi, perché l'impressione generale era che il pappagallo avesse approfittato della confusione per scappare nei patios vicini. In effetti, il dottor Urbino continuò a cercarlo tra le fronde, ma non ebbe risposta in nessuna lingua, né con fischi e canzoni, e così lo diede per perso e se ne andò a dormire quasi alle tre. Prima godette del piacere istantaneo della fragranza di giardino segreto della sua urina purificata dagli asparagi tiepidi.
Lo svegliò la tristezza. Non quella che aveva provato la mattina davanti al cadavere dell'amico, ma la nebbia invisibile che gli riempiva l'anima dopo la siesta e che lui interpretava come la notifica divina che stava vivendo i suoi ultimi pomeriggi. Fino ai cinquant'anni non era stato cosciente della misura, del peso e dello stato dei suoi visceri. A poco a poco, mentre giaceva con gli occhi chiusi dopo la siesta quotidiana, aveva incominciato a sentirseli dentro, a uno a uno, sentendo perfino la forma del suo cuore insonne, il suo fegato misterioso, il suo pancreas ermetico, e aveva scoperto che anche le persone più vecchie erano più giovani di lui, e che aveva finito per essere l'unico sopravvissuto dei leggendari ritratti di gruppo della sua generazione. Quando si era reso conto delle sue prime dimenticanze, aveva fatto appello a una risorsa che aveva sentito da uno dei suoi maestri nella Scuola di Medicina: «Chi non ha memoria se ne fa una di carta». Era stata, però, un'illusione effimera, perché era arrivato al punto di dimenticare quello che volevano dire i memorandum che si metteva in tasca, girava per casa in cerca degli occhiali che aveva sul naso, ridava giri di chiave dopo aver chiuso le porte, e perdeva il filo di quello che leggeva perché dimenticava le premesse degli argomenti o di chi erano figli i personaggi. Ma quello che lo inquietava di più era la sfiducia che provava nei confronti della sua stessa ragione: a poco a poco, in un naufragio ineluttabile, si accorgeva che stava perdendo il senso della giustizia.
Per pura esperienza, benché senza un fondamento scientifico, il dottor Juvenal Urbino sapeva che la maggioranza delle malattie mortali avevano un loro odore, ma nessuno era così specifico come quello della vecchiaia. Lo percepiva nei cadaveri aperti per il lungo sul tavolo di dissezione, lo riconosceva perfino nei pazienti che nascondevano meglio l'età, e nel sudore dei suoi stessi vestiti e nel respiro inerme di sua moglie addormentata. Se non fosse stato quello che era in realtà, un cristiano all'antica, forse sarebbe stato d'accordo con Jeremiah de Saint-Amour sul fatto che la vecchiaia era uno stato indecente che doveva essere impedito per tempo. L'unica consolazione, anche per uno come lui che era stato un valido uomo di letto, era l'estinzione lenta e misericordiosa dell'appetito amoroso: la pace dei sensi. A ottantun anni aveva abbastanza lucidità per rendersi conto di stare attaccato a questo mondo da qualche filaccia debole che poteva rompersi in modo indolore con un semplice cambio di posizione durante il sonno, e se faceva il possibile per mantenerla era per il terrore di non incontrare Dio nell'oscurità della morte.
Fermina Daza si era data da fare per riordinare la camera da letto distrutta dai pompieri, e un po' prima delle quattro aveva fatto portare al marito il quotidiano bicchiere di limonata con ghiaccio tritato, e gli aveva ricordato che doveva vestirsi per andare al funerale. Il dottor Urbino aveva, quel pomeriggio, due libri a portata di mano: "L'Incognita dell'Uomo", di Alexis Carrell, e "La Storia di San Michele", di Axel Munthe. Quest'ultimo non era ancora aperto, e aveva chiesto a Digna Pardo, la cuoca, di portargli il tagliacarte d'avorio che aveva dimenticato in camera da letto. Ma quando gliel'avevano portato stava già leggendo "L'Incognita dell'Uomo" alla pagina segnata con la busta di una lettera: gliene mancavano pochissime per finirlo. Lesse piano, facendosi strada fra i meandri di una punta di mal di testa che attribuì al mezzo bicchierino di brandy del brindisi finale. Nelle pause della lettura prendeva un sorso di limonata, o indugiava a sgranocchiare un pezzo di ghiaccio. Indossava le calze, la camicia senza il collo posticcio e le bretelle a righe verdi attaccate ai lati della cintura, e lo infastidiva solo l'idea di doversi cambiare per il funerale. Improvvisamente smise di leggere, appoggiò il libro sopra l'altro, e incominciò a dondolarsi molto piano sulla sedia a dondolo di vimini, contemplando afflitto le piante di banane nel pantano del patio, il mango spelacchiato, le formiche volanti del dopo pioggia, lo splendore effimero di un altro pomeriggio di meno che se ne andava per sempre. Aveva dimenticato di aver avuto una volta un pappagallo di Paramaribo che amava come un essere umano, e all'improvviso lo sentì: «Pappagallino reale». Lo sentì vicinissimo, quasi al suo fianco, e poi lo vide sul ramo più basso del mango.
«Svergognato» gli gridò.
Il pappagallo rispose con voce identica:
«Più svergognato sarai tu, dottore.»
Continuò a parlare con lui senza perderlo di vista, mentre calzava gli stivaletti con molta circospezione per non spaventarlo, e infilò le braccia nelle bretelle, e scese nel patio ancora infangato scandagliando il suolo con il bastone per non scivolare sui tre gradini della terrazza. Il pappagallo non si mosse. Stava così in basso che gli mise il bastone davanti per farlo fermare sull'impugnatura d'argento, come era sua abitudine, ma il pappagallo lo evitò. Saltò su un ramo vicino, un po' più in alto ma di più facile accesso, laddove era appoggiata la scala di casa da prima che arrivassero i pompieri. Il dottor Urbino calcolò l'altezza e pensò che salendo due scalini avrebbe potuto afferrarlo. Salì il primo, cantando una canzone per distrarre l'attenzione dell'animale stizzoso che ripeteva le parole senza la musica, ma allontanandosi sul ramo con passi laterali. Salì il secondo scalino senza difficoltà, attaccato alla scala con tutte e due le mani, e il pappagallo incominciò a ripetere tutta la canzone senza cambiare posto. Salì il terzo scalino, e poi il quarto, perché aveva calcolato male l'altezza del ramo, e allora si tenne alla scala con la mano sinistra e tentò di prendere il pappagallo con la destra. Digna Pardo, la vecchia domestica che veniva ad avvertirlo che stava facendo tardi per il funerale, vide di spalle l'uomo sulla scala e non poteva credere che fosse chi era se non fosse stato per le righe verdi delle bretelle.
«Santissimo Sacramento!» gridò. «Si ammazzerà!»
Il dottor Urbino afferrò il pappagallo per il collo con un sospiro di trionfo: "ça y est". Ma lo mollò immediatamente, perché la scala gli scivolò sotto i piedi e lui rimase per un attimo sospeso per aria, e allora riuscì a rendersi conto di essere morto senza comunione, senza tempo per pentirsi di nulla né di accomiatarsi da nessuno, alle quattro e sette minuti del pomeriggio della domenica di Pentecoste. Fermina Daza era in cucina ad assaggiare la minestra per la cena, quando udì il grido di orrore di Digna Pardo e il baccano della servitù e poi quello del circondario. Buttò via il cucchiaio per assaggiare e cercò di correre come poteva con il peso invincibile della sua età, gridando come una pazza senza sapere ancora che cosa stava succedendo sotto le fronde del mango, e il cuore le si fece a pezzi quando vide il suo uomo steso a pancia in su nel fango, già morto in vita ma resistendo ancora un ultimo minuto al colpo di coda della morte perché lei avesse il tempo di arrivare. Riuscì a riconoscerla nel tumulto attraverso le lacrime del dolore irripetibile di morirsene senza di lei e la guardò l'ultima volta per sempre con gli occhi più luminosi, più tristi e più riconoscenti che lei non gli aveva mai visto in mezzo secolo di vita in comune, e riuscì a dirle con l'ultimo respiro:
«Solo Dio sa quanto ti ho amato.»
Fu una morte memorabile, e non senza motivo. Appena finiti i suoi studi di specializzazione in Francia, il dottor Juvenal Urbino si era fatto conoscere nel paese per aver scongiurato in tempo, con metodi nuovi e drastici, l'ultima epidemia di colera che aveva sofferto la provincia. La precedente, quando lui era ancora in Europa, aveva provocato la morte della quarta parte della popolazione urbana in meno di tre mesi, compreso suo padre, che era stato anche lui un medico molto apprezzato. Con il prestigio immediato e un buon contributo del patrimonio familiare aveva fondato la Società Medica, la prima e unica nelle province del Caribe per molti anni, e ne era stato il presidente a vita. Aveva ottenuto la costruzione del primo acquedotto, del primo sistema di fogne e del mercato pubblico coperto che aveva permesso di risanare il putridume della baia di Las Animas. Era stato poi anche presidente dell'Accademia della Lingua e dell'Accademia di Storia. Il patriarca latino di Gerusalemme lo aveva fatto cavaliere dell'Ordine del Santo Sepolcro per i servigi resi alla Chiesa, e il governo francese gli aveva concesso la Legion d'Onore al rango di commendatore. Era stato un animatore attivo di tutte le congreghe confessionali e civiche che erano esistite nella città e in particolar modo della Giunta Patriottica, formata da cittadini influenti senza interessi politici, che premevano sui governi e sul commercio locale con trovate progressiste troppo audaci per l'epoca. Fra queste, la più memorabile era stata il varo di un aerostato che nel volo inaugurale aveva portato una lettera fino a San Juan de la Ciénaga, molto prima che si pensasse alla posta aerea come una possibilità razionale. Era stata sua anche l'idea del Centro Artistico, che aveva fondato la Scuola di Belle Arti nella stessa casa dove esiste ancora e aveva patrocinato per molti anni i Giochi Floreali di aprile.
Solo lui aveva ottenuto quello che era parso impossibile per un secolo: il restauro del Teatro della Commedia, trasformato in arena e in allevamento di galli dall'epoca della Colonia. Era stato il culmine di una campagna civica spettacolare che aveva compromesso tutti i settori della città senza eccezione alcuna, in una mobilitazione di massa che molti avevano considerato degna di miglior causa. Ciononostante il nuovo Teatro della Commedia era stato inaugurato quando ancora non aveva né sedie né luci, e i presenti dovevano portarsi su che sedersi e con che illuminarsi negli intervalli. Era stata imposta la stessa etichetta delle grandi prime europee, di cui le signore approfittavano per far bella mostra dei loro vestiti lunghi e delle loro pellicce nella canicola del Caribe, ma si era dovuta permettere l'entrata anche ai servitori perché portassero le sedie e le lampade, e quanto di mangereccio ritenevano necessario per resistere ai programmi interminabili, alcuni dei quali si erano protratti fino all'ora della prima messa. La stagione si era aperta con una compagnia francese di opera la cui novità era un'arpa nell'orchestra e la cui gloria indimenticabile era la voce immacolata e il talento drammatico di un soprano turco che cantava scalza e con anelli di pietre preziose alle dita dei piedi. A partire dal primo atto si vedeva a malapena lo scenario e i cantanti perdettero la voce per il fumo delle tante lampade di olio di palma, ma i cronisti cittadini si curarono molto bene di cancellare questi ostacoli insignificanti e di magnificare le cose memorabili. Fu senza dubbio l'iniziativa più contagiosa del dottor Urbino, dato che la febbre dell'opera contaminò perfino i settori più impensati della città e diede origine a tutta una generazione di Isotte e Otelli, e Aide e Sigfridi. Tuttavia non si arrivò mai agli estremi che il dottor Urbino avrebbe desiderato, di vedere italianizzanti e wagneriani affrontarsi a bastonate nel corso degli intervalli.
Il dottor Juvenal Urbino non accettò mai cariche ufficiali, che gli avevano offerto spesso e senza condizioni, e fu un critico feroce dei medici che si servivano del loro prestigio professionale per scalare posizioni politiche. Anche se era stato stimato sempre per liberale ed era solito votare durante le elezioni per i candidati di questo partito, lo era più per tradizione che per convinzione, ed era stato forse l'ultimo membro delle grandi famiglie che si inginocchiava per strada quando passava la carrozza dell'arcivescovo. Si definiva un pacifista naturale, fautore della riconciliazione definitiva fra liberali e conservatori per il bene della patria. Tuttavia, la sua condotta pubblica era così autonoma che nessuno lo riteneva dei suoi: i liberali lo consideravano un nobile delle caverne, i conservatori dicevano che gli mancava solo di essere massone, e i massoni lo ripudiavano come un chierico imboscato al servizio della Santa Sede. I suoi critici meno feroci pensavano che fosse solo un aristocratico estasiato dalle delizie dei Giochi Floreali mentre la nazione si dissanguava in un'interminabile guerra civile.
Solo due suoi atti non sembravano concordare con questa immagine. Il primo era stato il trasloco in una casa nuova in un quartiere di nuovi ricchi dal vecchio palazzo del Marchese de Casalduero che era stata la residenza di famiglia per più di un secolo. L'altro era stato il matrimonio con una bellezza paesana senza nome né fortuna, di cui si burlavano segretamente le signore di gran nome finché si erano convinte per forza che dava parecchi punti a tutte loro per distinzione e carattere. Il dottor Urbino aveva sempre tenuto in gran conto questi e molti altri intoppi della sua immagine pubblica, e nessuno quanto lui stesso sapeva bene di essere l'ultimo protagonista di un nome in via di estinzione. I suoi figli erano due cavalli di razza senza nessun lustro. Marco Aurelio, il maschio, medico come lui e come tutti i primogeniti di ogni generazione, non aveva fatto niente di notevole, neanche un figlio, passati i cinquant'anni. Ofelia, l'unica figlia, sposata con un buon impiegato del Banco di New Orleans, era arrivata alla menopausa con tre figlie e nessun maschio.
Tuttavia, benché gli spiacesse l'interruzione del suo sangue nella sorgente della storia, quello che della morte preoccupava di più il dottor Urbino era la vita solitaria di Fermina Daza senza di lui. Comunque, la tragedia destò commozione non solo fra la sua gente, ma contagiò anche la gente semplice, che si affacciò alle strade con l'illusione di conoscere anche di riflesso lo splendore della leggenda. Furono proclamati tre giorni di lutto, si mise la bandiera a mezz'asta negli uffici pubblici e le campane di tutte le chiese suonarono incessantemente finché fu sigillata la cripta nel mausoleo di famiglia. Un gruppo della Scuola di Belle Arti fece una maschera del cadavere che sarebbe servita da modello per un busto a grandezza naturale, ma poi si desistette dal progetto perché a nessuno parve degna la fedeltà con cui era rimasto plasmato il terrore dell'ultimo momento. Un artista rinomato che si trovava lì per caso prima di andare in Europa dipinse una tela gigantesca di un realismo patetico in cui si vedeva il dottor Urbino sulla scala e nell'attimo mortale in cui aveva teso la mano per afferrare il pappagallo. L'unica cosa che contrastava con la cruda verità della sua storia era che nel quadro non indossava la camicia senza collo e le bretelle a righe verdi, ma la bombetta e la finanziera di panno nero di un'incisione di stampa degli anni del colera. Questo quadro fu esposto pochi mesi dopo la tragedia, perché nessuno restasse senza vederlo, nella grande galleria "El Alambre de Oro", un negozio di articoli d'importazione in cui sfilava tutta la città. Poi stette sulle pareti di quante istituzioni pubbliche e private si credettero in dovere di rendere omaggio alla memoria dell'insigne patrizio e alla fine fu collocato con un secondo funerale nella Scuola di Belle Arti, da dove lo tolsero molti anni dopo gli stessi studenti di pittura per bruciarlo in Piazza dell'Università come simbolo di un'estetica e di certi tempi aborriti. Fin dal suo primo momento di vedova si vide che Fermina Daza non era così sprovveduta come aveva temuto suo marito. Fu inflessibile nella determinazione di non permettere che si utilizzasse il cadavere a beneficio di nessuna causa, e lo fu anche con il telegramma di onori del Presidente della Repubblica che ordinava di esporlo in una camera ardente della sala delle cerimonie del governo provinciale. Con la stessa serenità si oppose a che fosse vegliato nella cattedrale, come le aveva chiesto l'arcivescovo in persona, e concesse solo che fosse lì durante la messa a corpo presente degli uffici funebri. Ancora prima della mediazione di suo figlio, stordito da tante diverse richieste, Fermina Daza si mantenne ferma nella sua nozione campagnola che i morti appartengono solo alla famiglia, e che sarebbe stato vegliato in casa con caffè amaro e frittelle, e con la libertà di ognuno di piangerlo come voleva. Non ci sarebbe stata la veglia tradizionale di nove notti: le porte si chiusero dopo il funerale e
non si riaprirono se non per visite intime.
La casa rimase sotto il regime della morte. Ogni oggetto di valore era stato messo ben al sicuro, e sulle pareti nude non restavano che le impronte dei quadri staccati. Le sedie proprie e quelle prestate dai vicini erano poste contro le pareti dalla sala fino alle camere da letto, e gli spazi vuoti sembravano immensi e le voci risuonavano in modo spettrale, perché i mobili grandi, salvo il pianoforte da concerto che giaceva nel suo angolo sotto un lenzuolo bianco, erano stati spostati. Al centro della biblioteca, sulla scrivania di suo padre, giaceva senza bara colui che era stato Juvenal Urbino de la Calle, con l'ultimo spavento pietrificato sul volto e con il mantello nero e la spada di guerra dei cavalieri del Santo Sepolcro. Al suo fianco, in lutto stretto, tremante ma molto padrona di sé, Fermina Daza ricevette le condoglianze senza fare drammi, senza neanche muoversi, fino alle undici del mattino del giorno dopo quando salutò il marito dal portico dicendogli addio con un fazzoletto.
Non le era stato facile recuperare quella padronanza di sé da quando aveva udito il grido di Digna Pardo nel patio e aveva trovato il vecchio della sua vita che agonizzava nel fango. La sua prima reazione era stata di speranza perché aveva gli occhi aperti e un brillio di luce raggiante che non gli aveva mai visto nelle pupille. Aveva chiesto a Dio di concederle almeno un attimo perché lui non se ne andasse senza sapere quanto lo aveva amato a dispetto dei dubbi reciproci, e aveva sentito una sollecitazione irresistibile a ricominciare da capo la vita con lui per dirsi tutto quello che non si erano detti, e a rifare bene qualsiasi cosa avessero fatto male nel passato. Ma dovette arrendersi davanti all'intransigenza della morte. Il suo dolore si trasformò in una collera cieca contro il mondo e anche contro se stessa, e questo le diede la padronanza e il coraggio per confrontarsi da sola con la sua solitudine. Da quel momento non ebbe tregua, ma limitò qualsiasi gesto che sembrasse un'ostentazione del suo dolore. L'unico momento di un'evidente tristezza, del resto involontario, fu alle undici della sera di domenica, quando portarono la bara episcopale ancora odorosa di "sapolín" da bastimento, con maniglie di rame e fodere di seta trapunta. Il dottor Urbino Daza diede ordine di chiuderla immediatamente, dato che l'aria era rarefatta dal sentore di tanti fiori nel caldo insopportabile, e lui credeva di aver colto le prime ombre violette sul collo di suo padre. Una voce sarcastica si udì nel silenzio: «A quell'età uno è già mezzo marcio in vita». Prima che la chiudessero Fermina Daza si tolse l'anello matrimoniale e lo mise al marito morto e poi gli coprì la mano con la sua, come sempre aveva fatto quando lo aveva sorpreso svagato in pubblico. «Ci vedremo molto presto» gli disse.
Florentino Ariza, invisibile nella folla di notabili, sentì una lancia nel costato. Fermina Daza non lo aveva riconosciuto nella confusione delle prime condoglianze, benché nessuno sarebbe stato più presente né doveva essere più utile di lui nelle urgenze di quella notte. Fu lui a mettere ordine nelle cucine straripate perché non mancasse il caffè. Ottenne delle sedie supplementari quando non bastarono quelle dei vicini, e ordinò di mettere nel patio le corone che avanzavano quando ormai non ce ne stava più una in casa. Si occupò che non mancasse il brandy per gli invitati del dottor Lácides Olivella, che avevano saputo la cattiva notizia al culmine delle nozze d'argento e erano venuti di corsa a continuare la baldoria seduti in cerchio sotto il tronco del mango. Fu l'unico a saper reagire a tempo quando il pappagallo fuggitivo comparve a mezzanotte nella sala da pranzo con la testa alzata e le ali aperte, il che provocò un brivido di stupore nella casa perché sembrava una promessa di penitenza. Florentino Ariza lo afferrò per il collo senza dargli il tempo di gridare nessuna delle sue consegne insensate e lo portò nella scuderia nella gabbia coperta. Così fece tutto con tanta discrezione e tale efficienza che a nessuno capitò di pensare che fosse un'intromissione negli affari degli altri, ma anzi un aiuto impagabile nella mala ora della casa. Era quello che sembrava: un vecchio servizievole e serio.
Aveva il corpo ossuto e dritto, la pelle bruna e imberbe, gli occhi avidi dietro gli occhiali rotondi con la montatura di metallo chiaro, e dei baffi romantici con le punte ingommate, un po' vecchi per l'epoca. Aveva gli ultimi ciuffi dei capelli delle tempie pettinati verso l'alto e attaccati con la gommina nel centro del cranio lucente come soluzione finale a una calvizie assoluta. La sua gentilezza naturale e i suoi modi delicati affascinavano subito, ma venivano anche stimati come due virtù sospettose in uno scapolo incallito. Aveva speso molto denaro, molto ingegno e molta forza di volontà perché non si notassero i settantasei anni che aveva compiuto nel marzo scorso e nella solitudine della sua anima era convinto di aver amato in silenzio molto più di chiunque altro a questo mondo. La notte della morte del dottor Urbino era vestito come lo aveva sorpreso la notizia, che era come stava sempre nonostante il caldo infernale di giugno: di panno scuro con gilè, un fiocco di nastro di seta nel colletto di celluloide, un cappello di feltro e un ombrello di raso nero che gli serviva anche da bastone. Ma quando incominciò a far chiaro sparì dalla veglia per due ore e ritornò fresco col primo sole, ben sbarbato e profumato di lozioni da toilette. Aveva indossato una finanziera di panno nero di quelle che non si usavano più se non ai funerali e alle cerimonie della Settimana Santa, un collo con le punte superiori risvoltate e il fiocco da artista al posto della
cravatta e una bombetta. Aveva con sé anche l'ombrello, e non solo per abitudine, dato che era sicuro che avrebbe piovuto prima delle dodici, e lo fece sapere al dottor Urbino Daza per vedere se gli sarebbe stato possibile anticipare il funerale. Ci provarono in effetti, perché Florentino Ariza apparteneva a una famiglia di armatori e lui stesso era presidente della Compagnia Fluviale del Caribe, e questo faceva supporre che se ne intendesse di pronostici atmosferici. Ma non poterono mettere d'accordo le autorità civili e militari, le corporazioni pubbliche e private, la banda dell'esercito e quella delle Belle Arti, e le scuole e confraternite religiose che erano già d'accordo per le undici, in modo che il funerale previsto come un avvenimento storico finì in un fuggi fuggi generale per l'acquazzone battente che venne giù. Furono molto pochi quelli che arrivarono sguazzando nel fango al mausoleo della famiglia, protetto da una ceiba coloniale il cui fogliame superava il muro del cimitero. Sotto quello stesso fogliame, ma nella parte esterna destinata ai suicidi, il pomeriggio del giorno prima i rifugiati del Caribe avevano sepolto Jeremiah de Saint-Amour, e il suo cane insieme con lui, secondo la sua volontà.
Florentino Ariza fu uno dei pochi che rimasero fino alla fine del funerale. Si inzuppò fino alla biancheria intima e arrivò spaventato a casa sua per paura di prendere una polmonite dopo tanti anni di attenzioni minuziose e di precauzioni eccessive. Si fece preparare una limonata calda con un goccio di brandy, se la bevette a letto con due pastiglie di fenaspirina e sudò abbondantemente avvolto in una coperta di lana finché recuperò la giusta temperatura del corpo. Quando tornò alla veglia si sentiva rinvigorito. Fermina Daza aveva ripreso il comando della casa, che era spazzata e in grado di ricevere, e aveva posto sull'altare della biblioteca un ritratto del marito morto dipinto a pastello con la cornice listata a lutto. Alle otto c'era tanta gente e il caldo era così intenso come la notte precedente, ma dopo il rosario qualcuno fece circolare la preghiera di andarsene presto perché la vedova riposasse per la prima volta dal pomeriggio della domenica.
Fermina Daza salutò la maggior parte della gente vicino all'altare ma accompagnò l'ultimo gruppo di amici intimi fino alla porta sulla strada, per chiuderla lei stessa, come aveva sempre fatto. Stava per farlo con l'ultimo respiro, quando vide Florentino Ariza vestito a lutto al centro della sala deserta. Ne fu contenta, perché da molti anni lo aveva cancellato dalla sua vita, ed era la prima volta che lo vedeva con la coscienza purificata dall'oblio. Ma prima di poterlo ringraziare per la visita, lui si mise il cappello sul cuore, tremante e degno, e fece scoppiare l'ascesso che era stato l'alimento della sua vita.
«Fermina» le disse, «ho atteso questa occasione per più di mezzo secolo, per ripeterti ancora una volta il giuramento della mia fedeltà eterna e il mio amore per sempre.»
Fermina Daza avrebbe creduto di trovarsi di fronte a un pazzo, se non avesse avuto dei motivi per pensare che Florentino Ariza in quel momento era ispirato dalla grazia dello Spirito Santo. Il suo impulso immediato fu di maledirlo per la profanazione della casa quando era ancora caldo nella tomba il corpo di suo marito. Ma glielo impedì la dignità della rabbia. «Vattene» gli disse. «E non farti mai più vedere negli anni che ti restano di vita.» Tornò ad aprire del tutto la porta che aveva incominciato a chiudere, e concluse: «Che spero siano molto pochi».
Quando udì spegnersi il rumore dei passi nella strada solitaria, chiuse la porta molto piano, con la spranga e i catenacci, e affrontò da sola il suo destino. Mai, fino a quel momento, aveva avuto piena coscienza del peso e della grandezza del dramma che lei stessa aveva provocato quando aveva solo diciotto anni, e che l'avrebbe perseguitata fino alla morte. Pianse per la prima volta dal pomeriggio del disastro, senza testimoni, che era il suo unico modo di piangere. Pianse per la morte del marito, per la sua solitudine e la sua rabbia, e quando entrò nella camera da letto vuota pianse per se stessa, perché molto raramente aveva dormito da sola in quel letto da quando non era più vergine. Tutto quello che era stato del marito le attizzava il pianto: le pantofole di nappa, il pigiama sotto il cuscino, lo spazio senza di lui nella mezzaluna della toilette, il suo odore personale sulla propria pelle. La fece sussultare un pensiero vago: "La gente che si ama dovrebbe morire con tutte le sue cose". Non volle aiuto da nessuno per coricarsi, non volle mangiare niente prima di dormire. Oppressa dal dolore, chiese a Dio di mandarle la morte quella notte stessa durante il sonno, e con questa illusione si coricò, scalza ma vestita, e si addormentò subito. Dormì senza saperlo, ma sapendo che continuava a essere viva nel sonno, che le avanzava la metà del letto, e che giaceva di fianco sul bordo sinistro, come sempre, ma che le mancava il contrappeso dell'altro corpo dall'altra parte. Pensando addormentata pensò che non avrebbe mai più potuto dormire così, e incominciò a singhiozzare nel sonno, e dormì singhiozzando senza cambiare posizione nella sua parte, fino a molto dopo il canto del gallo e la svegliò il sole indesiderabile della mattina senza di lui. Solo allora si rese conto di aver dormito molto senza morire, singhiozzando nel sonno, e mentre dormiva singhiozzando di aver pensato più a Florentino Ariza che al marito morto.
NOTE.
NOTA 1: E' Simón Bolívar (1783-1830). (Nota del Traduttore).
Florentino Ariza, invece, non aveva smesso di pensare a lei per un solo attimo dopo che Fermina Daza lo aveva respinto senza appello dopo alcuni amori lunghi e sofferti, ed erano trascorsi da allora cinquantun anni, nove mesi e quattro giorni. Non aveva dovuto tenere il conto dell'oblio facendo una riga al giorno sui muri di una prigione, perché non era passato un giorno senza che accadesse qualcosa che gliela faceva ricordare. All'epoca della rottura aveva ventidue anni e viveva solo con sua madre, Tránsito Ariza, in una mezza casa in affitto di Calle de las Ventanas, dove lei fin da quando era molto giovane aveva un negozio di merceria e dove anche sfilacciava camicie e stracci vecchi che vendeva come cotone per i feriti di guerra. Era stato il suo unico figlio, frutto di un legame occasionale con il noto armatore don Pío Quinto Loayza, il maggiore dei tre fratelli che avevano fondato la Compagnia Fluviale del Caribe, e avevano dato con questa un nuovo impulso alla navigazione a vapore nel río de la Magdalena.
Don Pío Quinto Loayza morì quando il figlio aveva dieci anni. Anche se si era sempre occupato segretamente delle sue spese, non lo aveva mai riconosciuto come suo davanti alla legge né gli aveva lasciato risolto l'avvenire, e così Florentino Ariza era rimasto con l'unico nome di sua madre, benché la sua vera generalità fosse sempre stata di dominio pubblico. Dopo la morte del padre, Florentino Ariza aveva dovuto rinunciare alla scuola per impiegarsi come apprendista all'Ufficio Postale, dove lo avevano incaricato di aprire i sacchi, di mettere in ordine le lettere e di avvisare il pubblico che era arrivata la posta issando sulla porta la bandiera del paese di provenienza. La sua serietà richiamò l'attenzione del telegrafista, l'emigrato tedesco Lotario Thugut, che suonava anche l'organo nelle cerimonie maggiori della cattedrale e dava lezioni di musica a domicilio. Lotario Thugut gli insegnò l'alfabeto Morse e l'uso del sistema telegrafico, e bastarono le prime lezioni di violino perché Florentino Ariza continuasse a suonarlo a orecchio come un professionista. Quando conobbe Fermina Daza, a diciotto anni, era il giovane più richiesto della sua classe sociale, quello che ballava meglio la musica di moda e recitava a memoria la poesia sentimentale, ed era sempre a disposizione dei suoi amici per fare alle loro fidanzate serenate con un a solo di violino. Era squallido fin da allora, con capelli da
indio impomatati e gli occhialini da miope che aumentavano il suo aspetto di abbandono. A parte il difetto della vista, soffriva di una stitichezza cronica che lo obbligò a clisteri purganti per tutta la vita. Aveva un solo abito da cerimonia, ereditato dal padre morto, ma Tránsito Ariza glielo teneva così bene che ogni domenica sembrava nuovo. Nonostante la sua aria allampanata, la sua riservatezza e i suoi vestiti malinconici, le ragazze del suo gruppo facevano riffe segrete per giocare a restare con lui, e lui giocava a restare con loro, fino al giorno in cui conobbe Fermina Daza e gli morì l'innocenza.
L'aveva vista per la prima volta un pomeriggio in cui Lotario Thugut lo aveva incaricato di portare un telegramma a un tipo senza domicilio conosciuto che si chiamava Lorenzo Daza. Lo trovò nel piccolo Giardino de Los Evangelios, in una delle case più vecchie, mezza in rovina, il cui patio interno sembrava il chiostro di un'abbazia, con erbacce negli angoli e una fontana di pietra senza acqua. Florentino Ariza non udì nessun rumore umano quando seguì la domestica scalza sotto gli archi del corridoio, dove c'erano cassoni da trasloco ancora da aprire e attrezzi da muratore fra resti di calce e sacchi di cemento, dato che la casa stava subendo un restauro totale. In fondo al patio c'era un ufficio, dove dormiva la siesta seduto davanti alla scrivania un uomo molto grasso con le basette arricciate che si confondevano con i baffi. Si chiamava, in effetti, Lorenzo Daza, e non era molto conosciuto in città perché era arrivato da meno di due anni e non era uno di molte amicizie.
Prese il telegramma come se fosse il seguito di un brutto sogno. Florentino Ariza osservò gli occhi lividi con una specie di compassione ufficiale, osservò le dita incerte che cercavano di rompere il sigillo, la paura del cuore che aveva visto tante volte in tanti destinatari che non riuscivano ancora a pensare ai telegrammi senza metterli in rapporto con la morte. Quando l'ebbe letto riprese il controllo. Sospirò: «Buone notizie». E diede a Florentino Ariza i cinque "reales" di rigore, facendogli intendere con un sorriso sollevato che non glieli avrebbe dati se le notizie fossero state cattive. Poi lo congedò con una stretta di mano, cosa che non si usava con un fattorino del telegrafo, e la domestica lo accompagnò fino al portone sulla strada non tanto per fargli strada quanto per sorvegliarlo. Fecero lo stesso percorso in senso inverso lungo il corridoio ad arcate, ma questa volta Florentino Ariza seppe che c'era qualcun altro in casa, perché il chiarore del patio era occupato da una voce di donna che ripeteva una lezione di lettura. Passando davanti alla stanza da lavoro vide dalla finestra una donna più anziana e una bambina, sedute su due sedie molto vicine, che seguivano ambedue la stessa lettura sullo stesso libro che la donna teneva aperto in grembo. Gli parve una visione rara: la figlia che insegnava a leggere alla madre. La stima era sbagliata solo in parte, perché la donna era la zia e non la madre della bambina, anche se l'aveva allevata come se lo fosse stata. La lezione non si interruppe ma la bambina alzò gli occhi per vedere chi stava passando davanti alla finestra, e quello sguardo casuale fu l'origine di un cataclisma amoroso che mezzo secolo dopo non era ancora terminato.
