venerdì 6 marzo 2020


L'AMORE AI TEMPI DEL COLERA.

Gabriel García Márquez, 1985.

PARTE PRIMA
Recensione 
L'amore ai tempi del colera è senza alcun dubbio un romanzo sull'amore, ma è ben lontano dal poter essere definito un libro romantico: seppur Garcίа Márquez riesca a descrivere in maniera straordinaria le centinaia di donne con le quali Florentino intrattiene dei rapporti amorosi, l'amore borghese e soddisfatto di Fermina per il marito o, ancora, quello platonico, inconfessato ma irremovibile del telegrafista, nelle quasi 400 pagine di quest'opera mai una volta viene menzionato l'amore perfetto, quello stucchevole, che sa di finzione, poiché anche la felice conclusione della storia che lega i due protagonisti non ha nulla a che vedere con gli amori da commedia, ma appare piuttosto come l'esito di una volontà, di una caparbietà e di una ostinazione che ce lo fa apparire assai realistico.
Quello che lo zio León XII non sospettò mai fu che il carattere del nipote non gli veniva dalla necessità di sopravvivere, né da una flemma da cretino ereditata dal padre, ma da un'ambizione d'amore che nessuna contrarietà di questo né dell'altro mondo sarebbe riuscita a eliminare (p. 180).
E forse uno degli aspetti più pregevoli di questo libro risiede proprio nel fatto che l'autore consente al lettore di immedesimarsi nei protagonisti: Fermina è sì una donna bellissima, ma anche testarda, volubile, e perfino razzista (quando scopre che il marito l'ha tradita, ciò che le fa più male è che lo abbia fatto con una donna di colore). D'altra parte, Florentino è un uomo antiquato, preda di mille manie, preoccupato della forma e dell'esteriorità (i suoi tentativi di porre rimedio alla calvizie sono assai comici), addirittura pedofilo (instaurerà un rapporto anche con una ragazzina quindicenne).
Ad uno sguardo superficiale Florentino ci apparirà come il più scontato dei donnaioli, ma in realtà egli non concederà mai il suo cuore a nessuna, perché la sua anima appartiene a colei che nelle sue poesie definisce come una "Dea incoronata".
Florentina finalmente si innamorerà di quest'uomo così perseverante, ma non del ragazzo che è stato, non del ricordo sbiadito che ne ha: amerà l'anziano, l'ultrasettantenne oramai calvo, ma infinitamente romantico, dolce e paziente.
https://www.criticaletteraria.org/2020/02/l-amore-ai-tempi-del-colera-marquez.html?m=1


L'AMORE AI TEMPI DEL COLERA 

"A Mercedes, senza dubbio".

"In anticipo vanno questi luoghi: hanno già la loro dea incoronata".
Leandro Díaz.
    
Era inevitabile: l'odore delle mandorle amare gli ricordava sempre  il     destino  degli  amori  contrastati.  Il dottor Juvenal Urbino lo sentì     appena entrato  nella  casa  ancora  in  penombra,  dove  era  accorso     d'urgenza per occuparsi di un caso che per lui aveva cessato di essere     urgente da molti anni. Il rifugiato antillano Jeremiah de Saint-Amour,     invalido  di  guerra,  fotografo  di  bambini  e  il suo avversario di     scacchi più pietoso,  si era messo in salvo dai tormenti della memoria     con un suffumigio di cianuro di oro.
    Trovò  il  cadavere sotto una coperta nella branda da campo dove aveva     dormito sempre, vicino a uno sgabello con la bacinella che era servita a vaporizzare il veleno.  Per terra,  legato a una gamba della branda,  c'era  il  corpo  disteso  di  un  gran  danese col petto spruzzato di     bianco,  e vicino a lui c'erano le  grucce.  La  stanza  soffocante  e     confusionata  che  serviva  al  tempo  stesso  da camera da letto e da     laboratorio,  incominciava appena a illuminarsi col bagliore dell'alba     dalla  finestra  aperta,  ma  era una luce sufficiente per riconoscere     immediatamente l'autorità della morte.  Le altre finestre,  così  come     qualsiasi altra fessura della stanza,  erano imbavagliate da stracci o     sigillate  da  cartoni  neri,   e  questo  ne  aumentava  la   densità     oppressiva.  C'erano  un  bancone  pieno  di  flaconi e boccette senza     etichetta,  e due bacinelle di peltro corroso sotto un fornello comune     coperto di carta rossa.  La terza bacinella,  quella del fissante, era     vicino al cadavere.  Dappertutto c'erano riviste  e  giornali  vecchi,     pile  di  negativi  su  lastre  di vetro,  mobili rotti,  ma tutto era     preservato dalla polvere da una mano diligente.  Anche se l'aria della     finestra  aveva  purificato  l'ambiente,   rimaneva  ancora,  per  chi     l'avesse  saputo  riconoscere,   il  sentore   tiepido   degli   amori     disgraziati  delle  mandorle  amare.  Il  dottor  Juvenal Urbino aveva     pensato più di una volta, senza animo premonitore,  che quello non era     un  luogo  propizio  per  morire in grazia di Dio.  Ma col tempo aveva     finito per supporre che il disordine che vi regnava  obbedisse  a  una     risoluzione cifrata della Divina Provvidenza.
    Un  commissario  di  polizia  era  arrivato  prima con uno studente di     medicina molto giovane che faceva pratica nell'ambulatorio municipale,     erano stati loro a ventilare la stanza e a coprire  il  cadavere  fino     all'arrivo  del  dottor  Urbino.  Tutti  e  due  lo salutarono con una     solennità che questa volta era più di condoglianze che di venerazione,     dato che nessuno ignorava il grado di amicizia che aveva per  Jeremiah     de Saint-Amour.  L'eminente maestro strinse loro la mano,  come faceva     da sempre con tutti i suoi allievi prima di  incominciare  la  lezione     quotidiana  di clinica medica,  poi prese il bordo della coperta con i     polpastrelli dell'indice e del pollice,  come se  fosse  un  fiore,  e     scoprì  il cadavere poco per volta con una circospezione sacramentale.     Era completamente nudo,  rigido e ritorto,  con gli occhi aperti e  il     corpo azzurro, e come più vecchio di cinquant'anni rispetto alla notte     precedente.   Aveva   le  pupille  diafane,   la  barba  e  i  capelli     giallognoli, e il ventre attraversato da una cicatrice di vecchia data     cucita con punti da imballaggio.  Il torace e le  braccia  avevano  la     larghezza da galeotto per il disagio delle grucce,  ma le gambe inermi     parevano quelle di un orfano.  Il dottor Juvenal Urbino  lo  contemplò     per un attimo con il cuore addolorato come pochissime volte nei lunghi     anni della sua contesa sterile contro la morte.     «Vigliacco» gli disse. «Il peggio era già passato.»
    Lo  ricoprì  e  riassunse  la sua aria accademica.  L'anno prima aveva     celebrato gli ottant'anni con un giubileo ufficiale di tre  giorni,  e     nel  discorso  di ringraziamento aveva resistito ancora una volta alla     tentazione di ritirarsi a vita  privata.  Aveva  detto:  «Mi  avanzerà     parecchio tempo per riposare quando sarò morto,  ma questa eventualità     non rientra ancora nei miei progetti». Anche se sentiva sempre di meno     dall'orecchio destro e si appoggiava a un  bastone  con  l'impugnatura     d'argento  per  nascondere  l'incertezza dei suoi passi,  continuava a     indossare con il portamento dei suoi anni  giovanili  il  completo  di     lino con il gilè attraversato dalla catenella d'oro dell'orologio.  La     barba alla Pasteur, color madreperla, e i capelli dello stesso colore,     con l'abito perfettamente stirato e con la riga netta in mezzo,  erano     espressioni fedeli del suo carattere. L'erosione della memoria, sempre     più  inquietante,  la  compensava  fin dove gli era possibile con note     scritte frettolosamente su fogliettini scompagnati,  che finivano  per     confondersi  in  tutte  le  tasche,  proprio  come  gli strumenti,  le     boccette di medicine,  e tante altre cose disordinate nella  valigetta     strapiena.  Non era solo il medico più vecchio e illustre della città,     ma l'uomo più elegante. Tuttavia, il suo scibile troppo ostentato e il     modo per nulla ingenuo di usare il potere del  suo  nome  gli  avevano     procurato meno affetti di quanto meritasse.
    Le  istruzioni al commissario e al praticante furono precise e rapide.     Non era necessario fare  l'autopsia.  L'odore  della  casa  bastava  a     stabilire  che causa della morte erano state le emanazioni del cianuro     attivato nella bacinella da qualche acido fotografico,  e Jeremiah  de     Saint-Amour  ne sapeva abbastanza per non farlo per caso.  Di fronte a     un dubbio del commissario,  lo parò con una stoccata  tipica  del  suo     modo  di  essere:  «Non  si  dimentichi  che  sono  io  a  firmare  il     certificato di morte».  Il medico giovane rimase deluso: non aveva mai     avuto  la possibilità di studiare gli effetti del cianuro di oro su un     cadavere.  Il dottor Juvenal Urbino era rimasto sorpreso di non averlo     visto  alla  Scuola  di  Medicina,  ma  lo  capì subito dal suo facile     rossore e dalla pronuncia andina: probabilmente era  uno  arrivato  da     poco  in città.  Gli disse: «Non le mancherà qui qualche pazzo d'amore     che gliene darà l'occasione,  uno di questi giorni».  E solo mentre lo     diceva  si  rese conto che fra gli innumerevoli suicidi che ricordava,     quello era il primo col cianuro  che  non  fosse  provocato  da  amori     disgraziati. Qualcosa nella sua voce allora mutò.
    «Quando  lo  troverà,  stia  molto  attento»  disse al praticante: «di     solito hanno della sabbia nel cuore».
    Poi parlò con il commissario come avrebbe fatto con un subalterno. Gli     ordinò di darsi da fare perché il funerale  fosse  fatto  quella  sera     stessa  e  con  il  massimo  riserbo.  Disse:  «Ne  parlerò poi con il     sindaco».  Sapeva che Jeremiah  de  Saint-Amour  era  di  un'austerità     primitiva,  e  che  guadagnava  con  la  sua arte più di quanto avesse     bisogno per vivere,  cosicché in qualche cassetto  della  casa  doveva     esserci denaro in abbondanza per le spese del funerale.
    «Ma  se  non lo trovate,  non importa» disse.  «Mi faccio carico io di     tutto.»
    Ordinò di comunicare ai giornali che il fotografo era morto  di  morte     naturale,  anche  se pensava che la notizia non li avrebbe interessati     in nessun modo. Disse: «Se necessario, parlerò con il governatore». Il     commissario,  un impiegato serio e umile,  sapeva che il rigore civico     del maestro esasperava perfino i suoi amici più cari,  ed era sorpreso     dalla facilità con cui saltava le formalità legali per  accelerare  il     funerale.   L'unica  cosa  che  non  riuscì  a  fare  fu  parlare  con     l'arcivescovo,  perché Jeremiah de  Saint-Amour  fosse  seppellito  in     terra consacrata.  Il commissario, addolorato per la sua impertinenza,     cercò di scusarsi.
    «Avevo capito che quest'uomo era un santo» disse.
    «Qualcosa di ancora più strano» disse  il  dottor  Urbino,  «un  santo     ateo. Ma questi sono affari di Dio.»
    Lontano, dall'altra parte della città coloniale, si udirono le campane     della  cattedrale che chiamavano alla messa solenne.  Il dottor Urbino     inforcò gli occhiali a mezza luna con la  montatura  d'oro,  e  guardò     l'orologio  con  la  catenella,  che  era  quadrato e sottile,  con il     coperchio a molla: stava per perdere la messa di Pentecoste.     Nella sala c'era un'enorme macchina fotografica su ruote  come  quelle     dei  giardini  pubblici  e lo sfondo di un crepuscolo sul mare dipinto     artigianalmente,  e le pareti erano tappezzate di ritratti di  bambini     nelle  loro  date memorabili: la prima comunione,  il mascheramento da     coniglio, il compleanno felice. Il dottor Urbino aveva visto quei muri     ricoprirsi giorno dopo giorno, anno dopo anno,  durante le cavillosità     assorte  dei  pomeriggi  di  scacchi,  e  aveva  pensato spesso con un     palpito di desolazione che in  quella  galleria  di  ritratti  casuali     c'era  il  germe  della  città futura,  governata e pervertita da quei     bambini incerti,  e nella quale non sarebbero più rimaste  neanche  le     ceneri della sua gloria.
    Sulla scrivania,  vicino a un barattolo pieno di pipe da lupo di mare,     c'era la scacchiera con una partita non conclusa. Malgrado la fretta e     l'animo malinconico,  il dottor Urbino non resistette alla  tentazione     di  studiarla.  Sapeva  che era la partita della sera prima,  dato che     Jeremiah de Saint-Amour giocava tutti i pomeriggi  della  settimana  e     almeno con tre avversari diversi,  ma arrivava sempre fino alla fine e     poi metteva la scacchiera e le pedine  nella  scatola,  e  metteva  la     scatola  in  un  cassetto  della  scrivania.  Sapeva che giocava con i     bianchi, e quella volta era evidente che sarebbe stato sconfitto senza     rimedio in quattro mosse.  «Se  fosse  stato  un  assassinio,  qui  ci     sarebbe una buona pista» disse tra sé. «Conosco solo un uomo capace di     preparare  questa  imboscata maestra.» Non avrebbe potuto vivere senza     scoprire più tardi perché quel soldato indomito,  abituato a  battersi     fino  all'ultimo  sangue,  avesse lasciato inconclusa la guerra finale     della sua vita.
    Alle sei di mattina, quando faceva l'ultima ronda, la guardia notturna     aveva visto il cartello attaccato alla porta: "Entrate senza bussare e     avvisate la polizia".  Poco dopo era accorso  il  commissario  con  il     praticante,  e ambedue avevano ispezionato la casa in cerca di qualche     evidenza contro l'odore inconfondibile delle mandorle  amare.  Ma  nei     pochi  minuti  che  indugiò  ad  analizzare  la  partita incompiuta il     commissario scoprì fra le carte della scrivania una busta  indirizzata     al dottor Juvenal Urbino, e protetta da tanti sigilli di ceralacca che     fu necessario farla a pezzi per estrarne la lettera.  Il medico scostò     la tenda nera della finestra per avere più luce, diede prima un rapido     sguardo agli undici fogli scritti da tutte e  due  le  parti  con  una     calligrafia  comprensibile,  e  non appena ebbe letto il primo periodo     capì di aver perso la  comunione  di  Pentecoste.  Lesse  con  l'animo     agitato,  tornando  indietro  in più pagine per riprendere il filo che     aveva perso,  e quando ebbe finito  sembrava  che  tornasse  da  molto     lontano e da molto tempo.  La sua prostrazione era visibile nonostante     lo sforzo che faceva per  impedirlo:  sulle  labbra  aveva  lo  stesso     colore azzurro del cadavere,  e non riuscì a dominare il tremore delle     dita quando ripiegò la lettera e se la mise  nel  taschino  del  gilè.     Allora si ricordò del commissario e del giovane medico,  e gli sorrise     dalle brume del dolore.
    «Niente di particolare» disse. «Sono le sue ultime volontà.»
    Era una mezza verità, ma loro la credettero completa perché lui ordinò     di sollevare una mattonella non cementata del pavimento e lì trovarono     un libro di conti molto usato che conteneva le chiavi  per  aprire  la     cassaforte.  Non  c'era tanto denaro quanto pensavano,  ma ce n'era in     abbondanza per le spese del funerale e per  saldare  altre  incombenze     minori.  Il  dottor Urbino era conscio in quel momento di non riuscire     ad arrivare alla cattedrale prima del Vangelo.
    «E' la terza volta che perdo la messa  della  domenica  da  quando  ho     l'uso della ragione» disse. «Ma Dio capisce.»
    Cosicché preferì attardarsi qualche minuto di più per lasciare tutti i     dettagli  risolti,  anche se riusciva a stento a sopportare l'ansia di     dividere con sua moglie le confidenze della  lettera.  Si  impegnò  ad     avvisare  i  numerosi rifugiati del Caribe che vivevano in città,  nel     caso avessero voluto rendere gli ultimi onori a chi si era  comportato     come  il  più rispettabile di tutti,  il più attivo e radicale,  anche     dopo che era stato troppo evidente che aveva  dovuto  soccombere  alla     remora  della  disillusione.  Avrebbe  avvisato  anche i suoi amici di     scacchi,  fra i quali c'erano da insigni professionisti fino a  operai     senza nome, e altri amici meno assidui, ma che probabilmente avrebbero     voluto  assistere  alla  cerimonia  funebre.  Prima  di  conoscere  il     contenuto della lettera postuma aveva deciso di essere  il  primo,  ma     dopo  averla  letta  non  era  sicuro di niente.  In ogni modo avrebbe     mandato una corona di gardenie,  nel caso che Jeremiah de  Saint-Amour     avesse  avuto  un  ultimo  minuto di pentimento.  La cerimonia sarebbe     stata alle cinque,  che era l'ora più propizia nei mesi più caldi.  Se     avessero avuto bisogno di lui, da mezzogiorno sarebbe stato nella casa     di campagna del dottor Lácides Olivella, suo amato discepolo, che quel     giorno  celebrava  con  un  pranzo  di  gala le nozze d'argento con la     professione.
    Il dottor Juvenal Urbino aveva abitudini facili da seguire,  da quando     erano  passati gli anni tormentati delle prime armi,  e aveva ottenuto     una rispettabilità e un prestigio senza  eguali  nella  provincia.  Si     alzava al primo canto del gallo, e a quell'ora incominciava a prendere     le  sue  medicine segrete: bromuro di potassio per sollevarsi l'animo,     salicilati per i dolori delle ossa quando  pioveva,  gocce  di  segale     cornuta per i capogiri, belladonna per dormire bene. Prendeva qualcosa     in  ogni momento,  sempre di nascosto,  perché nella sua lunga vita di     medico e maestro era stato sempre contrario a  prescrivere  palliativi     per  la  vecchiaia: gli era più facile sopportare i dolori degli altri     che i suoi.  In tasca portava sempre un  sacchettino  di  canfora  che     aspirava  a  fondo  quando nessuno lo vedeva per togliersi la paura di     tante medicine ingarbugliate.
    Restava un'ora nel suo studio,  a  preparare  la  lezione  di  clinica     medica  che tenne alla Scuola di Medicina tutti i giorni dal lunedì al     sabato,  alle otto in punto,  fino alla vigilia della sua  morte.  Era     anche  un  lettore  attento alle novità letterarie che gli mandava per     posta il suo libraio di Parigi, o quelle che ordinava a Barcellona dal     suo libraio locale,  anche se non seguiva  la  letteratura  di  lingua     castigliana  con  tanta attenzione come quella francese.  Comunque non     leggeva mai di mattina, ma dopo la siesta per un'ora,  e la sera prima     di  dormire.  Finito  lo  studio,  faceva  quindici minuti di esercizi     respiratori nel bagno, davanti alla finestra aperta, respirando sempre     verso il lato da cui cantavano i galli,  che  era  dove  c'era  l'aria     nuova.  Poi  faceva  il bagno,  si regolava la barba e si impomatava i     baffi in un ambiente saturo di acqua di colonia di Farina Gegenüber, e     si vestiva di lino bianco,  con gilè e cappello floscio,  e stivaletti     di  pelle  di  capra.  A  ottantun  anni conservava i modi facili e lo     spirito allegro di quando era tornato da Parigi,  poco dopo la  grande     epidemia  di colera,  e i capelli ben pettinati con la scriminatura in     mezzo che continuava a essere uguale a quella  della  gioventù,  salvo     per  il  colore  metallico.  Faceva colazione in famiglia,  ma con una     dieta personale: un infuso  di  fiori  di  assenzio  maggiore  per  il     benessere  dello  stomaco  e  una testa d'aglio i cui spicchi pelava e     mangiava a uno a uno masticandoli coscienziosamente con  una  pagnotta     di pane,  per prevenire gli affanni del cuore.  Di rado non aveva dopo     la lezione qualche impegno legato alle sue iniziative civiche  o  alla     sua militanza cattolica o alle sue invenzioni artistiche e sociali.     Pranzava quasi sempre a casa, faceva una siesta di dieci minuti seduto     nella terrazza del patio,  udendo in sogno le canzoni delle domestiche     sotto le fronde dei manghi,  udendo le urla  dei  venditori  ambulanti     della  strada,  il fragore di olii e motori della baia,  i cui effluvi     aleggiavano intorno alla casa  nei  pomeriggi  caldi  come  un  angelo     condannato  al  marciume.  Poi leggeva per un'ora i libri più recenti,     specialmente romanzi e saggi storici,  e dava lezioni di francese e di     canto  al  pappagallo  di  casa  che da diversi anni era un'attrazione     locale.  Alle quattro usciva a visitare i suoi  malati,  dopo  essersi     sorbito un gran boccale di limonata con ghiaccio. Nonostante l'età era     contrario  a ricevere i pazienti in studio,  e continuava a seguirli a     casa loro,  come aveva fatto sempre,  da  quando  la  città  era  così     domestica da potersene andare a piedi dovunque.
    Dopo che era arrivato dall'Europa, nei primi tempi girava sul landò di     famiglia  con  due  sauri  dorati,  ma  quando  questo  era  diventato     inservibile lo aveva cambiato con una vittoria a un  solo  cavallo,  e     aveva  continuato  a usarla sempre con un certo disdegno nei confronti     della moda,  quando le carrozze incominciavano  ormai  a  sparire  dal     mondo e le uniche che restavano in città servivano solo per portare in     giro  i  turisti  e  le corone ai funerali.  Anche se continuava a non     volersi  ritirare,   sapeva  benissimo  che  lo  chiamavano  solo  per     occuparsi di casi persi, ma considerava che anche questo fosse un tipo     di  specializzazione.  Era capace di sapere quello che aveva un malato     solo dal suo aspetto,  e ogni volta si fidava meno delle  medicine  di     moda  e  guardava  allarmato  alla  volgarizzazione  della  chirurgia.     Diceva:  «Il  bisturi  è  la  prova  maggiore  dell'insuccesso   della     medicina».  Pensava  che  con  stretto criterio ogni medicina fosse un     veleno e che il settanta per cento degli alimenti correnti affrettasse     la morte.  «In ogni caso» era solito dire nelle sue lezioni,  «la poca     medicina  che  si  sa la sanno solo pochi medici.» Dai suoi entusiasmi     giovanili era passato a una  posizione  che  lui  stesso  definiva  un     umanesimo fatalista.  «Ognuno è padrone della propria morte, e l'unica     cosa che possiamo fare, arrivato il momento, è aiutarlo a morire senza     paura né dolore.» Ma nonostante  queste  idee  estreme,  che  facevano     parte del folklore medico locale, i suoi antichi alunni continuavano a     consultarlo anche quando erano già professionisti affermati,  dato che     gli riconoscevano  quello  che  allora  si  chiamava  occhio  clinico.     Comunque  era  sempre  stato  un  medico  caro ed esclusivo,  e la sua     clientela si era sempre concentrata nelle case avite del quartiere dei     Viceré.
    Aveva una giornata così metodica che sua moglie sapeva dove  mandargli     un   messaggio   se  succedeva  qualcosa  di  urgente  nel  corso  del     pomeriggio. Da giovane si attardava al Caffè della Parrocchia prima di     tornare a casa, e così aveva perfezionato i suoi scacchi con gli amici     di suo suocero e con alcuni rifugiati del Caribe.  Ma dagli albori del     nuovo  secolo  non  era  più tornato al Caffè della Parrocchia e aveva     cercato di organizzare tornei nazionali patrocinati dal  Club  Social.     Era  stata  quella  l'epoca in cui era venuto Jeremiah de Saint-Amour,     già con i suoi ginocchi morti e ancora senza l'attività  di  fotografo     di  bambini,  e  prima  che fossero passati tre mesi era conosciuto da     chiunque sapesse muovere un alfiere sulla scacchiera,  perché  nessuno     era riuscito a vincergli una partita. Per il dottor Juvenal Urbino era     stato  un  incontro  miracoloso,  in  un momento in cui gli scacchi si     erano trasformati per  lui  in  una  passione  indomabile  e  non  gli     restavano più molti avversari per saziarla.
    Grazie  a lui,  Jeremiah de Saint-Amour aveva potuto essere quello che     era stato fra di noi.  Il dottor Urbino si  era  trasformato  nel  suo     protettore incondizionato,  nel suo garante di tutto,  senza prendersi     nemmeno la fatica di verificare chi fosse, né che cosa facesse,  né da     quali  guerre  senza gloria venisse in quello stato di invalidità e di     sconcerto.  Infine gli aveva prestato  il  denaro  per  metter  su  la     bottega da fotografo, che Jeremiah de Saint-Amour gli aveva pagato con     un rigore da passamantiere, fino all'ultimo centesimo, da quando aveva     ritratto il primo bambino impaurito dal lampo di magnesio.     Tutto  era  stato per gli scacchi.  All'inizio giocavano alle sette di     sera,  dopo cena,  con ragionevoli vantaggi per  il  medico  vista  la     superiorità notevole dell'avversario, ma ogni volta con meno vantaggi,     finché erano stati pari. Più tardi, quando don Galileo Daconte aprì la     prima  sala cinematografica,  Jeremiah de Saint-Amour era uno dei suoi     clienti più puntuali,  e le partite di scacchi si erano  ridotte  alle     sere in cui non c'erano "prime".
    A  quell'epoca  era  diventato  così  amico  del  medico che questi lo     accompagnava al cinema,  ma sempre senza la moglie,  un po' perché lei     non aveva la pazienza di seguire il filo degli argomenti difficili, un     po' perché gli era sempre parso,  a naso,  che Jeremiah de Saint-Amour     non fosse una buona compagnia per nessuno.
    Il suo giorno diverso era la domenica.  Assisteva alla  messa  solenne     nella  cattedrale,  e  poi tornava a casa e lì rimaneva a riposare e a     leggere sulla terrazza del  patio.  Raramente  usciva  a  visitare  un     malato in una festa di precetto,  se non era di estrema urgenza,  e da     molti anni non accettava un impegno sociale che non fosse strettamente     obbligatorio.  Quel giorno di Pentecoste,  per  un  caso  eccezionale,     erano successi contemporaneamente due avvenimenti rari: la morte di un     amico  e  le  nozze d'argento di un suo eminente discepolo.  Tuttavia,     invece di ritornare direttamente a casa, come aveva previsto dopo aver     certificato la morte di  Jeremiah  de  Saint-Amour,  si  era  lasciato     prendere dalla curiosità.
    Appena  salito in carrozza,  aveva riletto rapidissimamente la lettera     postuma,  e aveva ordinato al cocchiere di  portarlo  a  un  indirizzo     difficile  nel  vecchio quartiere degli schiavi.  Quella decisione era     così estranea alle sue abitudini che il  cocchiere  volle  assicurarsi     che non ci fosse qualche errore.  Non c'era: l'indirizzo era chiaro, e     chi lo aveva scritto aveva motivi a iosa per conoscerlo molto bene. Il     dottor Urbino era tornato allora al primo foglio,  e si era immerso di     nuovo  in  quella  sorgente  di  rivelazioni  sgradevoli che avrebbero     potuto cambiargli la vita,  persino alla sua età,  se fosse riuscito a     convincersi che non erano i deliri di uno privo di ogni speranza.     L'umore del cielo aveva incominciato ad alterarsi da molto presto,  ed     era nuvoloso e fresco,  ma non c'erano  rischi  di  pioggia  prima  di     mezzogiorno. Cercando di trovare un cammino più breve, il cocchiere si     era  infilato  nelle  vie impervie di pietra della città coloniale,  e     aveva dovuto  fermarsi  parecchie  volte  perché  il  cavallo  non  si     spaventasse  con  il  disordine  dei  collegi  e  delle  confraternite     religiose che ritornavano dalla  liturgia  della  Pentecoste.  C'erano     ghirlande  di  carta  per  le strade,  musiche e fiori,  e ragazze con     ombrellini colorati  e  abiti  leggeri  di  mussolina  che  guardavano     passare la festa dai balconi.  Nella Piazza della Cattedrale,  dove si     distingueva solo la statua del Libertador (1) fra le palme africane  e     i nuovi lampioni a globo,  c'era un imbottigliamento di automobili per     l'uscita dalla messa e non c'era un  posto  libero  nel  venerabile  e     rumoroso  Caffè  della  Parrocchia.  L'unica  carrozza  era quella del     dottor Urbino,  e si distingueva dalle pochissime che restavano ancora     in città perché aveva sempre mantenuto la cappotta di pelle verniciata     lucida  e  aveva  i ferramenti di bronzo perché non se li mangiasse il     salino, e le ruote e le stanghe dipinte di rosso con i bordini dorati,     come nelle serate di gala dell'Opera di Vienna. Per di più,  mentre le     famiglie  più eleganti si accontentavano che i loro cocchieri avessero     la camicia pulita,  lui continuava a esigere  dal  suo  la  livrea  di     velluto  vizzo  e  la tuba da domatore di circo,  che,  oltre a essere     anacronistiche,  venivano giudicate come una mancanza di  misericordia     nella canicola del Caribe.
    Malgrado  il  suo  amore  quasi  maniacale  per la città,  e benché la     conoscesse meglio di chiunque altro,  il dottor Juvenal  Urbino  aveva     avuto  molto  raramente  un  motivo come quello di quella domenica per     avventurarsi senza reticenze nel fragore del vecchio  quartiere  degli     schiavi.  Il  cocchiere  aveva  dovuto  fare parecchi giri e domandare     diverse  volte  per  trovare  l'indirizzo.   Il  dottor  Urbino  aveva     riconosciuto  da  vicino la pesantezza delle paludi,  il loro silenzio     fatidico, i loro olezzi da affogato che in tante albe insonni salivano     su fino alla  sua  camera  da  letto  confusi  con  la  fragranza  dei     gelsomini  del patio,  e che lui sentiva passare come un vento di ieri     che non aveva  niente  a  che  vedere  con  la  sua  vita.  Ma  quella     pestilenza  tante volte idealizzata dalla nostalgia si era trasformata     in una realtà insopportabile quando la carrozza aveva  incominciato  a     saltare  nel  fango delle strade dove gli avvoltoi si contendevano gli     avanzi del mattatoio trascinati dalla marea.  A differenza della città     dei  viceré,  le  cui case erano in muratura,  lì erano fatte di legno     scolorito e tetti di zinco, e la maggioranza poggiava su palafitte per     non farci entrare le piene  delle  fogne  all'aperto  ereditate  dagli     spagnoli.  Tutto  aveva un aspetto miserabile e abbandonato,  ma dalle     taverne sordide veniva lo strepito di musica di  festa  senza  Dio  né     legge   della   Pentecoste   dei   poveri.   Quando  infine  trovarono     l'indirizzo,  la carrozza era seguita da comitive di bambini nudi  che     si  burlavano dell'abbigliamento teatrale del cocchiere,  e lui doveva     scacciarli con la frusta. Il dottor Urbino, che si era preparato a una     visita confidenziale, capì troppo tardi che non esisteva ingenuità più     pericolosa di quella della sua età.
    L'esterno della casa senza numero non aveva niente che la distinguesse     dalle meno felici,  all'infuori della finestra con le tende di pizzo e     un  portone  smontato  da  qualche  chiesa  antica.  Il cocchiere fece     risuonare il batacchio della porta,  e solo quando ebbe verificato che     era  l'indirizzo giusto aiutò il medico a scendere dalla carrozza.  Il     portone si era aperto senza fare rumore, e nella penombra dell'interno     c'era una donna matura,  vestita tutta di nero e con  una  rosa  rossa     dietro  un  orecchio.  Malgrado  i  suoi  anni,  che non erano meno di     quaranta,  era ancora una mulatta superba,  con  gli  occhi  dorati  e     crudeli,  e  i capelli adattati alla forma del cranio come un casco di     cotone di ferro.  Il dottor Urbino non la riconobbe,  anche se l'aveva     vista diverse volte fra le nebbie delle partite a scacchi nello studio     del  fotografo,  e  in  qualche  occasione  le  aveva prescritto delle     cartine di chinino per la febbre terzana.  Le tese la mano,  e lei  la     prese  fra  le sue,  più per aiutarlo a entrare che per salutarlo.  La
    sala aveva il clima e il mormorio invisibile di una  foresta,  ed  era     piena  di  mobili  e begli oggetti,  ognuno al suo posto naturale.  Il     dottor Urbino si ricordò senza amarezza della bottega di un antiquario     di Parigi, un lunedì d'autunno del secolo scorso,  al numero 26 di Rue     Montmartre.  La  donna  si  sedette  davanti  a  lui e gli parlò in un     castigliano difficile.
    «Questa è casa sua, dottore» disse. «Non l'aspettavo così presto.»     Il dottor Urbino si sentì denunciato. La osservò con il cuore, osservò     il suo lutto intenso, la dignità della sua angoscia, e allora capì che     quella era una visita inutile,  perché lei sapeva  più  di  lui  tutto     quanto  era  detto e giustificato nella lettera postuma di Jeremiah de     Saint-Amour. Era così. Lei lo aveva accompagnato fino a pochissime ore     prima della morte, così come lo aveva accompagnato per quasi vent'anni     con una devozione e un affetto  sottomessi  che  erano  troppo  simili     all'amore,  e  senza  che  nessuno  lo  sapesse  in  questa sonnolenta     capitale di provincia dove erano di dominio pubblico perfino i segreti     di stato. Si erano conosciuti in un ricovero per viandanti di Port-au    Prince,  dove lei era nata e dove lui aveva passato i suoi primi tempi     da  fuggiasco,  e lo aveva seguito fin qui un anno dopo per una visita     breve, anche se tutti e due sapevano senza essersi messi d'accordo che     era venuta per fermarsi per sempre. Lei si occupava di tenere pulito e     in ordine lo studio una volta alla settimana,  ma neanche i vicini più     malpensanti  avevano  confuso  le  apparenze  con  la  verità,  perché     supponevano come tutti che l'invalidità di Jeremiah de Saint-Amour non     riguardasse solo il camminare.  Lo stesso dottor Urbino  lo  supponeva     per ragioni mediche ben fondate,  e non avrebbe mai creduto che avesse     una donna se lui stesso non glielo avesse rivelato nella  lettera.  In     ogni modo stentava a capire come due adulti liberi e senza passato, ai     margini  di  una  società  ripiegata su se stessa,  avessero scelto il     rischio degli amori proibiti.  Lei glielo spiegò: «Era quello che  gli     piaceva».  E,  in più, la clandestinità divisa con un uomo che non era     mai stato completamente suo,  e nella quale più di una  volta  avevano     conosciuto l'esplosione improvvisa della felicità, non le era sembrata     una  condizione indesiderabile.  Anzi: la vita le aveva dimostrato che     forse era stata esemplare.
    La sera prima erano andati al cinema,  ognuno per proprio conto  e  in     posti  lontani,  come  facevano  almeno  due  volte  al mese da quando     l'immigrante italiano don Galileo Daconte aveva installato  un  salone     all'aperto  nei  ruderi  di  un  convento  del diciassettesimo secolo.     Avevano visto un film tratto da un libro che era stato di moda  l'anno     prima,  e  che  il dottor Urbino aveva letto col cuore afflitto per la     barbarie della guerra: "All'Ovest niente di nuovo". Si erano ritrovati     poi nello studio,  e le era sembrato sperduto e  nostalgico,  e  aveva     pensato che fosse per le scene brutali dei feriti moribondi nel fango.     Cercando  di  distrarlo  lo aveva invitato a giocare a scacchi,  e lui     aveva accettato per farla contenta, ma giocava senza attenzione, con i     bianchi, naturalmente,  finché aveva scoperto prima di lei che sarebbe     stato  sconfitto  in  quattro mosse,  e si era arreso senza onore.  Il     medico capì allora che il contendente della partita finale  era  stata     lei  e  non  il  generale  Jerónimo  Argote,  come lui aveva supposto.
    Mormorò sbigottito:
    «Era una partita da maestro!»
    Lei insistette che il merito non era suo,  ma che Jeremiah  de  Saint    Amour,  già smarrito nelle brume della morte,  muoveva le pedine senza     amore.  Interrotta la partita,  verso le undici e un quarto,  dato che     era  già finita la musica dei balli pubblici,  lui le aveva chiesto di     lasciarlo solo.  Voleva scrivere una lettera al dottor Juvenal Urbino,     che  considerava l'uomo più rispettabile che avesse mai conosciuto,  e     anche un amico dell'anima, come gli piaceva dire, benché la loro unica     affinità fosse il vizio degli scacchi inteso  come  un  dialogo  della     ragione  e non come una scienza.  Allora lei aveva saputo che Jeremiah     de Saint-Amour era arrivato al termine  dell'agonia,  e  che  non  gli     rimaneva  più  tempo  di  vita  all'infuori  di  quello necessario per     scrivere la lettera. Il medico non riusciva a crederci.
    «E così lei lo sapeva!» esclamò.
    Non solo lo sapeva,  confermò lei,  ma lo aveva aiutato  a  sopportare     l'agonia  con  lo  stesso amore con cui lo aveva aiutato a scoprire la     felicità.  Perché questo erano stati i suoi ultimi  undici  mesi:  una     crudele agonia.
    «Doveva dirlo pubblicamente» disse il medico.
    «Non  avrei potuto fargli questo» disse lei,  scandalizzata: «lo amavo     troppo».
    Il dottor Urbino,  che credeva di averle sentite tutte,  non aveva mai     sentito nulla di simile,  e detto in un modo così semplice.  La guardò     risolutamente con i cinque sensi per fissarla nella sua  memoria  come     era  in  quel  momento:  sembrava un idolo fluviale,  impavida nel suo     vestito nero,  con gli occhi da vipera e la  rosa  dietro  l'orecchio.     Molto tempo prima, su una spiaggia solitaria di Haiti dove tutti e due     giacevano  nudi dopo l'amore,  Jeremiah de Saint-Amour aveva sospirato     improvvisamente: «Non sarò mai vecchio».  Lei  lo  aveva  interpretato     come un proposito eroico di lottare senza quartiere contro i danni del     tempo,  ma  lui era stato più esplicito: aveva deciso irrevocabilmente     di togliersi la vita a sessant'anni.
    Li aveva compiuti, in effetti,  il 23 gennaio di quell'anno,  e allora     aveva fissato come termine ultimo la vigilia di Pentecoste, che era la     festa  più  importante  della  città consacrata al culto dello Spirito     Santo. Non c'era nessun particolare della notte precedente che lei non     avesse conosciuto anticipatamente, e ne parlavano spesso,  sopportando     insieme  il  torrente  irreparabile dei giorni che ormai né lui né lei     potevano arrestare.  Jeremiah de Saint-Amour amava  la  vita  con  una     passione  senza  senso,  amava il mare e l'amore,  amava il suo cane e     lei,  e più la data si avvicinava più  soccombeva  alla  disperazione,     come  se  la  sua  morte  non  fosse stata una decisione sua quanto un     destino inesorabile.
    «Ieri sera,  quando l'ho lasciato solo,  non era  già  più  di  questo     mondo» disse lei.
    Avrebbe  voluto portarsi via il cane,  ma lui lo aveva guardato mentre     dormiva vicino alle grucce e lo aveva accarezzato con la  punta  delle     dita. Aveva detto: «Mi dispiace, ma Mister Woodrow Wilson se ne va con     me».  Le  aveva  chiesto di legarlo alla gamba della branda mentre lui     scriveva,  e lei lo aveva fatto  con  un  nodo  finto  perché  potesse     liberarsi.  Era stato il suo unico atto di slealtà ed era giustificato     dal desiderio  di  continuare  a  ricordare  il  padrone  negli  occhi     invernali  del  suo cane.  Ma il dottor Urbino la interruppe per dirle     che il cane non si era liberato. Lei disse: «Allora è stato perché non     ha voluto».  E ne fu contenta,  perché preferiva continuare a  evocare     l'amante  morto come lui le aveva chiesto la sera prima,  quando aveva     interrotto la lettera che aveva incominciato e  l'aveva  guardata  per     l'ultima volta.
    «Ricordami con una rosa» le aveva detto.
    Era  rientrata  a casa sua poco dopo la mezzanotte.  Si era sdraiata a     fumare sul letto,  vestita,  accendendo una  sigaretta  col  mozzicone     dell'altra  per  dargli  il  tempo di finire la lettera che lei sapeva     lunga e difficile, e poco prima delle tre, quando avevano incominciato     a ululare i cani,  aveva messo sul fuoco l'acqua per il caffè,  si era     vestita  a  lutto  stretto  e  aveva  tagliato nel patio la prima rosa     dell'alba.  Il dottor Urbino si era reso conto da un attimo di  quanto     avrebbe  rifiutato il ricordo di quella donna irredimibile,  e credeva     di conoscerne il motivo: solo una persona senza principi poteva essere     così compiacente con il dolore.
    Lei gli diede più argomenti verso la fine della  visita.  Non  sarebbe     andata al funerale,  anche se il dottor Urbino aveva creduto di capire     il contrario in un paragrafo della lettera.  Non  avrebbe  sparso  una     lacrima,  non  avrebbe  sprecato  il  resto dei suoi anni a cuocersi a     fuoco lento nel brodo di larve della memoria,  non si sarebbe  sepolta     viva  a cucire i suoi lenzuoli mortuari fra queste quattro pareti come     era così benvisto che  facessero  le  vedove  del  luogo.  Pensava  di     vendere  la  casa di Jeremiah de Saint-Amour,  che da quel momento era     sua con tutto quello che aveva  dentro  secondo  quanto  era  disposto     nella  lettera,  e  avrebbe  continuato  a  vivere come sempre e senza     lamentarsi di nulla in  questo  mortorio  di  poveri  dove  era  stata     felice.
    Quella  frase  aveva  perseguitato  il  dottor  Juvenal  Urbino mentre     tornava a casa: «Questo mortorio di poveri».  Non era una  definizione     gratuita.  Perché  la  città,  la  sua,  continuava a essere uguale ai     margini del tempo: la stessa città ardente e arida  dei  suoi  terrori     notturni e dei piaceri solitari della pubertà,  in cui si ossidavano i     fiori e si corrompeva il sale,  e alla quale non era accaduto nulla in     quattro secoli, salvo l'invecchiare a poco a poco fra allori marciti e     paludi  imputridite.  D'inverno,  acquazzoni  improvvisi e distruttori     facevano strabordare le latrine e trasformavano le strade  in  fangaie     nauseabonde.  D'estate,  una polvere invisibile, aspra come un tizzone     rosso vivo,  si intrufolava  perfino  negli  interstizi  più  protetti     dell'immaginazione, sollevata da alcuni venti folli che scoperchiavano     case  e  che  si portavano per aria i bambini.  Il sabato,  la povertà     mulatta abbandonava chiassosamente le casette di cartone e latta sulle     rive delle paludi,  con i suoi animali domestici e i  suoi  arnesi  da     mangiare  e  bere,  e  prendeva  in  un  assalto di giubilo le spiagge     pietrose della zona coloniale.  Alcuni fra i più vecchi portavano fino     a pochi anni prima il marchio reale degli schiavi,  impresso con ferri     incandescenti nel petto.  Durante il fine  settimana  ballavano  senza     clemenza,   si   ubriacavano  a  morte  con  alcoolici  di  alambicchi     casalinghi,  facevano liberi amori fra le macchie di arbusti,  e  alla     mezzanotte della domenica scatenavano i loro "fandangos" con pandemoni     sanguinosi  di  tutti contro tutti.  Era la stessa folla impetuosa che     per il resto della settimana si infiltrava nelle piazze e nelle viuzze     dei quartieri antichi,  con banchetti di quanto era possibile comprare     e  vendere,  e  infondeva alla città morta una frenesia di fiera umana     odorosa di pesce fritto: una vita nuova.
    L'indipendenza  dal  dominio  spagnolo,   e  poi  l'abolizione   della     schiavitù,  avevano precipitato lo stato di decadenza onorevole in cui     era nato e cresciuto il dottor Juvenal Urbino.  Le grandi famiglie  di     un  tempo sprofondavano in silenzio dentro le loro fortezze sguarnite.     Agli angoli delle strade lastricate che erano state così  efficaci  in     agguati  di  guerra  e  sbarchi  di  bucanieri,  le erbacce apparivano     improvvisamente su per i balconi e aprivano crepe nei muri di calce  e     sassi anche negli edifici meglio tenuti,  e l'unico segno di vita alle     due del pomeriggio erano i languidi esercizi di piano  nella  penombra     della siesta. Dentro, nelle fresche camere da letto sature di incenso,     le  donne  evitavano  il sole come un contagio indegno,  e anche nelle     messe all'alba si coprivano la faccia con lo  scialle.  I  loro  amori     erano lenti e difficili, spesso turbati da presagi sinistri, e la vita
    pareva loro interminabile.  Sul far della sera, nel momento oppressivo     del passaggio dal giorno  alla  notte,  si  alzava  dalle  paludi  una     tempesta di zanzare carnivore, e una tenera esalazione di merda umana,     calda  e  triste,  rimestava  nel  fondo  dell'anima la certezza della     morte.