L'unica cosa che Florentino Ariza poté scoprire di Lorenzo Daza fu che era arrivato da San Juan de la Ciénaga con l'unica figlia e la sorella zitella poco dopo il fetore del colera, e chi lo aveva visto sbarcare non aveva dubitato che venisse per fermarsi, dato che portava tutto il necessario per una casa ben fornita. La moglie era morta quando la figlia era molto piccola. La sorella si chiamava Escolástica, aveva quarant'anni e stava compiendo un voto con l'abito di San Francesco quando usciva e solo il cordone alla vita quando stava in casa. La bambina aveva tredici anni e si chiamava come la madre morta: Fermina. Si supponeva che Lorenzo Daza fosse un uomo ricco perché viveva bene senza che si sapesse che cosa faceva, e aveva comprato in contanti la casa de Los Evangelios, il cui restauro dovette costargli perlomeno il doppio dei duecento "pesos" d'oro che aveva pagato per la casa. La figlia stava studiando al Colegio de la Presentación de la Santísima Virgen, dove le signorine di società apprendevano da due secoli l'arte e il mestiere di essere spose diligenti e sottomesse. Durante la Colonia e i primi anni della Repubblica accettavano solo le eredi di grandi nomi. Ma le vecchie famiglie rovinate dall'indipendenza avevano dovuto sottomettersi alla realtà dei nuovi tempi, e il collegio aveva aperto le sue porte a tutte le aspiranti che avessero potuto pagarlo senza preoccuparsi dei loro titoli nobiliari ma con la condizione essenziale che fossero figlie legittime di matrimoni cattolici. In ogni modo era un collegio caro, e il fatto che Fermina Daza studiasse lì era di per sé solo un indizio della situazione economica della famiglia, anche se non lo era della sua condizione sociale. Queste notizie incoraggiarono Florentino Ariza, perché gli indicavano che la bella adolescente dagli occhi a mandorla era alla portata dei suoi sogni. Tuttavia, la disciplina stretta di suo padre si rivelò molto presto come un inconveniente irrimediabile. Contrariamente alle altre alunne, che andavano a scuola a gruppi o accompagnate da una domestica più anziana, Fermina Daza andava sempre con la zia zitella e la sua condotta indicava che non le era permessa nessuna distrazione. Fu in quel modo innocente che Florentino Ariza diede inizio alla sua vita segreta di cacciatore solitario. Dalle sette di mattina si sedeva da solo sulla panchina meno visibile del giardinetto, fingendo di leggere un libro di versi all'ombra dei mandorli, finché vedeva passare la donzella impossibile con l'uniforme a righe azzurre, le calze con le giarrettiere fino alle ginocchia, gli stivaletti maschili coi lacci incrociati, e una sola treccia grossa con un fiocco all'estremità che le pendeva sulle spalle fino alla vita. Camminava con un'alterigia naturale, la testa dritta, lo sguardo immobile, il passo rapido, il naso affilato, con la cartella dei libri stretta con le braccia incrociate contro il petto, e con un'andatura da cerva che la faceva sembrare immune dalla gravità. Al suo fianco, tenendo il passo a stento, la zia con l'abito grigio e il cordone di San
Francesco non lasciava il minimo spiraglio per avvicinarsi. Florentino Ariza le vedeva passare all'andata e al ritorno quattro volte al giorno e una volta la domenica all'uscita dalla messa solenne, e vedere la bambina gli bastava. A poco a poco venne idealizzandola, attribuendole virtù improbabili, sentimenti immaginari, e dopo due settimane non pensava ad altro che a lei. Fu così che decise di mandarle un semplice biglietto scritto da tutte e due le parti con la sua bella calligrafia da scrivano. Ma lo tenne diversi giorni nel taschino pensando come consegnarlo, e mentre ci pensava scriveva altri fogli prima di dormire, cosicché la lettera originale venne a trasformarsi in un dizionario di galanterie ispirate ai libri che aveva imparato a memoria a furia di leggerli nelle attese del giardino.
Cercando il modo di consegnare la lettera si diede da fare per conoscere alcune studentesse della Presentación, ma erano troppo lontane dal suo mondo. Inoltre, dopo parecchi giri non gli parve prudente che qualcuno fosse informato dei suoi progetti. Tuttavia riuscì a sapere che Fermina Daza era stata invitata a un ballo di sabato qualche giorno dopo il suo arrivo e che il padre non le aveva dato il permesso di andarci con una frase precisa: «Ogni cosa si farà a tempo debito». La lettera aveva più di sessanta fogli scritti da tutti e due i lati quando Florentino Ariza non poté più resistere al peso del suo segreto, e si aprì senza riserve con sua madre, l'unica persona con cui si permetteva qualche confidenza. Tránsito Ariza si commosse fino alle lacrime per il candore del figlio nei fatti d'amore e cercò di orientarlo con i suoi lumi. Cominciò convincendolo a non consegnare lo zibaldone lirico con cui sarebbe solo riuscito a spaventare la bambina dei suoi sogni, che supponeva altrettanto acerba quanto lui in affari di cuore. Il primo passo, gli disse, era ottenere che lei si accorgesse del suo interesse, perché la sua dichiarazione non la cogliesse di sorpresa e avesse il tempo di pensare.
«Ma soprattutto» gli disse, «la prima che devi conquistare non è lei ma sua zia.»
Ambedue i consigli erano saggi, senza dubbio, ma tardivi. In realtà il giorno in cui Fermina Daza aveva trascurato un attimo la lezione di lettura che stava dando alla zia e aveva sollevato lo sguardo per vedere chi stava passando nel corridoio, Florentino Ariza l'aveva impressionata con la sua aria di abbandono. La sera, durante la cena, suo padre aveva parlato del telegramma ed era stato così che lei aveva saputo che cosa era andato a fare Florentino Ariza in casa, e quale era il suo lavoro. Queste notizie avevano aumentato il suo interesse, perché per lei come per tanta gente dell'epoca l'invenzione del telegrafo aveva qualcosa a che vedere con la magia. Ed era stato così che aveva riconosciuto Florentino Ariza dalla prima volta che lo vide intento a leggere sotto gli alberi del giardinetto, benché non le avesse provocato nessuna inquietudine, mentre la zia non le fece notare che stava lì da parecchie settimane. Poi, quando lo videro anche la domenica all'uscita da messa, la zia finì per convincersi che tanti incontri non potevano essere casuali. Disse: «Non sarà per me che si prende tanti fastidi». Perché, nonostante la sua condotta austera e il suo abito da penitente, la zia Escolástica Daza aveva un istinto della vita e una vocazione alla complicità che erano le sue migliori virtù, e la sola idea che un uomo si interessasse alla nipote le provocava un'emozione irresistibile. Fermina Daza, però, era ancora in salvo perfino dalla semplice curiosità dell'amore, e l'unica cosa che le ispirava Florentino Ariza era un po' di pena, perché le era parso malato. Ma la zia le disse che era necessario aver vissuto molto per conoscere la vera indole di un uomo, e lei era convinta che quello che si sedeva nel parco per vederle passare poteva essere malato solo d'amore.
La zia Escolástica era un rifugio di comprensione e di affetto per la figlia solitaria di un matrimonio senza amore. L'aveva allevata dalla morte della madre, e nei rapporti con Lorenzo Daza si comportava più da complice che da zia. Cosicché la comparsa di Florentino Ariza fu per loro un altro dei molti divertimenti intimi che erano solite inventarsi per passare le ore morte. Quattro volte al giorno, quando passavano dal giardinetto de Los Evangelios, tutte e due si affrettavano a cercare con un rapido sguardo la sentinella sparuta, timida, proprio poca cosa, quasi sempre vestita di nero malgrado il caldo, che faceva finta di leggere sotto gli alberi. «Eccolo là» diceva quella che lo vedeva per prima, soffocando le risa, prima che lui alzasse lo sguardo e vedesse le due donne rigide, distanti dalla sua vita, attraversare il giardino senza guardarlo.
«Poveretto» aveva detto la zia. «Non si azzarda ad avvicinarsi perché ci sono io con te ma un giorno ci proverà se le sue intenzioni sono serie, e allora ti consegnerà una lettera.»
Prevedendo tutta una serie di avversità le insegnò a comunicare con l'alfabeto muto, che era una risorsa indispensabile degli amori proibiti. Quelle birichinate sprovvedute, quasi puerili, davano a Fermina Daza una curiosità di novità, ma per parecchi mesi non le capitò di andare oltre. Non seppe mai in che momento il divertimento si trasformò in ansia, e il sangue le si sconvolgeva per l'urgenza di vederlo, e una notte si svegliò spaventata perché lo vide che la guardava nell'oscurità ai piedi del letto. Allora desiderò con tutta l'anima che si avverassero i pronostici della zia, e chiedeva a Dio nelle sue orazioni di fargli avere il coraggio di consegnarle la lettera, solo per sapere che cosa dicesse.
Ma le sue preghiere non vennero esaudite. Anzi. Questo succedeva all'epoca in cui Florentino Ariza si era confessato con sua madre e questa lo aveva dissuaso dal consegnare i settanta fogli di galanterie, e così Fermina Daza continuò a sperare per tutto il resto dell'anno. La sua ansia si trasformava in disperazione più si avvicinavano le vacanze di dicembre, perché si chiedeva agitata che cosa avrebbe fatto per vederlo, e perché lui la vedesse, durante i tre mesi in cui non sarebbe andata a scuola. I dubbi persistevano senza soluzione la notte di Natale, quando la fece sussultare il presagio che lui la stesse guardando tra la folla della messa di mezzanotte, e quell'inquietudine le fece traboccare il cuore. Non si azzardò a girare la testa, perché era seduta fra il padre e la zia, e dovette dominarsi perché non si accorgessero del suo turbamento. Ma nel disordine dell'uscita lo sentì così vicino, così nitido nella confusione, che un potere irresistibile l'obbligò a guardare sopra la spalla quando lasciava il tempio dalla navata centrale, e allora vide a due palmi dai suoi occhi gli altri occhi di ghiaccio, il viso livido, le labbra pietrificate dalla paura dell'amore. Scombussolata dalla sua stessa audacia, si aggrappò al braccio della zia Escolástica per non cadere, e questa sentì il sudore glaciale della mano attraverso il mezzo guanto di pizzo, e la riconfortò con un cenno impercettibile di complicità incondizionata. In mezzo al fragore dei razzi e dei tamburi celebrativi, delle luci colorate sulle porte e al clamore della folla ansiosa di pace, Florentino Ariza vagò come un sonnambulo fino all'alba vedendo la festa attraverso le lacrime, stordito dall'allucinazione di essere lui e non Dio quello che era nato quella notte.
Il delirio aumentò la settimana dopo, all'ora della siesta, quando passò senza speranze dalla casa di Fermina Daza e vide che lei e la zia erano sedute sotto i mandorli del cortile. Era una ripetizione all'aperto del quadro che aveva visto il primo pomeriggio nella stanza da lavoro: la bambina che provava la lezione di lettura alla zia. Ma Fermina Daza era diversa senza l'uniforme scolastica, perché indossava una veste di filo con molte pieghe che le cadevano dalle spalle come un peplo e aveva in testa una ghirlanda di gardenie che le davano l'aspetto di una dea incoronata. Florentino Ariza si sedette nel giardino, dove era sicuro di essere visto, e non ricorse alla finta lettura, ma restò col libro aperto e con gli occhi fissi sulla donzella illusoria, che non gli ricambiò neanche uno sguardo di compassione.
All'inizio pensò che la lezione sotto i mandorli fosse un cambiamento casuale dovuto forse ai restauri interminabili della casa, ma nei giorni seguenti capì che Fermina Daza sarebbe stata lì, a portata di vista, tutti i pomeriggi alla stessa ora dei tre mesi delle vacanze, e questa certezza gli infuse nuovo coraggio. Non ebbe l'impressione di essere visto, non avvertì alcun segno di interesse o di rifiuto, ma nella sua indifferenza c'era un diverso splendore che lo incoraggiava a continuare. Improvvisamente un pomeriggio alla fine di gennaio la zia appoggiò il lavoro sulla sedia e lasciò sola la nipote nel cortile, in mezzo al rigagnolo di foglie gialle cadute dai mandorli. Incoraggiato dalla supposizione irriflessiva che fosse stata un'opportunità concertata, Florentino Ariza attraversò la strada e si piantò di fronte a Fermina Daza, e così vicino a lei da percepire le crepe del suo respiro e l'alito floreale con cui l'avrebbe identificata per il resto della sua vita. Le parlò a testa alta e con una determinazione che avrebbe riavuto solo mezzo secolo dopo, e per lo stesso motivo.
«L'unica cosa che le chiedo è di voler ricevere una mia lettera» le disse.
Non era la voce che Fermina Daza si aspettava da lui: era nitida, e con una padronanza che non aveva niente a che vedere con i suoi modi languidi. Senza allontanare lo sguardo dal ricamo, gli rispose: «Non posso riceverla senza il permesso di mio padre». Florentino Ariza sussultò per il calore di quella voce il cui timbro pacato non avrebbe dimenticato per il resto della sua vita. Ma si mantenne saldo e replicò immediatamente: «Lo ottenga». Poi addolcì l'ordine con una supplica: «E' una faccenda di vita o di morte». Fermina Daza non lo guardò, non interruppe il ricamo, ma la sua decisione socchiuse una porta in cui entrava tutto il mondo.
«Torni tutti i pomeriggi» gli disse, «e aspetti che io cambi di sedia.»
Florentino Ariza non capì che cosa intendeva dire fino al lunedì della settimana dopo quando vide dalla panchina del giardinetto la stessa scena di sempre con una sola variante: quando la zia Escolástica entrò in casa, Fermina Daza si alzò e si mise a sedere sull'altra sedia.
Florentino Ariza, con una camelia bianca all'occhiello della finanziera, allora attraversò la strada e si fermò di fronte a lei. Disse: «Questa è l'occasione più grande della mia vita». Fermina Daza non alzò lo sguardo verso di lui finché non ebbe esaminato i dintorni con un'occhiata circolare ed ebbe visto le strade deserte nel torpore della siccità e un mulinello di foglie morte trascinate dal vento.
«Me la dia» disse.
Florentino Ariza aveva pensato di portarle i settanta fogli che a quel punto poteva recitare a memoria da quanto li aveva letti, ma poi si era deciso per mezzo biglietto sobrio ed esplicito in cui prometteva solo l'essenziale: la sua fedeltà in tutta regola e il suo amore eterno. Lo tolse dalla tasca interna della finanziera e lo mise davanti agli occhi della ricamatrice afflitta che ancora non si era azzardata a guardarlo. Lei vide la busta azzurra tremare in una mano impietrita di paura, e sollevò il telaio perché lui ci mettesse la lettera, dato che non poteva ammettere che si notasse anche il tremito delle sue dita. Allora successe: un uccello si agitò in mezzo al fogliame dei mandorli e la sua cagata cadde proprio sul ricamo. Fermina Daza allontanò il telaio, lo nascose dietro alla sedia perché lui non si accorgesse di quanto era successo e lo guardò per la prima volta con il volto in fiamme. Florentino Ariza, impassibile con la lettera in mano, disse: «Porta bene». Lei lo ringraziò col suo primo sorriso e quasi gli strappò di mano la lettera, la piegò e la nascose nel corpetto. Lui le offrì allora la camelia che portava all'occhiello. Lei la rifiutò: «E' un fiore da fidanzamento». Poi, sapendo che il tempo stava per finire, si rifugiò di nuovo nel suo ritegno.
«Adesso vada via» disse, «e non torni più finché non l'avviso.» Quando Florentino Ariza l'aveva vista per la prima volta, sua madre l'aveva scoperto da prima che lui glielo raccontasse, perché aveva perso la parola e l'appetito e passava le notti in bianco a rigirarsi nel letto. Ma quando incominciò ad aspettare la risposta alla sua prima lettera l'ansia gli si complicò con diarree e vomiti verdi, perse il senso dell'orientamento e soffrì di repentini svenimenti, e sua madre si terrorizzò perché il suo stato non assomigliava ai disordini dell'amore ma ai danni del colera. Il padrino di Florentino Ariza, un vecchio omeopata che era stato il confidente di Tránsito Ariza fin dai tempi in cui era un'amante nascosta, si allarmò anche lui a prima vista per lo stato del malato, perché aveva il polso debole, il respiro affannoso e i sudori pallidi dei moribondi. Ma l'esame rivelò che non aveva febbre né dolore in nessuna parte e che l'unica cosa concreta che sentiva era il bisogno urgente di morire. Gli bastò un interrogatorio insidioso, prima a lui e poi alla madre, per comprovare una volta di più che i sintomi dell'amore sono gli stessi del colera. Prescrisse infusi di fiori di tiglio per calmare i nervi e suggerì un cambiamento d'aria per cercare la consolazione a distanza, ma quello cui anelava Florentino Ariza era tutto il contrario: godere del suo martirio.
Tránsito Ariza era una meticcia libera con un istinto della felicità perso prematuramente per la povertà e si compiaceva delle sofferenze del figlio come se fossero sue. Gli faceva bere gli infusi quando lo sentiva delirare e lo copriva con coperte di lana per ingannare i brividi, ma nello stesso tempo gli faceva coraggio per consolarsi nella sua prostrazione.
«Approfitta adesso che sei giovane per soffrire tutto quello che puoi» gli diceva, «perché queste cose non durano tutta la vita.»
All'Ufficio Postale non pensavano certo la stessa cosa. Florentino Ariza si era lasciato andare all'accidia ed era talmente distratto da confondere le bandiere con cui annunciava l'arrivo della posta, e un mercoledì issava quella tedesca quando la nave che era arrivata era quella della Compagnia Leyland con la posta di Liverpool, e un altro giorno issava quella degli Stati Uniti quando il battello che era arrivato era quello della Compagnie Générale Transatlantique con la posta di Saint-Nazaire. Quei disordini dell'amore causavano tali scompigli nel reparto e provocavano tante proteste del pubblico che se Florentino Ariza non si trovò senza lavoro fu perché Lotario Thugut lo tenne al telegrafo e lo portò a suonare il violino nel coro della cattedrale. Avevano un legame difficile a capirsi per la differenza di età, dato che avrebbero potuto essere nonno e nipote, ma andavano molto d'accordo sia nel lavoro sia negli alberghi del porto, dove andavano a finire i nottambuli, senza scrupoli di classe, dai mendicanti ubriachi ai signorini vestiti da sera che scappavano via dalle feste di gala del Club Social per mangiare "lebranche" fritto con riso di cocco. Lotario Thugut era solito andarsene da quelle parti dopo l'ultimo turno del telegrafo e spesso si fermava a bere ponce di Giamaica e a suonare la fisarmonica con gli equipaggi di matti delle golette delle Antille. Era corpulento, intartarughito, con una barba dorata e un berretto grigio che si metteva per uscire la sera, e gli mancava solo una filza di campanule per essere identico a Babbo Natale. Almeno una volta alla settimana finiva con una cometa della notte, come lui le chiamava, tra le molte che vendevano amori di emergenza in una locanda per marinai. Quando conobbe Florentino Ariza, la prima cosa che fece con un certo piacere da maestro fu di iniziarlo ai segreti del suo paradiso. Sceglieva per lui le comete che gli sembravano migliori, discuteva con loro il prezzo e il modo e si offriva di pagare con denaro suo il servizio anticipato. Ma Florentino Ariza non accettava: era vergine, e si era proposto di non smettere di esserlo finché non fosse stato per amore.
La locanda era un palazzo coloniale decaduto, e i grandi saloni e le stanze di marmo erano divisi in alcove di cartone con buchi di spilli che si affittavano sia per fare che per guardare. Si parlava di curiosi cui avevano cavato un occhio con aghi per tessere, di un altro che aveva riconosciuto la propria moglie in quella che stava spiando e di signori di alto lignaggio che entravano mascherati da erbivendole per sfogarsi con i nostromi di passaggio, e di tanti altri incidenti di spie e spiati, che solo l'idea di affacciarsi alla stanza vicina risultava spaventosa a Florentino Ariza. Così Lotario Thugut non riuscì a persuaderlo che guardare e farsi guardare erano raffinatezze da principe in Europa.
Contrariamente a quanto faceva credere la sua corpulenza, Lotario Thugut aveva un pisellino da cherubino che sembrava un bocciolo di rosa, ma questo doveva essere un difetto fortunato perché le comete più appannate si contendevano la fortuna di dormire con lui, e le loro urla da sgozzate scuotevano i contrafforti del palazzo e facevano tremare di paura i suoi fantasmi. Si diceva che usasse una pomata al veleno di vipera che infiammava la sella turcica delle donne, ma lui giurava di non avere risorse diverse da quelle che Dio gli aveva dato. Morto dal ridere diceva: «E' puro amore». Dovettero passare molti anni perché Florentino Ariza capisse che forse lo diceva con qualche ragione. Finì per convincersene in un tempo più avanzato della sua educazione sentimentale, quando conobbe un uomo che si concedeva una vita da re sfruttando tre donne contemporaneamente. Le tre gli rendevano conto all'alba, umiliate ai suoi piedi per farsi perdonare i loro incassi esigui, e l'unica gratificazione che desideravano era che lui andasse a letto con quella che gli portava più denaro. Florentino Ariza pensava che solo il terrore potesse indurre a una simile indegnità. Tuttavia, una delle tre ragazze lo aveva sorpreso contraddicendolo.
«Queste cose» gli aveva detto, «si possono fare solo per amore.» Non era stato tanto per le sue virtù di fornicatore quanto per sua grazia personale che Lotario Thugut era arrivato a essere uno dei clienti più apprezzati della locanda. Florentino Ariza, col suo essere così silenzioso e schivo, si era guadagnato anche lui la stima del padrone, e nell'epoca più ardua delle sue pene era solito chiudersi a leggere versi e romanzi d'appendice lacrimevoli nelle stanzette soffocanti, e i suoi sogni lasciavano nidi di oscure rondini sui balconi e rumori di baci e battiti d'ali nei marasmi della siesta. All'imbrunire, quando il caldo diminuiva, era impossibile non sentire i discorsi degli uomini che venivano a sfogarsi della giornata con un amore di fretta. Così Florentino Ariza veniva a conoscenza di molte slealtà e anche di qualche segreto di stato che i clienti importanti, e perfino le autorità locali, confidavano alle loro amanti effimere senza stare attenti che non li sentissero nelle stanze vicine. Fu così che venne a sapere che a quattro leghe marine a nord di Sotavento giaceva affondato dal diciassettesimo secolo un galeone spagnolo con un carico di più di cinquecentomila milioni di pesos in oro puro e pietre preziose. Il racconto lo spaventò ma non ci ripensò fino a qualche mese dopo, quando la sua follia amorosa gli fece venire la voglia di recuperare la fortuna sommersa perché Fermina Daza potesse bagnarsi in piscine d'oro.
Anni dopo, quando cercava di ricordare come fosse in realtà la ragazza idealizzata con l'alchimia della poesia, non riusciva a distinguerla dai tramonti lacerati di quei tempi. Anche quando la spiava senza essere visto, in quei giorni di ansia in cui aspettava la risposta alla sua prima lettera, la vedeva trasfigurata nel riverbero delle due del pomeriggio sotto la pioggerellina di fiori dei mandorli, dov'era sempre aprile in qualsiasi tempo dell'anno. L'unico motivo per cui allora gli interessava accompagnare con il violino Lotario Thugut nel belvedere privilegiato del coro, era per vedere come ondeggiava la sua veste con la brezza dei cantici. Ma proprio il suo delirio finì per rovinargli il piacere, perché la musica mistica risultava così innocua allo stato della sua anima che cercava di infervorarla con valzer d'amore, e Lotario Thugut fu costretto a mandarlo via dal coro. Fu quella l'epoca in cui cedette alle voglie di mangiarsi le gardenie che Tránsito Ariza coltivava negli angoli del patio, e in questo modo conobbe il sapore di Fermina Daza. Fu anche l'epoca in cui trovò per caso in un baule di sua madre un flacone da litro dell'acqua di colonia che vendevano di contrabbando i marinai della Hamburg American Line e non resistette alla tentazione di assaggiarla in cerca di altri sapori della donna amata. Continuò a bere dal flacone fino all'alba, ubriacandosi di Fermina Daza con sorsi abrasivi, prima nelle locande del porto e poi assorto sul mare dalle scogliere dove facevano amori di consolazione gli innamorati senza tetto, fino a soccombere all'incoscienza. Tránsito Ariza, che lo aveva aspettato fino alle sei di mattina con l'anima ridotta a un filo, lo cercò nei nascondigli più impensati, e poco dopo mezzogiorno lo trovò che si rotolava in una pozza di vomito fragrante in un angolo della baia dove andavano a finire gli affogati.
Approfittò della pausa della convalescenza per rimproverarlo per la passività con cui aspettava la risposta alla lettera. Gli ricordò che i deboli non sarebbero mai entrati nel regno dell'amore, che è un regno inclemente e meschino, e che le donne si concedono solo agli uomini di animo coraggioso perché gli infondono la sicurezza che tanto desiderano per affrontare la vita. Florentino Ariza imparò la lezione forse più del dovuto. Tránsito Ariza non poté nascondere un sentimento d'orgoglio, più concupiscente che materno, quando lo vide uscire dalla merceria con il vestito di panno nero, il cappello duro e il fiocco lirico nel colletto di celluloide, e gli chiese per scherzo se andasse a un funerale. Lui rispose con le orecchie in fiamme: «E' quasi la stessa cosa». Lei si rese conto che a stento respirava di paura, ma la sua determinazione era invincibile. Gli fece gli avvertimenti finali, gli diede la benedizione e morta dal ridere gli promise un'altra bottiglia di acqua di colonia per celebrare insieme la conquista. Da quando aveva consegnato la lettera, un mese prima, aveva rotto spesso la promessa di non tornare al giardinetto, ma era stato molto attento a non farsi vedere. Tutto continuava come prima. La lezione di lettura sotto gli alberi finiva verso le due del pomeriggio, quando la città si svegliava dalla siesta, e Fermina Daza continuava a ricamare con la zia fino a quando diminuiva il caldo. Florentino Ariza non aspettò che la zia entrasse in casa e attraversò la strada con dei passi marziali che gli permisero di superare lo scoraggiamento delle ginocchia. Ma non si rivolse a Fermina Daza, bensì alla zia. «Mi faccia il favore di lasciarmi solo un momento con la signorina» le disse, «ho qualcosa di importante da dirle.»
«Sfacciato!» gli disse la zia. «Non c'è niente di lei che io non possa sentire.»
«Allora non glielo dico» disse lui, «ma l'avverto che lei sarà la responsabile di quello che succederà.»
Non era il modo che Escolástica Daza si aspettava dal fidanzato ideale, ma si alzò spaventata perché per la prima volta ebbe l'impressione sorprendente che Florentino Ariza stesse parlando per ispirazione dello Spirito Santo. Cosicché entrò in casa per cambiare gli aghi e lasciò soli i due giovani sotto i mandorli del cortile. In realtà era molto poco quello che sapeva Fermina Daza di quel pretendente taciturno che era apparso nella sua vita come una rondine d'inverno e di cui non avrebbe conosciuto neanche il nome se non fosse stato per la firma della lettera. Aveva scoperto allora che era il figlio senza padre di una zitella laboriosa e seria, ma segnata senza rimedio dal marchio di fuoco di un unico errore giovanile. Aveva saputo che non era un fattorino del telegrafo, come lei supponeva, ma un assistente ben qualificato con un futuro promettente, e aveva pensato che avesse portato il telegramma a suo padre solo come pretesto per vedere lei. Questa ipotesi la commosse. Sapeva anche che era uno dei musicisti del coro, e anche se non si era mai azzardata ad alzare lo sguardo per verificarlo durante la messa, una domenica aveva avuto la rivelazione che mentre gli altri strumenti suonavano per tutti, il violino suonava solo per lei. Non era il tipo di uomo che avrebbe scelto. I suoi occhialini da trovatello, il suo abito clericale, le sue risorse misteriose le avevano suscitato una curiosità difficile a resistersi, ma non aveva mai immaginato che la curiosità fosse un'altra delle tante insidie dell'amore.
Lei stessa non si spiegava perché avesse accettato la lettera. Non se lo rimproverava, ma l'impegno sempre più incalzante di dare una risposta si era trasformato per lei in un impiccio da vivere. Ogni parola di suo padre, ogni sguardo casuale, i suoi gesti più volgari le sembravano seminati di trappole per scoprire il suo segreto. Era tale il suo stato d'allarme che evitava di parlare a tavola per paura che una disattenzione potesse denunciarla, ed era diventata evasiva perfino con la zia Escolástica, nonostante questa dividesse la sua ansia repressa come se fosse la propria. Si chiudeva in bagno a qualsiasi ora, senza necessità, e rileggeva la lettera cercando di scoprire un codice segreto, una formula magica nascosta in qualcuna delle trecentoquattordici lettere delle sue cinquantotto parole, con la speranza che dicessero più di quel che dicevano. Ma non aveva trovato niente di più di quello che aveva capito alla prima lettura, quando era corsa a chiudersi in bagno col cuore impazzito e aveva strappato la busta con l'illusione che fosse una lettera lunga e febbrile, e aveva trovato solo un biglietto profumato la cui determinazione l'aveva impaurita.
All'inizio non aveva pensato sul serio di essere obbligata a dare una risposta, ma la lettera era così esplicita che non c'era modo di evitarlo. Frattanto, nella tormenta dei dubbi, si era sorpresa a pensare a Florentino Ariza più spesso e con più interesse di quanto volesse permettersi, e si chiedeva perfino, afflitta, perché non era nel giardinetto alla solita ora, senza ricordarsi che era lei che gli aveva chiesto di non tornare finché pensava la risposta. Così aveva finito per pensare a lui come non si era mai immaginata che si potesse pensare a qualcuno, presagendolo dove non stava, desiderandolo dove non poteva essere, svegliandosi improvvisamente con la sensazione fisica che lui la contemplasse nell'oscurità mentre lei dormiva, cosicché il pomeriggio in cui sentì i suoi passi decisi sul rigagnolo di foglie gialle del giardinetto, a stento credette che non fosse un altro scherzo della sua fantasia. Ma quando lui le sollecitò la risposta con un'autorità che non aveva niente a che vedere con la sua delicatezza, lei riuscì a superare la paura e cercò di sottrarsi alla verità: non sapeva cosa rispondergli. Tuttavia, Florentino Ariza non aveva superato un abisso per spaventarsi con gli altri che venivano dopo.
«Se ha accettato la lettera» le disse, «è cattiva educazione non rispondere.»
Questa fu la fine del labirinto. Fermina Daza, padrona di sé, si scusò per il ritardo e gli diede la sua parola formale che avrebbe avuto una risposta prima della fine delle vacanze.
Fu di parola. L'ultimo venerdì di febbraio, tre giorni prima della riapertura delle scuole, la zia Escolástica andò all'ufficio telegrafico a chiedere quanto costava un telegramma per il villaggio di Piedras de Moler, che neanche compariva nell'elenco dei servizi, e si fece servire da Florentino Ariza come se non si fossero mai visti, ma uscendo finse di dimenticare sul banco un breviario rilegato in pelle di lucertola dentro al quale c'era una busta di carta di lino a disegni dorati. Frastornato dalla felicità, Florentino Ariza passò il resto del pomeriggio a mangiare rose e a leggere la missiva ripassandola lettera per lettera più volte e mangiando più rose quanto più la leggeva, e a mezzanotte l'aveva letta tanto e aveva mangiato tante rose che sua madre dovette atterrarlo come un vitello per fargli ingoiare un decotto di olio di ricino.
Fu l'anno dell'innamoramento accanito. Né lui né lei avevano vita per niente che non fosse pensare all'altro, per sognare l'altro, per aspettare le lettere con tanta ansia quanta ne avevano nel rispondere. Mai in quella primavera di delirio, né l'anno dopo, ebbero occasione di parlarsi direttamente a voce. Ma ancora: da quando si erano visti per la prima volta fino a quando lui le ripeté la sua determinazione mezzo secolo dopo, non avevano mai avuto un'opportunità di vedersi da soli né di parlare del loro amore. Ma nei primi tre mesi non passò un solo giorno senza che si scrivessero, e in un certo momento anche due volte al giorno, finché la zia Escolástica si spaventò per la voracità del falò che lei stessa aveva aiutato ad accendere.
Dopo la prima lettera, che aveva portato all'ufficio del telegrafo con uno scrupolo di vendetta contro la propria sorte, aveva permesso lo scambio di messaggi quasi quotidiani in incontri per la strada che sembravano casuali, ma non aveva avuto il coraggio di favorire una conversazione, per banale e momentanea che fosse. Dopo tre mesi, però, capì che la nipote non era alla mercé di una stravaganza giovanile, come le era sembrato all'inizio, e che la sua stessa vita era minacciata da quell'incendio d'amore. In verità Escolástica Daza non aveva altro modo di sussistenza che la carità del fratello e sapeva che il suo carattere tirannico non le avrebbe mai perdonato un simile scherzo ai danni della sua fiducia. Ma al momento della decisione finale non ebbe cuore di provocare alla nipote lo stesso infortunio irreparabile che aveva dovuto pascolare fin dalla gioventù, e le permise di servirsi di una risorsa che le lasciava un'illusione di innocenza. Fu un metodo semplice: Fermina Daza metteva la sua lettera in qualche nascondiglio del percorso quotidiano fra la casa e la scuola e in quella stessa lettera indicava a Florentino Ariza dove si aspettava di trovare la risposta. Florentino Ariza faceva la stessa cosa. In questo modo i conflitti di coscienza della zia Escolástica furono demandati per il resto dell'anno ai battisteri delle chiese, alle cavità degli alberi, alle crepe delle fortezze coloniali in rovina. Certe volte trovavano le lettere bagnate di pioggia, sporche di fango, lacerate dalle avversità, e qualcuna andò persa per vari motivi, ma trovarono sempre il modo per riannodare il contatto. Florentino Ariza scriveva tutte le notti senza pietà neanche nei suoi stessi confronti, avvelenandosi lettera dopo lettera col fumo delle lampade a olio di palma nel retro della merceria, e le sue lettere si facevano sempre più lunghe e lunatiche quanto più si sforzava di imitare i suoi poeti preferiti della Biblioteca Popolare, che già a quell'epoca arrivava intorno agli ottanta volumi. Sua madre, che con tanto ardore lo aveva incitato a svagarsi nel suo tormento, incominciò ad allarmarsi per la sua salute. «Ti rovinerai il cervello» gli gridava dalla camera da letto quando sentiva cantare i primi galli.
«Non esiste donna che meriti tanto.» Perché non ricordava di aver conosciuto nessuno in simile stato di perdizione. Ma lui non le dava retta. A volte arrivava in ufficio senza aver dormito, con i capelli ingarbugliati d'amore, dopo aver lasciato la lettera nel nascondiglio previsto perché Fermina Daza la trovasse andando a scuola. Lei, invece, sottoposta alla vigilanza del padre e allo spionaggio vizioso delle monache, riusciva a malapena a completare mezzo foglio del quaderno di scuola chiusa nei bagni o facendo finta di prendere appunti durante le lezioni. Ma non solo per la fretta e gli spaventi improvvisi, bensì anche per il suo carattere, le sue lettere eludevano qualsiasi scoglio sentimentale e si riducevano a raccontare fatti della sua vita quotidiana con lo stile servizievole di un diario di navigazione. In realtà erano lettere di distrazione, destinate a tenere vive le braci ma senza mettere la mano nel fuoco, mentre Florentino Ariza si inceneriva a ogni riga. Ansioso di contagiarla con la sua stessa follia, le mandava versi da miniaturista incisi con la punta di uno spillo sui petali delle camelie. Fu lui e non lei che ebbe l'audacia di mettere una ciocca dei suoi capelli dentro a una lettera, ma non ricevette mai la risposta desiderata, che era un filo completo della treccia di Fermina Daza. Riuscì quantomeno a fare un passo avanti, perché da allora lei incominciò a mandargli nervature di foglie seccate nei dizionari, ali di farfalla, piume di uccelli magici, e gli regalò per il compleanno un centimetro quadrato dell'abito di San Pedro Claver, di quelli che in quei giorni si vendevano di nascosto a un prezzo irraggiungibile per una scolara della sua età. Una notte, senza nessun preannuncio, Fermina Daza si svegliò spaventata da una serenata di violino solo con un a solo di valzer. La fece trasalire la chiaroveggenza che ogni nota fosse un ringraziamento per i petali dei suoi erbari, per i tempi rubati all'aritmetica per scrivere le sue lettere, per lo spavento degli esami fatti pensando più a lui che alle Scienze Naturali, ma non osò credere che Florentino Ariza fosse capace di una simile imprudenza. La mattina dopo, durante la prima colazione, Lorenzo Daza non riusciva a resistere alla curiosità. Innanzitutto perché non sapeva che cosa significasse un solo pezzo nel linguaggio delle serenate, e poi perché nonostante l'attenzione con cui l'aveva ascoltata non era riuscito a determinare in quale casa fosse stata. La zia Escolástica, con un sangue freddo che ridiede fiato alla nipote, assicurò di aver visto attraverso le tendine della camera da letto che il violinista solitario era dall'altro lato del giardino e disse che in ogni caso un a solo era una notifica di rottura. Nella sua lettera di quel giorno, Florentino Ariza confermò di essere stato lui a fare la serenata, e che il valzer era stato composto da lui e che era intitolato con il nome con cui conosceva Fermina Daza nel suo cuore: "La Dea Incoronata". Non lo risuonò nel giardino, ma era solito eseguirlo nelle notti di luna in luoghi scelti di proposito perché lei lo ascoltasse senza soprassalti nel letto. Uno dei suoi luoghi preferiti era il cimitero dei poveri, esposto al sole e alla pioggia su una collina indigente dove dormivano gli avvoltoi e dove la musica prendeva risonanze soprannaturali. Più tardi imparò a conoscere la direzione dei venti e così fu sicuro che la sua voce arrivasse dove voleva.
Nell'agosto di quell'anno una nuova guerra civile delle tante che rovinavano il paese da più di mezzo secolo minacciò di generalizzarsi e il governo impose la legge marziale e il coprifuoco alle sei del pomeriggio negli stati del litorale del Caribe. Anche se erano già successi alcuni disordini e la truppa commetteva ogni genere di abusi punitivi, Florentino Ariza continuava a essere così perplesso che non aveva notizie dello stato del mondo, e una pattuglia militare lo sorprese un'alba a perturbare la castità dei morti con le sue provocazioni d'amore. Sfuggì per miracolo a un'esecuzione sommaria sotto l'accusa di essere una spia che mandava messaggi in chiave di sol ai battelli liberali che giravano nelle vicinanze.
«Che spia e che cazzo» disse Florentino Ariza, «io non sono altro che un povero innamorato.»
Dormì tre notti incatenato alle caviglie nelle prigioni della guarnigione locale. Ma quando lo liberarono si sentì defraudato dalla brevità della prigionia, e ancora ai tempi della sua vecchiaia, quando tante altre guerre gli si confondevano nella memoria, continuava a pensare di essere stato l'unico uomo della città, e forse del paese, ad aver trascinato ceppi da cinque libbre per motivi amorosi. Stavano per compiersi due anni di scambi frenetici di lettere quando
Florentino Ariza, in una lettera di un solo periodo, fece a Fermina Daza la proposta formale di matrimonio. Nei sei mesi precedenti le aveva mandato spesso una camelia bianca, ma lei gliela rimandava nella lettera successiva, perché non dubitasse che lei era disposta a continuare a scrivergli, ma senza l'obbligo di un impegno. La verità è che aveva sempre preso l'andirivieni della camelia come un divertimento amoroso, e non le era mai successo di prospettarselo come un bivio del suo destino. Ma quando arrivò la proposta formale si sentì straziata dal primo graffio della morte. In preda al panico lo raccontò alla zia Escolástica, e lei prese la decisione con il coraggio e la lucidità che non aveva avuto a vent'anni quando si era vista forzata a decidere sulla propria sorte.
«Rispondigli di sì» le disse. «Anche se stai morendo di paura, anche se dopo te ne pentirai, perché comunque ti pentirai per tutta la vita se gli rispondi di no.»
Fermina Daza, però, era tanto confusa che chiese un po' di tempo per pensarci. Chiese prima un mese, poi un altro e un altro ancora, e quando fu scaduto il quarto mese senza risposta ricevette di nuovo la camelia bianca, ma non sola dentro la busta come le altre volte, bensì con l'intimazione perentoria che questa era l'ultima: o adesso o mai più. Allora fu Florentino Ariza a vedere in faccia la morte, quello stesso pomeriggio, quando ricevette una busta con una striscia di carta strappata dal margine di un quaderno di scuola, e con la risposta scritta a matita su una sola riga: "Va bene, mi sposo con lei se mi promette che non mi farà mangiare melanzane".
Florentino Ariza non era preparato a quella risposta, ma sua madre sì. Da quando lui le aveva parlato per la prima volta della sua intenzione di sposarsi, sei mesi prima, Tránsito Ariza aveva incominciato le pratiche per affittare tutta la casa che finora divideva con altre due famiglie. Era una costruzione civile del diciassettesimo secolo, a due piani, dove c'era stato l'Estanco del Tabaco sotto il dominio spagnolo e i cui proprietari rovinati avevano dovuto affittarla a pezzi per mancanza di fondi per mantenerla. Aveva una parte che dava sulla strada, laddove c'era stata la rivendita, un'altra nel fondo di un patio lastricato dove c'era stata la fabbrica e una scuderia molto grande che gli attuali inquilini usavano in comune per lavare la biancheria e stenderla ad asciugare. Tránsito Ariza occupava la prima parte, che era la più utile e la meglio conservata benché fosse anche
la più piccola. Nell'antica sala di rivendita c'era la merceria, con una porta sulla strada, e a fianco il vecchio deposito senza altra ventilazione che un lucernario, dove dormiva Tránsito Ariza. Il retro era la metà della sala, divisa mediante un paravento di legno. Lì c'era un tavolo con quattro sedie che serviva contemporaneamente per mangiare e per scrivere, ed era lì dove Florentino Ariza attaccava l'amaca quando l'alba non lo sorprendeva ancora intento a scrivere. Era uno spazio buono per loro due, ma insufficiente per una persona in più, e tantomeno per una signorina del Colegio de la Presentación de la Santísima Virgen, il cui padre aveva restaurato fino a farla ridiventare come nuova una casa in rovina, mentre le famiglie con sette nomi andavano a letto con il terrore che i tetti delle case gli cadessero addosso durante il sonno. Di modo che Tránsito Ariza aveva ottenuto che il proprietario le permettesse di occupare anche il portico del patio, a condizione che mantenesse la casa in buono stato per cinque anni.
Aveva soldi per farlo. A parte le entrate reali della merceria e dei lacci emostatici, che le sarebbero bastate per la sua vita modesta, aveva moltiplicato i risparmi prestandoli a una clientela di nuovi poveri vergognosi che accettavano i suoi interessi eccessivi per la sua discrezione. Signore con l'aria da regine scendevano dalle carrozze alla porta della merceria, senza nutrici né domestici scomodi, e fingendo di comprare merletti olandesi e cordoncini di passamaneria impegnavano tra un singhiozzo e l'altro gli ultimi orpelli del loro paradiso perduto. Tránsito Ariza le toglieva dai guai con tanta considerazione per il loro lignaggio, che molte se ne andavano più riconoscenti per l'onore che per il favore. In meno di dieci anni conosceva come se fossero stati suoi i gioielli tante volte riscattati e di nuovo impegnati tra le lacrime, e i guadagni convertiti in oro legale erano sotterrati in un'anfora sotto il letto quando il figlio prese la decisione di sposarsi. Allora fece i conti, e scoprì che non solo poteva tenere in piedi la casa d'altri per cinque anni, ma con la stessa astuzia e un po' più di fortuna forse la poteva comprare prima di morire per i dodici nipoti che desiderava avere. Florentino Ariza, da parte sua, era stato nominato primo aiutante del telegrafo, ad interim, e Lotario Thugut era intenzionato a lasciarlo come capufficio quando se ne fosse andato a dirigere la Scuola di Telegrafia e Magnetismo, prevista per l'anno dopo.
Così, il lato pratico del matrimonio era risolto. Tuttavia Tránsito Ariza credette che fossero prudenti due condizioni finali. La prima, verificare chi fosse in realtà Lorenzo Daza, il cui accento non lasciava dubbi sulla sua origine ma della cui identità e dei cui mezzi di vita nessuno aveva informazioni certe. La seconda, che il fidanzamento fosse lungo perché i fidanzati si conoscessero a fondo per il comportamento personale e che si mantenesse la massima discrezione finché tutti e due si fossero sentiti sicurissimi dei loro affetti. Suggerì di aspettare fino alla fine della guerra. Florentino Ariza fu d'accordo sul segreto assoluto, sia per le ragioni di sua madre sia per l'ermetismo proprio del suo carattere. Fu anche d'accordo sulla durata del fidanzamento, ma i termini gli sembravano irreali dato che in più di mezzo secolo di vita indipendente non c'era stato nel paese neanche un giorno di pace civile.
«Diventeremo vecchi a furia di aspettare» disse.
Il suo padrino, l'omeopata, che partecipava per caso alla conversazione, non credeva che le guerre fossero un inconveniente. Pensava che fossero solo battaglie di poveri frustati come buoi dai signori della guerra contro soldati scalzi frustati dal governo. «La guerra è più su» disse. «Da quando io sono io, nelle città non ci uccidono a colpi d'arma da fuoco ma con i decreti.»
In ogni modo, i particolari del fidanzamento vennero risolti nelle lettere della settimana dopo. Fermina Daza, consigliata dalla zia Escolástica, accettò il termine di due anni e il suo assoluto riserbo, e suggerì che Florentino Ariza chiedesse la sua mano quando lei avesse ultimato la scuola secondaria durante le vacanze di Natale. Solo allora si sarebbero accordati sul modo di formalizzare il compromesso secondo il gradimento che lei avesse ottenuto da suo padre. Nel frattempo continuarono a scriversi con lo stesso ardore e la stessa frequenza ma senza i timori improvvisi di prima, e le lettere a poco a poco deviarono verso un tono familiare che già sembrava da marito e moglie. Nulla turbava i loro sogni.
La vita di Florentino Ariza era cambiata. L'amore corrisposto gli aveva dato una sicurezza e una forza che non aveva mai conosciuto ed era stato così efficiente nel lavoro che Lotario Thugut aveva ottenuto senza sforzo che lo nominassero ovviamente suo secondo. Per adesso, il progetto della Scuola di Telegrafia e Magnetismo era caduto, e il tedesco consacrò il suo tempo libero all'unica cosa che in realtà gli piaceva, che era andarsene al porto a suonare la fisarmonica e bere birra con i marinai, e tutto finiva nella locanda. Passò parecchio tempo prima che Florentino Ariza si rendesse conto che l'influenza di Lotario Thugut in quel luogo di piacere era dovuta al fatto che aveva finito per diventare il padrone dell'impianto, e per di più impresario delle comete del porto. Lo aveva comprato poco alla volta, con i suoi risparmi di parecchi anni, ma chi faceva il prestanome per lui era un omino magro e storto con una testa da spazzolino e un cuore così buono che nessuno capiva come potesse essere un così buon gerente. Ma lo era. Almeno così pareva a Florentino Ariza, quando il gerente gli disse, senza che lui glielo chiedesse, che disponeva di una stanza permanente nella locanda, non solo per risolvere i problemi del basso ventre, quando si fosse deciso ad averli, ma anche perché potesse disporre di un luogo più tranquillo per le sue letture e le sue lettere d'amore. Così, mentre trascorrevano i lunghi mesi che mancavano alla formalizzazione del compromesso, passò più tempo lì che in ufficio e a casa sua, e ci furono periodi in cui Tránsito Ariza non lo vide se non quando andava a cambiarsi d'abito.
La lettura si trasformò per lui in un vizio insaziabile. Da quando gli aveva insegnato a leggere, sua madre gli comprava i libri illustrati degli autori nordici, che si vendevano come favole per bambini ma che in realtà erano i più crudeli e perversi che si potessero leggere a qualsiasi età. Florentino Ariza li recitava a memoria a cinque anni, sia durante le lezioni sia nelle feste della scuola, ma la loro familiarità non lo aveva sollevato dal terrore. Anzi, lo acutizzava. Da lì, il passo alla poesia era stato come un ristagno. Già nella pubertà aveva consumato in ordine di apparizione tutti i volumi della Biblioteca Popolare che Tránsito Ariza gli comprava dai librai d'occasione del Portal de los Escribanos, e nei quali c'era di tutto, da Omero al meno meritevole dei poeti locali. Ma lui non faceva distinzione: leggeva il volume che era arrivato, come un ordine del destino, e non gli bastarono tutti i suoi anni di letture per sapere cosa era buono e cosa non lo era nel molto che aveva letto. L'unica chiarezza che aveva era che fra la prosa e i versi preferiva i versi, e fra questi preferiva quelli d'amore, che imparava a memoria anche senza proporselo dalla seconda volta che li leggeva, con tanta più facilità quanto meglio rimati e misurati e quanto più struggenti erano.
Era stata questa la fonte originale delle prime lettere a Fermina Daza, nelle quali apparivano lunghe conversazioni confidenziali integrali dei romantici spagnoli, e lo era stata finché la vita reale lo aveva obbligato a occuparsi di argomenti più terrestri dei dolori del cuore. Già allora aveva fatto un passo avanti verso i romanzi d'appendice lacrimevoli e altre prose ancora più profane del suo tempo. Aveva imparato a piangere con sua madre leggendo i poeti locali che si vendevano nelle piazze e sulle porte su foglietti da due centesimi. Ma al tempo stesso era capace di recitare a memoria la poesia castigliana più scelta del Secolo d'Oro. In generale leggeva tutto quello che gli capitava fra le mani e nell'ordine in cui gli capitava, fino all'estremo che molto dopo di quei duri anni del suo primo amore, quando non era più giovane, doveva ancora leggere dalla prima all'ultima pagina i venti tomi del "Tesoro della Gioventù", tutto il catalogo dei classici dei Fratelli Garnier, tradotti, e le
opere più facili che pubblicava don Vicente Blasco Ibanez nella collezione "Prometeo".
Comunque, le sue gesta giovanili alla locanda non si ridussero alla lettura e alla redazione di lettere febbrili ma lo iniziarono ai segreti dell'amore senza amore. La vita della casa incominciava dopo mezzogiorno, quando le sue amiche comete si alzavano come le loro madri le avevano partorite, in modo che quando Florentino Ariza arrivava dal lavoro trovava un palazzo popolato da ninfe nude, intente a commentare a gridolini, i segreti della città conosciuti attraverso le infedeltà degli stessi protagonisti. Molte esibivano nelle loro nudità le tracce del passato: cicatrici di pugnalate nel ventre, stelle di ferite d'arma da fuoco, solchi di coltellate d'amore, cuciture di parti cesarei da macellai. Qualcuna durante il giorno si faceva portare i figli piccoli, frutti sfortunati di dispetti o di disattenzioni giovanili, e gli toglievano i vestiti non appena entravano perché non si sentissero diversi nel paradiso della nudità. Ognuna cucinava il suo, e nessuno mangiava meglio di Florentino Ariza quando lo invitavano perché sceglieva il meglio di ognuna. Era una festa quotidiana che durava fino al tramonto, quando le nude sfilavano cantando verso i bagni, si chiedevano in prestito il sapone, lo spazzolino da denti, le forbici, si tagliavano i capelli l'una con l'altra, si vestivano con i vestiti che si erano scambiati, si dipingevano come lugubri pagliacci e uscivano in caccia delle loro prime prede della serata. A partire da quel momento la vita della casa diventava impersonale, disumanizzata, ed era impossibile condividerla senza pagare.
Non c'era un luogo dove Florentino Ariza stesse meglio da quando aveva conosciuto Fermina Daza, perché era l'unico dove non si sentiva solo. Anzi: aveva finito per essere l'unico dove si sentiva con lei. Forse era per gli stessi motivi che viveva lì una donna più vecchia, elegante, con una bella testa argentata, che non partecipava della vita naturale delle nude, e nei confronti della quale queste professavano un rispetto sacramentale. Un fidanzato prematuro l'aveva portata lì quando era giovane, e dopo averla sfruttata per qualche anno l'aveva abbandonata alla sua sorte. Tuttavia, nonostante la sua cattiva reputazione, era riuscita a fare un buon matrimonio. Ormai molto più vecchia, quando era rimasta sola, due figli e tre figlie si erano contesi il piacere di portarla a vivere con loro, ma non aveva trovato un luogo più degno per vivere di quella locanda di tenere impenitenti. La sua stanza permanente era la sua unica casa, e questo fatto l'aveva immediatamente resa identica a Florentino Ariza, del quale diceva che sarebbe arrivato a essere un saggio conosciuto in tutto il mondo perché era capace di arricchire la sua anima con la lettura nel paradiso della lascivia. Florentino Ariza, da parte sua, arrivò a esserle tanto affezionato da aiutarla nelle compere al mercato, e da passare di solito dei pomeriggi a parlare con lei. Pensava che fosse una donna saggia nell'amore, dato che gli aveva dato molti lumi sul suo senza che lui avesse dovuto rivelarle il suo segreto.
Se prima di conoscere l'amore di Fermina Daza non era caduto in tante tentazioni a portata di mano, tantomeno l'avrebbe fatto quando ormai era la sua promessa sposa ufficiale. E così Florentino Ariza conviveva con le ragazze, condivideva i loro piaceri e le loro miserie, ma né a lui né a loro capitava di andare oltre. Un fatto imprevisto dimostrò la severità della sua determinazione. Un giorno, alle sei del pomeriggio, quando le ragazze si vestivano per ricevere i clienti
della sera, entrò nella sua stanza l'incaricata della pulizia del piano: una donna giovane ma precocemente invecchiata e macilenta, come una penitente vestita nella gloria delle nude. Lui la vedeva tutti i giorni senza sentirsi visto: girava per le stanze con le scope, un secchio per la spazzatura e uno straccio speciale per raccogliere da terra i preservativi usati. Era entrata nella stanzetta dove
Florentino Ariza leggeva, come sempre, e come sempre aveva scopato con una cura estrema per non disturbarlo. D'un tratto era passata vicino al letto, e lui aveva sentito la mano tiepida e tenera al centro del suo ventre, l'aveva sentita cercarlo, l'aveva sentita trovarlo, l'aveva sentita sbottonarlo mentre il suo respiro riempiva sempre di più la stanza. Lui aveva fatto finta di leggere finché non ce l'aveva fatta più e aveva dovuto sottrarre il corpo.
Lei si era spaventata, perché il primo avvertimento che le avevano fatto nel darle il lavoro di donna delle pulizie era stato quello di non tentare di andare a letto con i clienti. Non avrebbero dovuto neanche dirglielo, perché era di quelle che pensavano che la prostituzione non era andare a letto per soldi, ma andare a letto con gente sconosciuta. Aveva due figli, ognuno da un marito diverso, e non perché fossero avventure casuali ma perché non era riuscita a amare uno che era tornato dopo la terza volta. Fino ad allora era stata una donna senza urgenze, preparata per natura ad aspettare senza disperare, ma la vita di quella casa era più forte delle sue virtù. Entrava a lavorare alle sei del pomeriggio, e passava tutta la notte di stanza in stanza, spazzandole con quattro colpi di scopa, raccogliendo i preservativi, cambiando le lenzuola. Non era facile immaginare la quantità di cose che lasciavano gli uomini dopo l'amore. Lasciavano vomiti e lacrime, cosa che le pareva comprensibile, ma lasciavano anche molti enigmi dell'intimità: pozze di sangue, schizzi di escrementi, occhi di vetro, orologi d'oro, dentiere, reliquiari con riccioli dorati, lettere d'amore, di affari, di condoglianze: lettere di ogni genere. Qualcuno tornava per le sue cose perdute, ma nella maggior parte restavano lì, e Lotario Thugut le metteva sotto chiave, pensando che presto o tardi quel palazzo caduto in disgrazia, con le migliaia di oggetti personali dimenticati, sarebbe diventato un museo dell'amore.
Il lavoro era duro e mal pagato, ma lei lo sapeva bene. Quello che non riusciva a sopportare erano i singhiozzi, i lamenti, gli scricchiolii delle molle dei letti che le andavano sedimentandosi nel sangue con tanto ardore e tanto dolore che all'alba non ce la faceva più a resistere alla voglia di andare a letto col primo mendicante che avesse incontrato per la strada o con un ubriaco perso che le avesse fatto il favore senza altre pretese né domande. La comparsa di un uomo senza donne come Florentino Ariza, giovane e pulito, era stata per lei un dono del cielo, perché fin dal primo momento si era resa conto che era uguale a lei: un bisognoso d'amore. Ma lui rimase insensibile alle sue sollecitazioni. Si era mantenuto vergine per Fermina Daza, e non esisteva forza né ragione a questo mondo che potesse farlo deviare dal proposito.
Quella era la sua vita, quattro mesi prima della data prevista per formalizzare il compromesso, quando Lorenzo Daza comparve alle sette di mattina all'ufficio del telegrafo e chiese di lui. Siccome non era ancora arrivato, lo aspettò seduto sulla panca fino alle otto e dieci, togliendosi da un dito e infilandolo in un altro il pesante anello d'oro sormontato da un opale chiaro, e quando lo vide entrare lo riconobbe subito come l'impiegato del telegrafo, e lo prese per un braccio.
«Venga con me, giovanotto» gli disse. «Lei e io dobbiamo parlare cinque minuti, da uomo a uomo.»
Florentino Ariza, verde come un morto, si lasciò condurre. Non era preparato a questo incontro, perché Fermina Daza non aveva trovato l'occasione né il modo di avvisarlo. Il caso era che il sabato prima, la sorella Franca de la Luz, superiora del Colegio de la Presentación de la Santísima Virgen, era entrata durante la lezione di Nozioni di Cosmogonia silenziosa come un serpente e spiando le alunne da sopra le spalle aveva scoperto che Fermina Daza faceva finta di prendere appunti sul quaderno mentre in realtà stava scrivendo una lettera d'amore. La mancanza, in ossequio ai regolamenti della scuola, era motivo di espulsione. Chiamato d'urgenza in rettorato, Lorenzo Daza aveva scoperto la fessura attraverso la quale se ne stava scorrendo via il suo regime di ferro. Fermina Daza, con la sua onestà innata, aveva ammesso la colpa della lettera ma si era rifiutata di rivelare l'identità del fidanzato segreto, e aveva continuato a negare davanti
al Tribunale dell'Ordine che per questo motivo aveva confermato il verdetto di espulsione. Il padre, però, aveva perquisito la camera da letto, che fino a quel momento era stata un santuario inviolabile, e in un doppio fondo del baule aveva trovato i pacchetti di tre anni di lettere, nascoste con tanto amore quanto quello con cui erano state scritte. La firma era inequivocabile, ma Lorenzo Daza non poté credere né allora né mai che la figlia non sapesse del suo fidanzato nascosto nient'altro che la sua attività di telegrafista e il suo amore per il violino.
Convinto che una relazione così difficile fosse comprensibile solo con la complicità della sorella, non le concedette neanche la grazia di una discolpa, ma la imbarcò senza appello sulla goletta di San Juan de la Ciénaga. Fermina Daza non si rimise mai dal suo ultimo ricordo, il pomeriggio in cui la salutò sul portone mentre bruciava di febbre dentro al suo vestito grigio, ossuta e cenerentola, e la vide sparire nella pioggerellina del giardinetto con le uniche cose che le restavano nella vita: il bagaglio da zitella e il denaro per sopravvivere un mese avvolto in un fazzoletto dentro al pugno. Non appena si liberò dall'autorità paterna la fece cercare nelle province del Caribe, chiedendo informazioni su di lei a chiunque avesse potuto conoscerla, e non trovò nessuna notizia delle sue tracce fino a quasi trent'anni dopo quando ricevette una lettera che era passata da molte mani per parecchio tempo e nella quale la informavano che era morta quasi centenaria nel lazzaretto di Agua de Dios. Lorenzo Daza non aveva previsto la ferocia con la quale la figlia avrebbe reagito al castigo ingiusto di cui fu vittima la zia Escolástica, che aveva identificato sempre con la madre che a stento ricordava. Si chiuse a chiave in camera sua senza mangiare e bere, e quando lui riuscì alla fine a farsi aprire, prima con minacce e poi con suppliche mal dissimulate, trovò una pantera ferita che non sarebbe mai più ritornata a avere quindici anni.
Cercò di sedurla con ogni tipo di lusinghe. Cercò di farle capire che l'amore alla sua età era un miraggio, cercò di convincerla con le buone a rimandare indietro le lettere e ritornare alla scuola a chiedere perdono in ginocchio, e le diede la sua parola d'onore che sarebbe stato il primo ad aiutarla a essere felice con un degno pretendente. Ma era come parlare a un morto. Sconfitto, finì per perdere le staffe durante il pranzo di lunedì, e mentre si soffocava di improperi e di bestemmie al limite della commozione cerebrale lei si mise il coltello da carne contro il collo, senza drammaticità ma con polso fermo, e con degli occhi attoniti che lui non osò sfidare. Fu allora che si assunse il rischio di parlare cinque minuti, da uomo a uomo, con l'infausto avventuriero che non ricordava di avere mai visto e che in così cattivo frangente si era messo di traverso nella sua vita. Per pura abitudine aveva preso il revolver prima di uscire ma aveva avuto la precauzione di nasconderlo sotto la camicia. Florentino Ariza non aveva ancora ripreso fiato quando Lorenzo Daza lo portò tenendolo per il braccio per Piazza della Cattedrale fino alla galleria ad archi del Caffè della Parrocchia e lo invitò a sedersi sulla terrazza. Non c'erano altri clienti a quell'ora, e una matrona negra strofinava le piastrelle dell'enorme salone a vetrate scheggiate e polverose le cui sedie erano ancora a gambe all'aria sui tavoli di marmo. Florentino Ariza aveva visto spesso lì Lorenzo Daza a giocare e a bere vino sfuso con gli asturiani del mercato pubblico, mentre si accapigliavano urlando per altre guerre croniche che non erano le nostre. Spesso, cosciente del fatalismo dell'amore, si chiedeva come sarebbe stato l'incontro che presto o tardi avrebbe avuto con lui e che nessun potere umano avrebbe potuto impedire perché era scritto da sempre nel destino di tutti e due. Lo immaginava come una discussione disuguale, non solo perché Fermina Daza lo aveva avvisato nelle lettere sul carattere impetuoso di suo padre ma perché lui stesso aveva notato che i suoi occhi sembravano collerici anche quando rideva smodatamente al tavolo da gioco. Tutto in lui era un tributo alla grossolanità: la pancia ignobile, il parlare enfatico, le basette da lince, le mani rozze con l'anulare soffocato dalla montatura dell'opale. Il suo unico tratto che inteneriva, che Florentino Ariza aveva riconosciuto dalla prima volta che lo aveva visto camminare, era che aveva la stessa andatura da cerva della figlia. Tuttavia, quando gli indicò la sedia per sedersi non lo trovò così aspro come sembrava, e riprese fiato quando lo invitò a bersi un bicchierino di "anisado". Florentino Ariza non lo aveva mai bevuto alle otto di mattina, ma accettò di buon grado perché ne aveva urgente necessità.
Lorenzo Daza, in effetti, non tardò più di cinque minuti per dire le sue ragioni, e lo fece con una sincerità disarmante che finì col confondere Florentino Ariza. Dopo la morte di sua moglie si era imposto il solo scopo di fare della figlia una gran signora. Il cammino era lungo e incerto per un commerciante di mule che non sapeva né leggere né scrivere e la cui reputazione di ladro di bestiame non era tanto provata quanto molto diffusa nella provincia di San Juan de la Ciénaga. Si accese un sigaro di tabacco nero, e si lamentò: «L'unica cosa peggiore della cattiva salute è la cattiva fama». Tuttavia, disse, il vero segreto della sua fortuna era che nessuna delle sue mule lavorava tanto e con tanta determinazione quanto lui stesso, anche nei tempi più duri delle guerre, quando i villaggi rimanevano in cenere e i campi devastati. Anche se la figlia non era mai stata al corrente della premeditazione del suo destino, si comportava come un complice entusiasta. Era intelligente e metodica, fino al punto da insegnare al padre a leggere così rapidamente come aveva imparato lei, e a dodici anni aveva un dominio della realtà che le sarebbe bastato per dirigere la casa senza bisogno della zia Escolástica. Sospirò: «E' una mula d'oro». Quando la figlia aveva finito la scuola elementare, col massimo dei voti e con la menzione d'onore alla cerimonia di chiusura, lui aveva capito che l'ambiente di San Juan de la Ciénaga stava stretto alle sue illusioni. Allora aveva liquidato terre e animali e si era trasferito con nuovo impeto e settantamila "pesos" d'oro in questa città in rovina e con le sue glorie tarlate, ma dove una donna bella ed educata all'antica aveva ancora la possibilità di rinascere con un matrimonio fortunato. L'irruzione di Florentino Ariza era stata un intoppo imprevisto in quel piano accanito. «Per cui sono venuto a pregarla di una cosa» disse Lorenzo Daza. Bagnò la punta del sigaro nell'"anisado", gli diede una tirata senza fumo, e concluse con voce afflitta:
«Si tolga dal nostro cammino.» Florentino Ariza lo aveva ascoltato bevendo a piccoli sorsi l'acquavite di anice, ed era così assorto nella rivelazione del passato di Fermina Daza da non essersi chiesto nemmeno che cosa avrebbe detto quando avesse dovuto parlare. Ma arrivato il momento si accorse che qualunque cosa avesse detto avrebbe compromesso il suo destino.
«Ha parlato con lei?» domandò.
«Questo non la riguarda» disse Lorenzo Daza.
«Glielo chiedo» disse Florentino Ariza, «perché mi pare che sia lei che deve decidere.»
«Neanche per sogno» disse Lorenzo Daza, «questa è una cosa da uomini e si sistema tra uomini.»
Il tono si era fatto minaccioso, e un cliente di un tavolo vicino si voltò a guardarli. Florentino Ariza parlò a voce più bassa ma con la decisione più imperiosa di cui fu capace:
«In ogni modo» disse, «non posso rispondere niente senza sapere che cosa pensa lei. Sarebbe un tradimento.»
Allora Lorenzo Daza si appoggiò alla spalliera della sedia con le palpebre arrossate e umide, e l'occhio sinistro girò nella sua orbita e rimase storto verso l'esterno. Anche lui abbassò il tono di voce.
«Non mi costringa a spararle» disse.
Florentino Ariza sentì gli intestini riempirsi di una schiuma fredda. Ma la voce non gli tremò perché anche lui si sentì illuminato dallo Spirito Santo.
«Lo faccia» disse con la mano sul petto. «Non c'è maggior gloria che morire per amore.»
Lorenzo Daza dovette guardarlo di lato, come i pappagalli, per trovarlo con l'occhio storto. Non pronunciò le tre parole ma sembrò che le scolpisse sillaba per sillaba:
«Fi-glio-di-put-ta-na!»
Quella stessa settimana si portò la figlia nel viaggio dell'oblio. Non le diede nessuna spiegazione, ma irruppe nella camera da letto con i baffi sporchi per la collera mescolata con il tabacco masticato e le ordinò di fare i bagagli. Lei gli chiese dove andavano e lui rispose: «Alla morte». Terrorizzata da quella risposta troppo simile alla verità, cercò di affrontarlo con il coraggio dei giorni precedenti, ma lui si tolse il cinturone con la fibbia di rame massiccio, se lo arrotolò intorno al pugno e diede sul tavolo una cinghiata che risuonò nella casa come una fucilata. Fermina Daza conosceva molto bene i limiti e il momento della sua forza, cosicché fece un bagaglio con due stuoie e un'amaca, e due bauli grandi con tutti i suoi vestiti, sicura che fosse un viaggio senza ritorno. Prima di vestirsi si chiuse nel bagno e riuscì a scrivere a Florentino Ariza una breve lettera di addio su un foglietto strappato dal rotolo di carta igienica. Poi con le forbici per potare si tagliò tutta la treccia fin dalla nuca, l'avvolse dentro un astuccio di velluto ricamato con fili d'oro e la mandò insieme alla lettera.
Fu un viaggio folle. Solo la tappa iniziale in una carovana di mulattieri andini durò undici giorni a dorso di mula su per le cornici della Sierra Nevada, abbrutiti da un sole terso o bagnati dalle piogge orizzontali di ottobre, e quasi sempre col fiato sospeso dal vapore soporifero dei precipizi. Al terzo giorno di cammino, una mula impazzita per i tafani precipitò con il suo cavaliere e trascinò tutta la cordata, e l'urlo dell'uomo e del suo grappolo di sette animali legati fra loro continuava a riecheggiare per passi e dirupi molte ore dopo l'incidente, e continuò a risuonare per anni e anni nella memoria di Fermina Daza. Tutto il suo bagaglio precipitò con le mule, ma nell'istante di secoli che durò la caduta finché si estinse sul fondo il grido di terrore, lei non pensò al povero mulattiere morto né alla fila di bestie fatta a pezzi ma alla disgrazia che la sua stessa mula non fosse legata anch'essa alle altre.