    Dunque la vita stessa della città coloniale,  che il  giovane  Juvenal     Urbino  era  solito  idealizzare  nelle  sue malinconie parigine,  era     allora un'illusione della memoria.  Il suo commercio era stato il  più     prospero  del  Caribe  nel  diciottesimo  secolo,  soprattutto  per il     privilegio ingrato di essere il più grande mercato di schiavi africani     nelle Americhe.  Era stato,  per di più,  la  residenza  abituale  dei     viceré  del Nuovo Regno di Granada,  che preferivano governare da qui,     davanti all'oceano del mondo,  e non nella capitale distante e  gelata     la  cui pioggerellina secolare ne scombussolava il senso della realtà.     Spesso durante l'anno si concentravano nella baia le flotte di galeoni     carichi dei frutti di Potosí, di Quito, di Veracruz, e la città viveva     allora i suoi anni di gloria.  Venerdì 8 giugno 1708 alle quattro  del     pomeriggio,  il galeone "San José",  che era appena salpato per Cadice     con un carico di pietre e  metalli  preziosi  per  mezzo  miliardo  di     "pesos"  dell'epoca,  fu  affondato  da  una  squadra  inglese davanti     all'entrata del porto,  e dopo più di due secoli non era ancora  stato     recuperato.  Quella fortuna che giaceva su fondali di coralli,  con il     cadavere del comandante che ondeggiava di fianco al posto di  comando,     era  spesso  evocata dagli storici come l'emblema della città affogata     nei ricordi.
    Dall'altro lato della baia, nel quartiere residenziale di La Manga, la     casa del dottor Juvenal Urbino stava in un altro tempo.  Era grande  e     fresca,  a  pianta  unica  e  con  un portico di colonne doriche sulla     terrazza esterna,  dalla quale si dominava  la  distesa  di  miasmi  e     rottami  di  naufragi  della  baia.  Il  pavimento  era  ricoperto  di     piastrelle a scacchi, bianche e nere, dalla porta di entrata fino alla     cucina,  e questo era stato attribuito ancora una volta alla  passione     dominante  del  dottor  Urbino,  senza ricordare che era una debolezza     comune dei capomastri catalani che  avevano  costruito  all'inizio  di     questo secolo quel quartiere di nuovi ricchi.  La sala era ampia,  coi     soffitti molto alti come tutta la casa,  con sei porte-finestre  sulla     strada,  e  era  separata  dalla  sala da pranzo da una porta a vetri,     enorme e istoriata, con ramaglie di vite e grappoli e donzelle sedotte     da zufoli di fauni in una foresta di bronzo. I mobili dell'anticamera,     perfino la pendola della sala che aveva l'aria di una sentinella viva,     erano tutti originali inglesi della fine del diciannovesimo secolo,  e     i  lampadari  sospesi  erano  di  gocce  di  cristallo  di  rocca,   e     dappertutto c'erano vasi e portafiori di Sèvres e statuette di idillii     pagani in alabastro.  Ma quella coerenza europea si esauriva nel resto     della  casa,  dove  le  poltrone di vimini si confondevano con sedie a     dondolo viennesi e sgabelli di  cuoio  di  artigianato  locale.  Nelle     camere  da  letto,  oltre  ai  letti,  c'erano splendide amache di San     Jacinto con il nome del padrone ricamato a lettere gotiche con fili di     seta e frange colorate dalle parti. Lo spazio concepito in origine per     le serate di gala, a fianco della sala da pranzo, era stato utilizzato     per una piccola sala da musica in cui si davano  concerti  per  intimi     quando   venivano  interpreti  famosi.   Per  migliorare  il  silenzio     dell'ambiente,  le piastrelle erano state coperte con i tappeti turchi     comprati  all'Esposizione Universale di Parigi,  c'era un fonografo di     modello recente vicino a uno scaffale di dischi ben ordinati,  e in un     angolo, coperto da uno scialle di Manila, c'era il piano che il dottor     Urbino  non  aveva  più  sfiorato  da molti anni.  In tutta la casa si     notavano il senno e la  diffidenza  di  una  donna  con  i  piedi  ben     piantati per terra.
    Tuttavia,  nessun  altro  luogo rivelava la solennità meticolosa della     biblioteca,  che era stata il santuario del dottor Urbino prima  della     vecchiaia.  Lì,  intorno  alla scrivania di noce di suo padre,  e alle     poltrone di cuoio "capitonné",  aveva fatto ricoprire i muri e perfino     le  finestre  con  scansie  a vetri,  e aveva messo in un ordine quasi     demente tremila libri identici rilegati in pelle di vitello e  con  le     sue  iniziali dorate sul dorso.  Al contrario delle altre stanze,  che     erano alla mercé del chiasso e  dei  cattivi  effluvi  del  porto,  la     biblioteca aveva avuto sempre il riserbo e l'odore di un'abbazia. Nati     e  allevati  sotto  la  superstizione  del  Caribe  di  aprire porte e     finestre per chiamare un fresco che in realtà non esisteva,  il dottor     Urbino  e  sua  moglie  si erano sentiti all'inizio col cuore oppresso     dalla clausura.  Ma avevano finito per  convincersi  della  bontà  del     metodo  romano  contro  il  caldo,  che  consisteva nel tenere le case     chiuse nel torpore di agosto per non far entrare l'aria ardente  della     strada,  e  aprirle  completamente  ai venti della notte.  La sua,  da     allora, era stata la più fresca nel sole feroce di La Manga, ed era un     piacere fare la siesta nella penombra delle stanze da letto, e sedersi     la sera nel portico a veder passare i cargo di New Orleans,  pesanti e     cenerini, e i battelli fluviali con la ruota di legno e le luci accese     al  tramonto,  che purificavano con una scia di musiche l'immondezzaio     ristagnante della baia. Era anche quella meglio protetta da dicembre a     marzo,  quando gli alisei del nord scoperchiavano i tetti e  passavano     la notte a girare come lupi affamati intorno alla casa in cerca di uno     spiraglio  in  cui  introdursi.  Nessuno  aveva  mai  pensato  che  il     matrimonio stabilito su  quelle  basi  avrebbe  potuto  avere  qualche     motivo per non essere felice.
    Comunque, il dottor Urbino non lo era quel mattino, quando era tornato     a  casa  prima delle dieci,  frastornato dalle due visite che non solo     gli avevano fatto perdere la messa di Pentecoste ma  che  minacciavano     di  cambiarlo  a  un'età  in cui tutto ormai pareva compiuto.  Avrebbe     voluto fare una siesta da cane finché fosse arrivata l'ora del  pranzo     di  gala  del dottor Lácides Olivella,  ma aveva trovato la servitù in     agitazione,  mentre cercavano di  afferrare  il  pappagallo,  che  era     volato  fino  al  ramo più alto dell'albero di mango quando lo avevano     tirato fuori della gabbia per tagliargli le  ali.  Era  un  pappagallo     spelacchiato e maniaco, che non parlava quando glielo chiedevano bensì     nelle occasioni più impensate, ma allora lo faceva con una chiarezza e     un  uso  della  ragione che non erano molto comuni negli esseri umani.     Era stato ammaestrato dal dottor Urbino in persona, e questo fatto gli     aveva reso dei privilegi che nessuno  aveva  mai  avuto  in  famiglia,     neanche i figli quando erano piccoli.
    Era  in  casa  da più di vent'anni,  e nessuno sapeva quanti ne avesse     vissuti prima.  Tutti i pomeriggi dopo la siesta,  il dottor Urbino si     sedeva  con lui nella terrazza del patio,  che era il posto più fresco     della casa,  e aveva fatto  ricorso  ai  mezzi  più  ardui  della  sua     passione  pedagogica  finché il pappagallo aveva imparato a parlare il     francese come un accademico. Poi,  per puro vizio di virtù,  gli aveva     insegnato  a  seguire  la  messa  in latino e qualche brano scelto del     Vangelo  secondo  San  Matteo,   e  aveva  cercato  senza  fortuna  di     inculcargli   una   nozione   meccanica   delle   quattro   operazioni     aritmetiche.  Da uno dei suoi ultimi viaggi in Europa aveva portato il     primo  fonografo  a  tromba  con  molti  dischi  di  moda  e  dei suoi     compositori classici preferiti.  Giorno dopo giorno,  parecchie  volte     per  vari  mesi,  faceva  ascoltare al pappagallo le canzoni di Yvette     Gilbert e Aristide Bruan,  che avevano fatto le delizie della  Francia     nel secolo scorso,  finché le aveva imparate a memoria. Le cantava con     voce femminile, se erano quelle di lei, e con voce da tenore, se erano     quelle di lui,  e concludeva con delle sganasciate libertine che erano     assolutamente  identiche a quelle delle domestiche quando lo sentivano     cantare in francese.  La fama  delle  sue  grazie  era  arrivata  così     lontano  che  a  volte  alcuni  visitatori  ragguardevoli che venivano     dall'interno sui battelli fluviali chiedevano il permesso di  vederlo,     e  in  un'occasione  dei  turisti  inglesi tra i molti che passavano a     quell'epoca sulle barche di banane di New Orleans avevano  cercato  di     comprarlo  a qualsiasi prezzo.  Ma il giorno della sua gloria maggiore     era stato quando il  Presidente  della  Repubblica,  don  Marco  Fidel     Suárez,  e tutti i ministri del suo gabinetto,  erano venuti in casa a     verificare la verità della sua fama.  Erano arrivati verso le tre  del     pomeriggio,  soffocati  dai  cappelli a cilindro e dalle finanziere di     panno che non si erano levati in tre giorni di visita ufficiale  sotto     il  cielo incandescente di agosto,  e avevano dovuto andarsene curiosi     come erano venuti,  perché il pappagallo  si  era  rifiutato  di  dire     persino  questo  becco  è mio in due ore di disperazione,  malgrado le     suppliche e le minacce e la vergogna pubblica del dottor  Urbino,  che     si  era  invischiato in quell'invito temerario contro i saggi consigli     di sua moglie.
    Il fatto che il pappagallo avesse  mantenuto  i  suoi  privilegi  dopo     questo  sgarbo  storico  era  stato  la  prova  finale della sua sacra     prerogativa.  Nessun altro animale era  permesso  in  casa,  salvo  la     tartaruga  di  terra,  che era ricomparsa in cucina dopo tre o quattro     anni in cui l'avevano creduta perduta per sempre. Questa, però, non si     comportava come un essere vivo,  ma piuttosto come un amuleto minerale     per  la  buona  sorte,  di  cui  non  si  sapeva scientificamente dove     andasse.  Il dottor Urbino si rifiutava di ammettere  che  odiava  gli     animali,  e lo dissimulava con qualsiasi tipo di favole scientifiche e     pretesti filosofici che convincevano molta gente ma  non  sua  moglie.     Diceva  che  quelli  che  li amavano eccessivamente erano capaci delle     peggiori crudeltà con gli esseri umani.  Diceva che i cani  non  erano     fedeli ma servili,  che i gatti erano opportunisti e traditori,  che i     pavoni reali  erano  araldi  della  morte,  che  gli  ara  erano  solo     impiastri ornamentali,  che i conigli fomentavano la cupidigia,  che i     mandrilli contagiavano la febbre della lussuria,  e che i galli  erano     maledetti perché si erano prestati a negare Cristo per tre volte.     Invece Fermina Daza,  sua moglie,  che allora aveva settantadue anni e     aveva ormai perduto l'andatura da cerva  di  altri  tempi,  idolatrava     irrazionalmente  i  fiori  equatoriali e gli animali domestici,  e nei     primi tempi del matrimonio si era approfittata della novità dell'amore     per tenerne in casa molti più di quanti  consigliasse  la  ragione.  I     primi  erano  stati  tre  dalmati col nome di imperatori romani che si     erano fatti a pezzi fra di loro per i favori di una femmina che  aveva     fatto  onore  al  suo  nome  di Messalina,  dato che indugiava più nel     partorire nove cuccioli che nel concepirne altri dieci.  Poi era stata     la volta dei gatti abissini con profilo da aquila e modi faraonici,  i     siamesi strabici,  i persiani cortigiani dagli  occhi  aranciati,  che     passeggiavano  sui  letti  come  ombre  di fantasmi e sconvolgevano le     notti con i gridi dei loro sabba d'amore. Per qualche anno, incatenato     al mango del  patio,  c'era  stato  un  mandrillo  dell'Amazzonia  che     suscitava  una  certa  compassione  perché aveva le sembianze afflitte     dell'arcivescovo Obdulio y Rey,  e lo stesso candore dei suoi occhi  e     l'eloquenza  delle  sue  mani,  ma non era stato per questo motivo che     Fermina Daza se ne era liberata,  quanto per la sua cattiva  abitudine     di compiacersi in onore delle signore.
    C'era ogni tipo di uccelli del Guatemala nelle gabbie dei corridoi,  e     aironi premonitori e altri da pantano con le zampe grandi e gialle,  e     un  giovane  cervo  che  si affacciava alle finestre per mangiarsi gli     anturi dei vasi di fiori. Poco prima dell'ultima guerra civile, quando     si era parlato per la prima volta di una possibile  visita  del  Papa,     avevano  portato  dal  Guatemala  un  uccello  del  paradiso che aveva     tardato molto più a venire che a tornare nella sua  terra,  quando  si     era saputo che l'annuncio del viaggio pontificio era stato una panzana     del governo per spaventare i liberali che tramavano fra loro. Un'altra     volta  avevano comprato sui velieri dei contrabbandieri di Curação una     gabbia di fil di ferro con sei corvi profumati,  uguali a  quelli  che     Fermina  Daza  aveva  avuto da bambina nella casa paterna e che voleva     continuare ad avere da sposata. Ma nessuno era riuscito a sopportare i     continui battiti d'ali che saturavano la casa con i loro  effluvii  di     corone da morto. Avevano portato anche un anaconda di quattro metri, i     cui sospiri di cacciatore insonne perturbavano l'oscurità delle camere     da letto,  anche se con lui avevano ottenuto quello che volevano, cioè     spaventare col suo fiato mortale i pipistrelli e le salamandre,  e  le     numerose  specie  di insetti nocivi che invadevano la casa nei mesi di     pioggia. Al dottor Juvenal Urbino,  a quell'epoca così richiesto per i     suoi  obblighi professionali,  e così indaffarato nelle sue promozioni     civiche e culturali,  bastava supporre che in mezzo a  tante  creature     abominevoli  sua  moglie  non  fosse solo la più bella nell'ambito del     Caribe ma anche la più felice. Ma un pomeriggio piovoso, verso la fine     di una giornata spossante,  aveva trovato in casa un disastro  che  lo     aveva fatto tornare alla realtà. Dal salone fin dove arrivava la vista     c'era  un  rigagnolo  di animali morti che galleggiavano in un pantano     sanguinolento. Le domestiche, arrampicate sulle sedie senza sapere che     fare, non si erano ancora rimesse dal panico della carneficina.     Il caso aveva voluto che uno dei mastini tedeschi,  impazzito  per  un     improvviso  attacco  di  rabbia,  avesse fatto a pezzi ogni animale di     qualsiasi tipo  che  aveva  incontrato  sul  suo  cammino,  finché  il     giardiniere della casa vicina aveva avuto il coraggio di affrontarlo e     lo  aveva  fatto  a pezzi a colpi di machete.  Non si sapeva quanti ne     avesse morsi o contagiati con le sue schiume  verdi,  così  il  dottor     Urbino  aveva  ordinato di uccidere i sopravvissuti e di incenerirne i     corpi in un campo lontano,  e aveva chiesto ai  servizi  dell'Ospedale     della  Misericordia  una  disinfezione della casa.  L'unica che si era     salvata,  perché nessuno  si  era  ricordato  di  lei,  era  stata  la     tartaruga della buona sorte.
    Fermina  Daza  aveva  dato  ragione a suo marito per la prima volta in     qualche argomento domestico e si era preoccupata di non parlare più di     animali per parecchio tempo.  Si consolava con le  incisioni  colorate     della Storia Naturale di Linneo,  che aveva fatto stampare e attaccare     alle pareti della sala, e forse avrebbe finito per perdere le speranze     di vedere ancora un animale in casa se non fosse stato che una mattina     i ladri avevano forzato una finestra del bagno e si erano portati  via     il  servizio di argenteria ereditato da cinque generazioni.  Il dottor     Urbino aveva messo doppi catenacci agli anelli delle  finestre,  aveva     assicurato le porte dall'interno con spranghe di ferro, aveva nascosto     le  cose  di  maggior valore nella cassaforte e aveva preso la tardiva     abitudine bellica di dormire con la pistola sotto il  cuscino.  Ma  si     era opposto all'acquisto di un cane feroce,  vaccinato o no,  libero o     alla catena, anche se i ladri lo avevano spogliato.
    «In questa casa non entrerà nulla che non parli» aveva detto.     Lo aveva detto per porre fine alle arguzie  di  sua  moglie,  un'altra     volta  ostinata  a  comprare  un cane,  e senza nemmeno immaginare che     quella  generalizzazione  frettolosa  gli  sarebbe  costata  la  vita.     Fermina Daza,  il cui carattere selvatico si era andato addolcendo con     gli anni,  prese al volo la leggerezza di linguaggio del marito: pochi     mesi  dopo il furto era tornata ai velieri di Curação e aveva comprato     un pappagallo reale di Paramaribo che sapeva dire  solo  bestemmie  da     marinaio,  ma  che le diceva con una voce così umana che ben valeva il     suo prezzo eccessivo di dodici centesimi.
    Era di quelli buoni, più leggero di quanto sembrasse, e aveva la testa     gialla e la lingua nera,  l'unico modo per distinguerlo dai pappagalli     delle  mangrovie  che non imparavano a parlare neanche con le supposte     di trementina. Il dottor Urbino, da buon perdente,  si inchinò davanti     all'ingegno  di  sua moglie,  e lui stesso rimase sorpreso del piacere     che provò per i progressi del pappagallo stuzzicato dalle  domestiche.     Nei  pomeriggi  di pioggia,  quando gli si scioglieva la lingua per la     contentezza delle piume bagnate,  diceva frasi d'altri tempi  che  non     aveva  potuto  apprendere  in  casa  e  che facevano pensare che fosse     ancora più vecchio di  quel  che  sembrasse.  L'ultima  reticenza  del     medico  era  crollata  una  notte  in  cui  i ladri avevano cercato di     entrare un'altra volta da un lucernario della terrazza e il pappagallo     li aveva spaventati con dei latrati da mastino che non sarebbero stati     così verosimili se fossero stati reali,  e gridando ladri ladri ladri,     due  vezzi salvatori che non aveva imparato in casa.  Era stato allora     che il dottor Urbino si  era  fatto  carico  di  lui,  e  aveva  fatto     costruire  sotto il mango un bastone trasversale con un recipiente per     l'acqua e un altro per le banane mature,  e anche un trapezio per fare     delle evoluzioni. Da dicembre a marzo, quando le notti si facevano più     fredde e le intemperie diventavano invivibili per i venti del nord, lo     portavano  a  dormire  nelle stanze da letto dentro una gabbia coperta     con uno scialle,  anche se il dottor  Urbino  sospettava  che  il  suo     cimurro  cronico  potesse  essere pericoloso per la buona respirazione     degli esseri umani. Per molti anni gli avevano tagliato le piume delle     ali e lo avevano lasciato libero di camminare a  piacere  con  la  sua     andatura  a  gambe  storte  da vecchio cavaliere.  Ma un giorno si era     messo a fare grazie da acrobata sulle  mensole  della  cucina  ed  era     caduto nella pentola del lesso in mezzo al suo stesso putiferio navale     di si salvi chi può, e con tanta buona sorte che la cuoca era riuscita     a  tirarlo su col mestolo,  scottato e senza piume ma ancora vivo.  Da     allora lo avevano tenuto nella gabbia anche durante il giorno,  contro     la credenza popolare che i pappagalli in gabbia dimenticano quello che     hanno  imparato,  e lo tiravano fuori solo con il fresco delle quattro     per le lezioni del dottor Urbino sulla terrazza del patio.  Nessuno si     era  accorto  in tempo che aveva le ali troppo lunghe,  e quel mattino     stavano per tagliargliele quando  era  scappato  fin  sulla  cima  del     mango.
    Non erano riusciti a prenderlo per tre ore.  Le domestiche, aiutate da     altre del circondario, avevano fatto ricorso a ogni genere di artifizi     per farlo scendere, ma lui continuava ostinato al suo posto,  gridando     morto  dal  ridere viva il partito liberale,  viva il partito liberale     cazzo,  un grido temerario che era costato la vita a  più  di  quattro     ubriaconi felici.  Il dottor Urbino riusciva a malapena a distinguerlo     tra le fronde e cercò di convincerlo in  spagnolo  e  in  francese,  e     anche in latino,  e il pappagallo gli rispondeva nelle stesse lingue e     con la stessa enfasi e timbro di voce,  ma non si  mosse  dalla  cima.     Convinto  che  nessuno  sarebbe riuscito a prenderlo con le buone,  il     dottor Urbino ordinò di chiedere aiuto ai pompieri,  che erano il  suo     giocattolo civico più recente.
    Fino  a poco tempo prima,  in effetti,  gli incendi venivano spenti da     volontari con scale da muratore e secchi d'acqua trasportati  da  dove     si  poteva,  ed  era  tale il disordine dei loro metodi da provocare a     volte più danni degli incendi.  Ma da un anno,  grazie a una  colletta     promossa  dalla Società di Migliorie Pubbliche,  di cui Juvenal Urbino     era presidente onorario,  esisteva un corpo di pompieri professionisti     e  un  camion-cisterna  con  sirena e campana e due idranti.  Erano di     moda,  al punto che nelle scuole si sospendevano le lezioni quando  si     udivano  le campane delle chiese suonare a martello,  perché i bambini     andassero a vederli combattere contro il fuoco. All'inizio era l'unica     cosa che facevano.  Ma il dottor Urbino aveva raccontato alle autorità     municipali  che  ad  Amburgo  aveva  visto  i  pompieri risuscitare un     bambino che avevano trovato congelato in una cantina dopo una nevicata     di tre giorni.  Li aveva visti anche in un vicolo di Napoli tirar  giù     un  morto  nella  bara  dal balcone di un decimo piano perché le scale     dell'edificio erano così torte che la  famiglia  non  era  riuscita  a
    portarlo in strada. Così i pompieri locali avevano imparato a prestare     altri servizi d'emergenza,  come forzare serrature o uccidere serpenti     velenosi, e la Scuola di Medicina gli aveva impartito lezioni speciali     di pronto  soccorso  per  incidenti  minori.  E  quindi  non  era  uno     sproposito  chiedere  loro  il  favore  di  tirar  giù  dall'albero un     pappagallo distinto con tanti meriti come un signore. Il dottor Urbino     aveva detto: «Dite che è da parte mia». E se n'era andato in camera da     letto a vestirsi per il pranzo di gala.  La verità  era  che  in  quel     momento,  seccato  dalla  lettera  di Jeremiah de Saint-Amour,  non lo     preoccupava molto la sorte del pappagallo.