Era la prima volta che montava, ma il terrore e le incalcolabili penurie del viaggio non le sarebbero sembrati così amari se non fosse stato per la certezza che non avrebbe mai più visto Florentino Ariza e non avrebbe avuto il conforto delle sue lettere. Fin dall'inizio del viaggio non aveva rivolto la parola a suo padre, e lui era così confuso che le parlava solo nei casi indispensabili o le mandava dei messaggi attraverso i mulattieri. Quando ebbero miglior sorte si imbatterono in qualche locanda sulla strada dove servivano cibi di montagna che lei si rifiutava di mangiare, e gli affittavano letti di
tela penetrati da sudori e urine irrancidite. Più spesso, comunque, passavano la notte in accampamenti di indios, dormitori pubblici all'aria aperta costruiti sul margine delle piste con file di pali di sostegno e tetti di palma dura, dove chiunque arrivava aveva diritto a fermarsi fino all'alba. Fermina Daza non riuscì a dormire una notte intera, sudando di paura, sentendo nell'oscurità il tramestio dei viaggiatori silenziosi che legavano le loro bestie ai pali e attaccavano le amache dove potevano.
All'imbrunire, quando arrivavano i primi, il posto era sgombro e tranquillo, ma quando spuntava l'alba era trasformato in una piazza da fiera, con un affastellamento di amache attaccate a diversi livelli, e "aruacos (2) della sierra che dormivano coccoloni, e la rabbia delle capre legate e il chiasso dei galli da combattimento nei loro cesti da faraoni, e il mutismo ansante dei cani di montagna addestrati a non latrare per i pericoli della guerra. Quelle penurie erano familiari a Lorenzo Daza, che per mezza vita aveva trafficato nella zona, e quasi sempre all'alba incontrava vecchi amici. Per la figlia era un'agonia perpetua. Il fetore dei carichi di pesce salato, aggiunto all'inappetenza stessa del rimpianto, finirono per sciuparle l'abitudine di mangiare, e se non impazzì di disperazione fu perché trovò sempre un sollievo nel ricordo di Florentino Ariza. Non dubitò che quella fosse la terra dell'oblio.
Un altro terrore costante era quello della guerra. Fin dall'inizio del viaggio si era parlato del pericolo di incontrare gruppi di sbandati, e i mulattieri li avevano istruiti sui diversi modi di sapere da che parte stavano per comportarsi di conseguenza. Era frequente incontrare un gruppo di soldati a cavallo, comandati da un ufficiale, che faceva la leva di nuove reclute prendendole al laccio come torelli in piena corsa. Spossata da tanti orrori, Fermina Daza aveva dimenticato quello che le sembrava più leggendario che imminente, finché una notte una pattuglia non ben identificata sequestrò due membri della carovana e li appese a un albero a mezza lega dall'accampamento. Lorenzo Daza non aveva niente a che vedere con loro, ma li fece staccare e diede loro cristiana sepoltura come ringraziamento per non aver corso uguale sorte. Non era per altro. Gli assalitori lo avevano svegliato con una canna di fucile nel ventre e un comandante stracciato con la faccia dipinta di nerofumo, illuminandolo con una lampada, gli aveva chiesto se era liberale o conservatore.
«Né l'uno né l'altro» aveva detto Lorenzo Daza. «Sono un suddito spagnolo.»
«Che fortuna!» aveva detto il comandante, e si era congedato da lui con la mano alzata: «Viva il re!».
Due giorni dopo scesero nella pianura luminosa dove c'era l'allegro villaggio di Valledupar. C'erano lotte di galli nei patios, musiche di fisarmonica agli angoli delle strade, cavalieri su cavalli di buon sangue, razzi e campane. Stavano montando un castello pirotecnico. Fermina Daza non si accorse nemmeno della festa. Alloggiarono in casa dello zio Lisímaco Sánchez, fratello di sua madre, che era uscito ad accoglierli sulla strada maestra a capo di una rumorosa cavalcata di parenti giovani che montavano le bestie di razza migliore di tutta la provincia, e li avevano guidati per le strade del villaggio in mezzo al fragore dei fuochi artificiali. La casa dava sulla Piazza Grande, vicino alla chiesa coloniale, e sembrava una fattoria di campagna per le stanze ampie e ombrose e il corridoio che odorava di succo di canna caldo di fronte a un orto di alberi da frutta.
Non appena smontarono nelle scuderie, i saloni da ricevimento furono invasi da parecchi parenti sconosciuti che davano fastidio a Fermina Daza con le loro insopportabili effusioni, perché non poteva amare più nessun altro a questo mondo, arrossata per il cammino a cavallo, morta di sonno e con la diarrea, e l'unica cosa che desiderava ardentemente era un luogo solitario e quieto dove poter piangere. Sua cugina Hildebranda Sánchez, di due anni maggiore di lei e con la sua stessa alterigia imperiale, fu l'unica a capire il suo stato fin da quando la vide per la prima volta, perché anche lei si consumava nelle braci di un amore temerario. All'imbrunire la portò nella camera da letto che aveva preparato per dividere con lei e non riuscì a capire come fosse ancora viva con le ulcere infuocate delle sue natiche. Aiutata da sua madre, una donna molto dolce e così somigliante al marito come se fossero gemelli, le preparò un bagno e le mitigò gli ardori con compresse di arnica, mentre il fragore del castello pirotecnico scuoteva le fondamenta della casa.
Verso mezzanotte le visite se ne andarono, la festa pubblica si scompose in varie braci disperse, e la cugina Hildebranda prestò a Fermina Daza una camicia lunga di madapolam per dormire e la aiutò a coricarsi in un letto dalle lenzuola terse e cuscini di piume che immediatamente le infusero il panico istantaneo della felicità. Quando infine rimasero sole nella camera da letto, chiuse la porta a chiave e tirò fuori da sotto la stuoia del suo letto una busta di carta di Manila sigillata con la ceralacca con gli emblemi del Telegrafo Nazionale. A Fermina Daza bastò vedere l'espressione di malizia raggiante della cugina per far tornare nella memoria del suo cuore l'odore concentrato delle gardenie bianche, prima di sminuzzare il sigillo di ceralacca con i denti e di rimanere a sguazzare fino all'alba nel pantano di lacrime degli undici telegrammi illegali. Allora lo seppe. Prima di intraprendere il viaggio Lorenzo Daza aveva commesso l'errore di annunciarlo per telegrafo a suo cognato Lisímaco Sánchez, e questo a sua volta aveva mandato la notizia alla sua vasta e intricata parentela, disseminata in parecchi villaggi e luoghi della provincia. Così Florentino Ariza non solo aveva potuto scoprire l'itinerario completo, ma aveva stabilito una lunga fratellanza di telegrafisti per seguire le tracce di Fermina Daza fino all'ultimo accampamento del Cabo de la Vela. Questo gli permise di mantenere con lei una comunicazione intensa da quando arrivò a Valledupar, dove rimase tre mesi, fino al termine del viaggio a Riohacha, un anno e mezzo dopo, quando Lorenzo Daza diede per scontato che la figlia avesse finalmente dimenticato e decise di tornare a casa. Forse lui stesso non era conscio di quanto si fosse allentata la sua vigilanza, distratto com'era dalle lusinghe dei parenti politici, che dopo tanti anni avevano messo da parte i loro pregiudizi tribali e lo avevano accettato a cuore aperto come uno di loro. La visita fu una riconciliazione tardiva, anche se non era stato questo l'intento. In effetti, la famiglia di Fermina Sánchez si era opposta a ogni costo che lei si sposasse con un immigrante senza origini, chiacchierone e bruto, che era sempre in giro con un traffico di mule di montagna che sembrava troppo semplice per essere pulito. Lorenzo Daza giocava il tutto per tutto perché quella cui aspirava era la più pregiata di una famiglia tipica della regione: una tribù confusa di donne animose e di uomini dal cuore tenero e dal grilletto facile, turbati fino alla demenza dal senso dell'onore. Tuttavia Fermina Sánchez si era fissata nel suo capriccio con la determinazione cieca degli amori contrastati, e si era sposata con lui a dispetto della famiglia, con tanta fretta e tanti misteri da dare l'impressione di farlo non per amore ma per coprire con un manto sacramentale qualche disattenzione prematura. Venticinque anni dopo, Lorenzo Daza non si rendeva conto che la sua intransigenza con gli innamoramenti della figlia era una ripetizione viziosa della sua stessa storia e si lamentava della sua disgrazia davanti agli stessi cognati che si erano opposti a lui come questi si erano lamentati a loro volta davanti ai loro. Tuttavia, il tempo che perdeva a lamentarsi lo guadagnava la figlia nei suoi amori. Così, mentre lui andava castrando torelli e domando mule nelle terre avventurose dei suoi cognati, lei passeggiava a briglia sciolta in una folla di cugine comandate da Hildebranda Sánchez, la più bella e servizievole, la cui passione senza futuro per un uomo di vent'anni più vecchio di lei si rassegnava a sguardi furtivi.
Dopo la prolungata sosta a Valledupar proseguirono il viaggio per i contrafforti della sierra attraverso praterie fiorite e altipiani di sogno, e in tutti i villaggi furono ricevuti come nel primo, con musiche e petardi, e con nuove cugine complici e puntuali messaggi telegrafici. Ben presto Fermina Daza si rese conto che il pomeriggio del suo arrivo a Valledupar non era stato diverso, ma che in quella provincia fertile si vivevano tutti i giorni della settimana come se fossero di festa. I visitanti dormivano dove li sorprendeva la notte e mangiavano dove li trovava la fame, perché erano case con le porte aperte dove c'era sempre un'amaca attaccata e un bollitore di tre tipi di carne che cuoceva sul fuoco nel caso che qualcuno arrivasse prima del suo telegramma d'avviso, come succedeva quasi sempre. Hildebranda Sánchez accompagnò la cugina nel resto del viaggio guidandola con polso allegro attraverso i gineprai del sangue fino alle sue fonti d'origine. Fermina Daza si riconobbe, si sentì padrona di se stessa per la prima volta, si sentì accompagnata e protetta, con i polmoni pieni di un'aria di libertà che le restituì la calma e la voglia di vivere. Perfino nei suoi ultimi anni di vita evocava quel viaggio, ogni volta più recente nella memoria, con la lucidità perversa della nostalgia.
Una sera ritornò dal passeggio quotidiano stordita dalla rivelazione che si poteva essere felice non solo senza amore ma anche contro l'amore. La rivelazione l'allarmò perché una delle sue cugine aveva sorpreso una conversazione dei suoi genitori con Lorenzo Daza in cui lui aveva suggerito l'idea di concertare il matrimonio di sua figlia con l'unico erede della fortuna favolosa di Cleofás Moscote. Fermina Daza lo conosceva. Lo aveva visto caracollare nelle piazze con i suoi cavalli perfetti, con gualdrappe così ricche da sembrare paramenti da messa, ed era elegante e esperto, e aveva delle ciglia da sognatore che facevano sospirare i sassi, ma lei lo paragonò al suo ricordo di Florentino Ariza seduto sotto i mandorli del giardinetto, povero e smorto, con il libro di versi in grembo, e non trovò nel suo cuore neanche un'ombra di dubbio.
In quei giorni, Hildebranda Sánchez andava delirando di illusioni dopo aver fatto visita a una maga la cui chiaroveggenza l'aveva spaventata. Atterrita dalle intenzioni di suo padre, anche Fermina Daza andò a consultarla. Le carte le annunciarono che nel suo avvenire non c'era nessun ostacolo a un matrimonio lungo e felice, e quella profezia le ridiede fiato, perché non concepiva che un destino così fortunato potesse essere con un uomo diverso da quello che amava. Esaltata da questa certezza, prese dunque il comando della sua volontà. Fu così che la corrispondenza telegrafica con Florentino Ariza smise di essere un concerto di intenzioni e di promesse illusorie, e si fece metodica e pratica, e più intensa che mai. Fissarono date, stabilirono modi, impegnarono le loro vite nella determinazione comune di sposarsi senza chiedere consiglio a nessuno, dove fosse e come fosse, non appena fossero tornati a incontrarsi. Fermina Daza considerava così severo questo impegno che la sera in cui suo padre le diede il permesso di partecipare al suo primo ballo da adulti, nel villaggio di Fonseca, a lei non parve decente accettarlo senza il consenso del suo promesso. Florentino Ariza era quella sera alla locanda a giocare a carte con Lotario Thugut quando lo avvisarono che aveva una chiamata telegrafica urgente.
Era il telegrafista di Fonseca, che aveva allacciato sette stazioni intermedie perché Fermina Daza potesse chiedere il permesso di assistere al ballo. Ma una volta che l'ebbe ottenuto non si accontentò della semplice risposta affermativa, e chiese una prova che fosse effettivamente Florentino Ariza quello che stava usando il trasmettitore all'altro capo della linea. Più stupito che lusingato, lui compose una frase di identificazione: "Dille che glielo giuro per la dea incoronata". Fermina Daza riconobbe la parola d'ordine, e rimase al suo primo ballo di adulti fino alle sette di mattina quando dovette cambiarsi al volo per non arrivare tardi a messa. A quell'epoca aveva sul fondo del baule più lettere e telegrammi di quanti gliene avesse portati via suo padre, e aveva imparato a comportarsi con i modi di una donna sposata. Lorenzo Daza interpretò quei cambiamenti del suo modo di essere come un'evidenza che la distanza e il tempo l'avessero ristabilita dalle sue fantasie giovanili ma non le prospettò mai il progetto del matrimonio combinato. I loro rapporti si fecero fluidi, all'interno delle riserve formali che lei gli aveva imposto dopo la cacciata della zia Escolástica, e questo permise loro una convivenza così comoda che nessuno avrebbe dubitato del fatto che era fondata sull'affetto. Fu in quell'epoca che Florentino Ariza decise di raccontarle nelle sue lettere di essersi impegnato a recuperare per lei il tesoro del galeone sommerso. Ne era sicuro, e gli era venuto come un soffio di ispirazione in un pomeriggio luminoso in cui il mare sembrava acciottolato di alluminio per la quantità di pesci portati a galla dal verbasco (3). Tutti gli uccelli del cielo si erano agitati per la mattanza, e i pescatori dovevano scacciarli con i remi perché non gli disputassero i frutti di quel miracolo proibito. L'uso del verbasco, che addormentava solo i pesci, era sancito dalla legge dai tempi della Colonia, però aveva continuato a essere una pratica comune in pieno giorno fra i pescatori del Caribe finché venne sostituito dalla dinamite. Uno dei divertimenti di Florentino Ariza, mentre continuava il viaggio di Fermina Daza, era guardare dalle scogliere come i pescatori caricassero le loro canoe con le enormi reti di pesci addormentati. Nello stesso tempo, una combriccola di ragazzini che nuotavano come pescecani chiedevano ai curiosi di gettare delle monete da recuperare in fondo al mare. Erano gli stessi che uscivano a nuoto con lo stesso proposito incontro ai transatlantici e sui quali erano
state scritte tante cronache di viaggio negli Stati Uniti e in Europa per la loro maestria nell'arte di nuotare sott'acqua. Florentino Ariza li conosceva da sempre, ancora prima dell'amore, ma non gli era mai capitato di pensare che forse erano capaci di riportare a galla la fortuna del galeone. Gli capitò quel pomeriggio, e dalla domenica seguente fino al ritorno di Fermina Daza, quasi un anno dopo, ebbe un motivo in più di delirio.
Euclides, uno dei bambini nuotatori, si agitò come lui all'idea di un'esplorazione sottomarina, dopo aver parlato non più di dieci minuti. Florentino Ariza non gli rivelò la verità della sua impresa finché non si informò a fondo sulle sue qualità di nuotatore sottomarino e di navigante. Gli chiese se potesse scendere senz'aria a venti metri di profondità, ed Euclides disse di sì. Gli chiese se fosse capace di portare da solo una canoa da pescatore in mare aperto in mezzo a una burrasca, senza altri strumenti che l'istinto, ed Euclides disse di sì. Gli chiese se sarebbe stato capace di localizzare un posto preciso a sedici miglia marine a nordest dell'isola più grande dell'arcipelago di Sotavento, ed Euclides disse di sì. Gli chiese se fosse capace di navigare di notte orientandosi con le stelle, ed Euclides disse di sì. Gli chiese se fosse disposto a farlo per la stessa paga diaria che gli pagavano i pescatori per aiutarli a pescare, ed Euclides gli disse di sì, ma con un aumento di cinque "reales" la domenica. Gli chiese se sapesse difendersi dagli squali, ed Euclides gli disse di sì, che aveva artifici magici per tenerli lontani. Gli chiese se fosse capace di tenere un segreto anche se lo avessero messo sotto tortura con le macchine del palazzo dell'Inquisizione, ed Euclides gli disse di sì, perché non diceva di no a niente, e sapeva dire di sì con tanta proprietà che non c'era modo di metterlo in dubbio. Alla fine fece il conto delle spese: l'affitto della canoa, l'affitto del remo, l'affitto di una rete perché nessuno sospettasse la verità delle sue scorrerie. Bisognava, inoltre, portare da mangiare, un grosso recipiente di acqua dolce, una lampada a olio, un mazzo di candele di sego e un corno da cacciatore per chiedere aiuto in caso d'emergenza.
Aveva sui dodici anni, ed era rapido e furbo, e un chiacchierone instancabile, con un corpo da anguilla che pareva fatto per passare strisciando attraverso un occhio di bue. Le intemperie gli avevano abbronzato la pelle a un punto tale che era impossibile immaginare il suo colore originale, e questo faceva sembrare più splendenti i suoi grandi occhi gialli. Florentino Ariza decise immediatamente che era il complice perfetto per un'avventura di tale portata, e vi diedero inizio senza ulteriori formalità la domenica successiva.
Salparono dal porto dei pescatori all'alba, ben provvisti e meglio disposti. Euclides quasi nudo, solo con lo straccio intorno ai fianchi che portava sempre, e Florentino Ariza con la finanziera, il cappello da tenebroso, gli stivaletti lucidi e il fiocco da poeta al collo, e un libro per passare il tempo durante la traversata fino alle isole. Dalla prima domenica si rese conto che Euclides era un abile marinaio quanto un buon sommozzatore, e che aveva una pratica meravigliosa della natura del mare e dei rifiuti della baia. Poteva raccontare con i particolari più impensati la storia di ogni scafo di bastimento tarlato dall'ossido, conosceva l'età di ogni boa, l'origine di qualsiasi rottame, il numero di anelli della catena con cui gli spagnoli chiudevano l'entrata della baia. Temendo che sapesse anche quale era l'intento della sua spedizione, Florentino Ariza gli fece qualche domanda astuta, e così capì che Euclides non aveva il minimo sospetto del galeone affondato.
Da quando aveva sentito per la prima volta il racconto del tesoro nella locanda, Florentino Ariza si era informato per quanto possibile sulle consuetudini dei galeoni. Aveva saputo che il "San José" non era solo sul fondale di coralli. In effetti, era la nave insegna della Flota de Tierra Firme, ed era arrivata qui dopo il maggio 1708 proveniente dalla fiera leggendaria di Portobello, a Panama, dove aveva caricato parte della sua fortuna: trecento bauli con argento del Perù e Veracruz, e centodieci bauli di perle raccolte e contate nell'isola di Contadora. Durante il lungo mese che era rimasto qui, i cui giorni e notti erano stati di feste popolari, avevano caricato il resto del tesoro destinato a togliere dalla povertà il regno di Spagna: centosedici bauli di smeraldi delle miniere Muzo e Somondoco, e trenta milioni di monete d'oro.
La Flota de Tierra Firme era composta da non meno di dodici bastimenti di diversa grandezza, ed era salpata da questo porto viaggiando di conserva con una squadra francese molto ben armata che però non aveva potuto salvare la spedizione davanti alle cannonate precise della squadra inglese al comando del comandante Carlos Wager che l'aveva aspettata nell'arcipelago di Sotavento, all'uscita della baia. Così il "San José" non era l'unica nave affondata, anche se non esisteva una certezza documentata di quante avessero ceduto e di quante fossero riuscite a scampare al fuoco degli inglesi. Quello su cui non c'era dubbio era che l'ammiraglia fosse stata tra le prime a colare a picco, con tutto l'equipaggio e il comandante immobile al suo posto, e che lei sola portasse il carico maggiore.
Florentino Ariza aveva imparato la rotta dei galeoni sulle carte nautiche dell'epoca e credeva di aver stabilito il luogo del naufragio. Uscirono dalla baia fra le due fortezze della Boca Chica e dopo quattro ore di navigazione entrarono nel mare interno dell'arcipelago, sul cui fondale di coralli si potevano prendere con le mani le aragoste addormentate. L'aria era così delicata e il mare così sereno e trasparente, che Florentino Ariza si sentì come se fosse il suo stesso riflesso nell'acqua. Alla fine dell'acqua stagnante, a due ore dall'isola maggiore, si trovava il luogo del naufragio. Congestionato dal sole infernale dentro al suo abito funebre, Florentino Ariza indicò a Euclides di cercare di scendere a venti metri e di portargli qualsiasi cosa avesse trovato sul fondo. L'acqua era così chiara che lo vide muoversi di sotto, come uno squalo penetrato tra gli squali azzurri che si incrociavano con lui senza toccarlo. Poi lo vide sparire in una fratta di coralli e proprio quando pensava che non potesse più avere aria sentì la sua voce dietro alle proprie spalle. Euclides era in piedi sul fondo, con le braccia alzate e l 'acqua alla cintola. Cosicché andarono a cercare luoghi più profondi, sempre verso il nord, navigando sopra le mante indolenti, i calamari timidi, i rosai delle tenebre, finché Euclides capì che stavano perdendo tempo.
«Se non mi dice che cosa vuole che trovi, non so come lo troverò» gli disse.
Ma lui non glielo disse. Allora Euclides gli propose di togliersi gli abiti e di scendere con lui, anche solo per vedere quell'altro cielo sotto il mondo che erano i fondali di corallo. Ma Florentino Ariza era solito dire che Dio aveva fatto il mare solo per vederlo dalla finestra e non aveva mai imparato a nuotare. Poco dopo il pomeriggio si annuvolò, l'aria divenne fredda e umida, e fece scuro così rapidamente che dovettero orientarsi con il faro per trovare il porto. Prima di entrare nella baia, videro passare vicinissimo a loro il transatlantico di Francia con tutte le luci accese, enorme e bianco, che lasciava una scia di vivande delicate e di cavolfiori bolliti. Così perdettero tre domeniche e avrebbero continuato a perderle tutte se Florentino Ariza non avesse deciso di dividere il suo segreto con Euclides. Questi modificò allora tutto il piano di ricerca, e se ne andarono a navigare per l'antico canale dei galeoni, situato più di venti leghe marine a oriente del luogo previsto da Florentino Ariza. Prima di due mesi, un pomeriggio di pioggia sul mare, Euclides rimase molto tempo sul fondo, e la canoa era andata tanto alla deriva che dovette nuotare quasi mezz'ora per raggiungerla, dato che Florentino Ariza non era riuscito ad avvicinarsi con i remi. Quando infine riuscì a accostarsi, si tolse dalla bocca e mostrò come un trionfo della perseveranza due monili da donna.
Quello che raccontò allora era così affascinante che Florentino Ariza si ripromise di imparare a nuotare e a immergersi fin dove gli fosse possibile solo per constatarlo con i suoi occhi. Raccontò che in quel luogo, a solo diciotto metri di profondità, c'erano tanti velieri antichi adagiati fra i coralli che non era possibile calcolarne neanche la quantità, ed erano disseminati in uno spazio così esteso che si perdevano di vista. Raccontò che la cosa più sorprendente era che delle tante carcasse di barche che si trovavano a galla nella baia nessuna era in così buono stato come le navi sommerse. Raccontò che c'erano diverse caravelle ancora con le vele intatte e che le navi affondate erano visibili sul fondo, e che sembrava come se fossero affondate nel loro spazio e tempo, in modo che lì continuavano a essere illuminate dallo stesso sole delle undici di mattina di sabato 9 giugno in cui erano colate a picco. Raccontò, soffocandosi con lo stesso impeto della sua immaginazione, che quello più facile a distinguersi era il galeone "San José", il cui nome era visibile a lettere d'oro sulla poppa, ma che era anche la nave più danneggiata dall'artiglieria degli inglesi. Raccontò di averci visto dentro un polpo vecchio di più di tre secoli, i cui tentacoli uscivano dai portelli dei cannoni, ma era cresciuto tanto nella sala da pranzo che per liberarlo si sarebbe dovuto sfasciare la nave. Raccontò di aver visto il corpo del comandante con la sua uniforme da battaglia fluttuare di fianco dentro l'acquario del castello di prua, e se non era sceso fino alla stiva del tesoro era perché l'aria dei polmoni non gli era stata sufficiente. Le prove erano lì: un orecchino con uno smeraldo e una medaglia della Vergine con la sua catenella consunta dal salino.
Quella fu la prima menzione del tesoro che Florentino Ariza fece a Fermina Daza nella lettera che le mandò a Fonseca poco prima del suo ritorno. La storia del galeone affondato le era familiare, perché ne aveva sentito parlare spesso da Lorenzo Daza, che aveva perso tempo e denaro a cercare di convincere una compagnia di palombari tedeschi ad associarsi con lui per recuperare il tesoro sommerso. Avrebbe persistito nell'intento se non fosse stato per diversi membri dell'Accademia di Storia che lo avevano convinto che la leggenda del galeone naufragato era stata inventata da qualche viceré brigante, che in questo modo si era impadronito dei capitali della Corona. Comunque, Fermina Daza sapeva che il galeone era a una profondità di duecento metri, dove nessun essere umano poteva raggiungerlo, e non ai venti metri di cui parlava Florentino Ariza. Ma era così abituata ai suoi eccessi poetici che elogiò l'avventura del galeone come uno di quelli meglio riusciti. Tuttavia, quando continuò a ricevere altre lettere con particolari ancora più fantastici e scritti con tanta serietà come le sue promesse d'amore, dovette confessare a Hildebranda la sua paura che il fidanzato allucinato avesse perduto la ragione.
In quei giorni Euclides era tornato a galla con talmente tante prove della sua favola che non era più tempo di continuare a tirar su alla rinfusa orecchini e anelli sparpagliati fra i coralli, ma di capitalizzare una grande impresa per recuperare la cinquantina di navi con la fortuna babilonese che avevano dentro. Allora accadde quello che presto o tardi doveva accadere, che Florentino Ariza chiese aiuto a sua madre per portare a buon fine la sua avventura. A lei bastò mordere il metallo dei gioielli e guardare in controluce le pietre di vetro per rendersi conto che qualcuno stava speculando sul candore di suo figlio. Euclides giurò in ginocchio a Florentino Ariza che non c'era niente di torbido in quella faccenda ma non si fece vedere la domenica dopo al porto dei pescatori né mai più da nessuna parte. L'unica cosa che rimase di quell'infortunio a Florentino Ariza, fu il rifugio d'amore del faro. Era arrivato fin lì con la canoa di Euclides una notte in cui li aveva sorpresi la tempesta in mare aperto e da allora era solito andare di pomeriggio a conversare con l'uomo del faro sulle innumerevoli meraviglie della terra e dell'acqua che l'uomo conosceva. Era stato l'inizio di un'amicizia che sopravvisse ai molti cambiamenti del mondo. Florentino Ariza imparò ad alimentare la luce, prima con carichi di legna e poi con orci di olio, prima dell'arrivo dell'energia elettrica. Imparò a dirigerla e ad aumentarla con gli specchi, e in svariate occasioni in cui l'uomo del faro non poté farlo si fermò a vigilare dalla torre le notti del mare. Imparò a conoscere le imbarcazioni dalle loro voci, dalla misura delle loro luci sull'orizzonte, e a percepire che qualcosa di loro gli tornava indietro nei lampi del faro.
Durante il giorno il piacere era un altro, soprattutto la domenica. Nel quartiere dei Viceré, dove vivevano i ricchi della città vecchia, le spiagge delle donne erano separate da quelle degli uomini da un muro di malta: una alla destra e l'altra alla sinistra del faro... Cosicché l'uomo del faro aveva installato un cannocchiale mediante il quale si poteva contemplare, pagando un centesimo, la spiaggia delle donne. Senza sapersi osservate, le signorine si mostravano alla meglio che potevano dentro ai loro costumi da bagno dai grandi volants, con scarpette e cappelli che nascondevano i corpi quasi come gli abiti per la strada, e inoltre erano meno attraenti. Le madri le vigilavano dalla riva, sedute in pieno sole su sedie a dondolo di vimini con gli stessi vestiti, gli stessi cappelli di piume, gli stessi ombrellini di organza con cui erano andate alla messa solenne, per paura che gli uomini delle spiagge vicine le seducessero sott'acqua. La realtà era che col cannocchiale non si poteva vedere niente di più eccitante di quello che si poteva vedere per la strada, ma erano molti i clienti che venivano ogni domenica a contendersi il telescopio per il puro diletto di assaggiare i frutti insipidi della vicinanza altrui.
Florentino Ariza era uno di loro, più per noia che per piacere, ma non era stato per quel motivo in più che era diventato così buon amico dell'uomo del faro. Il motivo reale era che dopo l'affronto di Fermina Daza, quando lo aveva preso la febbre degli amori sparpagliati per cercare di rimpiazzarla, in nessun altro luogo diverso dal faro aveva vissuto le ore più felici né aveva trovato miglior consolazione alle sue infelicità. Fu il posto che amò di più. Tanto che per anni cercò di convincere sua madre, e più tardi lo zio León Dodicesimo, di aiutarlo a comprarlo. Poiché i fari del Caribe erano a quell'epoca di proprietà privata e i lori proprietari riscuotevano il diritto di passo fino al porto a seconda della grandezza delle imbarcazioni. Florentino Ariza pensava che quella fosse l'unica maniera onorevole di fare un buon affare con la poesia, ma né la madre né lo zio la pensavano allo stesso modo, e quando avrebbe potuto farlo con le sue risorse i fari erano già diventati proprietà dello stato.
Nessuna di quelle illusioni fu vana, però. La favola del galeone, e poi la novità del faro, gli alleviarono l'assenza di Fermina Daza, e quando meno se lo sentiva gli arrivò la notizia del suo ritorno. Alla fine, dopo una sosta prolungata a Riohacha, Lorenzo Daza aveva deciso di rientrare. Non era la stagione più propizia del mare, per gli alisei di dicembre, e la storica goletta, l'unica che arrischiasse la traversata, poteva tornare al porto d'origine trascinata da un vento contrario. E così era stato. Fermina Daza aveva passato una notte d'agonia, vomitando bile, legata alla cuccetta di una cabina che sembrava un cesso di taverna, non solo per la strettezza oppressiva ma anche per la puzza e il caldo. Il rollio era così forte che spesso aveva avuto l'impressione che si sarebbero rotte le corregge del letto, dalla coperta le arrivavano brani di qualche grido addolorato che pareva di naufragio, e il russare da tigre di suo padre nella cuccetta contigua era un ingrediente in più di paura. Per la prima volta in quasi tre anni passò una notte in bianco senza pensare un momento a Florentino Ariza, mentre invece lui restava insonne nell'amaca del retro a contare a uno a uno i minuti eterni che mancavano al suo ritorno. All'alba, il vento cessò improvvisamente e il mare si calmò, e Fermina Daza si rese conto di aver dormito malgrado i danni del mal di mare, perché la svegliò lo strepito delle catene dell'ancora. Allora slacciò le cinghie e si affacciò all'oblò con l'illusione di scoprire Florentino Ariza in mezzo alla confusione del porto, ma quello che vide furono i magazzini della dogana fra le palme dorate dal primo sole e la banchina di Riohacha da cui la goletta era salpata la notte prima.
Il resto della giornata fu come un'allucinazione, nella stessa casa dove era stata fino al giorno prima, ricevendo le stesse visite che l'avevano salutata, parlando delle stesse cose, e stordita dalla sensazione di vivere di nuovo un pezzo di vita già vissuto. Era una ripetizione così fedele che Fermina Daza tremava alla sola idea che lo fosse anche il viaggio della goletta, il cui solo ricordo le incuteva terrore. Ma l'unica possibilità diversa di tornare a casa erano due settimane a dorso di mulo sulle cornici della sierra, e in condizioni ancora più pericolose della prima volta, dato che una nuova guerra civile iniziata nello stato andino del Cauca si stava estendendo nelle province del Caribe. E così alle otto di sera fu accompagnata un'altra volta al porto dallo stesso corteo di parenti chiassosi, con le stesse lacrime di addio e gli stessi sacchi di provviste regalate all'ultimo momento che non ci stavano in cabina. Al momento di salpare, gli uomini della famiglia salutarono la goletta con una salva di spari per aria, e Lorenzo Daza rispose loro dalla coperta con le cinque cartucce del suo revolver. L'ansia di Fermina Daza si dissipò prestissimo, perché il vento fu favorevole per tutta la notte, e il mare aveva un odore di fiori che la aiutò a dormire bene senza le cinghie di sicurezza. Sognò di rivedere Florentino Ariza, e che lui si fosse strappato la faccia che lei gli aveva visto da sempre, perché in realtà era una maschera, ma la faccia vera era identica. Si alzò molto presto, incuriosita dall'enigma del sogno, e trovò suo padre che beveva caffè amaro con brandy nella cambusa del capitano, con l'occhio storto dall'alcol, ma senza il minimo indizio di incertezza sul ritorno.
Stavano entrando in porto. La goletta stava scivolando in silenzio attraverso il labirinto di velieri ancorati nell'insenatura del mercato pubblico, il cui fetore si percepiva in mare da diverse leghe, e l'alba era satura di una pioggerellina tersa che ben presto si trasformò in un acquazzone di quelli grandi. Appostato al balcone dell'ufficio del telegrafo, Florentino Ariza riconobbe la goletta mentre attraversava la baia di Las Animas con le vele allentate dalla pioggia e calò l'ancora davanti all'imbarcadero del mercato. Il giorno prima aveva aspettato fino alle undici del mattino, quando si era imbattuto in un telegramma casuale sul rientro della goletta per i venti contrari, e quel giorno era tornato ad aspettare dalle quattro del mattino. Continuò ad aspettare senza spostare lo sguardo dalle scialuppe che portavano a riva i pochi passeggeri che decidevano di sbarcare nonostante la tempesta. La maggior parte di loro doveva abbandonare a metà strada la scialuppa arenata e raggiungeva l'imbarcadero sguazzando nel fango. Alle otto, dopo aver atteso invano che smettesse di piovere, uno scaricatore negro con l'acqua alla cintola prese Fermina Daza sul bordo della goletta e la portò a braccia a riva, ma era così bagnata che Florentino Ariza non riuscì a riconoscerla.
Lei stessa non fu cosciente di quanto era maturata nel viaggio finché non entrò nella casa chiusa e intraprese immediatamente il compito eroico di tornare a renderla vivibile, con l'aiuto di Gala Placidia, la domestica negra che era tornata dalla sua vecchia capanna di schiavi non appena avvisata del loro ritorno. Fermina Daza non era più la figlia unica, contemporaneamente viziata e tiranneggiata dal padre, ma la padrona e signora di un impero di polvere e di ragnatele che poteva essere riscattato solo dalla forza di un amore invincibile. Non restò sbigottita perché si sentiva ispirata da un soffio di levitazione che le avrebbe fatto muovere il mondo. La stessa sera del rientro, mentre prendevano cioccolata con frittelle sul tavolo di cucina, suo padre delegò a lei i poteri per la direzione della casa, e lo fece con il formalismo di un atto sacro.
La verità è che Florentino Ariza era sicuro che lei non fosse ritornata, finché il telegrafista di Riohacha non gli confermò che si era imbarcata venerdì sulla stessa goletta che non era arrivata il giorno prima per i venti contrari. Così passò il fine settimana a spiare qualsiasi segnale di vita in casa sua, e dall'imbrunire del lunedì vide attraverso le finestre una luce ambulante che poco dopo le nove si spense nella camera da letto del balcone. Non dormì, preda delle stesse voglie di nausea che avevano turbato le sue prime notti d'amore. Tránsito Ariza si alzò al canto del gallo, allarmata che il figlio fosse uscito nel patio e non fosse rientrato da mezzanotte, e non lo trovò in casa. Se n'era andato a errare per le scogliere, e si era soffermato a recitare versi d'amore contro il vento, piangendo di gioia, finché si era fatto giorno. Alle otto era seduto sotto gli archi del Caffè della Parrocchia, allucinato dalla veglia, a cercare di escogitare un modo per far pervenire il suo benvenuto a Fermina Daza, quando si sentì scosso da uno sconvolgimento sismico che gli fece a pezzi i visceri.
Era lei. Attraversava Piazza della Cattedrale accompagnata da Gala Placidia, che portava le ceste per le compere, e per la prima volta andava vestita senza la divisa scolastica. Era più alta di quando se n'era andata, più affilata e intensa, e con la bellezza depurata da una maggiore padronanza di sé. La treccia le era ricresciuta, ma non la portava sciolta, bensì di lato, sulla spalla destra, e quel semplice cambiamento l'aveva spogliata di ogni traccia infantile. Florentino Ariza rimase attonito al suo posto, finché la creatura apparsa finì di attraversare la piazza senza alzare lo sguardo dal suo cammino. Ma lo stesso potere irresistibile che lo paralizzava lo obbligò poi a precipitarlesi dietro quando svoltò l'angolo della cattedrale e si perdette nel tumulto assordante dei meandri del commercio.
La seguì senza farsi vedere, scoprendo i gesti quotidiani, la grazia, la maturità prematura dell'essere che più amava al mondo e che vedeva per la prima volta nel suo stato naturale. Lo sbalordì la sicurezza con cui si faceva strada tra la folla. Mentre Gala Placidia si scontrava in continuazione, e le si aggrovigliavano i cesti e doveva correre per non perderla, lei navigava nel disordine della strada con una sua dimensione e un tempo distinto, senza inciampare in nessuno, come un pipistrello nelle tenebre. Era stata spesso a far spese con la zia Escolástica, ma erano sempre state compere minuscole, dato che suo padre in persona si incaricava di approvvigionare la casa, e non solo di mobili e roba da mangiare, ma anche di vestiti da donna. Cosicché quella prima uscita fu per lei un'avventura affascinante idealizzata nei suoi sogni di bambina.
Non prestò attenzione alle sollecitazioni dei cacciatori di vipere che le offrivano lo sciroppo per l'amore eterno, né alle suppliche dei mendicanti sdraiati negli androni con le loro piaghe fumanti, né al falso indio che tentava di venderle un caimano ammaestrato. Fece un percorso lungo e minuzioso, senza rotta pensata, con soste che non avevano altro motivo che il diletto senza fretta nello spirito delle cose. Entrò in ogni porta dove ci fosse qualcosa in vendita, e dappertutto trovò qualcosa che aumentava la sua voglia di vivere. Godette con l'odore di vetivèr dei panni nei cassoni, si avvolse in sete stampate, rise del suo stesso ridere vedendosi travestita da popolana con un pettine e un ventaglio coi fiori dipinti davanti allo specchio a corpo intero di "El Alambre de Oro". Nei magazzini di generi coloniali stappò un barile di aringhe sotto sale che le ricordò le notti del nordest, molto bambina, a San Juan de la Ciénaga. Le fecero assaggiare una salsiccia di sanguinaccio di Alicante che aveva un sapore di liquirizia, e ne comprò due per la prima colazione del sabato, e poi dei baccalà e un fiasco di alcol di ribes. Nel negozio di spezie, per il puro piacere dell'olfatto, strofinò foglie di salvia e origano sui palmi delle mani e comprò un pugno di chiodi di garofano, un altro di anice stellato, e altri due di zenzero e di ginepro, e uscì bagnata di lacrime di risa dal tanto starnutire per gli effluvi del pepe di Cayenna. Nel negozio francese, mentre comprava saponi di Reuter e acqua di benzoino, le misero dietro l'orecchio un tocco di profumo che era di moda a Parigi, e le diedero una tavoletta deodorante per il dopo-fumo.
Giocava a comprare, certo, ma quello che realmente le mancava lo comprava senza tante giravolte, con un'autorità che non lasciava pensare che lo faceva per la prima volta, dato che sapeva di non comprare solo per lei ma anche per lui, dodici metri di lino per le tovaglie della tavola di tutti e due, il percalle per le lenzuola da matrimonio con l'umidità notturna degli umori di tutti e due all'alba del giorno dopo, il più squisito di ogni cosa per goderlo insieme nella casa dell'amore. Chiedeva sconti e sapeva farlo, discuteva con grazia e dignità fino a ottenere il meglio, e pagava con monete d'oro che i dettaglianti provavano per puro gusto di sentirle cantare sul marmo del banco.
Florentino Ariza la spiava meravigliato, la seguiva senza fiato, inciampò diverse volte nelle ceste della domestica che rispose alle sue scuse con un sorriso, e lei gli era passata così vicino che lui riuscì a percepire il sentore del suo odore, e se allora non lo aveva visto non era stato perché non aveva potuto ma per l'alterigia del suo modo di camminare. Gli sembrava così bella, così seducente, così distinta dalla gente comune, da non capire perché nessuno si scombussolasse come lui con il rumore ritmico dei suoi tacchi sul selciato della strada, né gli si disordinasse il cuore con l'aria dei sospiri dei suoi volants, né diventasse pazzo d'amore tutto il mondo con gli sventolii della sua treccia, col volo delle sue mani, con l'oro del suo ridere. Non aveva perduto un suo gesto, né un indizio del suo carattere, ma non si azzardava ad avvicinarsi a lei per il timore di rompere l'incanto. Tuttavia, quando lei si intrufolò nella confusione del Portal de los Escribanos, lui si accorse che stava rischiando di perdere l'occasione anelata per anni.
Fermina Daza divideva con le sue compagne di scuola l'idea peregrina che il Portal de los Escribanos fosse un luogo di perdizione, vietato dunque alle signorine ben educate. Era una galleria ad arcate davanti a una piccola piazza dove stazionavano le carrozze a nolo e i carretti da carico trainati da asini, e dove si faceva più denso e chiassoso il commercio popolare. Il nome gli veniva dalla Colonia, perché lì si sedevano già da quell'epoca i calligrafi taciturni coi gilè di panno e le mezze maniche posticce, a scrivere a richiesta tutta una serie di documenti a prezzi da poveri: memoriali di offesa o di supplica, allegati giuridici, biglietti di congratulazioni o di condoglianze, biglietti d'amore per qualsiasi età. Non era da loro, comunque, che veniva la cattiva reputazione di quel mercato rumoroso, ma da commercianti ambulanti più recenti che offrivano sottobanco tutti gli articoli equivoci che arrivavano di contrabbando sulle navi provenienti dall'Europa, da cartoline oscene e pomate incoraggianti, fino ai celebri preservativi catalani con creste di iguana che si muovevano quando era il caso, o con fiori all'estremità perché aprissero i loro petali secondo la volontà dell'utente. Fermina Daza, poco esperta nell'uso della strada, si introdusse nel Portal senza rendersi conto dove stava andando, alla ricerca di un'ombra di conforto al sole violento delle undici.
Si inabissò nella lingua incomprensibile dei lustrascarpe e dei venditori di uccelli, dei librai d'occasione e dei ciarlatani e delle banditrici di dolci che annunciavano gridando sopra il baccano le focacce di ananas per le bambine, quelle di cocco per i matti, i biscottini per Micaela. Ma lei rimase indifferente al fragore, catturata immediatamente da un fanfarone che stava facendo dimostrazioni di tinte magiche per scrivere, colori rossi con il clima del sangue, colori con trasparenze tristi per messaggi funebri, colori fosforescenti per leggere nell'oscurità, colori invisibili che si rivelavano con lo splendore della luce. Lei le voleva tutte per giocare con Florentino Ariza, per spaventarlo col suo ingegno, ma dopo parecchie prove si decise per una boccetta di color oro. Poi se ne andò con i barattoli di vetro messi dietro alle sue grandi ampolle, e comprò sei dolci di ogni tipo, indicandoli con il dito perché non riusciva a farsi sentire in mezzo alla confusione: sei capellini d'angelo, sei piccole conserve di latte, sei tavolette di sesamo, sei "alfajores" di manioca, sei cioccolatini incartati, sei "piononos", sei "bocaditos" della regina, sei di questo e sei dell'altro, sei di tutto, e continuava a metterli nei cesti della domestica con una grazia irresistibile, completamente estranea al tormento dei nuvoloni di mosche sullo sciroppo, estranea al fracasso continuo, estranea all'esalazione di sudori rancidi che riverberavano nel calore mortale. La svegliò dal sortilegio una negra felice con un drappo colorato sulla testa, rotonda e bella, che le offrì un triangolo di ananas infilzato sulla punta di un coltello da macellaio. Lei lo prese, se lo mise intero in bocca, lo assaporò, e stava assaggiandolo con lo sguardo che errava sulla folla, quando una commozione la prese sul posto. Alle sue spalle, così vicino al suo orecchio che solo lei poté sentirla nella confusione, aveva sentito la voce:
«Questo non è un buon posto per una dea incoronata.»
Lei girò la testa e vide a due palmi dai suoi occhi gli altri occhi glaciali, il viso livido, le labbra impietrite dalla paura, così come le aveva viste nel tumulto della messa di mezzanotte la prima volta che lui era stato così vicino a lei, ma a differenza di allora non sentì la commozione dell'amore ma l'abisso del disincanto. In un istante le si rivelò nella sua completezza la misura del suo stesso inganno, e si chiese atterrita come avesse potuto covare per tanto tempo e con tanta sevizia una simile chimera nel cuore. A malapena riuscì a pensare: "Dio mio, pover'uomo!". Florentino Ariza sorrise, cercò di dire qualcosa, cercò di seguirla, ma lei lo cancellò dalla sua vita con un cenno della mano. «No, per favore» gli disse. «Se lo scordi.»
Quel pomeriggio, mentre suo padre faceva la siesta, tramite Gala Placidia gli mandò una lettera di due righe: "Oggi, vedendola, mi sono resa conto che la nostra non è che la nostra non è che un'illusione". La domestica gli portò anche i suoi telegrammi, i suoi versi, le sue camelie secche, e gli chiese di restituire le lettere e i regali che lei gli aveva mandato: il messale della zia Escolástica, le nervature di foglie dei suoi erbari, il centimetro quadrato dell'abito di San Pedro Claver, le medaglie di santi, la treccia dei suoi quindici anni con il nastro di seta dell'uniforme scolastica. Nei giorni seguenti, sull'orlo della follia, lui le scrisse molte lettere di disperazione e assediò la domestica perché gliele portasse, ma questa eseguì le istruzioni precise di non accettare nient'altro se non i regali restituiti. Insistette con tanta efficacia che Florentino Ariza glieli mandò tutti, salvo la treccia, che non voleva restituire finché Fermina Daza non l'avesse presa di persona per parlare con lei anche se per un attimo. Non ci riuscì. Temendo una decisione fatale di suo figlio, Tránsito Ariza mise da parte il suo orgoglio e chiese a Fermina Daza di concederle una grazia di cinque minuti, e Fermina Daza la ricevette un momento nel cortile di casa sua, in piedi, senza invitarla a entrare e senza il minimo segno di debolezza. Due giorni appresso, dopo una lite con sua madre, Florentino Ariza staccò dal muro della sua camera la nicchia polverosa di cristallo dove teneva esposta la treccia come una reliquia sacra, e la stessa Tránsito Ariza la restituì nell'astuccio di velluto ricamato con fili d'oro. Florentino Ariza non ebbe mai più un'opportunità di vedere a quattr'occhi Fermina Daza, né di parlare con lei da soli nei tanti incontri delle loro lunghissime vite, fino a cinquantun anni nove mesi e quattro giorni dopo, quando le reiterò il giuramento di fedeltà eterna e amore perenne nella sua prima notte di vedova.
NOTE.
NOTA 2: "Aruaco" (o "aruco"): trampoliere facilmente addomesticabile.
(Nota del Traduttore).
NOTA 3: Genere di pianta della famiglia delle Scrofulariacee, dal latino "verbascum". (Nota del Traduttore).
Il dottor Juvenal Urbino era stato lo scapolo più desiderato quando aveva ventotto anni. Ritornava da un lungo soggiorno a Parigi, dove aveva fatto studi superiori di medicina e chirurgia, e da quando posò il piede sulla terraferma diede pesanti prove di non aver perduto un minuto del suo tempo. Tornò più elegante di quando se ne era andato, più padrone del suo carattere, e nessuno dei suoi compagni di generazione sembrava così severo e così saggio come lui nella sua scienza, ma non c'era neanche nessuno che ballasse meglio la musica di moda né che improvvisasse meglio al piano. Sedotte dalle sue grazie personali e dalla certezza della sua fortuna familiare, le ragazze del suo livello facevano riffe segrete per giocare a restare con lui, e anche lui giocava a restare con loro, ma riuscì a mantenersi in stato di grazia, intatto e tentatore, fino alla caduta incondizionata davanti agli incanti plebei di Fermina Daza.
Amava dire che quell'amore era stato il frutto di uno sbaglio clinico. Lui stesso non poteva credere che sarebbe successo, e men che mai in quel momento della sua vita, quando tutte le sue riserve passionali erano concentrate sulla sorte della sua città, di cui aveva detto troppo spesso e senza pensarci due volte che non aveva eguali al mondo. A Parigi, passeggiando sottobraccio a una fidanzata casuale in un autunno tardivo, gli sembrava impossibile immaginare una felicità più pura di quella di quei pomeriggi dorati, con l'odore rustico delle castagne sui bracieri, le fisarmoniche languide, gli innamorati insaziabili che non finivano mai di baciarsi sulle terrazze aperte, e però lui si era detto con la mano sul cuore di non essere disposto a cambiare per tutto quello un solo istante del suo Caribe in aprile. Era ancora troppo giovane per sapere che la memoria del cuore elimina
i cattivi ricordi ed esalta quelli buoni, e che grazie a quell'artificio riusciamo a sopportare il passato. Ma quando rivide dalla ringhiera della nave il promontorio bianco del quartiere coloniale, gli avvoltoi immobili sui tetti, la biancheria da poveri stesa ad asciugare sui balconi, solo allora capì fino a che punto era stato una vittima facile delle trappole caritatevoli della nostalgia. La nave si fece strada nella baia attraverso una trapunta galleggiante di animali affogati, e la maggioranza dei passeggeri si rifugiò in cabina rifuggendo la pestilenza. Il giovane medico scese dalla passerella vestito impeccabilmente di alpaca, con gilè e spolverino, con una barba alla Pasteur giovane e i capelli divisi da una scriminatura netta e pallida, e con abbastanza dominio di sé per dissimulare il nodo alla gola che non era di tristezza ma di terrore. Sul molo quasi deserto, presidiato da soldati scalzi senza divisa, lo aspettavano le sorelle e la madre con i suoi amici più cari. Li trovò macilenti e senza futuro, nonostante le loro arie mondane, e parlavano della crisi e della guerra civile come di qualcosa di remoto ed estraneo, ma tutti avevano un tremito evasivo nella voce e un'incertezza nelle pupille che tradivano le parole. Quella che più lo commosse fu la madre, una donna ancora giovane che si era imposta nella vita con la sua eleganza e il suo impeto sociale, e che adesso avvizziva a fuoco lento nell'alito di canfora dei suoi veli di vedova. Lei dovette riconoscersi nel turbamento del figlio, perché lo anticipò a chiedergli in propria difesa perché arrivasse con quella pelle traslucida come se fosse di paraffina.
«E' la vita, mamma» disse lui. «A Parigi si diventa verdi.»
Poco dopo, soffocando di caldo vicino a lei nella carrozza chiusa, non poté sopportare più l'inclemenza della realtà che si intrufolava impetuosamente dal finestrino. Il mare sembrava di cenere, i vecchi palazzi da marchese stavano per soccombere alla proliferazione dei mendicanti, ed era impossibile trovare la fragranza ardente dei gelsomini dietro i suffumigi di morte delle fogne a cielo aperto. Tutto gli sembrò più piccolo di quando se n'era andato, più povero e lugubre, e c'erano tanti topi affamati nell'immondezzaio delle strade che i cavalli della carrozza inciampavano spaventati. Nel lungo tragitto dal porto a casa sua, nel cuore del quartiere dei Viceré, non trovò niente che gli sembrasse degno delle sue nostalgie. Deluso, girò la testa perché non lo vedesse sua madre, e si mise a piangere in silenzio.
Il vecchio palazzo del Marchese de Casalduero, residenza storica degli Urbino de la Calle, non era quello che si manteneva più eretto in mezzo al naufragio. Il dottor Juvenal Urbino lo scoprì con il cuore a pezzi fin da quando entrò dall'androne scuro e vide la fontana polverosa del giardino interno, e i cespugli senza fiori in mezzo ai quali giravano le iguane, e si accorse che mancavano molte piastrelle di marmo, e che altre erano rotte, sulla grande scala con le ringhiere di rame che portava alle stanze principali. Suo padre, un medico più dedito che eminente, era morto durante l'epidemia di colera asiatico che aveva distrutto la popolazione sei anni prima, e con lui era morto lo spirito della casa. Doña Blanca, la madre, soffocata da un lutto previsto per essere eterno, aveva sostituito con novene vespertine le celebri serate liriche e i concerti di musica da camera del marito morto. Le due sorelle, contro le loro grazie naturali e la loro vocazione festaiola, erano carne da convento.
Il dottor Juvenal Urbino non dormì neanche un momento la notte del suo arrivo, spaventato dall'oscurità e dal silenzio, e recitò tre rosari allo Spirito Santo e quante preghiere ricordava per scongiurare calamità e naufragi e ogni tipo di agguati della notte, mentre un "alcaraván" (4) che si era intrufolato dalla porta mal chiusa cantava a ogni ora, all'ora in punto, dentro la stanza da letto. Lo tormentarono le urla allucinate delle pazze nel vicino manicomio della Divina Pastora, la goccia inclemente della cisterna sul catino la cui risonanza colmava l'ambito della casa, i passi da trampoliere dell'"alcaraván" perduto nella stanza da letto, la sua paura congenita dell'oscurità, la presenza invisibile del padre morto nella grande casa addormentata. Quando l'"alcaraván" cantò le cinque, insieme con i galli del circondario, il dottor Juvenal Urbino si raccomandò anima e corpo alla Divina Provvidenza, perché non si sentiva il coraggio di vivere un altro giorno nella sua patria di rottami. Tuttavia, l'affetto dei suoi, le domeniche in campagna, le cupide lusinghe delle nubili della sua classe finirono per mitigargli le amarezze della prima impressione. Si abituò a poco a poco alle calure di ottobre, agli odori eccessivi, ai giudizi prematuri dei suoi amici, al domani vedremo, dottore, non si preoccupi, finché finì per arrendersi alle malie dell'abitudine. Non tardò a concepire una giustificazione facile per il suo abbandono. Quello era il suo mondo, si disse, il mondo triste e oppressivo che Dio gli aveva concesso, e a quello era obbligato.
La prima cosa che fece fu prendere possesso dello studio di suo padre. Conservò al loro posto i mobili inglesi, duri e seri, il cui legno sospirava con i freddi dell'alba, ma mandò in soffitta i trattati della scienza dell'epoca dei Viceré e della medicina romantica, e collocò sugli scaffali invetriati quelli della nuova scuola francese. Staccò le litografie scolorite, salvo quella del medico che sta contendendo alla morte una malata nuda e il giuramento di Ippocrate stampato a caratteri gotici, e attaccò al loro posto, insieme all'unico diploma di suo padre, i molti e svariati che lui aveva ottenuto con ottimi voti in diverse scuole europee.
Cercò di imporre criteri innovativi all'Ospedale della Misericordia, ma non gli fu tanto facile come gli era sembrato nei suoi entusiasmi giovanili, perché la vecchia casa di salute si ingarbugliava nelle sue superstizioni ataviche, come quella di mettere i piedi del letto in barattoli pieni d'acqua per impedire che salissero le malattie o quella di esigere roba di marca e guanti di camoscio in sala chirurgica, perché si dava per scontato che l'eleganza fosse una condizione essenziale dell'asepsi. Non potevano sopportare che il giovane appena arrivato assaggiasse l'urina del malato per scoprire la presenza di zucchero, che citasse Charcot e Trousseau come se fossero i suoi compagni di stanza, che durante le lezioni facesse severe avvertenze sui rischi mortali delle vaccinazioni e che invece avesse una fede sospettosa nella nuova invenzione delle supposte. Contrastava in tutto: il suo spirito innovatore, il suo civismo maniacale, il suo senso dell'humour ritardato in una terra di burloni immortali, tutto quello che erano in realtà le sue virtù più apprezzabili suscitava la diffidenza dei suoi colleghi più anziani e le burle nascoste dei giovani.
La sua ossessione era il pericoloso stato sanitario della città. Fece appello alle più alte istanze perché chiudessero le fogne spagnole, che erano un immenso vivaio di topi, e si costruissero al loro posto dei condotti chiusi i cui rigurgiti non sboccassero nell'insenatura del mercato, come succedeva da sempre, ma in qualche condotto di scarico distante. Le case coloniali ben attrezzate avevano latrine con fosse settiche, ma i due terzi della popolazione accatastati in baracche sulla riva delle paludi facevano i propri bisogni all'aria aperta. Le feci si seccavano al sole, si trasformavano in polvere, e venivano respirate da tutti con allegrie natalizie nelle fresche e tempestose brezze di dicembre. Il dottor Juvenal Urbino cercò di imporre al Consiglio Comunale un corso obbligatorio di abilitazione affinché i poveri imparassero a costruire le loro latrine. Lottò invano perché i rifiuti non fossero gettati nelle lagune, trasformate da secoli in serbatoi di putrefazione, e perché li si raccogliesse perlomeno due volte alla settimana e fossero poi inceneriti in un luogo disabitato.
Era conscio dell'insidia mortale dell'acqua da bere. La sola idea di costruire un acquedotto sembrava fantastica, perché chi avrebbe potuto darle impulso disponeva di cisterne sotterranee dove si immagazzinavano sotto uno spesso strato cremoso di muschio le acque piovute per anni. Fra i mobili più pregiati dell'epoca c'erano le cisterne di legno lavorato i cui filtri di pietra gocciolavano giorno e notte dentro gli orci. Per impedire che qualcuno bevesse nella stessa brocca di alluminio con cui si tirava su l'acqua, questa aveva i bordi dentati come la corona di un re per burla. L'acqua era cristallina e fresca nella penombra dell'argilla cotta e lasciava un retrogusto di foresta. Ma il dottor Juvenal Urbino non cadeva in questi inganni di purificazione perché sapeva che, a dispetto di tante precauzioni, il fondo degli orci era un santuario di vermiciattoli. Aveva passato le lente ore della sua infanzia a contemplarli con una paura quasi mistica, convinto come tanta gente di allora che i vermi fossero le anime delle creature soprannaturali che corteggiavano le donzelle dai sedimenti delle acque gelide e erano capaci di furiose vendette d'amore. Aveva visto da bambino i danni nella casa di Lázara Conde, una maestra di scuola che aveva osato disprezzare le anime, e aveva visto la scia di vetri per la strada e il mucchio di pietre che avevano tirato per tre giorni e tre notti contro le finestre. Cosicché passò molto tempo prima che imparasse che i vermi erano in realtà le larve delle zanzare, ma lo imparò per non dimenticarlo mai, perché da allora si rese conto che non solo loro ma molte altre anime maligne potevano passare intatte attraverso i nostri candidi filtri di pietra. All'acqua delle cisterne si attribuì per molto tempo, e a gran vanto, l'ernia dello scroto che tanti uomini della città soffrivano non solo
senza pudore ma anche con una certa insolenza patriottica. Quando Juvenal Urbino andava alla scuola elementare non riusciva a evitare un palpito di orrore nel vedere gli erniosi seduti sulla porta delle loro case nei pomeriggi di calore mentre si facevano vento ai testicoli enormi come se fossero un bambino addormentato fra le gambe. Si diceva che l'ernia emettesse un fischio da uccello lugubre nelle notti di tempesta e si torcesse con un dolore insopportabile quando bruciavano vicino una piuma di avvoltoio, ma nessuno si lamentava di quei danni, perché un'ernia allo scroto grande e ben portata si distingueva sopra a tutto come un onore da uomo. Quando il dottor Juvenal Urbino tornò dall'Europa conosceva ormai molto bene la menzogna scientifica di queste credenze, ma erano così radicate nella superstizione locale che molti si opponevano all'arricchimento minerale dell'acqua delle cisterne per timore che gli portasse via la virtù di provocare un'ernia onorevole.
Come per le impurità dell'acqua, il dottor Juvenal Urbino era allarmato per le condizioni igieniche del mercato pubblico, una vasta distesa all'aperto davanti alla baia di Las Animas, dove attraccavano i velieri delle Antille. Un viaggiatore illustre dell'epoca lo aveva descritto come uno dei più pittoreschi del mondo. Era ricco, in effetti, abbondante e rumoroso, ma forse anche il più allarmante. Era assestato sul suo stesso immondezzaio, alla mercé delle velleità del mare grosso, ed era lì dove i rutti della baia riportavano a terra le immondizie delle chiaviche. Lì si avventavano anche gli avanzi del mattatoio contiguo, teste macellate, viscere marcite, pattumi di animali che restavano a galla al sole e al sereno in un pantano di sangue. Gli avvoltoi se li contendevano con i topi e i cani in una rissa perpetua, fra i cervi e i castrati saporiti di Sotavento attaccati alle pareti dei baracconi, e i legumi primaverili di Arjona esposti su stuoie per terra. Il dottor Juvenal Urbino voleva risanare il luogo, voleva che facessero il mattatoio da un'altra parte, che costruissero un mercato coperto con cupole a vetri come quelle che aveva conosciuto negli antichi grandi mercati sulle Ramblas di Barcellona, dove le provviste erano così ricche e pulite che era quasi un peccato mangiarsele. Ma anche i più compiacenti dei suoi amici notabili compativano la sua passione illusoria. Erano così: passavano la loro vita a proclamare l'orgoglio della loro origine, i meriti storici della città, il prezzo delle loro reliquie, il loro eroismo e la loro bellezza, ma erano ciechi davanti al tarlo degli anni. Il dottor Juvenal Urbino, invece, aveva abbastanza amore per vederla con gli occhi della verità.
«Quanto sarà nobile questa città» diceva, «che sono quattrocento anni che stiamo cercando di farla finita con lei, e ancora non ci siamo riusciti.»
Erano a buon punto, comunque. L'epidemia di colera, le cui prime vittime caddero fulminate nelle pozzanghere del mercato, aveva provocato in undici settimane la più grande mortalità della nostra storia. Fino a quel momento, qualche morto insigne era sepolto sotto i pavimenti delle chiese, nella vicinanza sprezzante degli arcivescovi e dei capitolari, e gli altri meno ricchi venivano seppelliti nei patios dei conventi. I poveri andavano al cimitero coloniale, su una collina ventosa separata dalla città da un canale di acque secche, il cui ponte di malta aveva una pensilina con un'insegna scolpita per ordine di qualche sindaco lungimirante: "Lasciate ogni speranza, voi ch'entrate". Durante le due prime settimane del colera il cimitero traboccava, e non era rimasto un posto libero nelle chiese, nonostante avessero passato nell'ossario comune i resti consunti di parecchi grandi senza nome. L'aria della cattedrale si fece rarefatta con gli effluvi delle cripte mal sigillate, e le loro porte si riaprirono solo tre anni dopo all'epoca in cui Fermina Daza vide da vicino per la prima volta Florentino Ariza alla messa di mezzanotte. Nella terza settimana il chiostro del convento di Santa Clara si trovò pieno fino ai viali e fu necessario abilitare come cimitero l'orto della comunità, che era grande il doppio. Lì scavarono fosse profonde per interrare a tre livelli, in fretta e senza precauzioni, ma si dovette desistere dal progetto perché il terreno che era traboccato si trasformò come in una spugna che trasudava sotto i passi un sangue marcio nauseabondo. Allora si dispose di continuare le sepolture alla Mano de Dios, una fattoria di bestiame a meno di una lega dalla città, che poi venne consacrata Cimitero Universale.
Da quando fu proclamato il bando del colera, nella fortezza della guarnigione locale si sparò un colpo di cannone ogni quarto d'ora, di giorno e di notte, d'accordo con la superstizione cittadina che la polvere purificava l'ambiente. Il colera fu molto più feroce con la popolazione negra, che era la più numerosa e la più povera, ma in realtà non fece considerazioni di colore né di lignaggio. Cessò improvvisamente come era iniziato, e non si conobbe mai la quantità dei suoi danni, non perché fosse impossibile stabilirla ma perché una delle nostre virtù più usuali era il pudore delle proprie disgrazie. Il dottor Marco Aurelio Urbino, padre di Juvenal, fu un eroe civile di quelle giornate infauste, e anche la sua vittima più notevole. Per decisione ufficiale ideò e diresse di persona la strategia sanitaria, ma di sua iniziativa finì per intervenire in tutti gli affari di ordine sociale al punto che nei momenti più critici della peste non sembrava che esistesse nessuna autorità al di sopra di lui. Anni dopo, rivedendo la cronaca di quei giorni, il dottor Juvenal Urbino verificò che il metodo di suo padre era stato più caritatevole che scientifico e che in molti modi era contrario alla ragione così da aver favorito in gran misura la voracità della peste. Lo verificò con la compassione dei figli che la vita ha trasformato a poco a poco in padri dei loro padri, e per la prima volta si dolse di non essere stato con il suo nella solitudine dei suoi errori. Ma non lesinò i suoi meriti: la diligenza e l'abnegazione, e soprattutto il suo valore personale, gli meritarono molti onori che gli furono resi quando la città si ristabilì dal disastro, e il suo nome rimase giustamente fra quelli delle altrettante vittime di altre guerre meno onorevoli.
Non visse la sua gloria. Quando riconobbe in se stesso gli scompigli irreparabili che aveva visto e compatito negli altri, non tentò neanche una battaglia inutile, ma si appartò dal mondo per non contaminare nessuno. Chiuso, da solo, in una stanza di servizio dell'Ospedale della Misericordia, sordo alle chiamate dei colleghi e alle suppliche dei suoi, estraneo all'orrore dei pestiferi che agonizzavano sul pavimento dei corridoi traboccanti, scrisse alla moglie e ai figli una lettera d'amore febbrile, di gratitudine per essere esistiti, nella quale si rivelava quanto e con quanta avidità avesse amato la vita. Fu un addio di venti fogli stracciati nei quali si notavano i progressi della malattia dal deterioramento della scrittura, e non era necessario avere conosciuto chi li avesse scritti per sapere che la firma era stata messa con l'ultimo respiro. D'accordo con le sue disposizioni, il corpo incenerito si confuse nel cimitero comune e non fu visto da nessuno che lo avesse amato. Il dottor Juvenal Urbino ricevette il telegramma tre giorni dopo a Parigi durante una cena di amici e fece un brindisi con lo champagne alla memoria di suo padre. Disse: «Era un uomo buono». Più tardi avrebbe dovuto rimproverare a se stesso la sua mancanza di maturità: eludeva la realtà per non piangere. Ma tre settimane dopo ricevette una copia della lettera postuma e allora si arrese alla verità. D'un tratto gli si rivelò a fondo l'immagine dell'uomo che aveva conosciuto prima di chiunque altro, che lo aveva allevato e istruito e aveva dormito e fornicato trentadue anni con sua madre, e tuttavia mai prima di quella lettera gli si era mostrato così come era in anima e corpo, per pura e semplice timidezza. Fino ad allora il dottor Juvenal Urbino e la sua famiglia avevano pensato alla morte come a un incidente che capitava agli altri, ai padri degli altri, ai fratelli e ai coniugi degli altri, ma non ai loro. Era gente di vita lenta, che non si vedeva diventare vecchia né ammalarsi né morire, ma che andava svanendo a poco a poco nel suo tempo, diventando ricordi, brume di un'altra epoca, finché li assimilava l'oblio. La lettera postuma di suo padre, più del telegramma con la cattiva notizia, lo mandò con la faccia a terra contro la certezza della morte. E comunque uno dei suoi ricordi più remoti, forse di quando aveva nove anni, forse undici, era in un certo modo un segnale prematuro della morte attraverso suo padre. Tutti e due erano rimasti nello studio di casa un pomeriggio di pioggia, lui a disegnare allodole e girasoli con gessetti colorati sulle piastrelle del pavimento, e suo padre a leggere contro il bagliore della finestra, con il gilè sbottonato ed elastici di gomma alle maniche della camicia. D'un tratto aveva interrotto la lettura per grattarsi la spalla con un raschietto col manico lungo che aveva una manina d'argento all'estremità. Siccome non ce la faceva, aveva chiesto al figlio di grattarlo con le sue unghie, e lui lo fece, dandogli la strana sensazione di non sentire il proprio corpo mentre veniva grattato. Alla fine suo padre lo aveva guardato da sopra alla spalla con un sorriso triste.