    Fermina Daza aveva indossato un camicione di seta,  ampio  e  sciolto,     con la cintura sui fianchi, e si era messa una collana di perle vere a     sei giri lunghi e disuguali,  e delle scarpe di raso con i tacchi alti     che usava solo nelle occasioni molto solenni, dato che gli anni non le     permettevano tanti abusi. Quel vestito alla moda non sembrava adeguato     a una vecchia veneranda,  ma andava molto bene per il suo corpo  dalle     ossa grosse, ancora delicato e dritto, per le sue mani elastiche senza     una  sola  macchia  di  vecchiaia,  per  i  suoi capelli color azzurro     acciaio, tagliati in diagonale all'altezza degli zigomi.  L'unica cosa     che  ancora  le  rimaneva  del  suo  ritratto di nozze erano gli occhi     chiari a mandorla e l'orgoglio di nascita,  ma quello che  le  mancava     per  l'età  lo  raggiungeva  per  il  carattere  e  le avanzava per la     diligenza.  Si sentiva bene: erano ormai lontani i secoli dei corsetti     di  ferro,  le  cinture  strette,  i  fianchi gonfiati con artifici di     stracci.  I corpi liberati,  che respiravano a piacere,  si mostravano     come erano. Anche a settantadue anni.
    Il dottor Urbino la trovò seduta davanti alla toilette,  sotto le pale     lente del ventilatore elettrico,  mentre si stava mettendo il cappello     di  feltro a campana con un ornamento di violette.  La camera da letto     era ampia e luminosa,  con un letto inglese protetto da una zanzariera     di  colore  rosato  lavorata  a  uncinetto,  e  due finestre aperte in     direzione degli alberi del patio da cui veniva il baccano delle cicale     stordite da presagi di pioggia.  Da quando era tornata dal viaggio  di     nozze,  Fermina  Daza sceglieva la roba di suo marito d'accordo con il     tempo e l'occasione e la metteva in ordine su  una  sedia  dalla  sera     prima  in modo che la trovasse pronta una volta uscito dal bagno.  Non     ricordava da quando avesse cominciato anche ad aiutarlo a vestirsi,  e     infine a vestirlo,  e sapeva che all'inizio era stato per amore, ma da     circa cinque anni doveva aiutarlo comunque perché lui non ce la faceva     più a vestirsi da solo.  Avevano già celebrato le nozze  d'oro  e  non     sapevano vivere neanche un momento l'una senza l'altro o senza pensare     l'una  all'altro,  e  lo  sapevano  sempre meno quanto più avanzava la     vecchiaia.  Né lui né lei potevano dire se questa servitù reciproca si     fondasse  sull'amore o sulla comodità,  ma non se lo erano mai chiesto     con la mano sul  cuore  perché  tutti  e  due  preferivano  da  sempre     ignorare  la  risposta.  Lei aveva scoperto a poco a poco l'incertezza     dei passi di suo marito,  i suoi improvvisi cambiamenti di  umore,  le     crepe della sua memoria,  la sua recente abitudine di singhiozzare nel     sonno,  ma non li  aveva  identificati  come  i  segni  inequivocabili     dell'ossido  finale  bensì  come  un ritorno felice all'infanzia.  Per     questo non lo trattava come un vecchio difficile ma  come  un  bambino     senile,  e  quell'inganno  era  stato  provvidenziale  per tutti e due     perché li aveva salvati dalla compassione.
    Ben diversa sarebbe stata la vita per tutti e due se  avessero  saputo     per tempo che era più facile eludere le grandi catastrofi matrimoniali     che  le  minuscole  miserie  di  ogni  giorno.  Ma se avevano imparato     qualcosa insieme era che la saggezza ci arriva quando non serve più  a     nulla.  Fermina  Daza  aveva  sopportato a malincuore per anni le albe     gioiose del marito.  Si aggrappava agli ultimi fili di sonno  per  non     affrontare  il  fatalismo  di  una  nuova mattina di presagi infausti,     mentre lui si svegliava con l'innocenza di  un  neonato:  ogni  giorno     nuovo  era  un giorno in più che si guadagnava.  Lo sentiva svegliarsi     con i galli,  e il suo primo segno di vita era una tosse senza  motivo     che sembrava fatta apposta perché anche lei si svegliasse.  Lo sentiva     borbottare,  solo per farla inquietare,  mentre cercava a  tastoni  le     pantofole che dovevano essere vicino al letto. Lo sentiva farsi strada     a  tentoni  verso  il  bagno nell'oscurità.  Dopo un'ora nello studio,     quando si era addormentata di nuovo, lo sentiva ritornare per vestirsi     senza però accendere la luce. Una volta,  in un gioco di società,  gli     avevano chiesto come si definisse e lui aveva detto: «Sono un uomo che     si  veste  nelle tenebre».  Lei lo sentiva sapendo che nessuno di quei     rumori era indispensabile e che lui li faceva di proposito fingendo il     contrario,  così come lei era sveglia facendo finta di non esserlo.  I     suoi motivi erano evidenti: non aveva mai tanto bisogno di lei, viva e     lucida, quanto in quei minuti di barcollamento.
    Non c'era nessuno più elegante di lei nel dormire,  con uno scorcio da     danza e una mano sulla fronte, ma non c'era nemmeno nessuno più feroce     di lei quando le disturbavano la sensualità di  credersi  addormentata     quando  non  lo  era più.  Il dottor Urbino sapeva che lei pendeva dal     minimo rumore che lui avesse fatto, e che lo avrebbe anche gradito per     avere qualcuno da  incolpare  di  averla  svegliata  alle  cinque  del     mattino.  Tanto  era  così,  che  nelle  poche occasioni in cui doveva     esplorare le tenebre perché non trovava le pantofole nel solito posto,     lei diceva subito con voce mezzo sognante: «Le hai lasciate ieri  sera     in bagno». Poi, con la voce sveglia di rabbia, brontolava:
    «La peggior disgrazia di questa casa è che non si può mai dormire.»     Allora  si  rigirava  nel  letto,  accendeva  la  luce senza la minima     clemenza anche con se stessa,  felice della sua prima  vittoria  della     giornata.  In fondo era un gioco di tutti e due, mitico e perverso, ma     proprio per questo riconfortante: uno  dei  tanti  piaceri  pericolosi     dell'amore  domestico.  Però  era stato per uno di questi giochi triti     che i primi trent'anni di vita in comune  erano  stati  sul  punto  di     finire perché un giorno non c'era sapone in bagno.
    Era  cominciato con la semplicità di sempre.  Il dottor Juvenal Urbino     era tornato in camera da letto, ai tempi in cui si lavava ancora senza     aiuto,  e aveva incominciato a vestirsi senza accendere la  luce.  Lei     stava come sempre a quell'ora nel suo tiepido stato fetale,  gli occhi     chiusi, il respiro sottile, e quel braccio da danza sacra sulla testa.     Ma stava mezz'addormentata,  come sempre,  e lui lo  sapeva.  Dopo  un     lungo  rumore  di amidi di lino nell'oscurità,  il dottor Urbino aveva     parlato tra sé:
    «E' quasi una settimana che mi sto lavando senza sapone» disse.     Allora lei aveva finito di svegliarsi,  si era  ricordata,  e  si  era     arrabbiata  con  il  mondo,  perché  in  effetti  aveva dimenticato di     mettere il sapone in bagno.  Ne aveva notato la  mancanza  tre  giorni     prima  quando  stava  già  sotto la doccia e aveva pensato di metterlo     dopo ma poi se n'era dimenticata fino al  giorno  seguente.  Il  terzo     giorno  le era successa la stessa cosa.  In realtà non era passata una     settimana, come diceva lui per ingigantirle la colpa,  ma di certo tre     giorni imperdonabili,  e la furia di sentirsi sorpresa in errore aveva     finito per tirarla del tutto fuori dei gangheri.  Come sempre,  si era     difesa attaccando:
    «Ma  se  mi sono lavata in tutti questi giorni» aveva gridato fuori di     sé, «e c'è sempre stato sapone.»
    Benché  lui  conoscesse  abbondantemente  i  suoi  metodi  di  guerra,     stavolta  non aveva potuto sopportarli.  Con un pretesto professionale     se n'era andato a vivere nelle stanze per interni dell'Ospedale  della     Misericordia   e   compariva   in  casa  solo  per  cambiarsi  d'abito     all'imbrunire,  prima delle visite a domicilio.  Lei se ne  andava  in     cucina  quando  lo  sentiva arrivare,  facendo finta di fare qualsiasi     cosa,  e lì restava finché sentiva  per  la  strada  lo  zoccolio  dei     cavalli della carrozza. Ogni volta che avevano cercato di risolvere la     discordia nei tre mesi seguenti, l'unica cosa che avevano ottenuto era     stata di attizzarla di più.  Lui non era disposto a tornare finché lei     non avesse ammesso che non c'era  sapone  in  bagno,  e  lei  non  era     disposta  ad  accoglierlo  finché  lui non avesse riconosciuto di aver     mentito apposta per tormentarla.
    L'incidente,  certo,  le aveva dato l'opportunità  di  evocare  altri,     molti  altri  minuscoli  battibecchi  di  altrettante mattine torbide.
    Alcuni risentimenti avevano  rimestato  gli  altri,  avevano  riaperto     vecchie cicatrici,  le avevano trasformate in nuove ferite,  e tutti e     due si erano spaventati constatando desolati  che  in  tanti  anni  di     lotta  coniugale non avevano fatto molto di più che pascolare rancori.     Lui era arrivato a proporre di sottoporsi insieme  a  una  confessione     aperta,  con il signor arcivescovo se era necessario, perché fosse Dio     a decidere come arbitro finale se c'era o no  sapone  nel  portasapone     del bagno.  Allora lei,  che aveva tante buone staffe,  le aveva perse     tutte con un grido storico:
    «A merda il signor arcivescovo!»
    L'improperio aveva fatto vibrare le fondamenta della città, aveva dato     origine a chiacchiere che non  fu  facile  smentire,  ed  era  rimasto     mescolato  al  linguaggio  popolare  con arie da zarzuela: «A merda il     signor  arcivescovo!».  Conscia  di  aver  passato  il  limite,  aveva     anticipato  la  reazione  che  si  aspettava  dal  marito,  e lo aveva     minacciato di andarsene ad abitare da sola nella vecchia casa  di  suo     padre,  che era ancora sua,  anche se era affittata a uffici pubblici.     Non era una bravata: voleva andarsene davvero,  non le importava dello     scandalo sociale,  e il marito se ne rese conto in tempo.  Non ebbe il     coraggio di sfidare i suoi  pregiudizi:  cedette.  Non  nel  senso  di     ammettere che c'era sapone in bagno, perché sarebbe stato un oltraggio     alla  verità,  ma  in quello di continuare a vivere nella stessa casa,     seppure  in  stanze  separate  e  senza  rivolgersi  la  parola.  Così     mangiavano  destreggiandosi  nella  situazione  con  tanta  bravura da     mandarsi messaggi da un lato all'altro  del  tavolo  tramite  i  figli     senza che questi si accorgessero che non si parlavano.
    Dato  che  nello  studio non c'era bagno,  la formula aveva risolto il     conflitto dei rumori mattutini, perché lui entrava a lavarsi dopo aver     preparato la lezione,  e prendeva reali precauzioni per non  svegliare     sua moglie. Spesso coincidevano e facevano a turno per lavarsi i denti     prima di dormire. Dopo quattro mesi, lui si era sdraiato a leggere sul     letto matrimoniale finché lei usciva dal bagno, come spesso succedeva,     e si era addormentato. Lei gli si era sdraiata a fianco con abbastanza     negligenza perché si svegliasse e se ne andasse.  Lui si era svegliato     a metà, in effetti, ma invece di alzarsi aveva spento la luce e si era     accomodato sul suo cuscino.  Lei  gli  aveva  scosso  una  spalla  per     ricordargli  che  doveva  andarsene in studio,  ma lui si sentiva così     bene di nuovo nel letto di piume  dei  bisnonni  che  aveva  preferito     capitolare:
    «Lasciami qui» disse. «Sì, c'era sapone.»
    Quando   ricordavano  questo  episodio,   già  dopo  la  svolta  della     vecchiaia, né lui né lei potevano credere alla verità meravigliosa che     quell'alterco fosse stato il più grave in  mezzo  secolo  di  vita  in     comune,  e  l'unico  che  aveva ispirato a tutti e due il desiderio di     deviare e di cominciare la vita in un altro modo.  Anche quando  erano     ormai vecchi e tranquilli stavano attenti a evocarlo, perché le ferite     appena  cicatrizzate  tornavano  a sanguinare come se fossero state di     ieri.
    Era stato il primo uomo che Fermina Daza  aveva  sentito  orinare.  Lo     aveva sentito la prima notte di matrimonio nella cabina della nave che     li  portava  in  Francia,  mentre era prostrata dal mal di mare,  e il     rumore della sua sorgente da cavallo le  era  parso  tanto  potente  e     investito  di  tanta autorità che aveva aumentato il suo terrore per i     danni che temeva. Quel ricordo le tornava spesso alla memoria,  a mano     a mano che gli anni andavano indebolendo la sorgente, perché non aveva     mai  potuto  rassegnarsi  al  fatto che lui lasciasse bagnato il bordo     della tazza ogni volta che la  usava.  Il  dottor  Urbino  cercava  di     convincerla  con  argomenti  facili  a  capirsi  per chi avesse voluto     capirli che quell'incidente non si ripeteva tutti  i  giorni  per  sua     disattenzione, come insisteva lei, ma per una ragione organica: la sua     sorgente  da giovane era così definita e diretta che in collegio aveva     vinto tornei di mira per riempire bottiglie,  ma con gli usi  dell'età     non solo era andata decadendo, ma si era fatta obliqua, si ramificava,     e  infine  si  era  trasformata in una fonte di fantasia impossibile a     dirigersi,  malgrado i molti sforzi che lui faceva  per  indirizzarla.     Diceva:  «Il  water-closet deve essere stato inventato da qualcuno che     non sapeva niente di uomini».  Contribuiva alla pace domestica con  un     atto  quotidiano  che  era più di umiliazione che di umiltà: asciugava     con la carta igienica i bordi della tazza ogni volta che la usava. Lei     lo sapeva, ma non diceva mai niente finché non erano troppo evidenti i     vapori ammoniacali dentro al bagno,  e allora li  proclamava  come  la     scoperta  di  un  delitto: «Questo appesta un allevamento di conigli».     Alle soglie della  vecchiaia,  lo  stesso  impiccio  del  corpo  aveva     ispirato  al  dottor Urbino la soluzione finale: orinava seduto,  come     lei,  cosa che lasciava la tazza pulita,  e oltre a tutto lasciava lui     in stato di grazia.
    Già  allora  era molto poco autosufficiente,  e uno scivolone in bagno     che avrebbe potuto essergli fatale lo aveva messo in guardia contro la     doccia. La casa, per il fatto di essere moderna, era priva della vasca     da bagno di peltro con zampe di leone che era di uso comune nelle case     della  città  vecchia.  Lui  l'aveva  fatta  togliere  per  un  motivo     igienico:  la  vasca  da  bagno  era  una  delle tante porcherie degli     europei,  che facevano il bagno solo l'ultimo venerdì del  mese  e  lo     facevano  per  di  più dentro l'acqua insozzata dalla stessa sporcizia     che pretendevano di togliersi dal corpo. Così,  avevano fatto fare una     specie  di  grande  mastello su misura,  di guaiaco massiccio,  in cui     Fermina Daza faceva il bagno al  marito  con  lo  stesso  rituale  dei     bambini  appena  nati.  Il  bagno  durava  più  di  un'ora,  con acqua     miscelata con quella in cui avevano bollito foglie di  malva  e  bucce     d'arancia,  e  aveva  su di lui un effetto così sedativo che spesso si     addormentava dentro l'infuso profumato.  Dopo avergli fatto il  bagno,     Fermina Daza lo aiutava a vestirsi,  gli spargeva polvere di talco fra     le gambe, gli ungeva di burro di cacao le arrossature,  gli metteva le     mutande  con  tanto  amore  come  se  fossero  state  un pannolino,  e     continuava a vestirlo pezzo per pezzo,  dalle calze fino al nodo della     cravatta  con  il fermaglio di topazio.  Le mattine coniugali si erano     rappacificate, perché lui era tornato a impadronirsi dell'infanzia che     gli avevano portato via i suoi figli. Lei, da parte sua,  aveva finito     per  seguire  conformemente  l'orario familiare,  perché anche per lei     passavano gli anni: dormiva sempre meno,  e prima di aver  compiuto  i     settanta si svegliava prima del marito.
    La domenica di Pentecoste, quando aveva alzato la coperta per guardare     il  cadavere di Jeremiah de Saint-Amour,  il dottor Urbino aveva avuto     la rivelazione di qualcosa che  gli  era  stato  negato  fino  a  quel     momento nelle sue navigazioni più lucide di medico e di credente.  Era     come se dopo tanti anni  di  familiarità  con  la  morte,  dopo  tanto     combatterla e toccarla al dritto e al rovescio,  quella fosse la prima     volta in cui aveva osato guardarla in faccia,  e anche  lei  lo  stava     guardando.  Non era la paura della morte. No: la paura stava dentro di     lui da molti anni,  conviveva con lui,  era un'altra ombra  sulla  sua     ombra,  da  una  notte  in cui si era svegliato turbato da un incubo e     aveva preso  coscienza  che  la  morte  non  era  solo  un'eventualità     permanente, come aveva sempre sentito, ma una realtà immediata. Invece     quello  che aveva visto quel giorno era la presenza fisica di qualcosa     che fino ad allora non aveva superato una certezza dell'immaginazione.     Era stato contento che  lo  strumento  della  Divina  Provvidenza  per     quella  rivelazione  sorprendente fosse stato Jeremiah de Saint-Amour,     che aveva sempre stimato come un santo  che  ignorava  il  suo  stesso     stato  di grazia.  Ma quando la lettera gli aveva rivelato la sua vera     identità,  il  suo  passato  sinistro,  la  sua  impensabile  capacità     d'astuzia,  aveva  sentito  che qualcosa di definitivo e senza ritorno     era accaduto nella sua vita.
    Fermina Daza, però, non si era lasciata contagiare dal suo umore cupo.     Lui ci aveva provato,  subito,  mentre lei lo aiutava  a  infilare  le     gambe  nei  pantaloni  e  gli  abbottonava  la camicia.  Ma non ci era     riuscito,  perché Fermina Daza  non  si  impressionava  facilmente,  e     tantomeno  per  la  morte  di  un uomo che non amava.  Sapeva solo che     Jeremiah de Saint-Amour era un invalido con le grucce  che  non  aveva     mai  visto,  che  era sfuggito a un plotone di esecuzione in una delle     tante insurrezioni di una delle tante isole  delle  Antille,  che  era     diventato  fotografo  di  bambini  per  necessità e che era arrivato a     essere il più richiesto della provincia,  e che aveva battuto  in  una     partita  a scacchi un tizio che lei ricordava come Torremolinos ma che     in realtà si chiamava Capablanca.
    «E invece era solo un profugo della Caienna  condannato  all'ergastolo     per  un  crimine  atroce»  disse  il  dottor Urbino.  «Pensa che aveva
    mangiato persino carne umana.»
    Le diede la lettera i cui segreti voleva portare con sé  nella  tomba,     ma lei mise i fogli piegati nella toilette,  senza leggerli,  e chiuse     il  cassetto  a  chiave.  Era  abituata  all'insondabile  capacità  di     spavento  di  suo  marito,  ai  suoi giudizi eccessivi che si facevano     sempre più intricati col passare degli anni,  a  una  ristrettezza  di     ragione  che non era compatibile con la sua immagine pubblica.  Quella     volta però aveva proprio passato  i  limiti.  Lei  supponeva  che  suo     marito  non  stimasse Jeremiah de Saint-Amour per quello che era stato     prima,  ma per quello che aveva incominciato a essere  da  quando  era     arrivato  senza altre garanzie se non il suo zaino da esiliato,  e non     riusciva a capire perché lo costernasse tanto la  rivelazione  tardiva     della  sua  identità.  Non capiva perché gli sembrasse abominevole che     avesse avuto una donna nascosta se  questa  era  un'abitudine  atavica     degli uomini della sua classe,  compreso lui in un momento ingrato,  e     per di più le sembrava una prova straziante che lei lo avesse  aiutato     a consumare la sua decisione di morire.  Disse: «Se anche tu decidessi     di farlo per ragioni tanto serie quanto quelle che aveva lui,  il  mio     dovere  sarebbe  di  fare la stessa cosa che ha fatto lei».  Il dottor     Urbino  si  trovò  una  volta  di   più   nell'agguato   di   semplice     incomprensione che lo aveva esasperato per mezzo secolo.
    «Non capisci niente» disse.  «Quello che mi indigna non è quello che è     stato né quello che ha fatto,  ma l'inganno in cui ha tenuto tutti noi     per tanti anni.»
    I  suoi  occhi  incominciarono  a riempirsi di lacrime facili,  ma lei     finse di ignorarle.
    «Ha fatto bene» replicò.  «Se avesse detto la verità,  né tu né quella     povera  donna,  né nessun altro in questo paese lo avrebbe amato tanto     quanto l'hanno amato.»
    Gli agganciò l'orologio a  catena  all'occhiello  del  gilè.  Finì  di     fargli il nodo della cravatta e gli mise il fermaglio di topazio.  Poi     gli asciugò le lacrime e gli pulì la barba bagnata di  pianto  con  il     fazzoletto  umido  di  Agua Florida,  e glielo mise nel taschino della     giacca con le cocche aperte come una magnolia.  Gli  undici  rintocchi     della pendola risuonarono nel laghetto della casa.