«Se morissi adesso» gli aveva detto, «ti ricorderesti a stento di me quando avrai la mia età.»
Lo aveva detto senza nessun motivo apparente, e l'angelo della morte era fluttuato per un attimo nella penombra fresca dello studio ed era uscito nuovamente dalla finestra lasciando al suo passaggio una scia di piume, ma il bambino non le aveva viste. Erano passati più di vent'anni da allora, e Juvenal Urbino avrebbe avuto molto presto l'età che aveva suo padre quel pomeriggio. Si sapeva identico a lui e alla coscienza di esserlo si era aggiunta ora la coscienza sorprendente di essere mortale come lui.
Il colera si trasformò per lui in un'ossessione. Non ne sapeva molto più di quanto avesse imparato di routine in qualche corso marginale, e gli era sembrato inverosimile che solo trent'anni prima avesse provocato in Francia, compresa Parigi, più di centoquarantamila morti. Ma dopo la morte di suo padre apprese tutto quanto si poteva apprendere sulle diverse forme del colera, quasi come una penitenza per pacificare la sua memoria, e fu allievo dell'epidemiologo di maggior fama del suo tempo e creatore dei cordoni sanitari, il professor Adrien Proust, padre del grande scrittore. Così, quando tornò alla sua terra e sentì dal mare il fetore del mercato, e vide i topi nelle fogne e i bambini che si rivoltolavano nudi nelle pozzanghere delle strade, non solo capì che la disgrazia era successa ma ebbe la certezza che si sarebbe ripetuta in qualsiasi momento. Non passò molto tempo. Prima di un anno, i suoi allievi dell'Hospital de la Misericordia gli chiesero di aiutarli con un malato di carità che aveva uno strano colore azzurro su tutto il corpo. Al dottor Juvenal Urbino fu sufficiente vederlo dalla porta per riconoscere il nemico. Ma fu fortunato: il malato era arrivato tre giorni prima su una goletta di Curação ed era andato all'ambulatorio dell'ospedale con
i suoi mezzi, e non pareva probabile che avesse contagiato qualcuno. In ogni modo, il dottor Juvenal Urbino mise sull'avviso i colleghi, ottenne che le autorità dessero l'allarme ai porti vicini affinché venisse localizzata e fosse posta in quarantena la goletta contaminata, e dovette frenare il capo militare della piazza, che voleva decretare la legge marziale e applicare immediatamente la terapia del colpo di cannone ogni quarto d'ora.
«Economizzi quella polvere per quando verranno i liberali» gli disse
con garbo. «Non siamo più nel Medioevo.»
Il malato morì quattro giorni dopo, soffocato da un vomito bianco e granuloso, ma nelle settimane successive non fu scoperto nessun altro caso nonostante l'allarme costante. Poco dopo, il "Diario del Comercio" pubblicò la notizia che due bambini erano morti di colera in luoghi diversi della città. Si provò che uno di loro aveva una comune diarrea, ma l'altro, una bambina di cinque anni, sembrava che fosse stata in effetti vittima del colera. I suoi genitori e i tre fratelli furono isolati e messi in quarantena individuale, e tutta la zona fu sottoposta a una stretta vigilanza medica. Uno dei bambini prese il colera e guarì prestissimo, e tutta la famiglia tornò a casa a pericolo scampato. Altri undici casi si registrarono in tre mesi, e al quinto ci fu una recrudescenza allarmante, ma alla fine dell'anno si considerò che i rischi di un'epidemia erano stati scongiurati. Nessuno mise in dubbio che il rigore sanitario del dottor Juvenal Urbino, più della capacità dei loro bandi, avesse reso possibile il prodigio. Da allora, e per molto tempo in questo secolo, il colera fu endemico non solo nella città ma in quasi tutto il litorale del Caribe e il bacino de la Magdalena, ma non tornò a incrudelire come epidemia. L'allarme servì a far sì che gli avvertimenti del dottor Juvenal Urbino fossero ascoltati con più serietà dal potere pubblico. Venne istituita la cattedra obbligatoria di colera e febbre gialla alla Scuola di Medicina, e si comprese l'urgenza di chiudere le fogne e di costruire un mercato distante dall'immondezzaio. Il dottor Urbino, però, non si preoccupò in quel momento di invocare la sua vittoria né si sentì in animo di perseverare nelle sue missioni sociali, perché lui stesso era a quell'epoca con un'ala rotta, stordito e sperso, e deciso a cambiare tutto e a dimenticarsi di tutto il resto nella vita per il bagliore d'amore di Fermina Daza.
Era stato in realtà il frutto di un errore clinico. Un medico amico, che aveva creduto di intravedere i sintomi premonitori del colera in una paziente di diciotto anni, chiese al dottor Juvenal Urbino di andare a visitarla. Ci andò quello stesso pomeriggio, allarmato dalla possibilità che la peste fosse entrata nel santuario della città vecchia, dato che tutti i casi fino ad allora si erano verificati nei quartieri marginali, e quasi tutti fra la popolazione negra. Trovò altre sorprese meno ingrate. La casa, all'ombra dei mandorli del Giardino de Los Evangelios, da fuori sembrava altrettanto distrutta delle altre della zona coloniale, ma dentro c'erano un ordine di bellezza e una luce incantata che sembravano di un'altra età del mondo. L'atrio dava direttamente su un patio sivigliano, quadrato e bianco di calce recente, con aranci fioriti e il pavimento piastrellato con le stesse piastrelle delle pareti. C'era un rumore invisibile di acqua continua, mazzolini di garofani sui cornicioni e gabbie di uccelli strani sotto gli archi. I più strani, in una gabbia molto grande, erano tre corvi che scuotendo le ali riempivano il patio di un profumo equivoco. Parecchi cani alla catena da qualche parte della casa incominciarono improvvisamente a latrare, impazziti per l'odore dell'estraneo, ma un grido di donna li fece tacere di colpo, e molti gatti saltarono fuori da tutte le parti e si nascosero tra i fiori, spaventati dall'autorità della voce. Allora si fece un silenzio così chiaro, che attraverso il disordine degli uccelli e le sillabe dell'acqua sulla pietra si coglieva il respiro struggente del mare.
Spaventato dalla certezza della presenza fisica di Dio, il dottor Juvenal Urbino pensò che una casa come quella fosse immune dalla peste. Seguì Gala Placidia nel corridoio ad archi, passò davanti alla stanza da lavoro dove Florentino Ariza aveva visto per la prima volta Fermina Daza quando il patio era ancora in macerie, salì per le scale di marmo nuovo fino al secondo piano, e aspettò di essere annunciato prima di entrare nella camera da letto della malata. Ma Gala Placidia venne fuori con un messaggio:
«La signorina dice che non può entrare adesso perché suo padre non è in casa.»
E così tornò alle cinque del pomeriggio, secondo l'indicazione della domestica, e Lorenzo Daza in persona gli aprì il portone e lo accompagnò fino alla camera da letto della figlia. Restò seduto nella penombra dell'angolo, con le braccia incrociate e facendo vani sforzi per dominare il respiro farraginoso, finché durò la visita. Non era facile sapere chi era più represso, se il medico col suo tatto pudico o la malata col suo riserbo da vergine dentro il camicione di seta, ma nessuno guardò l'altro negli occhi, se non che lui domandava con voce impersonale e lei rispondeva con voce tremante, tutti e due dipendendo dall'uomo seduto nella penombra. Alla fine il dottor Juvenal Urbino domandò alla malata di sedersi, e le aprì la camicia da notte fino alla cintura con un'attenzione squisita: il seno intatto e altero coi capezzoli infantili risplendette per un attimo come una vampata nelle ombre dell'alcova, prima che lei si affrettasse a nasconderlo con le braccia incrociate. Imperturbabile, il medico le allontanò le braccia senza guardarla, e l'auscultò con l'orecchio contro la pelle, prima il petto e poi le spalle.
Il dottor Juvenal Urbino era solito raccontare di non aver provato nessuna emozione quando aveva conosciuto la donna con cui sarebbe vissuto fino al giorno della sua morte. Ricordava il camicione celeste con i bordi di pizzo, gli occhi febbrili, i lunghi capelli sciolti giù per le spalle, ma era così preoccupato dall'irruzione della peste nella zona coloniale, che non guardò niente del molto che lei aveva di adolescente in fiore, quanto invece il più infimo che potesse avere di appestata. Lei era stata più esplicita: il giovane medico di cui tanto aveva sentito parlare a proposito del colera le era sembrato un pedante incapace di amare nessun altro al di fuori di se stesso. La diagnosi fu un'infezione intestinale di origine alimentare che si arrese con un trattamento casalingo di tre giorni. Sollevato dalla prova che la figlia non aveva preso il colera, Lorenzo Daza accompagnò il dottor Juvenal Urbino fino alla carrozza, gli pagò il peso d'oro della visita, che gli sembrò eccessivo anche per un medico da ricchi, ma lo congedò con ostentazioni smodate di gratitudine. Era abbagliato dallo splendore dei suoi nomi, e non solo non lo nascondeva ma avrebbe fatto qualsiasi cosa per vederlo un'altra volta, e in circostanze meno formali.
La cosa sarebbe dovuta finire lì. Tuttavia il martedì della settimana seguente, senza essere chiamato e senza nessun preavviso, il dottor Juvenal Urbino tornò alla casa all'ora inopportuna delle tre del pomeriggio. Fermina Daza era nella stanza da lavoro a prendere una lezione di pittura a olio insieme a due amiche, quando lui apparve alla finestra con la finanziera bianca, impeccabile, e anche il cappello bianco, a cupola alta, e le fece segno di avvicinarsi. Lei appoggiò la tela sulla sedia e si diresse verso la finestra camminando in punta di piedi con la gonna a volants alzata fino alle caviglie per impedire che strusciasse per terra. Aveva un diadema con un ciondolo che le cadeva sulla fronte, la cui pietra lucente aveva lo stesso colore scontroso dei suoi occhi, e tutto in lei esalava un'aura di frescura. Al medico richiamò l'attenzione il fatto che si vestisse per dipingere in casa come se andasse a una festa. Le sentì il polso dall'esterno della finestra, le fece tirar fuori la lingua, le esaminò la gola con una spatola di alluminio, le guardò l'interno delle palpebre inferiori, e ogni volta fece un gesto di approvazione. Era meno represso della visita precedente, ma lei lo era di più perché non capiva il motivo di quella visita imprevista, se lui stesso aveva detto che non sarebbe tornato a meno che l'avessero chiamato per qualche novità. Anzi: non voleva più rivederlo. Quando finì la visita, il medico mise la spatola nella valigetta strapiena di strumenti e di boccette di medicine, e la chiuse con un colpo secco.
«Lei sta come una rosa appena spuntata» disse lui.
«Grazie.»
«A Dio» disse, e citò male San Tommaso: «Si ricordi che tutto quello che è buono, venga da dove venga, proviene dallo Spirito Santo. Le piace la musica?».
Lo chiese con un sorriso affascinante, in modo casuale, ma lei non lo corrispose.
«Perché questa domanda?» chiese a sua volta.
«La musica è importante per la salute» disse lui.
Lo credeva davvero, e lei avrebbe saputo molto presto e per il resto della sua vita che il tema della musica era quasi una formula magica che lui usava per proporre un'amicizia, ma in quel momento l'interpretò come una presa in giro. Per di più le due amiche, che avevano fatto finta di dipingere mentre loro parlavano alla finestra, fecero dei risolini da topi e si coprirono la faccia con le tele, e questo finì di offuscare Fermina Daza. Cieca di rabbia, chiuse la finestra con un colpo secco. Il medico, perplesso davanti alle tendine di pizzo, cercò di trovare la via verso il portone ma sbagliò strada, e nel suo turbamento inciampò nella gabbia dei corvi profumati. Questi lanciarono uno stridio sordido e agitarono le ali spaventati, e gli abiti del medico rimasero impregnati di una fragranza da donna. Il tuono della voce di Lorenzo Daza lo fece bloccare dove stava.
«Dottore: mi aspetti lì.»
Aveva visto tutto dal piano di sopra e stava scendendo le scale mentre si abbottonava la camicia, gonfio e paonazzo, e ancora con le basette scompigliate da un cattivo sogno della siesta. Il medico tentò di dominare il rossore.
«Ho detto a sua figlia che sta come una rosa.»
«E' così» disse Lorenzo Daza, «ma con troppe spine.»
Passò vicino al dottor Urbino senza salutarlo. Spinse le imposte della finestra della stanza da lavoro e ordinò alla figlia con un grido ruvido: «Vieni a chiedere scusa al dottore».
Il medico cercò di mediare per impedirlo, ma Lorenzo Daza non gli prestò attenzione. Insistette: «Sbrigati». Lei guardò le amiche con una supplica nascosta di comprensione e rispose a suo padre di non avere niente di che scusarsi, dato che aveva chiuso la finestra solo per impedire che continuasse a entrare il sole. Il dottor Urbino tentò di dare per buone le sue ragioni, ma Lorenzo Daza persistette nell'ordine. Allora Fermina Daza tornò alla finestra, pallida di rabbia e, portando davanti il piede destro mentre si sollevava la gonna con la punta delle dita, fece al medico un inchino teatrale.
«Le faccio le mie più sentite scuse, signore» disse.
Il dottor Juvenal Urbino la imitò giovialmente, facendo col suo cappello a tuba un gesto da moschettiere, ma non ottenne il sorriso di pietà che si aspettava. Lorenzo Daza lo invitò poi a prendere nello studio un caffè riparatore e lui accettò compiaciuto, perché non ci fosse nessun dubbio che non gli restava nell'animo neanche un sospetto di risentimento.
La verità era che il dottor Juvenal Urbino non beveva caffè, salvo una tazza a digiuno. Non beveva neanche alcoolici, all'infuori di un bicchiere di vino con i cibi in occasioni solenni, però non solo si bevette il caffè che gli offrì Lorenzo Daza, ma accettò anche un bicchierino di "anisado". Poi accettò un altro caffè con un altro bicchierino, e poi un altro e un altro ancora, nonostante avesse alcune visite da fare. All'inizio ascoltò con attenzione le scuse che Lorenzo Daza continuava a fargli a nome di sua figlia, che definì come una ragazza intelligente e seria, degna di un principe di qui o di qualsiasi parte, il cui unico difetto, secondo quanto disse, era il suo carattere da mula. Ma dopo il secondo bicchierino credette di sentire la voce di Fermina Daza in fondo al patio e la sua immaginazione se ne andò dietro di lei, la seguì nella notte che si era appena fatta nella casa mentre accendeva le luci del corridoio, suffumigava le camere da letto con la pompa dell'insetticida, scoperchiava in cucina la pentola della minestra che si sarebbe bevuta quella sera con suo padre, lui e lei soli a tavola, senza sollevare lo sguardo, senza sorbire la minestra per non rompere l'incanto del rancore, finché lui avesse dovuto arrendersi e chiederle perdono per la sua durezza del pomeriggio.
Il dottor Urbino conosceva abbastanza le donne per rendersi conto che Fermina Daza non sarebbe passata dall'ufficio finché lui non se ne fosse andato, ma si attardava in ogni modo perché sentiva che l'orgoglio ferito non lo avrebbe fatto più vivere in pace dopo la vergogna di quel pomeriggio. Lorenzo Daza, ormai quasi ubriaco, non sembrava notare la sua mancanza di attenzione perché non aveva bisogno di nessuno con le sue chiacchiere indomabili. Parlava a briglia sciolta, masticando il fiore del sigaro spento, tossendo rumorosamente, sputando, sistemandosi a fatica sulla poltrona girevole le cui molle liberavano lamenti da animale in gabbia. Aveva bevuto tre bicchierini per ognuno di quelli del suo invitato, e si interruppe un attimo solo quando si accorse che ormai non si vedevano più l'un l'altro e si alzò ad accendere la lampada. Il dottor Juvenal Urbino lo guardò di fronte con la nuova luce, vide che aveva un occhio storto come quello di un pesce e che le sue parole non corrispondevano al movimento delle labbra, e pensò che erano sue allucinazioni per il troppo alcol ingerito. Allora si alzò con la sensazione affascinante
di essere dentro a un corpo che non era il suo, ma in quello di qualcuno che continuava a stare seduto sulla sedia dove stava lui, e dovette fare un grande sforzo per non perdere la ragione.
Erano le sette passate quando uscì dallo studio preceduto da Lorenzo Daza. C'era la luna piena. Il patio idealizzato dall'anice fluttuava sul fondo di un acquario, e le gabbie coperte da stracci sembravano fantasmi addormentati sotto l'odore caldo dei fiori d'arancio nuovi. La finestra della stanza da lavoro era aperta, e c'era una lampada accesa sul tavolo, e i quadri non finiti stavano sui cavalletti come in una mostra. «Dove stai che non ci sei» disse il dottor Urbino passando, ma Fermina Daza non lo sentì, non poteva sentirlo, perché stava piangendo di rabbia in camera da letto, sdraiata a pancia in giù e aspettando suo padre per rifarsi dell'umiliazione di quel pomeriggio. Il medico non rinunciava all'illusione di salutarla, ma Lorenzo Daza non glielo propose. Rimpianse l'innocenza del suo polso, la sua lingua da gatta, le sue tonsille delicate, ma lo scoraggiò l'idea che lei non voleva mai più vederlo né doveva permettere che lui ci si provasse. Quando Lorenzo Daza entrò nell'androne, i corvi, svegli sotto gli stracci, lanciarono un gracidio funereo. «Ti strapperanno gli occhi» disse ad alta voce il medico pensando a lei, e Lorenzo Daza si girò a chiedergli che cosa avesse detto.
«Non sono stato io» disse lui. «E' stato l'anice.»
Lorenzo Daza lo accompagnò fino alla carrozza cercando di convincerlo a prendere il "peso" d'oro della seconda visita, ma lui non accettò. Diede corrette istruzioni al cocchiere di portarlo a casa dei due ammalati che doveva ancora vedere, e salì in carrozza senza bisogno di aiuto. Ma incominciò a sentirsi male con i sobbalzi sulle strade acciottolate, e così ordinò al cocchiere di cambiare percorso. Si guardò per un attimo nel vetro della carrozza e vide che anche la sua immagine continuava a pensare a Fermina Daza. Scrollò le spalle. Alla fine emise un rutto impastato, chinò la testa sul petto e si addormentò, e nel sonno cominciò a sentire le campane a lutto. Udì prima quelle della cattedrale, e poi quelle di tutte le chiese, una dopo l'altra, fino ai cocci rotti di San Julián el Hospitalario.
«Merda» mormorò ancora semiaddormentato, «sono morti i morti.» Sua madre e le sue sorelle stavano cenando a caffellatte e frittelle sulla tavola da cerimonie della sala da pranzo grande, quando lo videro apparire sulla porta con la faccia sconvolta e con tutta la sua persona disonorata dal profumo da puttane dei corvi. La campana maggiore della cattedrale contigua risuonava nell'ambito immenso della casa. Sua madre gli chiese allarmata dove si era cacciato, dato che lo avevano cercato dappertutto perché andasse a visitare il generale Ignacio María, ultimo nipote del Marchese di Jaraíz de la Vera, che era stato colpito quel pomeriggio da una congestione cerebrale: era per lui che suonavano a morto le campane. Il dottor Juvenal Urbino ascoltò sua madre senza sentirla, attaccato alla cornice della porta, e poi fece un mezzo giro cercando di arrivare alla sua camera da letto ma cadde bocconi in un'esplosione di vomito di anice stellato. «Maria Santissima» strillò sua madre. «Deve essere successo qualcosa di molto strano perché tu ti presenti in casa tua in questo stato.» La cosa più strana, però, non era ancora accaduta. Approfittando della visita del famoso pianista Romeo Lussich, che suonò un ciclo di sonate di Mozart non appena la città si fu ripresa dal lutto per il generale Ignacio María, il dottor Juvenal Urbino fece caricare il pianoforte della Scuola di Musica su un carretto di muli e portò a Fermina Daza una serenata che fece epoca. Lei si svegliò ai primi accordi, e non dovette fare altro che affacciarsi al balcone per sapere chi era il promotore dell'insolito omaggio. L'unica cosa che deplorò fu di non avere il coraggio di altre donzelle già viziate che avevano vuotato il vaso da notte sulla testa del pretendente indesiderato. Lorenzo Daza invece si vestì in fretta e furia durante l'esecuzione della serenata, e alla fine fece entrare nel salone il dottor Juvenal Urbino e il pianista, ancora vestiti con gli abiti da cerimonia del concerto, e li ringraziò della serenata con un bicchiere di buon brandy.
Fermina Daza si accorse ben presto che suo padre stava cercando di intenerirle il cuore. Il giorno dopo la serenata le aveva detto come per caso: «Immagina come si sentirebbe tua madre se sapesse che sei corteggiata da un Urbino de la Calle». Lei aveva risposto seccamente: «Morirebbe di nuovo dentro la bara». Le amiche che dipingevano con lei le raccontarono che Lorenzo Daza era stato invitato a pranzo al Club Social dal dottor Juvenal Urbino, e che questi era stato oggetto di una nota di biasimo per essere andato contro le norme del regolamento. Solo allora ebbe anche notizia che suo padre aveva sollecitato parecchie volte la sua ammissione al Club Social, e in tutte era stato rifiutato con una quantità di palline nere da non rendere possibile un nuovo tentativo. Ma Lorenzo Daza incassava le umiliazioni con un fegato da buon bottaio e continuava a fare sforzi di ingegno per incontrare per caso Juvenal Urbino, senza rendersi conto che era Juvenal Urbino a fare l'impossibile per lasciarsi incontrare. A volte passavano ore a chiacchierare nello studio, e la casa nel frattempo rimaneva come sospesa ai margini del tempo, perché Fermina Daza non permetteva che nulla seguisse il suo corso nella vita finché lui non se ne fosse andato. Il Caffè della Parrocchia fu un buon porto intermedio. Fu lì dove Lorenzo Daza insegnò a Juvenal Urbino le prime nozioni degli scacchi, e lui fu un allievo così diligente che gli scacchi si trasformarono in un'assuefazione incurabile che lo tormentò fino al giorno della sua morte.
Una sera, poco dopo la serenata di pianoforte, Lorenzo Daza trovò una lettera con la busta sigillata nel cortile di casa sua, indirizzata a sua figlia e con il monogramma J.U.C. impresso sul sigillo. La fece scivolare sotto la porta quando passò davanti alla camera da letto di Fermina, e lei non riuscì a capire come fosse arrivata fin lì, dato che le pareva inconcepibile che suo padre fosse tanto cambiato da portarle una lettera di un pretendente. La lasciò sul comodino, senza sapere davvero cosa farne, e lì rimase chiusa per parecchi giorni, fino a un pomeriggio di pioggia in cui Fermina Daza sognò che Juvenal Urbino era tornato a casa per regalarle la spatola con cui le aveva esaminato la gola. La spatola del sogno non era d'alluminio ma di un metallo appetitoso che lei aveva assaggiato con piacere in altri sogni, cosicché la ruppe in due pezzi disuguali e diede a lui quello più piccolo.
Quando si svegliò aprì la lettera. Era breve e irreprensibile, e l'unica cosa che Juvenal Urbino le domandava era di permettergli di chiedere a suo padre il permesso di venirla a trovare. La impressionarono la sua semplicità e la sua serietà, e la rabbia coltivata con tanto amore per molti giorni si sedò improvvisamente. Mise la lettera in un piccolo forziere fuori uso sul fondo del baule, ma si ricordò che era lì dove aveva messo anche le lettere profumate di Florentino Ariza, e la tolse dal forzierino per cambiarle di posto, turbata da un lampo di vergogna. Allora le sembrò che la cosa più decente fosse darla come non ricevuta, e la bruciò sulla lampada guardando come le gocce della ceralacca sbocciassero in bolle azzurre sulla fiamma. Sospirò: «Pover'uomo». Improvvisamente si rese conto che era la seconda volta che lo diceva in poco più di un anno, e per un attimo pensò a Florentino Ariza, e lei stessa fu sorpresa di quanto lontano fosse dalla sua vita: pover'uomo.
In ottobre, con le ultime piogge, arrivarono altre tre lettere, la prima accompagnata da una scatoletta di pastiglie di violetta dell'Abbazia di Flavigny. Due le aveva consegnate al portone di casa il cocchiere del dottor Juvenal Urbino, e lui aveva salutato Gala Placidia dal finestrino della carrozza, innanzitutto perché non ci fosse dubbio che le lettere erano sue, e poi perché nessuno potesse dirgli che non erano state ricevute. In più, tutte e due erano sigillate con il monogramma di ceralacca, e scritte con gli scarabocchi criptici che Fermina Daza ormai conosceva: calligrafia da medico. Tutte e due dicevano in sostanza le stesse cose della prima, ed erano concepite con lo stesso spirito di sottomissione, ma in fondo alla loro decenza si incominciava a intravedere un'ansia che non era mai stata evidente nelle lettere circospette di Florentino Ariza.
Fermina Daza le lesse non appena furono consegnate, con due settimane di differenza, e senza spiegarselo lei stessa cambiò parere quando stava per gettarle nel fuoco. Tuttavia, non pensò mai di rispondere. La terza lettera di ottobre era stata fatta scivolare sotto il portone, e in tutto era diversa da quelle precedenti. La scrittura era così puerile che era stata fatta senza dubbio con la mano sinistra, ma Fermina Daza non se ne accorse se non quando il testo stesso si rivelò come un anonimo infame. Chi l'aveva scritto dava per scontato che Fermina Daza avesse incantato con i suoi filtri il dottor Juvenal Urbino, e da quella supposizione traeva conclusioni sinistre. Si chiudeva con una minaccia: se Fermina Daza non avesse rinunciato alla sua pretesa di elevarsi con l'uomo più desiderato della città, sarebbe stata esposta alla pubblica vergogna.
Si sentì vittima di una grave ingiustizia, ma la sua reazione non fu di vendetta, bensì esattamente il contrario: avrebbe voluto scoprire l'autore della lettera anonima per dissuaderlo dal suo errore con quante spiegazioni fossero pertinenti, dato che si sentiva sicura che mai, per nessun motivo, sarebbe stata sensibile alle galanterie di Juvenal Urbino. Nei giorni seguenti ricevette altre due lettere senza firma, perfide come la prima, ma nessuna delle tre sembrava scritta dalla stessa persona. O era vittima di una congiura o la falsa versione dei suoi amori segreti era andata più lontano di quanto potesse supporre. La inquietava l'idea che tutto quello fosse conseguenza di una semplice indiscrezione di Juvenal Urbino. Le venne in mente che forse era un uomo diverso dal suo aspetto degno, che forse chiacchierava durante le visite e si vantava di conquiste immaginarie, come tanti altri della sua classe. Pensò di scrivergli per rimproverargli l'offesa del suo onore ma poi desistette dal proposito, perché forse era questo quello che voleva lui. Cercò di informarsi dalle amiche che andavano a dipingere con lei nella stanza da lavoro, ma l'unica cosa che avevano sentito erano commenti benevoli sulla serenata di pianoforte. Si sentì furiosa, impotente, umiliata. Contrariamente all'inizio, quando avrebbe voluto incontrarsi con il nemico invisibile per convincerlo dei suoi errori, adesso voleva solo farne carne trita per salsicciotti con le cesoie. Passava le notti in bianco ad analizzare dettagli ed espressioni delle lettere anonime, con l'illusione di trovare una via di consolazione. Fu una vana illusione: Fermina Daza era estranea per natura al mondo interiore degli Urbino de la Calle, e aveva armi per difendersi dalle loro buone arti, ma non da quelle cattive.
Questa convinzione si fece ancora più amara dopo lo spavento della bambola negra che le arrivò in quei giorni senza nessuna lettera, ma la cui origine le parve facile a immaginarsi: solo il dottor Juvenal Urbino poteva averla mandata. Era stata comprata alla Martinica, secondo l'etichetta originale, e aveva un bel vestito e i capelli arricciati con dei filamenti d'oro, e chiudeva gli occhi quando la si coricava. Fermina Daza la trovò così divertente che superò i suoi scrupoli, e la coricava sul suo cuscino durante il giorno. Si abituò a dormire con lei. Dopo un po' di tempo, però, dopo un sogno spossante, scoprì che la bambola stava crescendo: lo splendido vestito originale con cui era arrivata le lasciava le cosce scoperte, e le scarpe si erano spaccate per la pressione dei piedi. Fermina Daza aveva sentito parlare di stregonerie africane, ma di nessuna così spaventosa come questa. D'altra parte, non poteva concepire che un uomo come Juvenal Urbino fosse capace di una simile atrocità. Aveva ragione: la bambola non era stata portata dal cocchiere, ma da un venditore ambulante di gamberi, di cui nessuno aveva potuto dare nessuna informazione certa. Cercando di decifrare l'enigma, Fermina Daza pensò per un momento a Florentino Ariza, la cui condizione malinconica la spaventava, ma la vita si incaricò di convincerla del suo errore. Mai fu chiarito il mistero e solo evocarlo le provocava un brivido di terrore fino a molto tempo dopo che si sposò, ed ebbe figli, e si credette l'eletta dal destino: la più felice.
L'ultimo tentativo del dottor Urbino fu la mediazione della sorella
Franca de la Luz, superiora del Colegio de la Presentación de la Santísima Virgen, che non poteva dire di no alla richiesta di una famiglia che aveva favorito la sua comunità da quando si era stabilita nelle Americhe. Arrivò accompagnata da una novizia alle nove di mattina, e tutte e due dovettero intrattenersi per mezz'ora con le gabbie di uccelli finché Fermina Daza avesse finito di fare il bagno. Era una tedesca virile con un accento metallico e uno sguardo imperioso che non avevano nessuna relazione con le sue passioni infantili. Non c'era niente a questo mondo che Fermina Daza odiasse più di lei, e di quanto aveva avuto a che vedere con lei, e il solo ricordo della sua falsa pietà le provocava un prurito da scorpioni nei visceri. Le bastò riconoscerla dalla porta del bagno per rivivere di colpo i supplizi del collegio, l'incubo insopportabile della messa quotidiana, il terrore degli esami, la diligenza servile delle novizie, la vita tutta pervertita dal prisma della povertà di spirito. La sorella Franca de la Luz, invece, la salutò con una gioia che sembrava sincera. Si sorprese di quanto fosse cresciuta e maturata e lodò il giudizio con cui dirigeva la casa, il buon gusto del patio, il braciere degli aranci. Ordinò alla novizia di aspettarla lì, senza avvicinarsi troppo ai corvi, che in un attimo di disattenzione potevano cavarle gli occhi, e cercò un posto appartato dove sedersi a parlare a quattr'occhi con Fermina.
Fu una visita breve e aspra. La sorella Franca de la Luz, senza perdere tempo in preamboli, offrì a Fermina Daza una riabilitazione onorevole. Il motivo dell'espulsione sarebbe stato cancellato non solo negli atti ma anche dalla memoria della comunità, e questo le avrebbe permesso di finire gli studi e di ottenere il diploma di Licenza in Lettere. Fermina Daza, perplessa, volle conoscerne il motivo. «E' la richiesta di qualcuno che merita tutto e il cui solo desiderio è farti felice» disse la monaca. «Sai chi è?»
Allora capì. Si domandò con che autorità servisse da emissaria dell'amore una donna che le aveva sconvolto la vita per una lettera innocente, ma non si azzardò a dirlo. Disse, invece, di sì, che conosceva quell'uomo, e che proprio per quello sapeva che non aveva nessun diritto di intromettersi nella sua vita.
«L'unica cosa che ti chiede è di permettergli di parlare con te cinque minuti» disse la monaca. «Sono sicura che tuo padre sarà d'accordo.» Fermina Daza ruminò l'impertinenza guardando la monaca senza battere ciglio, la guardò fissa negli occhi, senza parlare, ruminando in silenzio, finché vide con un piacere infinito che i suoi occhi da uomo si riempivano di lacrime. La sorella Franca de la Luz se le asciugò con il fazzoletto appallottolato, e si alzò in piedi. «Dice bene tuo padre che sei una mula» disse.
L'arcivescovo non venne. Cosicché l'assedio sarebbe finito quel giorno se non fosse stato che Hildebranda Sánchez venne a passare il Natale con sua cugina, e la vita cambiò per tutte e due. Andarono a prenderla alla goletta di Riohacha alle cinque del mattino, in mezzo a una turba di passeggeri moribondi per il mal di mare, ma lei sbarcò raggiante, molto donna, e con lo spirito agitato dalla cattiva notte di mare. Arrivò carica di cesti di pavoni vivi e di quanti frutti esistevano nelle sue fertili terre, perché non mancasse a nessuno il cibo durante la sua visita. Lisímaco Sánchez, suo padre, mandava a chiedere se mancavano i musicisti per le feste, dato che lui aveva i migliori a sua disposizione, e prometteva di mandare un carico di fuochi artificiali. Annunciava anche di non poter venire per la figlia prima di marzo, cosicché c'era tempo d'avanzo per vivere.
Le due cugine incominciarono subito. Fecero il bagno insieme dal primo pomeriggio, nude, facendosi abluzioni reciproche con l'acqua del serbatoio. Si aiutavano a insaponarsi, si schiacciavano i lendini, confrontavano le loro natiche, i loro seni immobili, l'una guardandosi nello specchio dell'altra per valutare con quanta crudeltà le avesse trattate il tempo dall'ultima volta che si erano viste nude. Hildebranda era grande e soda, con la pelle dorata, ma tutto il pelo del suo corpo era da mulatta, corto e riccio come paglietta di ferro. Fermina Daza, invece, aveva una nudità pallida, di linee lunghe, di pelle chiara, di peli lisci. Gala Placidia aveva fatto mettere per loro due letti uguali nella stanza, ma spesso si coricavano in uno e chiacchieravano a luci spente fino all'alba. Fumavano dei sigarini da ladri da strada che Hildebranda aveva portato nascosti nelle fodere del baule, e dopo dovevano bruciare dei fogli di carta d'Armenia per purificare l'aria da tugurio che lasciavano nella camera. Fermina Daza lo aveva fatto per la prima volta a Valledupar, e aveva continuato a farlo a Fonseca, a Riohacha, dove si chiudevano anche in dieci cugine in una stanza a parlare di uomini e a fumare di nascosto. Aveva imparato a fumare all'incontrario, con la brace dentro la bocca, come fumavano gli uomini nelle notti di guerra perché non li denunciasse la brace del tabacco. Ma non avevano mai fumato da sole. Con Hildebranda a casa sua lo fece tutte le sere prima di dormire, e da allora prese l'abitudine di fumare, anche se sempre di nascosto, perfino da suo marito e dai suoi figli, non solo perché era malvisto che una donna fumasse in pubblico ma anche perché aveva il piacere associato alla clandestinità.