    «Spicciati» disse lei, prendendolo per un braccio. «Arriveremo tardi.»     Aminta Dechamps,  moglie del dottor Lácides Olivella,  e le loro sette     figlie una più diligente dell'altra avevano previsto tutto  perché  il     pranzo delle nozze d'argento fosse l'avvenimento sociale dell'anno. La     residenza  familiare in pieno centro storico era la vecchia Casa de la     Moneda,  snaturata da un architetto  fiorentino  che  era  passato  da     queste parti come un cattivo vento di rinnovamento e aveva trasformato     in  basiliche  di  Venezia più di quattro reliquie del diciassettesimo     secolo.  Aveva sei camere  da  letto  e  due  saloni  per  mangiare  e     ricevere,  ampi  e ben ventilati,  ma non sufficienti per gli invitati     cittadini,  oltre a quelli molto selezionati che sarebbero  venuti  da     fuori. Il patio era uguale al chiostro di un'abbazia, con una fonte di     pietra che cantava nel centro e aiuole di eliotropi che profumavano la     casa all'imbrunire,  ma lo spazio delle arcate non era sufficiente per     tanti nomi così importanti.  Cosicché avevano deciso di dare il pranzo     nella  villa di campagna della famiglia,  a dieci minuti in automobile     lungo la strada nazionale,  che aveva un  patio  vastissimo  e  enormi     allori dell'India e ninfee locali in un fiume di acque tranquille. Gli     uomini  del  Mesón  de  don Sancho,  diretti dalla moglie di Olivella,     avevano disposto teloni colorati negli spazi  senza  ombra  e  avevano     preparato  sotto gli allori un rettangolo con tavoli per centoventidue     coperti,  con tovaglie di lino per tutti e tralci di rose appena colte     sul  tavolo d'onore.  Avevano costruito anche una pedana per una banda     di strumenti a fiato con un  programma  selezionato  di  quadriglie  e     valzer  nazionali  e  per  un quartetto di corde della Scuola di Belle     Arti,  che era una sorpresa della  signora  Olivella  per  il  maestro     venerabile di suo marito, che doveva presiedere al pranzo. Anche se la     data  non  corrispondeva strettamente con l'anniversario della laurea,     avevano scelto la domenica di Pentecoste per esaltare il  senso  della     festa.
    I preparativi erano cominciati tre mesi prima, per timore che qualcosa     di  indispensabile  non  lo  si  potesse  fare  per mancanza di tempo.     Avevano fatto portare le galline vive dalla Ciénaga de Oro,  famose in     tutto  il  litorale non solo per la loro grandezza e delizia ma perché     ai tempi della  Colonia  becchettavano  in  terre  alluvionali  e  nel     ventriglio gli trovavano pietrine d'oro puro. La moglie di Olivella in     persona,  accompagnata  da  qualche  sua  figlia  e  dal  personale di     servizio,  saliva a bordo dei transatlantici di lusso a  scegliere  il     meglio  di  qualsiasi  cosa  per  onorare  i meriti del marito.  Aveva     previsto tutto,  salvo che la festa cadesse in una domenica di  giugno     in  un  anno di piogge tardive.  Si rese conto di un simile rischio la     mattina del giorno stesso,  quando uscì per  la  messa  solenne  e  si     spaventò per l'umidità dell'aria e vide che il cielo era denso e basso     e non si riusciva a vedere l'orizzonte del mare. Nonostante quei segni     infausti,   il  direttore  dell'osservatorio  astronomico,  che  aveva     incontrato a messa, le ricordò che nella disgraziatissima storia della     città, anche negli inverni più crudeli,  non era mai piovuto il giorno     della Pentecoste. Tuttavia, allo scoccare delle dodici, quando i molti     invitati stavano bevendo gli aperitivi all'aria aperta, il rombo di un     tuono  solitario  fece  tremare  la  terra  e  un  vento  di  burrasca     scompigliò i tavoli e  si  portò  per  aria  i  tendoni,  e  il  cielo     strapiombò in un acquazzone disastroso.
    Il  dottor  Juvenal  Urbino  riuscì a stento ad arrivare nel disordine     della tormenta,  insieme con gli ultimi invitati che aveva  incontrato     lungo  la  strada,  e voleva andare come loro dalle macchine alla casa     saltando di gran fretta da una pietra all'altra attraverso  il  patio,     ma  finì  per  accettare l'umiliazione che gli uomini di Don Sancho lo     portassero a braccia sotto un mantello di  stoffa  gialla.  Le  tavole     separate   erano  state  disposte  di  nuovo  come  meglio  si  poteva     all'interno della casa, perfino nelle camere da letto,  e gli invitati     non   facevano  nessuno  sforzo  per  dissimulare  il  loro  umore  da     naufragio.  Faceva un caldo da sala macchine di nave,  perché  avevano     dovuto  chiudere  le  finestre  per  impedire che entrasse la pioggia,     portata obliqua dal vento.  Nel patio,  ogni posto della tavola  aveva     una targhetta col nome dell'invitato,  ed era previsto un lato per gli     uomini e uno per le donne,  come era costume.  Ma le targhette  con  i     nomi si erano confuse dentro la casa e ognuno si sedette come poté, in     una   promiscuità   di   forza  maggiore  che  almeno  per  una  volta     contraddisse le nostre superstizioni sociali.  Durante il  cataclisma,     Aminta de Olivella sembrava stare dappertutto nello stesso tempo,  con     i capelli bagnati e lo splendido vestito  inzaccherato  di  fango,  ma     sopportava  la disgrazia col sorriso invincibile che aveva imparato da     suo marito per non far piacere alle  contrarietà.  Con  l'aiuto  delle     figlie,  forgiate nella stessa fucina, riuscì fin dove le fu possibile     a salvaguardare i posti del tavolo  d'onore,  con  il  dottor  Juvenal     Urbino  al  centro  e  l'arcivescovo  Obdulio  y  Rey alla sua destra.     Fermina Daza si sedette vicino al marito,  come era solita  fare,  per     paura  che  si  addormentasse  durante  il  pranzo o si sbrodolasse la     minestra sul risvolto della giacca.  Il posto di fronte lo  occupò  il     dottor Lácides Olivella, un cinquantenne dall'aria femminea, molto ben     conservato,  il cui spirito festoso non aveva nessun legame con le sue     diagnosi precise. Il resto della tavolata fu completato dalle autorità     provinciali e municipali  e  dalla  reginetta  di  bellezza  dell'anno     prima, che il governatore portò al suo braccio per farla sedere al suo     fianco.  Benché  non  fosse  costume  esigere  negli  inviti  un abito     speciale,   e  tantomeno  per  un  pranzo  in  campagna,   le  signore     indossavano  vestiti  da sera ornati di pietre preziose,  e la maggior     parte degli uomini era vestita di scuro con cravatta nera,  e qualcuno     con  finanziera di panno.  Solo quelli di gran mondo,  e fra questi il     dottor Urbino, avevano i loro abiti di sempre.  A ogni posto c'era una     copia del menù, stampata in francese e con incisioni dorate.     La signora de Olivella,  preoccupata per i danni del caldo, girava per     la casa supplicando gli ospiti di togliersi la giacca per pranzare, ma     nessuno si azzardò a dare  l'esempio.  L'arcivescovo  fece  notare  al     dottor  Urbino che quello in un certo senso era un pranzo storico: lì,     per la prima volta,  stavano insieme allo stesso tavolo,  cicatrizzate     le  ferite  e dissipati i rancori,  le due fazioni delle guerre civili     che avevano insanguinato il paese  fin  dai  tempi  dell'indipendenza.     Questo pensiero coincideva con l'entusiasmo dei liberali,  soprattutto     i giovani,  che erano riusciti  a  eleggere  un  presidente  del  loro     partito dopo quarantacinque anni di egemonia conservatrice.  Il dottor     Urbino non era d'accordo: un presidente liberale non gli  sembrava  né     meglio  né  peggio  di  un  presidente conservatore,  solo era vestito     peggio.  Tuttavia non volle contrariare l'arcivescovo.  Anche  se  gli     sarebbe  piaciuto  fargli  notare che nessuno si trovava a quel pranzo     per quello che pensava quanto per i meriti del suo lignaggio, e questo     era sempre stato al di sopra dei casi della politica  e  degli  orrori     della guerra. Visto così, in effetti, non mancava nessuno.
    Il  temporale  cessò  all'improvviso così come era incominciato,  e il     sole si incendiò immediatamente nel cielo senza nuvole, ma la burrasca     era stata così violenta che aveva sradicato alcuni alberi,  e  l'acqua     che  era  strabordata  aveva  trasformato  il patio in un pantano.  Il     disastro maggiore si era verificato in cucina.  Diversi fuochi a legna     erano  stati approntati su dei mattoni sul retro della casa,  all'aria     aperta,  e i cuochi avevano fatto appena a tempo a mettere le  pentole     in  salvo dalla pioggia.  Perdettero un sacco di tempo ad aggottare la     cucina inondata e a  improvvisare  dei  nuovi  fuochi  nella  galleria     posteriore.  Ma  all'una  l'emergenza  era risolta,  e mancava solo il     dolce commissionato alle monache di Santa Clara,  che avevano promesso     di mandarlo prima delle undici. Si temeva che il torrente della strada     nazionale  fosse  uscito  dal  letto,  come  accadeva  in inverni meno     rigidi, e in questo caso non sarebbe stato possibile contare sul dolce     prima di due ore. Appena smise di piovere,  riaprirono le finestre,  e     la  casa si rinfrescò con l'aria purificata dallo zolfo del temporale.     Poi ordinarono che la banda eseguisse il  programma  di  valzer  nella     terrazza  del  portico,  ma  servì solo ad aumentare l'ansia perché il     rimbombo degli ottoni dentro la casa  obbligava  a  parlare  gridando.     Stanca  di  aspettare,  sorridendo sull'orlo delle lacrime,  Aminta de     Olivella diede l'ordine di servire il pranzo.
    Il gruppo della Scuola di Belle Arti iniziò il concerto, in mezzo a un     silenzio formale che ottenne per le battute iniziali de "La Chasse" di     Mozart.  Malgrado le voci sempre più alte e confuse,  e l'impiccio dei     servi  negri di Don Sancho che a malapena passavano fra i tavoli con i     vassoi fumanti,  il dottor Urbino riuscì a mantenere un canale  aperto     per  la  musica  fino  alla  fine  del  programma.  Il  suo  potere di     concentrazione diminuiva di anno in anno al punto che doveva  annotare     su  un  foglietto  ogni  mossa  di  scacchi  per  sapere  dove andare.     Tuttavia,  gli era ancora possibile  occuparsi  di  una  conversazione     seria  senza  perdere il filo di un concerto,  comunque senza arrivare     agli estremi magistrali  di  un  direttore  d'orchestra  tedesco,  suo     grande amico ai tempi dell'Austria,  che leggeva la partitura del "Don     Giovanni" mentre ascoltava il "Tannhäuser".
    Il secondo brano del programma, che era "La morte e la fanciulla",  di     Schubert,  gli sembrò eseguito con una facile drammaticità.  Mentre lo     ascoltava a stento,  in mezzo al nuovo rumore delle posate nei piatti,     guardava  fisso un ragazzo dal volto rosato che lo salutò con un cenno     del capo.  Lo aveva visto da  qualche  parte,  senza  dubbio,  ma  non     ricordava  dove.  Gli  capitava  spesso,  soprattutto con i nomi delle     persone,  anche di quelle più conosciute,  o con una melodia di  altri     tempi,  e  questo  gli  provocava  un'angoscia così spaventosa che una     notte avrebbe preferito morire piuttosto che doverla  sopportare  fino     al  mattino dopo.  Era sul punto di ridursi in quello stato quando una     vampata caritatevole gli illuminò la memoria: il ragazzo era stato suo     alunno l'anno prima.  Si sorprese  di  vederlo  lì,  nel  regno  degli     eletti,  ma  il  dottor  Olivella  gli  ricordò  che era il figlio del     Ministro dell'Igiene,  che era venuto a preparare una tesi di medicina     legale.  Il  dottor  Juvenal  Urbino gli fece un saluto allegro con la     mano,  e il giovane medico si alzò in  piedi  e  gli  rispose  con  un     inchino.  Ma  né allora né mai si rese conto che era il praticante che     era stato con lui quella mattina nella  casa  di  Jeremiah  de  Saint    Amour.
    Sollevato  da  un'altra  vittoria  sulla  vecchiaia,  si  abbandonò al     lirismo diafano e fluido dell'ultimo  brano  del  programma,  che  non     riuscì  a  identificare.  Più  tardi,  il  giovane  violoncellista del     complesso, che era appena tornato dalla Francia,  gli disse che era il     quartetto  per corde di Gabriel Fauré,  che il dottor Urbino non aveva     mai sentito nominare malgrado fosse sempre stato  molto  attento  alle     novità europee. Pendendo da lui, come sempre, ma soprattutto quando lo     vedeva astratto in pubblico,  Fermina Daza smise di mangiare e posò la     sua mano terrena su quella di lui.  Gli disse: «Non pensarci più».  Il     dottor Urbino le sorrise dall'altra riva dell'estasi,  e fu allora che     ripensò a quello che lei temeva.  Si ricordò  di  Jeremiah  de  Saint    Amour, esposto a quell'ora dentro la bara con la sua falsa uniforme di     guerriero  e  le  sue  decorazioni  da bardatura da cavallo,  sotto lo     sguardo   accusatore   dei   bambini   dei   ritratti.    Si   rivolse     all'arcivescovo  per  dargli  la  notizia  del  suicidio,  ma  già  la     conosceva. Se n'era molto parlato dopo la messa solenne, e tra l'altro     aveva ricevuto una supplica del colonnello Jerónimo Argote in nome dei     rifugiati del Caribe perché fosse sepolto in terra consacrata.  Disse:     «La supplica stessa mi è sembrata una mancanza di rispetto».  Poi,  in     tono più umano,  chiese se si conosceva  la  causa  del  suicidio.  Il     dottor Urbino gli rispose con una parola corretta che credette di aver     inventato  in  quel momento: "gerontofobia".  Il dottor Olivella,  che     pendeva dai suoi invitati più prossimi,  li abbandonò un  momento  per     intervenire  nel  dialogo  del  suo  maestro.  Disse:  «E'  un peccato     imbattersi ancora in un suicidio che non sia  per  amore».  Il  dottor     Urbino non si sorprese di riconoscere i suoi stessi pensieri in quelli     del discepolo prediletto.
    «E peggio ancora» disse: «è stato con cianuro di oro».
    Mentre  lo  diceva  sentì  che  la compassione era tornata a prevalere     sull'amarezza della lettera,  e non ne fu riconoscente a sua moglie ma     a  un  miracolo  della musica.  Allora parlò all'arcivescovo del santo     laico che lui aveva conosciuto nei suo lenti pomeriggi di scacchi, gli     parlò della consacrazione della sua arte alla  felicità  dei  bambini,     della  sua  rara  erudizione  su  tutte  le cose del mondo,  delle sue     abitudini spartane,  e lui  stesso  rimase  sorpreso  della  chiarezza     d'animo   con   cui   era   riuscito  a  staccarlo  improvvisamente  e     completamente dal suo passato.  Parlò poi al sindaco  dell'utilità  di     comprare  l'archivio di lastre fotografiche per conservare le immagini     di una generazione che forse non sarebbe tornata a essere felice fuori     dei  ritratti,   e  nelle  cui  mani  stava  il  futuro  della  città.     L'arcivescovo  si era scandalizzato che un cattolico militante e colto     si fosse azzardato a  pensare  alla  santità  di  un  suicida,  ma  fu     d'accordo  sull'iniziativa di archiviare i negativi.  Il sindaco volle     sapere da chi bisognava comprarli.  Il  dottor  Urbino  si  bruciò  la     lingua  con  la  brace  del  segreto,  ma  riuscì  a sopportarlo senza     rivelare l'erede clandestina degli archivi.  Disse:  «Me  ne  incarico     io».  E  si  sentì redento dalla sua stessa lealtà nei confronti della     donna che aveva  ripudiato  cinque  ore  prima.  Fermina  Daza  se  ne     accorse,  e  gli fece promettere a bassa voce che avrebbe assistito al     funerale. Certo che lo avrebbe fatto, disse lui sollevato, non sarebbe     certo mancato.
    I discorsi furono brevi e facili.  La banda di fiati  attaccò  un'aria     popolaresca  non prevista dal programma,  e gli invitati passeggiavano     sulle terrazze in attesa che  gli  uomini  del  Mesón  de  Don  Sancho     finissero  di  asciugare il patio,  nel caso che qualcuno avesse avuto     voglia di ballare. Gli unici che rimanevano in sala erano gli invitati     del tavolo d'onore,  a rallegrarsi  che  il  dottor  Urbino  si  fosse     ingoiato  in un colpo solo un mezzo bicchierino di brandy nel brindisi     finale.  Nessuno ricordava che lo avesse mai fatto salvo con un calice     di  vino  di  gran  classe  per accompagnare un piatto particolarmente     speciale,  ma il cuore glielo aveva chiesto quel pomeriggio,  e la sua     debolezza  era  ben  ricompensata: un'altra volta,  dopo tanti e tanti     anni,  aveva voglia di  cantare.  Lo  avrebbe  fatto,  certamente,  su     richiesta   del   giovane   violoncellista   che  si  era  offerto  di     accompagnarlo,  ma non era stato  possibile  perché  un'automobile  di     nuovo modello aveva improvvisamente attraversato la fangaia del patio,     schizzando i musicisti e sconvolgendo le anatre nei recinti con la sua     tromba da anatra,  e si era fermata davanti al Portico della casa.  Il     dottor Marco Aurelio Urbino  Daza  e  sua  moglie  scesero  morti  dal     ridere,  tenendo  in  ogni mano un vassoio coperto di merletti.  Altri     vassoi uguali stavano sui sedili posteriori,  e persino sul  pavimento     vicino  all'autista.  Era il dolce ritardatario.  Quando cessarono gli     applausi e i fischi di scherzo cordiale,  il dottor Urbino Daza spiegò     seriamente che le clarisse gli avevano chiesto il favore di portare il     dolce  da  prima  della  tempesta,  ma  che aveva deviato dalla strada     nazionale perché qualcuno gli aveva detto che stava bruciando la  casa     dei suoi genitori. Il dottor Juvenal Urbino riuscì a spaventarsi senza     aspettare che il figlio avesse finito di raccontare. Ma sua moglie gli     ricordò  per  tempo  che  lui  stesso  aveva dato ordine di chiamare i     pompieri  perché  catturassero  il  pappagallo.  Aminta  de  Olivella,     raggiante, decise di servire il dolce nelle terrazze, anche se dopo il     caffè.  Ma  il dottor Juvenal Urbino e sua moglie se ne andarono senza     assaggiarlo, perché c'era appena il tempo che lui facesse la sua sacra     siesta prima del funerale.
    La fece,  ma breve e male,  perché tornato a casa trovò che i pompieri     avevano  provocato  danni  tanto  gravi  quanto quelli del fuoco.  Nel     tentativo di spaventare il pappagallo avevano pelato un albero con gli     idranti,  e un getto mal diretto  era  entrato  dalle  finestre  della     camera  da  letto  principale  e aveva provocato danni irreparabili ai     mobili e ai ritratti di avi ignoti attaccati  alle  pareti.  I  vicini     erano  accorsi  quando  avevano  sentito  la  campana  del  camion dei     pompieri,  credendo che fosse un incendio,  e se  non  erano  avvenuti     scompigli  peggiori  era  perché  di  domenica le scuole erano chiuse.     Quando si erano resi conto che non sarebbero  arrivati  al  pappagallo     neanche  con  le  scale aggiuntive,  i pompieri avevano incominciato a     tagliare i rami a colpi di machete, e solo l'apparizione opportuna del     dottor Urbino Daza aveva impedito che lo mutilassero fino  al  tronco.     Avevano  lasciato  detto che sarebbero tornati dopo le cinque a vedere     se li  autorizzavano  a  potarlo,  e  passando  avevano  infangato  la     terrazza  interna  e  la sala e avevano strappato un tappeto turco che     era quello preferito di Fermina Daza.  Disastri inutili,  poi,  perché     l'impressione generale era che il pappagallo avesse approfittato della     confusione  per  scappare  nei  patios vicini.  In effetti,  il dottor     Urbino continuò a cercarlo tra le fronde,  ma  non  ebbe  risposta  in     nessuna lingua,  né con fischi e canzoni,  e così lo diede per perso e     se ne andò a  dormire  quasi  alle  tre.  Prima  godette  del  piacere     istantaneo  della  fragranza  di  giardino  segreto  della  sua  urina     purificata dagli asparagi tiepidi.
    Lo svegliò la tristezza.  Non quella  che  aveva  provato  la  mattina     davanti  al  cadavere  dell'amico,  ma  la  nebbia  invisibile che gli     riempiva l'anima dopo  la  siesta  e  che  lui  interpretava  come  la     notifica  divina  che  stava vivendo i suoi ultimi pomeriggi.  Fino ai     cinquant'anni non era stato cosciente della misura,  del peso e  dello     stato  dei suoi visceri.  A poco a poco,  mentre giaceva con gli occhi     chiusi dopo la siesta  quotidiana,  aveva  incominciato  a  sentirseli     dentro,  a uno a uno, sentendo perfino la forma del suo cuore insonne,     il suo fegato misterioso,  il suo pancreas ermetico,  e aveva scoperto     che anche le persone più vecchie erano più giovani di lui, e che aveva     finito  per  essere  l'unico  sopravvissuto dei leggendari ritratti di     gruppo della sua generazione. Quando si era reso conto delle sue prime     dimenticanze,  aveva fatto appello a una risorsa che aveva sentito  da     uno  dei suoi maestri nella Scuola di Medicina: «Chi non ha memoria se     ne fa una di carta». Era stata,  però,  un'illusione effimera,  perché     era  arrivato  al  punto  di  dimenticare  quello  che volevano dire i     memorandum che si metteva in tasca,  girava per casa  in  cerca  degli     occhiali che aveva sul naso, ridava giri di chiave dopo aver chiuso le     porte,  e  perdeva il filo di quello che leggeva perché dimenticava le     premesse degli argomenti o di chi erano figli i personaggi.  Ma quello     che  lo  inquietava  di  più era la sfiducia che provava nei confronti     della sua stessa ragione: a poco a poco, in un naufragio ineluttabile,     si accorgeva che stava perdendo il senso della giustizia.
    Per pura esperienza, benché senza un fondamento scientifico, il dottor     Juvenal Urbino  sapeva  che  la  maggioranza  delle  malattie  mortali     avevano un loro odore, ma nessuno era così specifico come quello della     vecchiaia. Lo percepiva nei cadaveri aperti per il lungo sul tavolo di     dissezione,  lo  riconosceva  perfino  nei  pazienti  che nascondevano     meglio l'età,  e nel sudore dei suoi  stessi  vestiti  e  nel  respiro     inerme  di sua moglie addormentata.  Se non fosse stato quello che era     in realtà, un cristiano all'antica,  forse sarebbe stato d'accordo con     Jeremiah  de  Saint-Amour  sul  fatto  che  la vecchiaia era uno stato     indecente che doveva essere impedito per tempo.  L'unica consolazione,     anche  per  uno  come  lui che era stato un valido uomo di letto,  era     l'estinzione lenta e misericordiosa dell'appetito amoroso: la pace dei     sensi. A ottantun anni aveva abbastanza lucidità per rendersi conto di     stare attaccato a questo mondo da qualche filaccia debole  che  poteva     rompersi  in modo indolore con un semplice cambio di posizione durante     il sonno,  e se faceva il possibile per mantenerla era per il  terrore     di non incontrare Dio nell'oscurità della morte.