Anche il viaggio di Hildebranda le era stato imposto dai genitori per cercare di allontanarla dal suo amore impossibile, anche se le avevano fatto credere che fosse per aiutare Fermina a decidersi per un buon partito. Hildebranda lo aveva accettato con l'illusione di eludere l'oblio, come aveva fatto la cugina al suo momento, ed era rimasta d'accordo con il telegrafista di Fonseca perché mandasse i suoi messaggi con la massima segretezza. Per questo fu così amara la sua delusione quando seppe che Fermina Daza aveva ripudiato Florentino Ariza. Inoltre, Hildebranda aveva una concezione universale dell'amore, e pensava che qualsiasi cosa fosse accaduta a uno avrebbe colpito tutti gli amori del mondo intero. Tuttavia non rinunciò al progetto. Con un'audacia che provocò a Fermina Daza una crisi di spavento, se ne andò da sola all'ufficio del telegrafo con l'intento di guadagnarsi il favore di Florentino Ariza.
Non lo avrebbe riconosciuto, dato che non aveva neanche una fattezza corrispondente all'immagine che lei si era fatta di lui attraverso Fermina Daza. A prima vista le parve impossibile che sua cugina fosse stata sul punto di impazzire per quell'impiegato quasi invisibile, con l'aria da cane bastonato, il vestito da rabbino in disgrazia e i cui modi solenni non potevano alterare il cuore di nessuno. Ma ben presto si pentì della prima impressione, perché Florentino Ariza si mise al suo servizio incondizionatamente senza sapere chi fosse: non lo seppe mai. Nessuno l'avrebbe capita come lui, così non le chiese di dire chi fosse né le domandò alcun indirizzo. La sua soluzione fu molto semplice: lei sarebbe passata tutti i mercoledì al pomeriggio all'ufficio del telegrafo perché lui le consegnasse le risposte a
mano, e nient'altro. D'altro canto, quando lui lesse il messaggio che Hildebranda portava scritto le domandò se accettava un suggerimento, e lei fu d'accordo. Florentino Ariza fece prima qualche correzione fra le righe, le cancellò, le riscrisse, rimase senza spazio, e alla fine stracciò il foglio e scrisse di nuovo un messaggio diverso che a lei parve commovente. Quando uscì dall'ufficio del telegrafo, Hildebranda stava per piangere.
«E' brutto e triste» disse a Fermina, «ma è tutto amore.»
Quello che maggiormente richiamò l'attenzione di Hildebranda fu la solitudine della cugina. Sembrava, le disse, una zitellona di vent'anni. Abituata a una famiglia numerosa e dispersa, in case dove nessuno sapeva esattamente quanti ci vivessero né chi andasse a mangiare ogni volta, Hildebranda non poteva immaginarsi una ragazza della sua età ridotta alla clausura della sua vita privata. Era così: da quando si alzava alle sei del mattino finché spegneva la luce del comodino si consacrava alla perdita del tempo. La vita le si imponeva da fuori. Prima, con gli ultimi galli, l'uomo del latte la svegliava col batacchio del portone. Poi bussavano la donna del pesce con la cassetta di pagari moribondi in un letto di alghe, le venditrici sontuose con le verdure di María la Baja, la frutta di San Jacinto. E poi, durante tutto il giorno, bussavano tutti: i mendicanti, le ragazze delle riffe, le suore della carità, l'arrotino con la coramella, quello che comprava bottiglie, quello che comprava oro rotto, quello che comprava carta di giornale, le false gitane che si offrivano di leggere il destino nelle carte, nelle linee della mano, nel fondo del caffè, nell'acqua dei catini. A Gala Placidia andava via la settimana aprendo e chiudendo il portone per dire di no, torni un altro giorno, o gridando dal balcone con l'umore inverso di non dar più fastidio, cazzo, che abbiamo già comprato quello che ci mancava. Aveva rimpiazzato la zia Escolástica con tanto fervore e tanta grazia che Fermina la confondeva con lei perfino per amarla. Aveva ossessioni da schiava. Non appena trovava un momento libero se ne andava in guardaroba a stirare la biancheria, la lasciava perfetta, la sistemava negli armadi con fiori di spigo, e non solo stirava e piegava quella che aveva appena lavato ma anche quella che aveva perduto il suo nitore per mancanza di uso. Con la stessa attenzione continuava a curare il vestiario di Fermina Sánchez, la madre di Fermina, morta da quattordici anni. Ma era Fermina Daza che prendeva le decisioni. Ordinava quello che si doveva mangiare, quello che si doveva comprare, quello che bisognava fare in ogni caso, e in quel modo determinava la vita di una casa che in realtà non aveva niente da determinare. Quando finiva di lavare le gabbie e di dar da mangiare agli uccelli, e di curare che non mancasse niente ai fiori, restava senza sapere cosa
fare. Spesso, dopo che era stata espulsa dal collegio, si era addormentata durante la siesta e non si era svegliata fino al giorno dopo. Le lezioni di pittura furono solo un modo più divertente di perdere il tempo.
I rapporti con suo padre erano privi di affetto dall'esilio della zia Escolástica, anche se tutti e due avevano trovato il modo di vivere insieme senza darsi fastidio a vicenda. Quando lei si alzava, lui già se ne era andato ai suoi affari. Raramente mancava al rito del pranzo, anche se non mangiava quasi, dato che gli bastavano gli aperitivi e gli stuzzichini "gallegos" del Caffè della Parrocchia. E non cenava nemmeno: gli lasciavano la sua parte sul tavolo, tutta in un piatto solo e coperta con un altro, anche se sapevano che non l'avrebbe mangiata fino al giorno dopo riscaldata alla prima colazione. Una volta alla settimana dava alla figlia il denaro per le spese, che lui calcolava molto bene e che lei amministrava con rigore, ma accondiscendeva con piacere a qualsiasi richiesta che lei gli avesse fatto per qualche spesa imprevista. Non le lesinava mai il centesimo, non le chiedeva mai conti, ma lei si comportava come se avesse dovuto renderli di fronte al tribunale del Sant'Uffizio. Non le aveva mai parlato della natura e dello stato dei suoi affari, né l'aveva portata mai a conoscere i suoi uffici del porto, che erano in un luogo vietato alle signore di buoni costumi anche se accompagnate dai propri padri. Lorenzo Daza non arrivava a casa prima delle dieci di sera, che era l'ora del coprifuoco nelle epoche meno critiche delle guerre. Rimaneva fino a quell'ora al Caffè della Parrocchia, a giocare a quello che capitava perché era uno specialista in tutti i giochi di società, e anche un buon maestro. Era sempre arrivato a casa in possesso delle sue facoltà senza svegliare la figlia, nonostante bevesse il primo "anisado" appena sveglio e continuasse a masticare un'estremità del sigaro spento e a bere bicchierini distanziati durante il giorno. Una notte, però, Fermina lo sentì entrare. Udì i suoi passi da cosacco sulle scale, il suo fiato grosso nel corridoio del secondo piano, i suoi colpi col palmo della mano sulla porta della camera. Lei gli aprì, e per la prima volta si spaventò per il suo occhio storto e il rallentamento delle sue parole.
«Siamo rovinati» disse lui. «Rovina totale, ora lo sai.»
Fu tutto quello che disse, e non lo ridisse mai più né successe niente che indicasse se aveva detto o meno la verità, ma dopo quella notte Fermina Daza prese coscienza di essere sola al mondo. Viveva in un limbo sociale. Le sue vecchie compagne di scuola stavano in un cielo proibito per lei, e molto di più dopo il disonore dell'espulsione, ma non era neanche vicina dei suoi vicini, perché questi l'avevano conosciuta senza passato e con l'uniforme della Presentación de la Santísima Virgen. Il mondo di suo padre era di commercianti e stivatori, di rifugiati da guerre nel covo pubblico del Caffè della Parrocchia, di uomini soli. Nell'ultimo anno, le lezioni di pittura l'avevano un po' alleggerita della sua reclusione, perché l'insegnante preferiva le lezioni collettive ed era solita portare altre allieve nella stanza da lavoro. Ma erano ragazze di condizioni sociali disperse e mal definite, e per Fermina Daza non erano altro che amiche precarie il cui affetto terminava a ogni lezione. Hildebranda voleva aprire la casa, rinnovare l'aria, portare i musicisti e i razzi e i castelli pirotecnici di suo padre e fare un ballo di carnevale i cui venti impetuosi radessero al suolo l'animo tarlato della cugina, ma ben presto si rese conto che i suoi propositi erano inutili. Per una semplice ragione: non c'era con chi.
In ogni modo, fu lei a inserirla nella vita. I pomeriggi, dopo le lezioni di pittura, si faceva portare in giro per conoscere la città. Fermina Daza le mostrò il percorso che faceva ogni giorno con la zia Escolástica, la panchina del giardinetto dove Florentino Ariza faceva finta di leggere mentre l'aspettava, le stradine lungo le quali la seguiva, i nascondigli delle lettere, il palazzo sinistro dove c'era stato il carcere del Sant'Uffizio e che poi era stato restaurato e trasformato nel Colegio de la Presentación de la Santísima Virgen, che lei odiava con tutta la sua anima. Salirono sulla collina del cimitero dei poveri, dove Florentino Ariza suonava il violino a seconda dello spirare dei venti perché lei potesse sentirlo dal letto, e da lì videro tutta la città storica, i tetti rotti e i muri tarlati, le rovine delle fortezze in mezzo alle erbacce, la distesa di isole della baia, le baracche di miseria intorno ai pantani, il Caribe immenso. La notte di Natale andarono alla messa di mezzanotte nella cattedrale. Fermina occupò il posto dove le arrivava meglio la musica confidenziale di Florentino Ariza e mostrò a sua cugina il luogo esatto in cui in una notte come quella aveva visto da vicino per la prima volta i suoi occhi spaventati. Si arrischiarono da sole fino al Portal de los Escribanos, comprarono dolci, si fermarono nel negozio di carte di fantasia, e Fermina Daza indicò alla cugina il luogo in cui aveva improvvisamente scoperto che il suo amore era solo un miraggio. Non si rendeva conto lei stessa che ogni suo passo dalla casa al collegio, ogni luogo della città, ogni momento del suo passato recente non sembravano esistere se non grazie a Florentino Ariza. Hildebranda glielo fece notare, ma lei non lo ammise, perché mai avrebbe ammesso la realtà che Florentino Ariza, nel bene o nel male, era l'unico che le era capitato nella vita.
In quei giorni venne un fotografo belga che installò il suo studio ai piani superiori del Portal de los Escribanos, e chiunque potesse pagarlo approfittò dell'occasione per farsi un ritratto. Fermina e
Hildebranda furono tra le prime. Svuotarono il guardaroba di Fermina Sánchez, si divisero i vestiti più vistosi, gli ombrellini, le scarpe da festa, i cappelli, e si vestirono da dame di metà secolo. Gala Placidia le aiutò a stringere i corsetti, gli insegnò a muoversi dentro le armature di fil di ferro delle crinoline, a calzare i guanti, ad abbottonarsi gli stivaletti con i tacchi alti. Hildebranda preferì un cappello a falde larghe con piume di struzzo che le cadevano su una spalla. Fermina se ne mise uno più recente, guarnito con frutti di gesso dipinto e fiori di tessuto di crine. Alla fine risero di loro stesse quando si videro allo specchio così simili ai dagherrotipi delle nonne, e se ne andarono felici, morte dal ridere, a farsi fare la fotografia della loro vita. Gala Placidia le guardò dal balcone mentre attraversavano il parco con gli ombrellini aperti, tenendosi in equilibrio come potevano sui tacchi e spingendo le crinoline con tutto il corpo come girelli da bambini, e diede loro la benedizione perché Dio le aiutasse nei loro ritratti.
C'era confusione davanti allo studio del belga, perché stavano fotografando Beny Centeno, che in quei giorni aveva vinto il campionato di boxe a Panama. Era in pantaloncini da combattimento, con i guanti indosso e la corona sulla testa, e non fu facile fotografarlo perché doveva rimanere in posizione di guardia per un minuto e respirando il meno possibile, ma appena alzava la guardia i suoi fans prorompevano in ovazioni, e lui non poteva resistere alla tentazione di compiacerli esibendo le sue arti. Quando arrivò il turno delle cugine il cielo si era annuvolato e la pioggia pareva imminente, ma loro si lasciarono incipriare le facce con amido e si appoggiarono con tale naturalezza a una colonna di alabastro che riuscirono a restare immobili per più tempo di quanto sembrasse ragionevole. Fu un ritratto eterno. Quando Hildebranda morì, quasi centenaria, nella sua fattoria di Flores de María, trovarono la sua copia chiusa sottochiave nell'armadio della stanza da letto, nascosta tra le pieghe delle lenzuola profumate, vicino a un fossile di viola del pensiero in una lettera cancellata dagli anni. Fermina Daza tenne sempre la sua per molti anni nella prima pagina di un album di famiglia, da dove scomparve senza che si sapesse né come né quando, e capitò tra le mani di Florentino Ariza per una serie di casualità inverosimili quando già tutti e due avevano superato i sessanta.
La piazza davanti al Portal de los Escribanos era stracolma fino ai balconi quando Fermina e Hildebranda uscirono dallo studio del belga. Avevano dimenticato di avere le facce bianche di amido e le labbra dipinte con una pomata color cioccolato, e che i loro vestiti non erano adatti né all'ora né all'epoca. La strada le accolse con un fischio ironico. Erano in un angolo, cercando di sottrarsi al pubblico dileggio, quando si fece strada in mezzo alla folla il landò dai sauri dorati. Il fischio cessò e i gruppi ostili si dispersero. Hildebranda non avrebbe mai dimenticato la prima visione dell'uomo che apparve sul predellino, il suo cilindro di raso, il suo gilè di broccato, i suoi gesti saggi, la dolcezza dei suoi occhi, l'autorevolezza della sua presenza.
Anche se non l'aveva mai visto, lo riconobbe subito. Fermina Daza le aveva parlato di lui, quasi per caso e senza nessun interesse, un pomeriggio del mese prima quando non aveva voluto passare dalla casa del Marchese de Casalduero perché il landò coi due cavalli d'oro stazionava davanti al portone. Le aveva raccontato chi era il proprietario e aveva cercato di spiegarle i motivi della sua antipatia, anche se non le aveva detto una parola delle sue pretese. Hildebranda lo aveva dimenticato. Ma quando lo identificò sulla porta della carrozza come un'apparizione da favola, con un piede per terra e l'altro sul predellino, non capì le ragioni della cugina.
«Fatemi la cortesia di salire» disse loro il dottor Juvenal Urbino.
«Vi porto dove volete.»
Fermina Daza fece un gesto di reticenza ma ormai Hildebranda aveva accettato. Il dottor Juvenal Urbino scese a terra, e con la punta delle dita, quasi senza toccarla, la aiutò a salire in carrozza. Fermina, senza alternative, salì dopo di lei con la faccia accesa dal rossore.
La casa era appena a tre isolati. Le cugine non si accorsero che il dottor Urbino si era messo d'accordo col cocchiere, ma doveva essere così, perché la carrozza impiegò più di mezz'ora per arrivare. Erano sedute sul sedile principale, e lui di fronte a loro, dando le spalle al senso di marcia della carrozza. Fermina girò la faccia verso il finestrino e si sprofondò nel vuoto. Hildebranda invece era incantata, e il dottor Urbino ancora più incantato con il suo incantamento. Non appena la carrozza incominciò a muoversi, lei sentì l'odore caldo del cuoio naturale dei sedili, l'intimità dell'interno "capitonné", e disse che le sembrava un posto buono dove fermarsi a vivere. Ben presto incominciarono a ridere, a scambiarsi scherzi da vecchi amici, e trasformarono persino un gioco di ingegno in un gergo facile, che consisteva nell'intercalare a ogni sillaba una sillaba convenzionale. Facevano finta di credere che Fermina non li capisse, benché non solo sapessero che li capiva ma anche che stava dietro a quello che facevano e per questo lo facevano. A un certo momento, dopo molto ridere, Hildebranda confessò di non farcela più a sopportare il supplizio degli stivaletti.
«Niente di più facile» disse il dottor Urbino. «Vediamo chi fa prima.» Incominciò a slacciarsi i lacci delle scarpe, e Hildebranda accettò la sfida. Non le fu facile, per l'impedimento del corsetto con le stecche che non le permetteva di chinarsi, ma il dottor Urbino indugiò di proposito, finché lei si tolse gli stivaletti da sotto la gonna con una risata di trionfo, come se li avesse appena pescati in uno stagno. Tutti e due guardarono allora Fermina, e videro il suo magnifico profilo da rigogolo più affilato che mai contro l'incendio del tramonto. Era tre volte furiosa: per la situazione immeritata in cui si trovava, per la condotta libertina di Hildebranda, e per la certezza che la carrozza continuava a girare senza senso per ritardare l'arrivo. Ma Hildebranda andava a briglie sciolte.
«Adesso mi rendo conto» disse, «che quello che mi dava fastidio non erano le scarpe ma questa gabbia di fil di ferro.»
Il dottor Urbino capì che si riferiva alla crinolina e colse l'occasione al volo. «Niente di più facile» disse. «Se la tolga.» Con rapido gesto da prestigiatore si tolse il fazzoletto dal taschino e si bendò gli occhi.
«Io non guardo» disse.
La benda fece risaltare la purezza delle sue labbra in mezzo alla barba rotonda e nera e i baffi dalle punte affilate, e lei si sentì scossa da una fitta di panico. Guardò Fermina, e stavolta non la vide furiosa, ma terrorizzata al pensiero che lei fosse capace di togliersi la sottana. Hildebranda si fece seria e le chiese con l'alfabeto muto: «Che cosa facciamo?». Fermina Daza le rispose con lo stesso codice che se non andavano subito a casa lei si sarebbe buttata giù dalla carrozza in marcia.
«Sto aspettando» disse il medico
«Adesso può guardare» disse Hildebranda.
Il dottor Juvenal Urbino la trovò diversa quando si fu tolto la benda, e capì che il gioco era finito, ed era finito male. A un suo cenno il cocchiere fece girare la carrozza su se stessa, ed entrò nel Giardino de Los Evangelios nel momento in cui il lampionaio accendeva i lampioni pubblici. Tutte le chiese suonarono l'Angelus. Hildebranda scese in fretta, un po' turbata dall'idea di aver fatto inquietare la cugina, e si congedò dal medico con una stretta di mano senza cerimonie. Fermina la imitò, ma quando cercò di ritirare la mano con il guanto di raso, il dottor Urbino le strinse forte il dito del cuore.
«Sto aspettando la sua risposta» le disse.
Fermina allora diede uno strattone più forte, e il guanto vuoto restò penzoloni nella mano del medico, ma non si attardò a recuperarlo. Andò a letto senza toccare cibo. Hildebranda, come se non fosse successo niente, entrò in camera dopo aver cenato con Gala Placidia in cucina e commentò con la sua grazia naturale gli incidenti del pomeriggio. Non nascose il suo entusiasmo per il dottor Urbino, per la sua eleganza e la sua simpatia, e Fermina non le rispose con nessun commento, ma si era ripresa dalla contrarietà. A un certo punto Hildebranda lo confessò: quando il dottor Juvenal Urbino si era bendato gli occhi e lei aveva visto lo splendore dei denti perfetti fra le sue labbra rosate aveva sentito un desiderio irresistibile di mangiarselo a forza di baci. Fermina Daza si girò verso il muro e pose termine alla conversazione senza intenzione di offendere, anzi sorridente, ma con tutto il cuore.
«Che puttana sei!» disse.
Dormì a sbalzi, vedendo il dottor Juvenal Urbino dappertutto, vedendolo ridere, cantare, sprigionando faville di zolfo dai denti con gli occhi bendati, burlandosi di lei con un gergo senza regole fisse in una carrozza distinta che saliva verso il cimitero dei poveri. Si svegliò molto prima dell'alba, esausta, e restò sveglia a occhi chiusi pensando agli anni innumerevoli che ancora le mancavano per vivere. Poi, mentre Hildebranda faceva il bagno, scrisse una lettera di gran fretta, la piegò di gran fretta, la mise di gran fretta nella busta, e prima che Hildebranda uscisse dal bagno l'aveva mandata tramite Gala Placidia al dottor Juvenal Urbino. Era una lettera delle sue, senza una sillaba di più né di meno, in cui diceva sì, dottore, che avrebbe parlato con suo padre.
Quando Florentino Ariza seppe che Fermina Daza stava per sposarsi con un medico illustre e fortunato, educato in Europa e con una reputazione insolita alla sua età, non ci fu potere capace di sollevarlo dalla sua prostrazione. Tránsito Ariza fece più del possibile per consolarlo con espedienti da fidanzata quando si accorse che aveva perduto la parola e l'appetito e passava le notti in bianco a piangere in continuazione, e dopo una settimana riuscì a farlo mangiare di nuovo. Parlò allora con don León Dodicesimo Loayza, l'unico ancora vivo dei tre fratelli, e senza dirgli il motivo lo pregò di dare al nipote un impiego per fare qualsiasi cosa nella compagnia di navigazione, sempre che fosse in un porto sperduto nella boscaglia di La Magdalena, dove non ci fossero né posta né telegrafo, né vedesse nessuno che gli raccontasse niente di questa città di perdizione. Lo zio non gli diede l'impiego per riguardo nei confronti della vedova del fratello, che non sopportava neanche la sola esistenza del bastardo, ma gli procurò il posto di telegrafista a Villa de Leyva, una città di sogno a più di venti giorni di viaggio e a quasi tremila metri di altezza sul livello di Calle de las Ventanas. Florentino Ariza non fu mai molto cosciente di quel viaggio terapeutico. Lo avrebbe ricordato sempre, come tutto quello che avvenne in quell'epoca, attraverso i cristalli rarefatti della sua sventura. Quando ricevette il telegramma della nomina non pensò neanche di prenderlo in considerazione, ma Lotario Thugut lo convinse con argomenti tedeschi che lo attendeva un avvenire radioso nella pubblica amministrazione. Gli disse: «Il telegrafo è la professione del futuro». Gli regalò un paio di guanti foderati con pelo di coniglio, un colbacchetto e un soprabito con collo di peluche sperimentato nei gennai glaciali della Baviera. Lo zio León Dodicesimo gli regalò due vestiti di panno e degli stivali impermeabili che erano appartenuti al fratello maggiore, e gli diede un passaggio con cabina per il prossimo battello. Tránsito Ariza ridusse gli abiti alle misure di suo figlio, che era meno corpulento del padre e molto più basso del tedesco, e gli comprò calze di lana e mutandoni lunghi perché non gli mancasse niente contro i rigori di quel luogo freddo. Florentino Ariza, indurito da tanto soffrire, assisteva ai preparativi del viaggio come se avesse assistito un morto nella preparazione dei suoi onori funebri. Non disse a nessuno che se ne andava, non salutò nessuno, con l'ermetismo ferreo con cui aveva rivelato solo a sua madre il segreto della sua passione nascosta, ma alla vigilia del viaggio fece coscientemente un'ultima follia del cuore che ben avrebbe potuto costargli la vita. A mezzanotte si mise il suo abito della domenica e suonò da solo sotto il balcone di Fermina Daza il valzer d'amore che aveva composto per lei, che solo loro due conoscevano, e che era stato per tre anni l'emblema della loro complicità contrastata. Lo suonò mormorandone le parole, con il violino bagnato di lacrime e con un'ispirazione così intensa che alle prime battute incominciarono a latrare i cani della strada, e poi quelli di tutta la città, ma poi si calmarono a poco a poco con la malìa della musica, e il valzer terminò in un silenzio soprannaturale. Il balcone non si aprì, e nessuno si affacciò sulla strada, neanche il "sereno" che quasi sempre accorreva con la sua lucerna a cercare di godersi le ultime note delle serenate. L'azione fu uno scongiuro di sollievo per Florentino Ariza, perché quando rimise il violino nell'astuccio e si allontanò per le strade morte senza voltarsi a guardare indietro non sentiva più di andarsene il mattino dopo ma di essersene andato da parecchi anni con la decisione irrevocabile di non tornare mai. Il battello, uno dei tre uguali della Compagnia Fluviale del Caribe, era stato ribattezzato in omaggio al fondatore "Pío Quinto Loayza". Era una casa galleggiante di due piani di legno sopra uno scafo di ferro, largo e piatto, con un pescaggio massimo di cinque piedi che gli permetteva di sfruttare al meglio i fondali variabili del fiume. I battelli più antichi erano stati fabbricati a Cincinnati a metà secolo, con il modello leggendario di quelli che svolgeranno il commercio dell'Ohio e del Mississippi, e avevano su ogni lato una ruota di propulsione mossa da una caldaia a legna. Come questi, i battelli della Compagnia Fluviale del Caribe avevano nella coperta inferiore, quasi sul pelo dell'acqua, le macchine a vapore e le cucine, e i grandi recinti da pollaio dove l'equipaggio attaccava le amache, incrociate a diversi livelli. Al piano superiore avevano la plancia di comando, le cabine del capitano e dei suoi ufficiali, una sala di divertimenti e una sala da pranzo, dove i passeggeri di riguardo erano invitati almeno una volta a cena e a giocare a carte. Nel piano intermedio avevano sei cabine di prima classe da tutti e due i lati di un corridoio che serviva da sala da pranzo comune, e a prua un salone aperto sul fiume con corrimano di legno lavorato e pilastri di ferro, dove di notte attaccavano le loro amache i passeggeri di poco conto. A differenza dei più vecchi, questi battelli non avevano le pale di propulsione, ma un'enorme ruota a poppa con pale orizzontali sotto i gabinetti soffocanti della coperta dei passeggeri. Florentino Ariza non si era preso il fastidio di esplorare il battello appena salito a bordo, una domenica di luglio alle sette del mattino, come facevano quasi per istinto quelli che viaggiavano per la prima volta. Aveva preso coscienza della sua nuova realtà solo al tramonto, navigando davanti al gruppo di case di Calamar, quando era andato a orinare a poppa e aveva visto dall'oblò del gabinetto la gigantesca ruota a grandi pale girare sotto i suoi piedi con una confusione vulcanica di spume e vapori ardenti.
Non aveva mai viaggiato. Portava con sé un baule di latta con l'abbigliamento pesante, i racconti illustrati che comprava a dispense mensili e che lui stesso rilegava con copertine di cartone, e i libri di versi d'amore che recitava a memoria e che stavano per trasformarsi in polvere da quanto erano letti e riletti. Aveva lasciato il violino, che si identificava troppo con la sua disgrazia, ma sua madre lo aveva obbligato a portare il "petate", che era l'occorrente per dormire molto popolare e pratico: un cuscino, un lenzuolo, una bacinella di peltro e una tenda di maglia per le zanzare, il tutto avvolto in una stuoia con due corde per attaccare un'amaca in caso di necessità. Florentino Ariza non voleva portarlo perché pensava che sarebbe stato inutile in una cabina dove c'era servizio di letti distesi, ma dalla prima notte dovette ringraziare una volta di più il buon senso di sua madre. In effetti, all'ultimo momento salì a bordo un passeggero elegantemente vestito che era arrivato all'alba su una nave dall'Europa, ed era accompagnato dal governatore della provincia in persona. Voleva proseguire immediatamente il viaggio con sua moglie e
sua figlia, e con il servo in livrea e i sette bauli con i bordi dorati che passarono a stento dalle scalette. Il capitano, un gigante di Curação, riuscì a far leva sul senso patriottico dei locali per sistemare i viaggiatori imprevisti. A Florentino Ariza spiegò in un misto di castigliano e di "papiamento" (5) che l'uomo era il nuovo ministro plenipotenziario d'Inghilterra in viaggio verso la capitale della repubblica, gli ricordò come quel regno avesse portato aiuti decisivi per la nostra indipendenza dal dominio spagnolo, e che quindi qualsiasi sacrificio era poco perché una famiglia di così alto lignaggio si sentisse a casa nostra meglio che nella propria.
Una sera, poco dopo la serenata di pianoforte, Lorenzo Daza trovò una lettera con la busta sigillata nel cortile di casa sua, indirizzata a sua figlia e con il monogramma J.U.C. impresso sul sigillo. La fece scivolare sotto la porta quando passò davanti alla camera da letto di Fermina, e lei non riuscì a capire come fosse arrivata fin lì, dato che le pareva inconcepibile che suo padre fosse tanto cambiato da portarle una lettera di un pretendente. La lasciò sul comodino, senza sapere davvero cosa farne, e lì rimase chiusa per parecchi giorni, fino a un pomeriggio di pioggia in cui Fermina Daza sognò che Juvenal Urbino era tornato a casa per regalarle la spatola con cui le aveva esaminato la gola. La spatola del sogno non era d'alluminio ma di un metallo appetitoso che lei aveva assaggiato con piacere in altri sogni, cosicché la ruppe in due pezzi disuguali e diede a lui quello più piccolo.
Quando si svegliò aprì la lettera. Era breve e irreprensibile, e l'unica cosa che Juvenal Urbino le domandava era di permettergli di chiedere a suo padre il permesso di venirla a trovare. La impressionarono la sua semplicità e la sua serietà, e la rabbia coltivata con tanto amore per molti giorni si sedò improvvisamente. Mise la lettera in un piccolo forziere fuori uso sul fondo del baule, ma si ricordò che era lì dove aveva messo anche le lettere profumate di Florentino Ariza, e la tolse dal forzierino per cambiarle di posto, turbata da un lampo di vergogna. Allora le sembrò che la cosa più decente fosse darla come non ricevuta, e la bruciò sulla lampada guardando come le gocce della ceralacca sbocciassero in bolle azzurre sulla fiamma. Sospirò: «Pover'uomo». Improvvisamente si rese conto che era la seconda volta che lo diceva in poco più di un anno, e per un attimo pensò a Florentino Ariza, e lei stessa fu sorpresa di quanto lontano fosse dalla sua vita: pover'uomo.
In ottobre, con le ultime piogge, arrivarono altre tre lettere, la prima accompagnata da una scatoletta di pastiglie di violetta dell'Abbazia di Flavigny. Due le aveva consegnate al portone di casa il cocchiere del dottor Juvenal Urbino, e lui aveva salutato Gala Placidia dal finestrino della carrozza, innanzitutto perché non ci fosse dubbio che le lettere erano sue, e poi perché nessuno potesse dirgli che non erano state ricevute. In più, tutte e due erano sigillate con il monogramma di ceralacca, e scritte con gli scarabocchi criptici che Fermina Daza ormai conosceva: calligrafia da medico. Tutte e due dicevano in sostanza le stesse cose della prima, ed erano concepite con lo stesso spirito di sottomissione, ma in fondo alla loro decenza si incominciava a intravedere un'ansia che non era mai stata evidente nelle lettere circospette di Florentino Ariza.
Fermina Daza le lesse non appena furono consegnate, con due settimane di differenza, e senza spiegarselo lei stessa cambiò parere quando stava per gettarle nel fuoco. Tuttavia, non pensò mai di rispondere. La terza lettera di ottobre era stata fatta scivolare sotto il portone, e in tutto era diversa da quelle precedenti. La scrittura era così puerile che era stata fatta senza dubbio con la mano sinistra, ma Fermina Daza non se ne accorse se non quando il testo stesso si rivelò come un anonimo infame. Chi l'aveva scritto dava per scontato che Fermina Daza avesse incantato con i suoi filtri il dottor Juvenal Urbino, e da quella supposizione traeva conclusioni sinistre. Si chiudeva con una minaccia: se Fermina Daza non avesse rinunciato alla sua pretesa di elevarsi con l'uomo più desiderato della città, sarebbe stata esposta alla pubblica vergogna.
Si sentì vittima di una grave ingiustizia, ma la sua reazione non fu di vendetta, bensì esattamente il contrario: avrebbe voluto scoprire l'autore della lettera anonima per dissuaderlo dal suo errore con quante spiegazioni fossero pertinenti, dato che si sentiva sicura che mai, per nessun motivo, sarebbe stata sensibile alle galanterie di Juvenal Urbino. Nei giorni seguenti ricevette altre due lettere senza firma, perfide come la prima, ma nessuna delle tre sembrava scritta dalla stessa persona. O era vittima di una congiura o la falsa versione dei suoi amori segreti era andata più lontano di quanto potesse supporre. La inquietava l'idea che tutto quello fosse conseguenza di una semplice indiscrezione di Juvenal Urbino. Le venne in mente che forse era un uomo diverso dal suo aspetto degno, che forse chiacchierava durante le visite e si vantava di conquiste immaginarie, come tanti altri della sua classe. Pensò di scrivergli per rimproverargli l'offesa del suo onore ma poi desistette dal proposito, perché forse era questo quello che voleva lui. Cercò di informarsi dalle amiche che andavano a dipingere con lei nella stanza da lavoro, ma l'unica cosa che avevano sentito erano commenti benevoli sulla serenata di pianoforte. Si sentì furiosa, impotente, umiliata. Contrariamente all'inizio, quando avrebbe voluto incontrarsi con il nemico invisibile per convincerlo dei suoi errori, adesso voleva solo farne carne trita per salsicciotti con le cesoie. Passava le notti in bianco ad analizzare dettagli ed espressioni delle lettere anonime, con l'illusione di trovare una via di consolazione. Fu una vana illusione: Fermina Daza era estranea per natura al mondo interiore degli Urbino de la Calle, e aveva armi per difendersi dalle loro buone arti, ma non da quelle cattive.