    Fermina  Daza  si  era  data da fare per riordinare la camera da letto     distrutta dai pompieri,  e un po'  prima  delle  quattro  aveva  fatto     portare  al  marito  il  quotidiano bicchiere di limonata con ghiaccio     tritato,  e gli aveva ricordato che  doveva  vestirsi  per  andare  al     funerale. Il dottor Urbino aveva, quel pomeriggio, due libri a portata     di mano: "L'Incognita dell'Uomo",  di Alexis Carrell,  e "La Storia di     San Michele",  di Axel Munthe.  Quest'ultimo non era ancora aperto,  e     aveva  chiesto  a Digna Pardo,  la cuoca,  di portargli il tagliacarte     d'avorio  che  aveva  dimenticato  in  camera  da  letto.   Ma  quando     gliel'avevano  portato stava già leggendo "L'Incognita dell'Uomo" alla     pagina  segnata  con  la  busta  di  una  lettera:  gliene   mancavano     pochissime per finirlo. Lesse piano, facendosi strada fra i meandri di     una  punta di mal di testa che attribuì al mezzo bicchierino di brandy     del brindisi finale.  Nelle pause della lettura prendeva un  sorso  di     limonata,  o indugiava a sgranocchiare un pezzo di ghiaccio. Indossava     le calze,  la camicia senza il collo posticcio e le bretelle  a  righe     verdi attaccate ai lati della cintura, e lo infastidiva solo l'idea di     doversi  cambiare  per il funerale.  Improvvisamente smise di leggere,     appoggiò il libro sopra l'altro, e incominciò a dondolarsi molto piano     sulla sedia a dondolo di vimini,  contemplando afflitto le  piante  di     banane  nel  pantano  del  patio,  il mango spelacchiato,  le formiche     volanti del dopo pioggia, lo splendore effimero di un altro pomeriggio     di meno che se ne andava per sempre.  Aveva dimenticato di aver  avuto     una  volta un pappagallo di Paramaribo che amava come un essere umano,     e all'improvviso lo sentì: «Pappagallino reale». Lo sentì vicinissimo,     quasi al suo fianco, e poi lo vide sul ramo più basso del mango.
    «Svergognato» gli gridò.
    Il pappagallo rispose con voce identica:
    «Più svergognato sarai tu, dottore.»
    Continuò a parlare con lui senza perderlo di vista, mentre calzava gli     stivaletti con molta circospezione per non spaventarlo,  e  infilò  le     braccia   nelle   bretelle,   e   scese  nel  patio  ancora  infangato     scandagliando il suolo con  il  bastone  per  non  scivolare  sui  tre     gradini  della  terrazza.  Il  pappagallo non si mosse.  Stava così in     basso  che  gli  mise   il   bastone   davanti   per   farlo   fermare     sull'impugnatura d'argento,  come era sua abitudine,  ma il pappagallo     lo evitò. Saltò su un ramo vicino, un po' più in alto ma di più facile     accesso,  laddove era  appoggiata  la  scala  di  casa  da  prima  che     arrivassero i pompieri. Il dottor Urbino calcolò l'altezza e pensò che     salendo due scalini avrebbe potuto afferrarlo. Salì il primo, cantando     una  canzone  per  distrarre  l'attenzione  dell'animale  stizzoso che     ripeteva le parole senza la musica,  ma allontanandosi  sul  ramo  con     passi  laterali.  Salì il secondo scalino senza difficoltà,  attaccato     alla scala con tutte e due le  mani,  e  il  pappagallo  incominciò  a     ripetere tutta la canzone senza cambiare posto. Salì il terzo scalino,     e  poi  il quarto,  perché aveva calcolato male l'altezza del ramo,  e     allora si tenne alla scala con la mano sinistra e tentò di prendere il     pappagallo con la destra. Digna Pardo, la vecchia domestica che veniva     ad avvertirlo che stava facendo tardi per il funerale,  vide di spalle     l'uomo sulla scala e non poteva credere che fosse chi era se non fosse     stato per le righe verdi delle bretelle.
    «Santissimo Sacramento!» gridò. «Si ammazzerà!»
    Il  dottor Urbino afferrò il pappagallo per il collo con un sospiro di     trionfo: "ça y est".  Ma lo mollò immediatamente,  perché la scala gli     scivolò  sotto i piedi e lui rimase per un attimo sospeso per aria,  e     allora riuscì a rendersi conto di essere morto senza comunione,  senza     tempo  per  pentirsi  di  nulla  né  di accomiatarsi da nessuno,  alle     quattro e sette minuti del pomeriggio della domenica di Pentecoste.     Fermina Daza era in cucina ad assaggiare  la  minestra  per  la  cena,     quando  udì  il  grido  di  orrore  di  Digna Pardo e il baccano della     servitù e poi quello del  circondario.  Buttò  via  il  cucchiaio  per     assaggiare  e  cercò  di  correre  come poteva con il peso invincibile     della sua età,  gridando come una pazza senza sapere ancora  che  cosa     stava  succedendo  sotto le fronde del mango,  e il cuore le si fece a     pezzi quando vide il suo uomo steso a pancia  in  su  nel  fango,  già     morto  in  vita ma resistendo ancora un ultimo minuto al colpo di coda     della  morte  perché  lei  avesse  il  tempo  di  arrivare.  Riuscì  a     riconoscerla nel tumulto attraverso le lacrime del dolore irripetibile     di  morirsene  senza  di lei e la guardò l'ultima volta per sempre con     gli occhi più luminosi,  più tristi e più riconoscenti che lei non gli     aveva  mai  visto in mezzo secolo di vita in comune,  e riuscì a dirle     con l'ultimo respiro:
    «Solo Dio sa quanto ti ho amato.»
    Fu una morte memorabile,  e non senza motivo.  Appena  finiti  i  suoi     studi di specializzazione in Francia,  il dottor Juvenal Urbino si era     fatto conoscere nel paese per aver scongiurato in  tempo,  con  metodi     nuovi  e  drastici,  l'ultima epidemia di colera che aveva sofferto la     provincia.  La precedente,  quando lui era  ancora  in  Europa,  aveva     provocato la morte della quarta parte della popolazione urbana in meno     di  tre  mesi,  compreso suo padre,  che era stato anche lui un medico     molto apprezzato.  Con il prestigio immediato e un buon contributo del     patrimonio familiare aveva fondato la Società Medica, la prima e unica     nelle province del Caribe per molti anni, e ne era stato il presidente     a vita.  Aveva ottenuto la costruzione del primo acquedotto, del primo     sistema di fogne e del mercato pubblico coperto che aveva permesso  di     risanare  il  putridume della baia di Las Animas.  Era stato poi anche     presidente dell'Accademia della Lingua e dell'Accademia di Storia.  Il     patriarca  latino  di Gerusalemme lo aveva fatto cavaliere dell'Ordine     del Santo Sepolcro per i  servigi  resi  alla  Chiesa,  e  il  governo     francese   gli   aveva   concesso   la  Legion  d'Onore  al  rango  di     commendatore.  Era stato un animatore attivo  di  tutte  le  congreghe     confessionali e civiche che erano esistite nella città e in particolar     modo  della  Giunta Patriottica,  formata da cittadini influenti senza     interessi politici,  che premevano sui governi e sul commercio  locale     con trovate progressiste troppo audaci per l'epoca. Fra queste, la più     memorabile  era  stata il varo di un aerostato che nel volo inaugurale     aveva portato una lettera fino a San Juan de la Ciénaga,  molto  prima     che  si pensasse alla posta aerea come una possibilità razionale.  Era     stata sua anche l'idea del Centro  Artistico,  che  aveva  fondato  la     Scuola  di  Belle  Arti  nella  stessa casa dove esiste ancora e aveva     patrocinato per molti anni i Giochi Floreali di aprile.
    Solo lui aveva ottenuto  quello  che  era  parso  impossibile  per  un     secolo: il restauro del Teatro della Commedia,  trasformato in arena e     in allevamento di galli dall'epoca della Colonia. Era stato il culmine     di una campagna civica spettacolare  che  aveva  compromesso  tutti  i     settori  della  città senza eccezione alcuna,  in una mobilitazione di     massa  che  molti  avevano  considerato  degna   di   miglior   causa.     Ciononostante  il  nuovo  Teatro  della  Commedia era stato inaugurato     quando ancora non aveva né  sedie  né  luci,  e  i  presenti  dovevano     portarsi  su  che sedersi e con che illuminarsi negli intervalli.  Era     stata imposta la stessa etichetta delle grandi prime europee,  di  cui     le signore approfittavano per far bella mostra dei loro vestiti lunghi     e  delle  loro  pellicce  nella canicola del Caribe,  ma si era dovuta     permettere l'entrata anche ai servitori perché portassero le  sedie  e     le  lampade,   e  quanto  di  mangereccio  ritenevano  necessario  per     resistere ai  programmi  interminabili,  alcuni  dei  quali  si  erano     protratti  fino  all'ora della prima messa.  La stagione si era aperta     con una  compagnia  francese  di  opera  la  cui  novità  era  un'arpa     nell'orchestra  e la cui gloria indimenticabile era la voce immacolata     e il talento drammatico di un soprano turco che cantava scalza  e  con     anelli  di  pietre  preziose alle dita dei piedi.  A partire dal primo     atto si vedeva a malapena lo scenario e i cantanti perdettero la  voce     per  il  fumo  delle  tante  lampade  di olio di palma,  ma i cronisti     cittadini  si  curarono  molto  bene  di  cancellare  questi  ostacoli     insignificanti  e  di magnificare le cose memorabili.  Fu senza dubbio     l'iniziativa più contagiosa del dottor  Urbino,  dato  che  la  febbre     dell'opera  contaminò  perfino  i  settori più impensati della città e     diede origine a tutta una generazione di Isotte e  Otelli,  e  Aide  e     Sigfridi. Tuttavia non si arrivò mai agli estremi che il dottor Urbino     avrebbe desiderato,  di vedere italianizzanti e wagneriani affrontarsi     a bastonate nel corso degli intervalli.
    Il dottor Juvenal Urbino non accettò mai cariche  ufficiali,  che  gli     avevano offerto spesso e senza condizioni,  e fu un critico feroce dei     medici che si servivano del loro prestigio professionale  per  scalare     posizioni politiche. Anche se era stato stimato sempre per liberale ed     era  solito  votare  durante  le  elezioni  per  i candidati di questo     partito,  lo era più per tradizione che per convinzione,  ed era stato     forse  l'ultimo  membro delle grandi famiglie che si inginocchiava per     strada quando passava la carrozza  dell'arcivescovo.  Si  definiva  un     pacifista  naturale,  fautore  della  riconciliazione  definitiva  fra     liberali e conservatori per il bene della  patria.  Tuttavia,  la  sua     condotta  pubblica era così autonoma che nessuno lo riteneva dei suoi:     i liberali lo consideravano un nobile delle  caverne,  i  conservatori     dicevano  che  gli  mancava  solo  di  essere massone,  e i massoni lo     ripudiavano come un chierico imboscato al servizio della Santa Sede. I     suoi critici meno feroci pensavano che  fosse  solo  un  aristocratico     estasiato  dalle  delizie  dei  Giochi  Floreali  mentre la nazione si     dissanguava in un'interminabile guerra civile.
    Solo due suoi atti non sembravano concordare con questa  immagine.  Il     primo era stato il trasloco in una casa nuova in un quartiere di nuovi     ricchi dal vecchio palazzo del Marchese de Casalduero che era stata la     residenza  di  famiglia  per  più  di un secolo.  L'altro era stato il     matrimonio con una bellezza paesana senza nome né fortuna,  di cui  si     burlavano  segretamente  le  signore  di  gran  nome  finché  si erano     convinte  per  forza  che  dava  parecchi  punti  a  tutte  loro   per     distinzione e carattere.  Il dottor Urbino aveva sempre tenuto in gran     conto questi e molti altri intoppi  della  sua  immagine  pubblica,  e     nessuno  quanto lui stesso sapeva bene di essere l'ultimo protagonista     di un nome in via di estinzione.  I suoi figli erano  due  cavalli  di     razza senza nessun lustro.  Marco Aurelio, il maschio, medico come lui     e come tutti i primogeniti di ogni generazione, non aveva fatto niente     di notevole,  neanche un  figlio,  passati  i  cinquant'anni.  Ofelia,     l'unica  figlia,  sposata  con  un  buon  impiegato  del  Banco di New     Orleans,  era arrivata alla menopausa con tre figlie e nessun maschio.
    Tuttavia,  benché  gli  spiacesse  l'interruzione del suo sangue nella     sorgente della storia,  quello che della morte preoccupava di  più  il     dottor Urbino era la vita solitaria di Fermina Daza senza di lui.     Comunque,  la tragedia destò commozione non solo fra la sua gente,  ma     contagiò anche la gente semplice,  che si  affacciò  alle  strade  con     l'illusione   di  conoscere  anche  di  riflesso  lo  splendore  della     leggenda. Furono proclamati tre giorni di lutto, si mise la bandiera a     mezz'asta negli uffici pubblici  e  le  campane  di  tutte  le  chiese     suonarono  incessantemente  finché fu sigillata la cripta nel mausoleo     di famiglia.  Un gruppo della Scuola di Belle Arti fece  una  maschera     del  cadavere  che sarebbe servita da modello per un busto a grandezza     naturale,  ma poi si desistette dal progetto perché  a  nessuno  parve     degna  la  fedeltà con cui era rimasto plasmato il terrore dell'ultimo     momento.  Un artista rinomato che si trovava  lì  per  caso  prima  di     andare  in  Europa dipinse una tela gigantesca di un realismo patetico     in cui si vedeva il dottor Urbino sulla scala e nell'attimo mortale in     cui aveva teso la mano per afferrare il pappagallo.  L'unica cosa  che     contrastava  con  la  cruda verità della sua storia era che nel quadro     non indossava la camicia senza collo e le bretelle a righe  verdi,  ma     la  bombetta  e  la finanziera di panno nero di un'incisione di stampa     degli anni del colera.  Questo quadro fu esposto pochi  mesi  dopo  la     tragedia, perché nessuno restasse senza vederlo, nella grande galleria     "El  Alambre  de  Oro",  un  negozio di articoli d'importazione in cui     sfilava tutta la città.  Poi stette sulle pareti di quante istituzioni     pubbliche  e  private  si credettero in dovere di rendere omaggio alla     memoria dell'insigne patrizio e alla fine fu collocato con un  secondo     funerale  nella  Scuola  di Belle Arti,  da dove lo tolsero molti anni     dopo  gli  stessi  studenti  di  pittura  per  bruciarlo   in   Piazza     dell'Università come simbolo di un'estetica e di certi tempi aborriti.     Fin  dal  suo primo momento di vedova si vide che Fermina Daza non era     così sprovveduta come aveva temuto suo marito.  Fu inflessibile  nella     determinazione  di  non  permettere  che  si utilizzasse il cadavere a     beneficio di nessuna causa,  e lo fu anche con il telegramma di  onori     del  Presidente della Repubblica che ordinava di esporlo in una camera     ardente della sala delle cerimonie del  governo  provinciale.  Con  la     stessa serenità si oppose a che fosse vegliato nella cattedrale,  come     le aveva chiesto l'arcivescovo in persona,  e concesse solo che  fosse     lì  durante  la  messa  a corpo presente degli uffici funebri.  Ancora     prima della mediazione  di  suo  figlio,  stordito  da  tante  diverse     richieste, Fermina Daza si mantenne ferma nella sua nozione campagnola     che  i  morti  appartengono  solo  alla famiglia,  e che sarebbe stato     vegliato in casa con caffè amaro e frittelle,  e  con  la  libertà  di     ognuno  di  piangerlo  come  voleva.  Non  ci  sarebbe stata la veglia     tradizionale di nove notti: le porte si chiusero dopo  il  funerale  e
    non si riaprirono se non per visite intime.
    La casa rimase sotto il regime della morte. Ogni oggetto di valore era     stato  messo  ben al sicuro,  e sulle pareti nude non restavano che le     impronte dei quadri staccati.  Le sedie proprie e quelle prestate  dai     vicini  erano  poste  contro  le pareti dalla sala fino alle camere da     letto,  e gli spazi vuoti sembravano immensi e le voci risuonavano  in     modo  spettrale,  perché  i  mobili  grandi,  salvo  il  pianoforte da     concerto che giaceva nel suo angolo sotto un  lenzuolo  bianco,  erano     stati  spostati.  Al  centro della biblioteca,  sulla scrivania di suo     padre,  giaceva senza bara colui che era stato Juvenal  Urbino  de  la     Calle,  con l'ultimo spavento pietrificato sul volto e con il mantello     nero e la spada di guerra dei cavalieri del  Santo  Sepolcro.  Al  suo     fianco,  in  lutto stretto,  tremante ma molto padrona di sé,  Fermina     Daza ricevette  le  condoglianze  senza  fare  drammi,  senza  neanche     muoversi,  fino  alle undici del mattino del giorno dopo quando salutò     il marito dal portico dicendogli addio con un fazzoletto.
    Non le era stato facile recuperare quella padronanza di sé  da  quando     aveva  udito  il  grido  di  Digna  Pardo nel patio e aveva trovato il     vecchio della sua vita che agonizzava nel fango. La sua prima reazione     era stata di speranza perché aveva gli occhi aperti e  un  brillio  di     luce  raggiante  che  non  gli  aveva  mai visto nelle pupille.  Aveva     chiesto a Dio di concederle almeno un attimo  perché  lui  non  se  ne     andasse  senza  sapere  quanto  lo  aveva  amato  a dispetto dei dubbi     reciproci,   e  aveva  sentito  una  sollecitazione  irresistibile   a     ricominciare da capo la vita con lui per dirsi tutto quello che non si     erano  detti,  e  a rifare bene qualsiasi cosa avessero fatto male nel     passato.  Ma dovette arrendersi davanti all'intransigenza della morte.     Il  suo  dolore  si  trasformò  in una collera cieca contro il mondo e     anche contro se stessa,  e questo le diede la padronanza e il coraggio     per  confrontarsi  da sola con la sua solitudine.  Da quel momento non     ebbe tregua,  ma limitò qualsiasi gesto che sembrasse  un'ostentazione     del  suo dolore.  L'unico momento di un'evidente tristezza,  del resto     involontario, fu alle undici della sera di domenica,  quando portarono     la  bara  episcopale  ancora  odorosa di "sapolín" da bastimento,  con     maniglie di rame e fodere di seta  trapunta.  Il  dottor  Urbino  Daza     diede  ordine  di  chiuderla  immediatamente,   dato  che  l'aria  era     rarefatta dal sentore di tanti fiori nel caldo insopportabile,  e  lui     credeva  di aver colto le prime ombre violette sul collo di suo padre.     Una voce sarcastica si udì nel silenzio: «A quell'età uno è già  mezzo     marcio  in  vita».  Prima  che  la  chiudessero  Fermina Daza si tolse     l'anello matrimoniale e lo mise al marito morto e  poi  gli  coprì  la     mano  con  la  sua,  come  sempre aveva fatto quando lo aveva sorpreso     svagato in pubblico. «Ci vedremo molto presto» gli disse.
    Florentino Ariza, invisibile nella folla di notabili, sentì una lancia     nel costato.  Fermina Daza non lo aveva riconosciuto nella  confusione     delle prime condoglianze, benché nessuno sarebbe stato più presente né     doveva essere più utile di lui nelle urgenze di quella notte. Fu lui a     mettere  ordine  nelle cucine straripate perché non mancasse il caffè.     Ottenne delle sedie supplementari  quando  non  bastarono  quelle  dei     vicini,  e ordinò di mettere nel patio le corone che avanzavano quando     ormai non ce ne stava più una in casa.  Si occupò che non mancasse  il     brandy  per  gli  invitati  del  dottor Lácides Olivella,  che avevano     saputo la cattiva notizia al culmine delle  nozze  d'argento  e  erano     venuti  di  corsa  a continuare la baldoria seduti in cerchio sotto il     tronco del mango.  Fu l'unico  a  saper  reagire  a  tempo  quando  il     pappagallo fuggitivo comparve a mezzanotte nella sala da pranzo con la     testa  alzata  e  le ali aperte,  il che provocò un brivido di stupore     nella casa perché sembrava una promessa di penitenza. Florentino Ariza     lo afferrò per il collo senza dargli il tempo di gridare nessuna delle     sue consegne insensate e lo portò nella scuderia nella gabbia coperta.     Così fece tutto con tanta discrezione e tale efficienza che a  nessuno     capitò di pensare che fosse un'intromissione negli affari degli altri,     ma anzi un aiuto impagabile nella mala ora della casa.  Era quello che     sembrava: un vecchio servizievole e serio.
    Aveva il corpo ossuto e dritto,  la pelle bruna e imberbe,  gli  occhi     avidi  dietro gli occhiali rotondi con la montatura di metallo chiaro,     e dei baffi romantici con  le  punte  ingommate,  un  po'  vecchi  per     l'epoca.  Aveva  gli  ultimi ciuffi dei capelli delle tempie pettinati     verso l'alto e attaccati con la gommina nel centro del cranio  lucente     come  soluzione  finale  a  una  calvizie assoluta.  La sua gentilezza     naturale e i suoi modi  delicati  affascinavano  subito,  ma  venivano     anche  stimati  come  due  virtù  sospettose in uno scapolo incallito.     Aveva speso molto denaro,  molto ingegno  e  molta  forza  di  volontà     perché  non  si  notassero  i  settantasei anni che aveva compiuto nel     marzo scorso e nella solitudine della sua anima era convinto  di  aver     amato in silenzio molto più di chiunque altro a questo mondo.     La  notte  della  morte  del  dottor  Urbino era vestito come lo aveva     sorpreso la notizia,  che era come stava sempre  nonostante  il  caldo     infernale  di giugno: di panno scuro con gilè,  un fiocco di nastro di     seta nel colletto di celluloide,  un cappello di feltro e un  ombrello     di raso nero che gli serviva anche da bastone.  Ma quando incominciò a     far chiaro sparì dalla veglia per due ore e ritornò fresco  col  primo     sole, ben sbarbato e profumato di lozioni da toilette. Aveva indossato     una  finanziera  di panno nero di quelle che non si usavano più se non     ai funerali e alle cerimonie della Settimana Santa,  un collo  con  le     punte  superiori  risvoltate  e  il  fiocco  da artista al posto della
    cravatta e una bombetta. Aveva con sé anche l'ombrello, e non solo per     abitudine, dato che era sicuro che avrebbe piovuto prima delle dodici,     e lo fece sapere al dottor Urbino Daza per vedere se gli sarebbe stato     possibile anticipare il funerale.  Ci  provarono  in  effetti,  perché     Florentino  Ariza  apparteneva a una famiglia di armatori e lui stesso     era presidente della Compagnia Fluviale del Caribe,  e  questo  faceva     supporre  che  se  ne  intendesse  di  pronostici atmosferici.  Ma non     poterono  mettere  d'accordo  le  autorità  civili  e   militari,   le     corporazioni  pubbliche  e  private,  la  banda dell'esercito e quella     delle Belle Arti,  e le scuole e confraternite religiose che erano già     d'accordo  per  le  undici,  in  modo che il funerale previsto come un     avvenimento storico finì in un fuggi fuggi generale  per  l'acquazzone     battente  che  venne  giù.  Furono  molto  pochi quelli che arrivarono     sguazzando nel fango al mausoleo della famiglia, protetto da una ceiba     coloniale il cui fogliame superava il muro del cimitero.  Sotto quello     stesso  fogliame,  ma  nella  parte  esterna destinata ai suicidi,  il     pomeriggio del giorno prima i rifugiati  del  Caribe  avevano  sepolto     Jeremiah de Saint-Amour, e il suo cane insieme con lui, secondo la sua     volontà.
    Florentino  Ariza  fu  uno  dei  pochi che rimasero fino alla fine del     funerale. Si inzuppò fino alla biancheria intima e arrivò spaventato a     casa sua per paura di  prendere  una  polmonite  dopo  tanti  anni  di     attenzioni minuziose e di precauzioni eccessive. Si fece preparare una     limonata calda con un goccio di brandy,  se la bevette a letto con due     pastiglie di fenaspirina e sudò abbondantemente avvolto in una coperta     di lana finché recuperò la giusta temperatura del corpo.  Quando tornò     alla  veglia  si  sentiva  rinvigorito.  Fermina Daza aveva ripreso il     comando della casa,  che era spazzata e in grado di ricevere,  e aveva     posto  sull'altare  della  biblioteca  un  ritratto  del  marito morto     dipinto a pastello con la cornice listata a  lutto.  Alle  otto  c'era     tanta  gente e il caldo era così intenso come la notte precedente,  ma     dopo il rosario qualcuno fece  circolare  la  preghiera  di  andarsene     presto  perché  la  vedova riposasse per la prima volta dal pomeriggio     della domenica.
    Fermina Daza salutò la maggior parte della gente vicino all'altare  ma     accompagnò  l'ultimo  gruppo  di  amici  intimi  fino alla porta sulla     strada, per chiuderla lei stessa,  come aveva sempre fatto.  Stava per     farlo  con  l'ultimo  respiro,  quando vide Florentino Ariza vestito a     lutto al centro della sala deserta.  Ne fu contenta,  perché da  molti     anni lo aveva cancellato dalla sua vita,  ed era la prima volta che lo     vedeva con la coscienza purificata dall'oblio.  Ma  prima  di  poterlo     ringraziare per la visita, lui si mise il cappello sul cuore, tremante     e degno, e fece scoppiare l'ascesso che era stato l'alimento della sua     vita.
    «Fermina»  le  disse,  «ho  atteso  questa  occasione per più di mezzo     secolo, per ripeterti ancora una volta il giuramento della mia fedeltà     eterna e il mio amore per sempre.»
    Fermina Daza avrebbe creduto di trovarsi di fronte a un pazzo,  se non     avesse  avuto  dei  motivi  per  pensare  che Florentino Ariza in quel     momento era ispirato dalla grazia dello Spirito Santo.  Il suo impulso     immediato  fu  di  maledirlo per la profanazione della casa quando era     ancora caldo nella tomba il corpo di suo marito.  Ma glielo impedì  la     dignità della rabbia. «Vattene» gli disse. «E non farti mai più vedere     negli anni che ti restano di vita.» Tornò ad aprire del tutto la porta     che aveva incominciato a chiudere,  e concluse: «Che spero siano molto     pochi».
    Quando udì spegnersi il  rumore  dei  passi  nella  strada  solitaria,     chiuse la porta molto piano,  con la spranga e i catenacci, e affrontò     da sola il suo destino.  Mai,  fino a quel momento,  aveva avuto piena     coscienza  del  peso e della grandezza del dramma che lei stessa aveva     provocato  quando  aveva  solo  diciotto   anni,   e   che   l'avrebbe     perseguitata fino alla morte. Pianse per la prima volta dal pomeriggio     del disastro,  senza testimoni, che era il suo unico modo di piangere.     Pianse per la morte del marito, per la sua solitudine e la sua rabbia,     e quando entrò nella camera da  letto  vuota  pianse  per  se  stessa,     perché  molto  raramente aveva dormito da sola in quel letto da quando     non era più  vergine.  Tutto  quello  che  era  stato  del  marito  le     attizzava  il  pianto:  le  pantofole  di  nappa,  il pigiama sotto il     cuscino, lo spazio senza di lui nella mezzaluna della toilette, il suo     odore personale sulla propria pelle.  La fece sussultare  un  pensiero     vago: "La gente che si ama dovrebbe morire con tutte le sue cose". Non     volle aiuto da nessuno per coricarsi,  non volle mangiare niente prima     di dormire.  Oppressa dal dolore,  chiese a Dio di mandarle  la  morte     quella  notte  stessa  durante  il  sonno,  e  con questa illusione si     coricò,  scalza ma  vestita,  e  si  addormentò  subito.  Dormì  senza     saperlo,  ma  sapendo  che continuava a essere viva nel sonno,  che le     avanzava la metà  del  letto,  e  che  giaceva  di  fianco  sul  bordo     sinistro,  come  sempre,  ma  che le mancava il contrappeso dell'altro     corpo dall'altra parte.  Pensando addormentata pensò che  non  avrebbe     mai più potuto dormire così,  e incominciò a singhiozzare nel sonno, e     dormì singhiozzando senza cambiare posizione nella sua parte,  fino  a     molto  dopo  il  canto  del  gallo e la svegliò il sole indesiderabile     della mattina senza di lui.  Solo allora si rese conto di aver dormito     molto  senza  morire,   singhiozzando  nel  sonno,  e  mentre  dormiva     singhiozzando di aver pensato più a Florentino  Ariza  che  al  marito     morto.
    NOTE.
    NOTA 1: E' Simón Bolívar (1783-1830). (Nota del Traduttore).
    Florentino  Ariza,  invece,  non  aveva smesso di pensare a lei per un     solo attimo dopo che Fermina Daza lo aveva respinto senza appello dopo     alcuni  amori  lunghi  e  sofferti,   ed  erano  trascorsi  da  allora     cinquantun anni,  nove mesi e quattro giorni.  Non aveva dovuto tenere     il conto dell'oblio facendo  una  riga  al  giorno  sui  muri  di  una     prigione,  perché  non  era  passato  un  giorno  senza  che accadesse     qualcosa che gliela faceva ricordare.  All'epoca della  rottura  aveva     ventidue  anni  e  viveva solo con sua madre,  Tránsito Ariza,  in una     mezza casa in affitto di Calle de las Ventanas, dove lei fin da quando     era  molto  giovane  aveva  un  negozio  di  merceria  e  dove   anche     sfilacciava  camicie  e  stracci  vecchi che vendeva come cotone per i     feriti di guerra.  Era stato il suo unico figlio,  frutto di un legame     occasionale  con  il noto armatore don Pío Quinto Loayza,  il maggiore     dei tre fratelli che avevano fondato la Compagnia Fluviale del Caribe,     e avevano dato con questa un nuovo impulso alla navigazione  a  vapore     nel río de la Magdalena.
    Don Pío Quinto Loayza morì quando il figlio aveva dieci anni. Anche se     si era sempre occupato segretamente delle sue spese,  non lo aveva mai     riconosciuto come suo davanti alla legge né gli aveva lasciato risolto     l'avvenire,  e così Florentino Ariza era rimasto con l'unico  nome  di     sua madre, benché la sua vera generalità fosse sempre stata di dominio     pubblico.  Dopo  la  morte  del  padre,  Florentino Ariza aveva dovuto     rinunciare alla scuola per  impiegarsi  come  apprendista  all'Ufficio     Postale,  dove lo avevano incaricato di aprire i sacchi, di mettere in     ordine le lettere e di avvisare il pubblico che era arrivata la  posta     issando sulla porta la bandiera del paese di provenienza.     La  sua  serietà  richiamò  l'attenzione del telegrafista,  l'emigrato     tedesco Lotario Thugut,  che suonava anche  l'organo  nelle  cerimonie     maggiori  della  cattedrale  e  dava  lezioni  di  musica a domicilio.     Lotario Thugut gli  insegnò  l'alfabeto  Morse  e  l'uso  del  sistema     telegrafico, e bastarono le prime lezioni di violino perché Florentino     Ariza continuasse a suonarlo a orecchio come un professionista. Quando     conobbe  Fermina Daza,  a diciotto anni,  era il giovane più richiesto     della sua classe sociale,  quello che ballava meglio la musica di moda     e  recitava  a  memoria  la  poesia  sentimentale,  ed  era  sempre  a     disposizione dei suoi amici per fare alle loro fidanzate serenate  con     un  a  solo  di violino.  Era squallido fin da allora,  con capelli da
    indio impomatati e gli occhialini da  miope  che  aumentavano  il  suo     aspetto di abbandono.  A parte il difetto della vista, soffriva di una     stitichezza cronica che lo obbligò a clisteri purganti  per  tutta  la     vita.  Aveva un solo abito da cerimonia, ereditato dal padre morto, ma     Tránsito Ariza glielo teneva così  bene  che  ogni  domenica  sembrava     nuovo.  Nonostante  la  sua aria allampanata,  la sua riservatezza e i     suoi vestiti malinconici,  le ragazze del suo  gruppo  facevano  riffe     segrete  per  giocare  a restare con lui,  e lui giocava a restare con     loro,  fino  al  giorno  in  cui  conobbe  Fermina  Daza  e  gli  morì     l'innocenza.
    L'aveva  vista  per la prima volta un pomeriggio in cui Lotario Thugut     lo aveva incaricato di portare un telegramma a un tipo senza domicilio     conosciuto che si chiamava Lorenzo Daza. Lo trovò nel piccolo Giardino     de Los Evangelios, in una delle case più vecchie, mezza in rovina,  il     cui  patio  interno  sembrava  il chiostro di un'abbazia,  con erbacce     negli angoli e una fontana di pietra senza acqua. Florentino Ariza non     udì nessun rumore umano quando seguì la  domestica  scalza  sotto  gli     archi del corridoio, dove c'erano cassoni da trasloco ancora da aprire     e  attrezzi  da muratore fra resti di calce e sacchi di cemento,  dato     che la casa stava subendo un restauro totale.  In fondo al patio c'era     un  ufficio,  dove  dormiva la siesta seduto davanti alla scrivania un     uomo molto grasso con le basette arricciate che si confondevano con  i     baffi.  Si  chiamava,  in  effetti,  Lorenzo  Daza,  e  non  era molto     conosciuto in città perché era arrivato da meno di due anni e non  era     uno di molte amicizie.
    Prese  il  telegramma  come  se  fosse  il seguito di un brutto sogno.     Florentino  Ariza  osservò  gli  occhi  lividi  con  una   specie   di     compassione  ufficiale,  osservò  le  dita  incerte  che  cercavano di     rompere il sigillo,  la paura del cuore che aveva visto tante volte in     tanti  destinatari  che  non riuscivano ancora a pensare ai telegrammi     senza metterli in rapporto con la morte.  Quando l'ebbe letto  riprese     il controllo.  Sospirò: «Buone notizie».  E diede a Florentino Ariza i     cinque  "reales"  di  rigore,  facendogli  intendere  con  un  sorriso     sollevato  che  non  glieli  avrebbe  dati se le notizie fossero state     cattive. Poi lo congedò con una stretta di mano, cosa che non si usava     con un fattorino del telegrafo,  e la domestica lo accompagnò fino  al     portone   sulla   strada  non  tanto  per  fargli  strada  quanto  per     sorvegliarlo.  Fecero lo stesso percorso in  senso  inverso  lungo  il     corridoio ad arcate,  ma questa volta Florentino Ariza seppe che c'era     qualcun altro in casa,  perché il chiarore del patio era  occupato  da     una  voce  di  donna  che  ripeteva  una lezione di lettura.  Passando     davanti alla stanza da  lavoro  vide  dalla  finestra  una  donna  più     anziana e una bambina, sedute su due sedie molto vicine, che seguivano     ambedue  la  stessa  lettura  sullo  stesso  libro che la donna teneva     aperto in grembo.  Gli parve una visione rara: la figlia che insegnava     a leggere alla madre.  La stima era sbagliata solo in parte, perché la     donna era la zia e non  la  madre  della  bambina,  anche  se  l'aveva     allevata  come  se lo fosse stata.  La lezione non si interruppe ma la     bambina alzò gli occhi per vedere  chi  stava  passando  davanti  alla     finestra,  e  quello  sguardo  casuale  fu  l'origine di un cataclisma     amoroso che mezzo secolo dopo non era ancora terminato.
    L'unica cosa che Florentino Ariza poté scoprire di Lorenzo Daza fu che     era arrivato da San Juan de la Ciénaga con l'unica figlia e la sorella     zitella poco dopo il fetore del colera,  e chi lo aveva visto sbarcare     non aveva dubitato che venisse per fermarsi, dato che portava tutto il     necessario  per  una  casa ben fornita.  La moglie era morta quando la     figlia era molto piccola.  La sorella si chiamava  Escolástica,  aveva     quarant'anni  e  stava  compiendo un voto con l'abito di San Francesco     quando usciva e solo il cordone alla vita quando  stava  in  casa.  La     bambina aveva tredici anni e si chiamava come la madre morta: Fermina.     Si  supponeva  che Lorenzo Daza fosse un uomo ricco perché viveva bene     senza che si sapesse che cosa faceva,  e aveva comprato in contanti la     casa de Los Evangelios, il cui restauro dovette costargli perlomeno il     doppio  dei  duecento  "pesos" d'oro che aveva pagato per la casa.  La     figlia stava studiando al Colegio de la Presentación de  la  Santísima     Virgen, dove le signorine di società apprendevano da due secoli l'arte     e  il  mestiere  di  essere  spose diligenti e sottomesse.  Durante la     Colonia e i primi anni della Repubblica accettavano solo le  eredi  di     grandi nomi. Ma le vecchie famiglie rovinate dall'indipendenza avevano     dovuto sottomettersi alla realtà dei nuovi tempi,  e il collegio aveva     aperto le sue porte a tutte le aspiranti che avessero  potuto  pagarlo     senza  preoccuparsi  dei  loro  titoli  nobiliari ma con la condizione     essenziale che fossero figlie legittime  di  matrimoni  cattolici.  In     ogni modo era un collegio caro,  e il fatto che Fermina Daza studiasse     lì era di per sé solo un  indizio  della  situazione  economica  della     famiglia,  anche  se  non lo era della sua condizione sociale.  Queste     notizie incoraggiarono Florentino Ariza,  perché gli indicavano che la     bella  adolescente  dagli  occhi  a mandorla era alla portata dei suoi     sogni.  Tuttavia,  la disciplina stretta di suo padre si rivelò  molto     presto come un inconveniente irrimediabile.  Contrariamente alle altre     alunne, che andavano a scuola a gruppi o accompagnate da una domestica     più anziana,  Fermina Daza andava sempre con la zia zitella e  la  sua     condotta indicava che non le era permessa nessuna distrazione.     Fu  in  quel modo innocente che Florentino Ariza diede inizio alla sua     vita segreta di cacciatore solitario. Dalle sette di mattina si sedeva     da solo sulla panchina meno  visibile  del  giardinetto,  fingendo  di     leggere  un  libro  di  versi  all'ombra  dei mandorli,  finché vedeva     passare la donzella impossibile con l'uniforme  a  righe  azzurre,  le     calze con le giarrettiere fino alle ginocchia, gli stivaletti maschili     coi  lacci  incrociati,  e  una  sola  treccia  grossa  con  un fiocco     all'estremità che le pendeva sulle spalle fino  alla  vita.  Camminava     con un'alterigia naturale,  la testa dritta,  lo sguardo immobile,  il     passo rapido, il naso affilato,  con la cartella dei libri stretta con     le braccia incrociate contro il petto,  e con un'andatura da cerva che     la faceva sembrare immune dalla gravità.  Al suo  fianco,  tenendo  il     passo  a  stento,  la  zia  con  l'abito  grigio  e  il cordone di San
    Francesco non lasciava il minimo spiraglio per avvicinarsi. Florentino     Ariza le vedeva passare all'andata  e  al  ritorno  quattro  volte  al     giorno  e  una  volta  la  domenica all'uscita dalla messa solenne,  e     vedere la bambina gli bastava.  A poco a  poco  venne  idealizzandola,     attribuendole  virtù  improbabili,  sentimenti immaginari,  e dopo due     settimane non pensava ad altro che  a  lei.  Fu  così  che  decise  di     mandarle  un semplice biglietto scritto da tutte e due le parti con la     sua bella calligrafia da scrivano.  Ma lo  tenne  diversi  giorni  nel     taschino pensando come consegnarlo, e mentre ci pensava scriveva altri     fogli  prima  di  dormire,  cosicché  la  lettera  originale  venne  a     trasformarsi in un dizionario di  galanterie  ispirate  ai  libri  che     aveva  imparato  a  memoria  a  furia  di  leggerli  nelle  attese del     giardino.
    Cercando il modo di  consegnare  la  lettera  si  diede  da  fare  per     conoscere  alcune  studentesse  della  Presentación,  ma  erano troppo     lontane dal suo mondo.  Inoltre,  dopo parecchi  giri  non  gli  parve     prudente  che  qualcuno  fosse  informato dei suoi progetti.  Tuttavia     riuscì a sapere che Fermina Daza era stata  invitata  a  un  ballo  di     sabato  qualche  giorno dopo il suo arrivo e che il padre non le aveva     dato il permesso di andarci con una frase precisa: «Ogni cosa si  farà     a  tempo  debito».  La  lettera aveva più di sessanta fogli scritti da     tutti e due i lati quando Florentino Ariza non poté più  resistere  al     peso del suo segreto,  e si aprì senza riserve con sua madre,  l'unica     persona con cui si permetteva qualche confidenza.  Tránsito  Ariza  si     commosse fino alle lacrime per il candore del figlio nei fatti d'amore     e  cercò  di orientarlo con i suoi lumi.  Cominciò convincendolo a non     consegnare lo  zibaldone  lirico  con  cui  sarebbe  solo  riuscito  a     spaventare la bambina dei suoi sogni, che supponeva altrettanto acerba     quanto lui in affari di cuore. Il primo passo, gli disse, era ottenere     che  lei si accorgesse del suo interesse,  perché la sua dichiarazione     non la cogliesse di sorpresa e avesse il tempo di pensare.
    «Ma soprattutto» gli disse,  «la prima che devi conquistare non è  lei     ma sua zia.»
    Ambedue i consigli erano saggi, senza dubbio, ma tardivi. In realtà il     giorno  in  cui  Fermina Daza aveva trascurato un attimo la lezione di     lettura che stava dando alla zia e  aveva  sollevato  lo  sguardo  per     vedere  chi  stava  passando  nel corridoio,  Florentino Ariza l'aveva     impressionata con la sua aria di abbandono. La sera,  durante la cena,     suo padre aveva parlato del telegramma ed era stato così che lei aveva     saputo  che  cosa era andato a fare Florentino Ariza in casa,  e quale     era il suo lavoro.  Queste notizie avevano aumentato il suo interesse,     perché  per  lei  come  per  tanta  gente  dell'epoca l'invenzione del     telegrafo aveva qualcosa a che vedere con la magia.  Ed era stato così     che  aveva riconosciuto Florentino Ariza dalla prima volta che lo vide     intento a leggere sotto gli alberi  del  giardinetto,  benché  non  le     avesse  provocato  nessuna  inquietudine,  mentre  la  zia non le fece     notare che stava lì da parecchie  settimane.  Poi,  quando  lo  videro     anche la domenica all'uscita da messa, la zia finì per convincersi che     tanti  incontri  non potevano essere casuali.  Disse: «Non sarà per me     che si prende tanti  fastidi».  Perché,  nonostante  la  sua  condotta     austera e il suo abito da penitente,  la zia Escolástica Daza aveva un     istinto della vita e una vocazione alla complicità che  erano  le  sue     migliori virtù, e la sola idea che un uomo si interessasse alla nipote     le provocava un'emozione irresistibile. Fermina Daza, però, era ancora     in  salvo perfino dalla semplice curiosità dell'amore,  e l'unica cosa     che le ispirava Florentino Ariza era un po' di  pena,  perché  le  era     parso malato. Ma la zia le disse che era necessario aver vissuto molto     per conoscere la vera indole di un uomo, e lei era convinta che quello     che  si sedeva nel parco per vederle passare poteva essere malato solo     d'amore.
    La zia Escolástica era un rifugio di comprensione e di affetto per  la     figlia solitaria di un matrimonio senza amore.  L'aveva allevata dalla     morte della madre,  e nei rapporti con Lorenzo Daza si comportava  più     da  complice  che da zia.  Cosicché la comparsa di Florentino Ariza fu     per loro un altro dei  molti  divertimenti  intimi  che  erano  solite     inventarsi per passare le ore morte.  Quattro volte al giorno,  quando     passavano  dal  giardinetto  de  Los  Evangelios,   tutte  e  due   si     affrettavano  a  cercare  con un rapido sguardo la sentinella sparuta,     timida,  proprio poca cosa,  quasi sempre vestita di nero malgrado  il     caldo,  che  faceva  finta  di  leggere sotto gli alberi.  «Eccolo là»     diceva quella che lo vedeva per prima,  soffocando le risa,  prima che     lui  alzasse lo sguardo e vedesse le due donne rigide,  distanti dalla     sua vita, attraversare il giardino senza guardarlo.
    «Poveretto» aveva detto la zia.  «Non si azzarda ad avvicinarsi perché     ci  sono  io  con te ma un giorno ci proverà se le sue intenzioni sono     serie, e allora ti consegnerà una lettera.»
    Prevedendo tutta una serie di avversità le insegnò  a  comunicare  con     l'alfabeto  muto,  che  era  una  risorsa  indispensabile  degli amori     proibiti.  Quelle birichinate sprovvedute,  quasi  puerili,  davano  a     Fermina  Daza  una  curiosità  di novità,  ma per parecchi mesi non le     capitò di andare oltre.  Non seppe mai in che momento il  divertimento     si trasformò in ansia,  e il sangue le si sconvolgeva per l'urgenza di     vederlo,  e una notte si svegliò spaventata  perché  lo  vide  che  la     guardava  nell'oscurità ai piedi del letto.  Allora desiderò con tutta     l'anima che si avverassero i pronostici della zia,  e chiedeva  a  Dio     nelle  sue  orazioni  di  fargli  avere  il coraggio di consegnarle la     lettera, solo per sapere che cosa dicesse.