Questa convinzione si fece ancora più amara dopo lo spavento della bambola negra che le arrivò in quei giorni senza nessuna lettera, ma la cui origine le parve facile a immaginarsi: solo il dottor Juvenal Urbino poteva averla mandata. Era stata comprata alla Martinica, secondo l'etichetta originale, e aveva un bel vestito e i capelli arricciati con dei filamenti d'oro, e chiudeva gli occhi quando la si coricava. Fermina Daza la trovò così divertente che superò i suoi scrupoli, e la coricava sul suo cuscino durante il giorno. Si abituò a dormire con lei. Dopo un po' di tempo, però, dopo un sogno spossante, scoprì che la bambola stava crescendo: lo splendido vestito originale con cui era arrivata le lasciava le cosce scoperte, e le scarpe si erano spaccate per la pressione dei piedi. Fermina Daza aveva sentito parlare di stregonerie africane, ma di nessuna così spaventosa come questa. D'altra parte, non poteva concepire che un uomo come Juvenal Urbino fosse capace di una simile atrocità. Aveva ragione: la bambola non era stata portata dal cocchiere, ma da un venditore ambulante di gamberi, di cui nessuno aveva potuto dare nessuna informazione certa. Cercando di decifrare l'enigma, Fermina Daza pensò per un momento a Florentino Ariza, la cui condizione malinconica la spaventava, ma la vita si incaricò di convincerla del suo errore. Mai fu chiarito il mistero e solo evocarlo le provocava un brivido di terrore fino a molto tempo dopo che si sposò, ed ebbe figli, e si credette l'eletta dal destino: la più felice.
L'ultimo tentativo del dottor Urbino fu la mediazione della sorella
Franca de la Luz, superiora del Colegio de la Presentación de la Santísima Virgen, che non poteva dire di no alla richiesta di una famiglia che aveva favorito la sua comunità da quando si era stabilita nelle Americhe. Arrivò accompagnata da una novizia alle nove di mattina, e tutte e due dovettero intrattenersi per mezz'ora con le gabbie di uccelli finché Fermina Daza avesse finito di fare il bagno. Era una tedesca virile con un accento metallico e uno sguardo imperioso che non avevano nessuna relazione con le sue passioni infantili. Non c'era niente a questo mondo che Fermina Daza odiasse più di lei, e di quanto aveva avuto a che vedere con lei, e il solo ricordo della sua falsa pietà le provocava un prurito da scorpioni nei visceri. Le bastò riconoscerla dalla porta del bagno per rivivere di colpo i supplizi del collegio, l'incubo insopportabile della messa quotidiana, il terrore degli esami, la diligenza servile delle novizie, la vita tutta pervertita dal prisma della povertà di spirito. La sorella Franca de la Luz, invece, la salutò con una gioia che sembrava sincera. Si sorprese di quanto fosse cresciuta e maturata e lodò il giudizio con cui dirigeva la casa, il buon gusto del patio, il braciere degli aranci. Ordinò alla novizia di aspettarla lì, senza avvicinarsi troppo ai corvi, che in un attimo di disattenzione potevano cavarle gli occhi, e cercò un posto appartato dove sedersi a parlare a quattr'occhi con Fermina.
Fu una visita breve e aspra. La sorella Franca de la Luz, senza perdere tempo in preamboli, offrì a Fermina Daza una riabilitazione onorevole. Il motivo dell'espulsione sarebbe stato cancellato non solo negli atti ma anche dalla memoria della comunità, e questo le avrebbe permesso di finire gli studi e di ottenere il diploma di Licenza in Lettere. Fermina Daza, perplessa, volle conoscerne il motivo. «E' la richiesta di qualcuno che merita tutto e il cui solo desiderio è farti felice» disse la monaca. «Sai chi è?»
Allora capì. Si domandò con che autorità servisse da emissaria dell'amore una donna che le aveva sconvolto la vita per una lettera innocente, ma non si azzardò a dirlo. Disse, invece, di sì, che conosceva quell'uomo, e che proprio per quello sapeva che non aveva nessun diritto di intromettersi nella sua vita.
«L'unica cosa che ti chiede è di permettergli di parlare con te cinque minuti» disse la monaca. «Sono sicura che tuo padre sarà d'accordo.» Fermina Daza ruminò l'impertinenza guardando la monaca senza battere ciglio, la guardò fissa negli occhi, senza parlare, ruminando in silenzio, finché vide con un piacere infinito che i suoi occhi da uomo si riempivano di lacrime. La sorella Franca de la Luz se le asciugò con il fazzoletto appallottolato, e si alzò in piedi. «Dice bene tuo padre che sei una mula» disse.
L'arcivescovo non venne. Cosicché l'assedio sarebbe finito quel giorno se non fosse stato che Hildebranda Sánchez venne a passare il Natale con sua cugina, e la vita cambiò per tutte e due. Andarono a prenderla alla goletta di Riohacha alle cinque del mattino, in mezzo a una turba di passeggeri moribondi per il mal di mare, ma lei sbarcò raggiante, molto donna, e con lo spirito agitato dalla cattiva notte di mare. Arrivò carica di cesti di pavoni vivi e di quanti frutti esistevano nelle sue fertili terre, perché non mancasse a nessuno il cibo durante la sua visita. Lisímaco Sánchez, suo padre, mandava a chiedere se mancavano i musicisti per le feste, dato che lui aveva i migliori a sua disposizione, e prometteva di mandare un carico di fuochi artificiali. Annunciava anche di non poter venire per la figlia prima di marzo, cosicché c'era tempo d'avanzo per vivere.
Le due cugine incominciarono subito. Fecero il bagno insieme dal primo pomeriggio, nude, facendosi abluzioni reciproche con l'acqua del serbatoio. Si aiutavano a insaponarsi, si schiacciavano i lendini, confrontavano le loro natiche, i loro seni immobili, l'una guardandosi nello specchio dell'altra per valutare con quanta crudeltà le avesse trattate il tempo dall'ultima volta che si erano viste nude. Hildebranda era grande e soda, con la pelle dorata, ma tutto il pelo del suo corpo era da mulatta, corto e riccio come paglietta di ferro. Fermina Daza, invece, aveva una nudità pallida, di linee lunghe, di pelle chiara, di peli lisci. Gala Placidia aveva fatto mettere per loro due letti uguali nella stanza, ma spesso si coricavano in uno e chiacchieravano a luci spente fino all'alba. Fumavano dei sigarini da ladri da strada che Hildebranda aveva portato nascosti nelle fodere del baule, e dopo dovevano bruciare dei fogli di carta d'Armenia per purificare l'aria da tugurio che lasciavano nella camera. Fermina Daza lo aveva fatto per la prima volta a Valledupar, e aveva continuato a farlo a Fonseca, a Riohacha, dove si chiudevano anche in dieci cugine in una stanza a parlare di uomini e a fumare di nascosto. Aveva imparato a fumare all'incontrario, con la brace dentro la bocca, come fumavano gli uomini nelle notti di guerra perché non li denunciasse la brace del tabacco. Ma non avevano mai fumato da sole. Con Hildebranda a casa sua lo fece tutte le sere prima di dormire, e da allora prese l'abitudine di fumare, anche se sempre di nascosto, perfino da suo marito e dai suoi figli, non solo perché era malvisto che una donna fumasse in pubblico ma anche perché aveva il piacere associato alla clandestinità.
Anche il viaggio di Hildebranda le era stato imposto dai genitori per cercare di allontanarla dal suo amore impossibile, anche se le avevano fatto credere che fosse per aiutare Fermina a decidersi per un buon partito. Hildebranda lo aveva accettato con l'illusione di eludere l'oblio, come aveva fatto la cugina al suo momento, ed era rimasta d'accordo con il telegrafista di Fonseca perché mandasse i suoi messaggi con la massima segretezza. Per questo fu così amara la sua delusione quando seppe che Fermina Daza aveva ripudiato Florentino Ariza. Inoltre, Hildebranda aveva una concezione universale dell'amore, e pensava che qualsiasi cosa fosse accaduta a uno avrebbe colpito tutti gli amori del mondo intero. Tuttavia non rinunciò al progetto. Con un'audacia che provocò a Fermina Daza una crisi di spavento, se ne andò da sola all'ufficio del telegrafo con l'intento di guadagnarsi il favore di Florentino Ariza.
Non lo avrebbe riconosciuto, dato che non aveva neanche una fattezza corrispondente all'immagine che lei si era fatta di lui attraverso Fermina Daza. A prima vista le parve impossibile che sua cugina fosse stata sul punto di impazzire per quell'impiegato quasi invisibile, con l'aria da cane bastonato, il vestito da rabbino in disgrazia e i cui modi solenni non potevano alterare il cuore di nessuno. Ma ben presto si pentì della prima impressione, perché Florentino Ariza si mise al suo servizio incondizionatamente senza sapere chi fosse: non lo seppe mai. Nessuno l'avrebbe capita come lui, così non le chiese di dire chi fosse né le domandò alcun indirizzo. La sua soluzione fu molto semplice: lei sarebbe passata tutti i mercoledì al pomeriggio all'ufficio del telegrafo perché lui le consegnasse le risposte a
mano, e nient'altro. D'altro canto, quando lui lesse il messaggio che Hildebranda portava scritto le domandò se accettava un suggerimento, e lei fu d'accordo. Florentino Ariza fece prima qualche correzione fra le righe, le cancellò, le riscrisse, rimase senza spazio, e alla fine stracciò il foglio e scrisse di nuovo un messaggio diverso che a lei parve commovente. Quando uscì dall'ufficio del telegrafo, Hildebranda stava per piangere.
«E' brutto e triste» disse a Fermina, «ma è tutto amore.»
Quello che maggiormente richiamò l'attenzione di Hildebranda fu la solitudine della cugina. Sembrava, le disse, una zitellona di vent'anni. Abituata a una famiglia numerosa e dispersa, in case dove nessuno sapeva esattamente quanti ci vivessero né chi andasse a mangiare ogni volta, Hildebranda non poteva immaginarsi una ragazza della sua età ridotta alla clausura della sua vita privata. Era così: da quando si alzava alle sei del mattino finché spegneva la luce del comodino si consacrava alla perdita del tempo. La vita le si imponeva da fuori. Prima, con gli ultimi galli, l'uomo del latte la svegliava col batacchio del portone. Poi bussavano la donna del pesce con la cassetta di pagari moribondi in un letto di alghe, le venditrici sontuose con le verdure di María la Baja, la frutta di San Jacinto. E poi, durante tutto il giorno, bussavano tutti: i mendicanti, le ragazze delle riffe, le suore della carità, l'arrotino con la coramella, quello che comprava bottiglie, quello che comprava oro rotto, quello che comprava carta di giornale, le false gitane che si offrivano di leggere il destino nelle carte, nelle linee della mano, nel fondo del caffè, nell'acqua dei catini. A Gala Placidia andava via la settimana aprendo e chiudendo il portone per dire di no, torni un altro giorno, o gridando dal balcone con l'umore inverso di non dar più fastidio, cazzo, che abbiamo già comprato quello che ci mancava. Aveva rimpiazzato la zia Escolástica con tanto fervore e tanta grazia che Fermina la confondeva con lei perfino per amarla. Aveva ossessioni da schiava. Non appena trovava un momento libero se ne andava in guardaroba a stirare la biancheria, la lasciava perfetta, la sistemava negli armadi con fiori di spigo, e non solo stirava e piegava quella che aveva appena lavato ma anche quella che aveva perduto il suo nitore per mancanza di uso. Con la stessa attenzione continuava a curare il vestiario di Fermina Sánchez, la madre di Fermina, morta da quattordici anni. Ma era Fermina Daza che prendeva le decisioni. Ordinava quello che si doveva mangiare, quello che si doveva comprare, quello che bisognava fare in ogni caso, e in quel modo determinava la vita di una casa che in realtà non aveva niente da determinare. Quando finiva di lavare le gabbie e di dar da mangiare agli uccelli, e di curare che non mancasse niente ai fiori, restava senza sapere cosa
fare. Spesso, dopo che era stata espulsa dal collegio, si era addormentata durante la siesta e non si era svegliata fino al giorno dopo. Le lezioni di pittura furono solo un modo più divertente di perdere il tempo.
I rapporti con suo padre erano privi di affetto dall'esilio della zia Escolástica, anche se tutti e due avevano trovato il modo di vivere insieme senza darsi fastidio a vicenda. Quando lei si alzava, lui già se ne era andato ai suoi affari. Raramente mancava al rito del pranzo, anche se non mangiava quasi, dato che gli bastavano gli aperitivi e gli stuzzichini "gallegos" del Caffè della Parrocchia. E non cenava nemmeno: gli lasciavano la sua parte sul tavolo, tutta in un piatto solo e coperta con un altro, anche se sapevano che non l'avrebbe mangiata fino al giorno dopo riscaldata alla prima colazione. Una volta alla settimana dava alla figlia il denaro per le spese, che lui calcolava molto bene e che lei amministrava con rigore, ma accondiscendeva con piacere a qualsiasi richiesta che lei gli avesse fatto per qualche spesa imprevista. Non le lesinava mai il centesimo, non le chiedeva mai conti, ma lei si comportava come se avesse dovuto renderli di fronte al tribunale del Sant'Uffizio. Non le aveva mai parlato della natura e dello stato dei suoi affari, né l'aveva portata mai a conoscere i suoi uffici del porto, che erano in un luogo vietato alle signore di buoni costumi anche se accompagnate dai propri padri. Lorenzo Daza non arrivava a casa prima delle dieci di sera, che era l'ora del coprifuoco nelle epoche meno critiche delle guerre. Rimaneva fino a quell'ora al Caffè della Parrocchia, a giocare a quello che capitava perché era uno specialista in tutti i giochi di società, e anche un buon maestro. Era sempre arrivato a casa in possesso delle sue facoltà senza svegliare la figlia, nonostante bevesse il primo "anisado" appena sveglio e continuasse a masticare un'estremità del sigaro spento e a bere bicchierini distanziati durante il giorno. Una notte, però, Fermina lo sentì entrare. Udì i suoi passi da cosacco sulle scale, il suo fiato grosso nel corridoio del secondo piano, i suoi colpi col palmo della mano sulla porta della camera. Lei gli aprì, e per la prima volta si spaventò per il suo occhio storto e il rallentamento delle sue parole.
«Siamo rovinati» disse lui. «Rovina totale, ora lo sai.»
Fu tutto quello che disse, e non lo ridisse mai più né successe niente che indicasse se aveva detto o meno la verità, ma dopo quella notte Fermina Daza prese coscienza di essere sola al mondo. Viveva in un limbo sociale. Le sue vecchie compagne di scuola stavano in un cielo proibito per lei, e molto di più dopo il disonore dell'espulsione, ma non era neanche vicina dei suoi vicini, perché questi l'avevano conosciuta senza passato e con l'uniforme della Presentación de la Santísima Virgen. Il mondo di suo padre era di commercianti e stivatori, di rifugiati da guerre nel covo pubblico del Caffè della Parrocchia, di uomini soli. Nell'ultimo anno, le lezioni di pittura l'avevano un po' alleggerita della sua reclusione, perché l'insegnante preferiva le lezioni collettive ed era solita portare altre allieve nella stanza da lavoro. Ma erano ragazze di condizioni sociali disperse e mal definite, e per Fermina Daza non erano altro che amiche precarie il cui affetto terminava a ogni lezione. Hildebranda voleva aprire la casa, rinnovare l'aria, portare i musicisti e i razzi e i castelli pirotecnici di suo padre e fare un ballo di carnevale i cui venti impetuosi radessero al suolo l'animo tarlato della cugina, ma ben presto si rese conto che i suoi propositi erano inutili. Per una semplice ragione: non c'era con chi.
In ogni modo, fu lei a inserirla nella vita. I pomeriggi, dopo le lezioni di pittura, si faceva portare in giro per conoscere la città. Fermina Daza le mostrò il percorso che faceva ogni giorno con la zia Escolástica, la panchina del giardinetto dove Florentino Ariza faceva finta di leggere mentre l'aspettava, le stradine lungo le quali la seguiva, i nascondigli delle lettere, il palazzo sinistro dove c'era stato il carcere del Sant'Uffizio e che poi era stato restaurato e trasformato nel Colegio de la Presentación de la Santísima Virgen, che lei odiava con tutta la sua anima. Salirono sulla collina del cimitero dei poveri, dove Florentino Ariza suonava il violino a seconda dello spirare dei venti perché lei potesse sentirlo dal letto, e da lì videro tutta la città storica, i tetti rotti e i muri tarlati, le rovine delle fortezze in mezzo alle erbacce, la distesa di isole della baia, le baracche di miseria intorno ai pantani, il Caribe immenso. La notte di Natale andarono alla messa di mezzanotte nella cattedrale. Fermina occupò il posto dove le arrivava meglio la musica confidenziale di Florentino Ariza e mostrò a sua cugina il luogo esatto in cui in una notte come quella aveva visto da vicino per la prima volta i suoi occhi spaventati. Si arrischiarono da sole fino al Portal de los Escribanos, comprarono dolci, si fermarono nel negozio di carte di fantasia, e Fermina Daza indicò alla cugina il luogo in cui aveva improvvisamente scoperto che il suo amore era solo un miraggio. Non si rendeva conto lei stessa che ogni suo passo dalla casa al collegio, ogni luogo della città, ogni momento del suo passato recente non sembravano esistere se non grazie a Florentino Ariza. Hildebranda glielo fece notare, ma lei non lo ammise, perché mai avrebbe ammesso la realtà che Florentino Ariza, nel bene o nel male, era l'unico che le era capitato nella vita.
In quei giorni venne un fotografo belga che installò il suo studio ai piani superiori del Portal de los Escribanos, e chiunque potesse pagarlo approfittò dell'occasione per farsi un ritratto. Fermina e
Hildebranda furono tra le prime. Svuotarono il guardaroba di Fermina Sánchez, si divisero i vestiti più vistosi, gli ombrellini, le scarpe da festa, i cappelli, e si vestirono da dame di metà secolo. Gala Placidia le aiutò a stringere i corsetti, gli insegnò a muoversi dentro le armature di fil di ferro delle crinoline, a calzare i guanti, ad abbottonarsi gli stivaletti con i tacchi alti. Hildebranda preferì un cappello a falde larghe con piume di struzzo che le cadevano su una spalla. Fermina se ne mise uno più recente, guarnito con frutti di gesso dipinto e fiori di tessuto di crine. Alla fine risero di loro stesse quando si videro allo specchio così simili ai dagherrotipi delle nonne, e se ne andarono felici, morte dal ridere, a farsi fare la fotografia della loro vita. Gala Placidia le guardò dal balcone mentre attraversavano il parco con gli ombrellini aperti, tenendosi in equilibrio come potevano sui tacchi e spingendo le crinoline con tutto il corpo come girelli da bambini, e diede loro la benedizione perché Dio le aiutasse nei loro ritratti.
C'era confusione davanti allo studio del belga, perché stavano fotografando Beny Centeno, che in quei giorni aveva vinto il campionato di boxe a Panama. Era in pantaloncini da combattimento, con i guanti indosso e la corona sulla testa, e non fu facile fotografarlo perché doveva rimanere in posizione di guardia per un minuto e respirando il meno possibile, ma appena alzava la guardia i suoi fans prorompevano in ovazioni, e lui non poteva resistere alla tentazione di compiacerli esibendo le sue arti. Quando arrivò il turno delle cugine il cielo si era annuvolato e la pioggia pareva imminente, ma loro si lasciarono incipriare le facce con amido e si appoggiarono con tale naturalezza a una colonna di alabastro che riuscirono a restare immobili per più tempo di quanto sembrasse ragionevole. Fu un ritratto eterno. Quando Hildebranda morì, quasi centenaria, nella sua fattoria di Flores de María, trovarono la sua copia chiusa sottochiave nell'armadio della stanza da letto, nascosta tra le pieghe delle lenzuola profumate, vicino a un fossile di viola del pensiero in una lettera cancellata dagli anni. Fermina Daza tenne sempre la sua per molti anni nella prima pagina di un album di famiglia, da dove scomparve senza che si sapesse né come né quando, e capitò tra le mani di Florentino Ariza per una serie di casualità inverosimili quando già tutti e due avevano superato i sessanta.
La piazza davanti al Portal de los Escribanos era stracolma fino ai balconi quando Fermina e Hildebranda uscirono dallo studio del belga. Avevano dimenticato di avere le facce bianche di amido e le labbra dipinte con una pomata color cioccolato, e che i loro vestiti non erano adatti né all'ora né all'epoca. La strada le accolse con un fischio ironico. Erano in un angolo, cercando di sottrarsi al pubblico dileggio, quando si fece strada in mezzo alla folla il landò dai sauri dorati. Il fischio cessò e i gruppi ostili si dispersero. Hildebranda non avrebbe mai dimenticato la prima visione dell'uomo che apparve sul predellino, il suo cilindro di raso, il suo gilè di broccato, i suoi gesti saggi, la dolcezza dei suoi occhi, l'autorevolezza della sua presenza.
Anche se non l'aveva mai visto, lo riconobbe subito. Fermina Daza le aveva parlato di lui, quasi per caso e senza nessun interesse, un pomeriggio del mese prima quando non aveva voluto passare dalla casa del Marchese de Casalduero perché il landò coi due cavalli d'oro stazionava davanti al portone. Le aveva raccontato chi era il proprietario e aveva cercato di spiegarle i motivi della sua antipatia, anche se non le aveva detto una parola delle sue pretese. Hildebranda lo aveva dimenticato. Ma quando lo identificò sulla porta della carrozza come un'apparizione da favola, con un piede per terra e l'altro sul predellino, non capì le ragioni della cugina.
«Fatemi la cortesia di salire» disse loro il dottor Juvenal Urbino.
«Vi porto dove volete.»
Fermina Daza fece un gesto di reticenza ma ormai Hildebranda aveva accettato. Il dottor Juvenal Urbino scese a terra, e con la punta delle dita, quasi senza toccarla, la aiutò a salire in carrozza. Fermina, senza alternative, salì dopo di lei con la faccia accesa dal rossore.
La casa era appena a tre isolati. Le cugine non si accorsero che il dottor Urbino si era messo d'accordo col cocchiere, ma doveva essere così, perché la carrozza impiegò più di mezz'ora per arrivare. Erano sedute sul sedile principale, e lui di fronte a loro, dando le spalle al senso di marcia della carrozza. Fermina girò la faccia verso il finestrino e si sprofondò nel vuoto. Hildebranda invece era incantata, e il dottor Urbino ancora più incantato con il suo incantamento. Non appena la carrozza incominciò a muoversi, lei sentì l'odore caldo del cuoio naturale dei sedili, l'intimità dell'interno "capitonné", e disse che le sembrava un posto buono dove fermarsi a vivere. Ben presto incominciarono a ridere, a scambiarsi scherzi da vecchi amici, e trasformarono persino un gioco di ingegno in un gergo facile, che consisteva nell'intercalare a ogni sillaba una sillaba convenzionale. Facevano finta di credere che Fermina non li capisse, benché non solo sapessero che li capiva ma anche che stava dietro a quello che facevano e per questo lo facevano. A un certo momento, dopo molto ridere, Hildebranda confessò di non farcela più a sopportare il supplizio degli stivaletti.
«Niente di più facile» disse il dottor Urbino. «Vediamo chi fa prima.» Incominciò a slacciarsi i lacci delle scarpe, e Hildebranda accettò la sfida. Non le fu facile, per l'impedimento del corsetto con le stecche che non le permetteva di chinarsi, ma il dottor Urbino indugiò di proposito, finché lei si tolse gli stivaletti da sotto la gonna con una risata di trionfo, come se li avesse appena pescati in uno stagno. Tutti e due guardarono allora Fermina, e videro il suo magnifico profilo da rigogolo più affilato che mai contro l'incendio del tramonto. Era tre volte furiosa: per la situazione immeritata in cui si trovava, per la condotta libertina di Hildebranda, e per la certezza che la carrozza continuava a girare senza senso per ritardare l'arrivo. Ma Hildebranda andava a briglie sciolte.
«Adesso mi rendo conto» disse, «che quello che mi dava fastidio non erano le scarpe ma questa gabbia di fil di ferro.»
Il dottor Urbino capì che si riferiva alla crinolina e colse l'occasione al volo. «Niente di più facile» disse. «Se la tolga.» Con rapido gesto da prestigiatore si tolse il fazzoletto dal taschino e si bendò gli occhi.
«Io non guardo» disse.
La benda fece risaltare la purezza delle sue labbra in mezzo alla barba rotonda e nera e i baffi dalle punte affilate, e lei si sentì scossa da una fitta di panico. Guardò Fermina, e stavolta non la vide furiosa, ma terrorizzata al pensiero che lei fosse capace di togliersi la sottana. Hildebranda si fece seria e le chiese con l'alfabeto muto: «Che cosa facciamo?». Fermina Daza le rispose con lo stesso codice che se non andavano subito a casa lei si sarebbe buttata giù dalla carrozza in marcia.
«Sto aspettando» disse il medico
«Adesso può guardare» disse Hildebranda.
Il dottor Juvenal Urbino la trovò diversa quando si fu tolto la benda, e capì che il gioco era finito, ed era finito male. A un suo cenno il cocchiere fece girare la carrozza su se stessa, ed entrò nel Giardino de Los Evangelios nel momento in cui il lampionaio accendeva i lampioni pubblici. Tutte le chiese suonarono l'Angelus. Hildebranda scese in fretta, un po' turbata dall'idea di aver fatto inquietare la cugina, e si congedò dal medico con una stretta di mano senza cerimonie. Fermina la imitò, ma quando cercò di ritirare la mano con il guanto di raso, il dottor Urbino le strinse forte il dito del cuore.
«Sto aspettando la sua risposta» le disse.
Fermina allora diede uno strattone più forte, e il guanto vuoto restò penzoloni nella mano del medico, ma non si attardò a recuperarlo. Andò a letto senza toccare cibo. Hildebranda, come se non fosse successo niente, entrò in camera dopo aver cenato con Gala Placidia in cucina e commentò con la sua grazia naturale gli incidenti del pomeriggio. Non nascose il suo entusiasmo per il dottor Urbino, per la sua eleganza e la sua simpatia, e Fermina non le rispose con nessun commento, ma si era ripresa dalla contrarietà. A un certo punto Hildebranda lo confessò: quando il dottor Juvenal Urbino si era bendato gli occhi e lei aveva visto lo splendore dei denti perfetti fra le sue labbra rosate aveva sentito un desiderio irresistibile di mangiarselo a forza di baci. Fermina Daza si girò verso il muro e pose termine alla conversazione senza intenzione di offendere, anzi sorridente, ma con tutto il cuore.
«Che puttana sei!» disse.
Dormì a sbalzi, vedendo il dottor Juvenal Urbino dappertutto, vedendolo ridere, cantare, sprigionando faville di zolfo dai denti con gli occhi bendati, burlandosi di lei con un gergo senza regole fisse in una carrozza distinta che saliva verso il cimitero dei poveri. Si svegliò molto prima dell'alba, esausta, e restò sveglia a occhi chiusi pensando agli anni innumerevoli che ancora le mancavano per vivere. Poi, mentre Hildebranda faceva il bagno, scrisse una lettera di gran fretta, la piegò di gran fretta, la mise di gran fretta nella busta, e prima che Hildebranda uscisse dal bagno l'aveva mandata tramite Gala Placidia al dottor Juvenal Urbino. Era una lettera delle sue, senza una sillaba di più né di meno, in cui diceva sì, dottore, che avrebbe parlato con suo padre.
Quando Florentino Ariza seppe che Fermina Daza stava per sposarsi con un medico illustre e fortunato, educato in Europa e con una reputazione insolita alla sua età, non ci fu potere capace di sollevarlo dalla sua prostrazione. Tránsito Ariza fece più del possibile per consolarlo con espedienti da fidanzata quando si accorse che aveva perduto la parola e l'appetito e passava le notti in bianco a piangere in continuazione, e dopo una settimana riuscì a farlo mangiare di nuovo. Parlò allora con don León Dodicesimo Loayza, l'unico ancora vivo dei tre fratelli, e senza dirgli il motivo lo pregò di dare al nipote un impiego per fare qualsiasi cosa nella compagnia di navigazione, sempre che fosse in un porto sperduto nella boscaglia di La Magdalena, dove non ci fossero né posta né telegrafo, né vedesse nessuno che gli raccontasse niente di questa città di perdizione. Lo zio non gli diede l'impiego per riguardo nei confronti della vedova del fratello, che non sopportava neanche la sola esistenza del bastardo, ma gli procurò il posto di telegrafista a Villa de Leyva, una città di sogno a più di venti giorni di viaggio e a quasi tremila metri di altezza sul livello di Calle de las Ventanas. Florentino Ariza non fu mai molto cosciente di quel viaggio terapeutico. Lo avrebbe ricordato sempre, come tutto quello che avvenne in quell'epoca, attraverso i cristalli rarefatti della sua sventura. Quando ricevette il telegramma della nomina non pensò neanche di prenderlo in considerazione, ma Lotario Thugut lo convinse con argomenti tedeschi che lo attendeva un avvenire radioso nella pubblica amministrazione. Gli disse: «Il telegrafo è la professione del futuro». Gli regalò un paio di guanti foderati con pelo di coniglio, un colbacchetto e un soprabito con collo di peluche sperimentato nei gennai glaciali della Baviera. Lo zio León Dodicesimo gli regalò due vestiti di panno e degli stivali impermeabili che erano appartenuti al fratello maggiore, e gli diede un passaggio con cabina per il prossimo battello. Tránsito Ariza ridusse gli abiti alle misure di suo figlio, che era meno corpulento del padre e molto più basso del tedesco, e gli comprò calze di lana e mutandoni lunghi perché non gli mancasse niente contro i rigori di quel luogo freddo. Florentino Ariza, indurito da tanto soffrire, assisteva ai preparativi del viaggio come se avesse assistito un morto nella preparazione dei suoi onori funebri. Non disse a nessuno che se ne andava, non salutò nessuno, con l'ermetismo ferreo con cui aveva rivelato solo a sua madre il segreto della sua passione nascosta, ma alla vigilia del viaggio fece coscientemente un'ultima follia del cuore che ben avrebbe potuto costargli la vita. A mezzanotte si mise il suo abito della domenica e suonò da solo sotto il balcone di Fermina Daza il valzer d'amore che aveva composto per lei, che solo loro due conoscevano, e che era stato per tre anni l'emblema della loro complicità contrastata. Lo suonò mormorandone le parole, con il violino bagnato di lacrime e con un'ispirazione così intensa che alle prime battute incominciarono a latrare i cani della strada, e poi quelli di tutta la città, ma poi si calmarono a poco a poco con la malìa della musica, e il valzer terminò in un silenzio soprannaturale. Il balcone non si aprì, e nessuno si affacciò sulla strada, neanche il "sereno" che quasi sempre accorreva con la sua lucerna a cercare di godersi le ultime note delle serenate. L'azione fu uno scongiuro di sollievo per Florentino Ariza, perché quando rimise il violino nell'astuccio e si allontanò per le strade morte senza voltarsi a guardare indietro non sentiva più di andarsene il mattino dopo ma di essersene andato da parecchi anni con la decisione irrevocabile di non tornare mai. Il battello, uno dei tre uguali della Compagnia Fluviale del Caribe, era stato ribattezzato in omaggio al fondatore "Pío Quinto Loayza". Era una casa galleggiante di due piani di legno sopra uno scafo di ferro, largo e piatto, con un pescaggio massimo di cinque piedi che gli permetteva di sfruttare al meglio i fondali variabili del fiume. I battelli più antichi erano stati fabbricati a Cincinnati a metà secolo, con il modello leggendario di quelli che svolgeranno il commercio dell'Ohio e del Mississippi, e avevano su ogni lato una ruota di propulsione mossa da una caldaia a legna. Come questi, i battelli della Compagnia Fluviale del Caribe avevano nella coperta inferiore, quasi sul pelo dell'acqua, le macchine a vapore e le cucine, e i grandi recinti da pollaio dove l'equipaggio attaccava le amache, incrociate a diversi livelli. Al piano superiore avevano la plancia di comando, le cabine del capitano e dei suoi ufficiali, una sala di divertimenti e una sala da pranzo, dove i passeggeri di riguardo erano invitati almeno una volta a cena e a giocare a carte. Nel piano intermedio avevano sei cabine di prima classe da tutti e due i lati di un corridoio che serviva da sala da pranzo comune, e a prua un salone aperto sul fiume con corrimano di legno lavorato e pilastri di ferro, dove di notte attaccavano le loro amache i passeggeri di poco conto. A differenza dei più vecchi, questi battelli non avevano le pale di propulsione, ma un'enorme ruota a poppa con pale orizzontali sotto i gabinetti soffocanti della coperta dei passeggeri. Florentino Ariza non si era preso il fastidio di esplorare il battello appena salito a bordo, una domenica di luglio alle sette del mattino, come facevano quasi per istinto quelli che viaggiavano per la prima volta. Aveva preso coscienza della sua nuova realtà solo al tramonto, navigando davanti al gruppo di case di Calamar, quando era andato a orinare a poppa e aveva visto dall'oblò del gabinetto la gigantesca ruota a grandi pale girare sotto i suoi piedi con una confusione vulcanica di spume e vapori ardenti.
Non aveva mai viaggiato. Portava con sé un baule di latta con l'abbigliamento pesante, i racconti illustrati che comprava a dispense mensili e che lui stesso rilegava con copertine di cartone, e i libri di versi d'amore che recitava a memoria e che stavano per trasformarsi in polvere da quanto erano letti e riletti. Aveva lasciato il violino, che si identificava troppo con la sua disgrazia, ma sua madre lo aveva obbligato a portare il "petate", che era l'occorrente per dormire molto popolare e pratico: un cuscino, un lenzuolo, una bacinella di peltro e una tenda di maglia per le zanzare, il tutto avvolto in una stuoia con due corde per attaccare un'amaca in caso di necessità. Florentino Ariza non voleva portarlo perché pensava che sarebbe stato inutile in una cabina dove c'era servizio di letti distesi, ma dalla prima notte dovette ringraziare una volta di più il buon senso di sua madre. In effetti, all'ultimo momento salì a bordo un passeggero elegantemente vestito che era arrivato all'alba su una nave dall'Europa, ed era accompagnato dal governatore della provincia in persona. Voleva proseguire immediatamente il viaggio con sua moglie e
sua figlia, e con il servo in livrea e i sette bauli con i bordi dorati che passarono a stento dalle scalette. Il capitano, un gigante di Curação, riuscì a far leva sul senso patriottico dei locali per sistemare i viaggiatori imprevisti. A Florentino Ariza spiegò in un misto di castigliano e di "papiamento" (5) che l'uomo era il nuovo ministro plenipotenziario d'Inghilterra in viaggio verso la capitale della repubblica, gli ricordò come quel regno avesse portato aiuti decisivi per la nostra indipendenza dal dominio spagnolo, e che quindi qualsiasi sacrificio era poco perché una famiglia di così alto lignaggio si sentisse a casa nostra meglio che nella propria.