    Ma le sue preghiere  non  vennero  esaudite.  Anzi.  Questo  succedeva     all'epoca  in  cui  Florentino Ariza si era confessato con sua madre e     questa  lo  aveva  dissuaso  dal  consegnare  i  settanta   fogli   di     galanterie,  e così Fermina Daza continuò a sperare per tutto il resto     dell'anno.  La  sua  ansia  si  trasformava  in  disperazione  più  si     avvicinavano  le  vacanze di dicembre,  perché si chiedeva agitata che     cosa avrebbe fatto per vederlo, e perché lui la vedesse, durante i tre     mesi in cui non sarebbe andata a scuola.  I dubbi  persistevano  senza     soluzione  la  notte di Natale,  quando la fece sussultare il presagio     che lui la stesse guardando tra la folla della messa di mezzanotte,  e     quell'inquietudine  le  fece  traboccare  il  cuore.  Non si azzardò a     girare la testa,  perché era seduta fra il padre e la zia,  e  dovette     dominarsi  perché  non  si  accorgessero  del  suo turbamento.  Ma nel     disordine  dell'uscita  lo  sentì  così  vicino,   così  nitido  nella     confusione,  che un potere irresistibile l'obbligò a guardare sopra la     spalla quando lasciava il tempio dalla navata centrale,  e allora vide     a  due  palmi  dai  suoi  occhi  gli altri occhi di ghiaccio,  il viso     livido,  le labbra pietrificate dalla paura dell'amore.  Scombussolata     dalla sua stessa audacia, si aggrappò al braccio della zia Escolástica     per  non  cadere,  e  questa  sentì  il  sudore  glaciale  della  mano     attraverso il mezzo guanto di pizzo,  e la  riconfortò  con  un  cenno     impercettibile  di complicità incondizionata.  In mezzo al fragore dei     razzi e dei tamburi celebrativi,  delle luci colorate sulle porte e al     clamore  della  folla  ansiosa di pace,  Florentino Ariza vagò come un     sonnambulo fino all'alba  vedendo  la  festa  attraverso  le  lacrime,     stordito  dall'allucinazione  di  essere  lui e non Dio quello che era     nato quella notte.
    Il delirio aumentò la settimana dopo,  all'ora  della  siesta,  quando     passò  senza  speranze  dalla casa di Fermina Daza e vide che lei e la     zia erano sedute sotto i mandorli del  cortile.  Era  una  ripetizione     all'aperto del quadro che aveva visto il primo pomeriggio nella stanza     da  lavoro: la bambina che provava la lezione di lettura alla zia.  Ma     Fermina Daza era diversa senza l'uniforme scolastica, perché indossava     una veste di filo con molte pieghe che le cadevano dalle  spalle  come     un  peplo  e  aveva  in  testa una ghirlanda di gardenie che le davano     l'aspetto di una dea  incoronata.  Florentino  Ariza  si  sedette  nel     giardino,  dove  era sicuro di essere visto,  e non ricorse alla finta     lettura,  ma restò col libro  aperto  e  con  gli  occhi  fissi  sulla     donzella  illusoria,  che  non  gli  ricambiò  neanche  uno sguardo di     compassione.
    All'inizio pensò che la lezione sotto i mandorli fosse un  cambiamento     casuale  dovuto  forse  ai  restauri interminabili della casa,  ma nei     giorni seguenti capì che Fermina Daza sarebbe stata lì,  a portata  di     vista, tutti i pomeriggi alla stessa ora dei tre mesi delle vacanze, e     questa  certezza gli infuse nuovo coraggio.  Non ebbe l'impressione di     essere visto,  non avvertì alcun segno di interesse o di  rifiuto,  ma     nella  sua indifferenza c'era un diverso splendore che lo incoraggiava     a continuare.  Improvvisamente un pomeriggio alla fine di  gennaio  la     zia  appoggiò  il  lavoro  sulla  sedia  e  lasciò  sola la nipote nel     cortile,  in mezzo al rigagnolo di foglie gialle cadute dai  mandorli.     Incoraggiato   dalla   supposizione   irriflessiva   che  fosse  stata     un'opportunità concertata,  Florentino Ariza attraversò la strada e si     piantò  di fronte a Fermina Daza,  e così vicino a lei da percepire le     crepe  del  suo  respiro  e  l'alito  floreale   con   cui   l'avrebbe     identificata per il resto della sua vita.  Le parlò a testa alta e con     una determinazione che avrebbe riavuto solo mezzo secolo dopo,  e  per     lo stesso motivo.
    «L'unica  cosa  che  le chiedo è di voler ricevere una mia lettera» le     disse.
    Non era la voce che Fermina Daza si aspettava da lui:  era  nitida,  e     con  una  padronanza che non aveva niente a che vedere con i suoi modi     languidi.  Senza allontanare lo sguardo dal ricamo,  gli rispose: «Non     posso  riceverla  senza  il  permesso di mio padre».  Florentino Ariza     sussultò per il calore di quella voce il cui timbro pacato non avrebbe     dimenticato per il resto della  sua  vita.  Ma  si  mantenne  saldo  e     replicò  immediatamente:  «Lo  ottenga».  Poi addolcì l'ordine con una     supplica: «E' una faccenda di vita o di morte».  Fermina Daza  non  lo     guardò,  non  interruppe il ricamo,  ma la sua decisione socchiuse una     porta in cui entrava tutto il mondo.
    «Torni tutti i pomeriggi» gli  disse,  «e  aspetti  che  io  cambi  di     sedia.»
    Florentino Ariza non capì che cosa intendeva dire fino al lunedì della     settimana  dopo  quando  vide dalla panchina del giardinetto la stessa     scena di sempre con una sola variante: quando la zia Escolástica entrò     in casa,  Fermina Daza si alzò e si mise a  sedere  sull'altra  sedia.
    Florentino   Ariza,   con   una  camelia  bianca  all'occhiello  della     finanziera,  allora attraversò la strada e si fermò di fronte  a  lei.     Disse: «Questa è l'occasione più grande della mia vita».  Fermina Daza     non alzò lo sguardo verso di lui finché non ebbe esaminato i  dintorni     con  un'occhiata circolare ed ebbe visto le strade deserte nel torpore     della siccità e un mulinello di foglie morte trascinate dal vento.
    «Me la dia» disse.
    Florentino Ariza aveva pensato di portarle i settanta fogli che a quel     punto poteva recitare a memoria da quanto li aveva letti,  ma  poi  si     era  deciso  per mezzo biglietto sobrio ed esplicito in cui prometteva     solo l'essenziale: la sua fedeltà in  tutta  regola  e  il  suo  amore     eterno.  Lo  tolse  dalla  tasca  interna  della  finanziera e lo mise     davanti agli occhi della ricamatrice afflitta che ancora  non  si  era     azzardata  a guardarlo.  Lei vide la busta azzurra tremare in una mano     impietrita di paura,  e sollevò il telaio perché lui  ci  mettesse  la     lettera, dato che non poteva ammettere che si notasse anche il tremito     delle  sue  dita.  Allora  successe:  un  uccello si agitò in mezzo al     fogliame dei mandorli e  la  sua  cagata  cadde  proprio  sul  ricamo.     Fermina Daza allontanò il telaio,  lo nascose dietro alla sedia perché     lui non si accorgesse di quanto era successo e lo guardò per la  prima     volta  con  il volto in fiamme.  Florentino Ariza,  impassibile con la     lettera in mano,  disse: «Porta bene».  Lei lo ringraziò col suo primo     sorriso e quasi gli strappò di mano la lettera,  la piegò e la nascose     nel  corpetto.   Lui  le  offrì  allora   la   camelia   che   portava     all'occhiello.  Lei  la  rifiutò: «E' un fiore da fidanzamento».  Poi,     sapendo che il tempo stava per finire,  si rifugiò di  nuovo  nel  suo     ritegno.
    «Adesso vada via» disse, «e non torni più finché non l'avviso.»     Quando  Florentino  Ariza l'aveva vista per la prima volta,  sua madre     l'aveva scoperto da prima che lui  glielo  raccontasse,  perché  aveva     perso  la parola e l'appetito e passava le notti in bianco a rigirarsi     nel letto.  Ma quando incominciò ad aspettare  la  risposta  alla  sua     prima  lettera  l'ansia  gli  si  complicò con diarree e vomiti verdi,     perse il senso dell'orientamento e soffrì di repentini  svenimenti,  e     sua  madre  si  terrorizzò  perché  il  suo  stato non assomigliava ai     disordini dell'amore ma ai danni del colera.  Il padrino di Florentino     Ariza,  un  vecchio  omeopata  che era stato il confidente di Tránsito     Ariza fin dai tempi in cui era un'amante nascosta,  si  allarmò  anche     lui  a  prima  vista  per  lo stato del malato,  perché aveva il polso     debole,  il respiro affannoso e i sudori  pallidi  dei  moribondi.  Ma     l'esame  rivelò  che non aveva febbre né dolore in nessuna parte e che     l'unica cosa concreta che sentiva era il bisogno  urgente  di  morire.     Gli  bastò un interrogatorio insidioso,  prima a lui e poi alla madre,     per comprovare una volta di più che  i  sintomi  dell'amore  sono  gli     stessi del colera.  Prescrisse infusi di fiori di tiglio per calmare i     nervi e suggerì un cambiamento d'aria per cercare  la  consolazione  a     distanza,  ma  quello  cui  anelava  Florentino  Ariza  era  tutto  il     contrario: godere del suo martirio.
    Tránsito Ariza era una meticcia libera con un istinto  della  felicità     perso  prematuramente  per la povertà e si compiaceva delle sofferenze     del figlio come se fossero sue.  Gli faceva bere gli infusi quando  lo     sentiva  delirare  e  lo  copriva  con coperte di lana per ingannare i     brividi,  ma nello stesso tempo gli  faceva  coraggio  per  consolarsi     nella sua prostrazione.
    «Approfitta adesso che sei giovane per soffrire tutto quello che puoi»     gli diceva, «perché queste cose non durano tutta la vita.»
    All'Ufficio  Postale  non  pensavano certo la stessa cosa.  Florentino     Ariza si era lasciato andare all'accidia ed era talmente distratto  da     confondere  le bandiere con cui annunciava l'arrivo della posta,  e un     mercoledì issava quella tedesca quando la nave che  era  arrivata  era     quella  della Compagnia Leyland con la posta di Liverpool,  e un altro     giorno issava quella degli Stati Uniti  quando  il  battello  che  era     arrivato  era  quello  della Compagnie Générale Transatlantique con la     posta di  Saint-Nazaire.  Quei  disordini  dell'amore  causavano  tali     scompigli nel reparto e provocavano tante proteste del pubblico che se     Florentino Ariza non si trovò senza lavoro fu perché Lotario Thugut lo     tenne  al  telegrafo  e  lo  portò a suonare il violino nel coro della     cattedrale. Avevano un legame difficile a capirsi per la differenza di     età,  dato che avrebbero potuto essere nonno  e  nipote,  ma  andavano     molto  d'accordo  sia  nel  lavoro sia negli alberghi del porto,  dove     andavano  a  finire  i  nottambuli,  senza  scrupoli  di  classe,  dai     mendicanti  ubriachi  ai  signorini vestiti da sera che scappavano via     dalle feste di gala del Club Social per  mangiare  "lebranche"  fritto     con riso di cocco. Lotario Thugut era solito andarsene da quelle parti     dopo  l'ultimo turno del telegrafo e spesso si fermava a bere ponce di     Giamaica e a suonare la fisarmonica con gli equipaggi di  matti  delle     golette delle Antille.  Era corpulento,  intartarughito, con una barba     dorata e un berretto grigio che si metteva per uscire la sera,  e  gli     mancava  solo  una  filza  di  campanule  per  essere identico a Babbo     Natale.  Almeno una volta alla settimana finiva con una  cometa  della     notte,  come  lui  le  chiamava,  tra  le molte che vendevano amori di     emergenza in una locanda per marinai. Quando conobbe Florentino Ariza,     la prima cosa che fece con un certo piacere da maestro fu di iniziarlo     ai segreti del suo paradiso.  Sceglieva per  lui  le  comete  che  gli     sembravano  migliori,  discuteva  con  loro  il  prezzo e il modo e si     offriva di pagare con denaro suo il servizio anticipato. Ma Florentino     Ariza non accettava: era vergine, e si era proposto di non smettere di     esserlo finché non fosse stato per amore.
    La locanda era un palazzo coloniale decaduto,  e i grandi saloni e  le     stanze  di marmo erano divisi in alcove di cartone con buchi di spilli     che si affittavano sia per  fare  che  per  guardare.  Si  parlava  di     curiosi cui avevano cavato un occhio con aghi per tessere, di un altro     che aveva riconosciuto la propria moglie in quella che stava spiando e     di  signori  di alto lignaggio che entravano mascherati da erbivendole     per sfogarsi con i nostromi di passaggio,  e di tanti altri  incidenti     di  spie  e spiati,  che solo l'idea di affacciarsi alla stanza vicina     risultava spaventosa a  Florentino  Ariza.  Così  Lotario  Thugut  non     riuscì  a persuaderlo che guardare e farsi guardare erano raffinatezze     da principe in Europa.
    Contrariamente a quanto faceva  credere  la  sua  corpulenza,  Lotario     Thugut  aveva  un  pisellino  da cherubino che sembrava un bocciolo di     rosa,  ma questo doveva essere un difetto fortunato perché  le  comete     più appannate si contendevano la fortuna di dormire con lui, e le loro     urla  da  sgozzate  scuotevano  i  contrafforti del palazzo e facevano     tremare di paura i suoi fantasmi.  Si diceva che usasse una pomata  al     veleno  di vipera che infiammava la sella turcica delle donne,  ma lui     giurava di non avere risorse diverse da quelle che Dio gli aveva dato.     Morto dal ridere diceva: «E' puro amore». Dovettero passare molti anni     perché Florentino Ariza  capisse  che  forse  lo  diceva  con  qualche     ragione.  Finì  per  convincersene  in un tempo più avanzato della sua     educazione sentimentale,  quando conobbe un uomo che si concedeva  una     vita  da  re  sfruttando  tre  donne  contemporaneamente.  Le  tre gli     rendevano conto all'alba, umiliate ai suoi piedi per farsi perdonare i     loro incassi esigui, e l'unica gratificazione che desideravano era che     lui andasse a letto con quella che gli portava più denaro.  Florentino     Ariza  pensava  che  solo  il  terrore  potesse  indurre  a una simile     indegnità.   Tuttavia,   una  delle  tre  ragazze  lo  aveva  sorpreso     contraddicendolo.
    «Queste cose» gli aveva detto, «si possono fare solo per amore.»     Non  era  stato  tanto  per le sue virtù di fornicatore quanto per sua     grazia personale che Lotario Thugut era  arrivato  a  essere  uno  dei     clienti più apprezzati della locanda. Florentino Ariza, col suo essere     così  silenzioso  e  schivo,  si era guadagnato anche lui la stima del     padrone,  e nell'epoca più ardua delle sue pene era solito chiudersi a     leggere  versi  e  romanzi  d'appendice  lacrimevoli  nelle  stanzette     soffocanti,  e i suoi sogni lasciavano  nidi  di  oscure  rondini  sui     balconi  e  rumori  di  baci e battiti d'ali nei marasmi della siesta.     All'imbrunire, quando il caldo diminuiva,  era impossibile non sentire     i  discorsi degli uomini che venivano a sfogarsi della giornata con un     amore di fretta.  Così Florentino Ariza veniva a conoscenza  di  molte     slealtà  e anche di qualche segreto di stato che i clienti importanti,     e perfino le autorità locali,  confidavano alle loro  amanti  effimere     senza stare attenti che non li sentissero nelle stanze vicine. Fu così     che  venne  a  sapere  che  a quattro leghe marine a nord di Sotavento     giaceva affondato dal diciassettesimo secolo un galeone  spagnolo  con     un  carico  di  più  di cinquecentomila milioni di pesos in oro puro e     pietre preziose.  Il racconto lo spaventò ma non  ci  ripensò  fino  a     qualche  mese  dopo,  quando  la sua follia amorosa gli fece venire la     voglia di recuperare la fortuna sommersa perché Fermina  Daza  potesse     bagnarsi in piscine d'oro.
    Anni dopo, quando cercava di ricordare come fosse in realtà la ragazza     idealizzata  con l'alchimia della poesia,  non riusciva a distinguerla     dai tramonti lacerati di quei tempi.  Anche  quando  la  spiava  senza     essere  visto,  in  quei  giorni di ansia in cui aspettava la risposta     alla sua prima lettera, la vedeva trasfigurata nel riverbero delle due     del pomeriggio sotto la pioggerellina di fiori dei  mandorli,  dov'era     sempre  aprile  in  qualsiasi tempo dell'anno.  L'unico motivo per cui     allora gli interessava accompagnare con il violino Lotario Thugut  nel     belvedere privilegiato del coro, era per vedere come ondeggiava la sua     veste  con  la brezza dei cantici.  Ma proprio il suo delirio finì per     rovinargli il piacere, perché la musica mistica risultava così innocua     allo stato della sua anima che  cercava  di  infervorarla  con  valzer     d'amore,  e  Lotario  Thugut fu costretto a mandarlo via dal coro.  Fu     quella l'epoca in cui cedette alle voglie di mangiarsi le gardenie che     Tránsito Ariza coltivava negli angoli del  patio,  e  in  questo  modo     conobbe  il sapore di Fermina Daza.  Fu anche l'epoca in cui trovò per     caso in un baule di sua  madre  un  flacone  da  litro  dell'acqua  di     colonia che vendevano di contrabbando i marinai della Hamburg American     Line e non resistette alla tentazione di assaggiarla in cerca di altri     sapori  della donna amata.  Continuò a bere dal flacone fino all'alba,     ubriacandosi di Fermina Daza con sorsi abrasivi,  prima nelle  locande     del  porto  e poi assorto sul mare dalle scogliere dove facevano amori     di  consolazione  gli  innamorati  senza  tetto,   fino  a  soccombere     all'incoscienza.  Tránsito Ariza, che lo aveva aspettato fino alle sei     di mattina con l'anima ridotta a un filo, lo cercò nei nascondigli più     impensati,  e poco dopo mezzogiorno lo trovò che si  rotolava  in  una     pozza  di  vomito  fragrante  in  un angolo della baia dove andavano a     finire gli affogati.
    Approfittò della pausa della convalescenza per  rimproverarlo  per  la     passività con cui aspettava la risposta alla lettera.  Gli ricordò che     i deboli non sarebbero mai entrati nel  regno  dell'amore,  che  è  un     regno  inclemente  e  meschino,  e che le donne si concedono solo agli     uomini di animo coraggioso perché gli infondono la sicurezza che tanto     desiderano per affrontare la vita.  Florentino Ariza imparò la lezione     forse più del dovuto. Tránsito Ariza non poté nascondere un sentimento     d'orgoglio, più concupiscente che materno, quando lo vide uscire dalla     merceria  con  il vestito di panno nero,  il cappello duro e il fiocco     lirico nel colletto di celluloide, e gli chiese per scherzo se andasse     a un funerale.  Lui rispose con le orecchie in fiamme:  «E'  quasi  la     stessa cosa». Lei si rese conto che a stento respirava di paura, ma la     sua determinazione era invincibile.  Gli fece gli avvertimenti finali,     gli diede la benedizione e  morta  dal  ridere  gli  promise  un'altra     bottiglia di acqua di colonia per celebrare insieme la conquista.     Da  quando  aveva  consegnato la lettera,  un mese prima,  aveva rotto     spesso la promessa di non tornare al giardinetto,  ma era stato  molto     attento a non farsi vedere. Tutto continuava come prima. La lezione di     lettura sotto gli alberi finiva verso le due del pomeriggio, quando la     città si svegliava dalla siesta,  e Fermina Daza continuava a ricamare     con la zia fino a quando diminuiva  il  caldo.  Florentino  Ariza  non     aspettò  che  la  zia  entrasse in casa e attraversò la strada con dei     passi marziali che gli permisero di superare lo  scoraggiamento  delle     ginocchia. Ma non si rivolse a Fermina Daza, bensì alla zia.     «Mi faccia il favore di lasciarmi solo un momento con la signorina» le     disse, «ho qualcosa di importante da dirle.»
    «Sfacciato!» gli disse la zia. «Non c'è niente di lei che io non possa     sentire.»
    «Allora  non  glielo  dico»  disse lui,  «ma l'avverto che lei sarà la     responsabile di quello che succederà.»
    Non era il modo  che  Escolástica  Daza  si  aspettava  dal  fidanzato     ideale,  ma  si  alzò  spaventata  perché  per  la  prima  volta  ebbe     l'impressione sorprendente che Florentino Ariza  stesse  parlando  per     ispirazione  dello Spirito Santo.  Cosicché entrò in casa per cambiare     gli aghi e lasciò soli i due giovani sotto i mandorli del cortile.     In realtà era molto poco  quello  che  sapeva  Fermina  Daza  di  quel     pretendente  taciturno che era apparso nella sua vita come una rondine     d'inverno e di cui non avrebbe conosciuto neanche il nome se non fosse     stato per la firma della lettera.  Aveva scoperto allora  che  era  il     figlio senza padre di una zitella laboriosa e seria,  ma segnata senza     rimedio dal marchio di fuoco  di  un  unico  errore  giovanile.  Aveva     saputo che non era un fattorino del telegrafo,  come lei supponeva, ma     un assistente ben qualificato  con  un  futuro  promettente,  e  aveva     pensato  che  avesse  portato  il  telegramma  a  suo  padre solo come     pretesto per vedere lei. Questa ipotesi la commosse.  Sapeva anche che     era uno dei musicisti del coro, e anche se non si era mai azzardata ad     alzare lo sguardo per verificarlo durante la messa, una domenica aveva     avuto  la  rivelazione  che  mentre  gli altri strumenti suonavano per     tutti,  il violino suonava solo per lei.  Non era il tipo di uomo  che     avrebbe  scelto.  I  suoi  occhialini  da  trovatello,  il  suo  abito     clericale,   le  sue  risorse  misteriose  le  avevano  suscitato  una     curiosità  difficile a resistersi,  ma non aveva mai immaginato che la     curiosità fosse un'altra delle tante insidie dell'amore.
    Lei stessa non si spiegava perché avesse accettato la lettera.  Non se     lo  rimproverava,  ma  l'impegno  sempre  più  incalzante  di dare una     risposta si era trasformato per lei in un  impiccio  da  vivere.  Ogni     parola di suo padre, ogni sguardo casuale, i suoi gesti più volgari le     sembravano seminati di trappole per scoprire il suo segreto.  Era tale     il suo stato d'allarme che evitava di parlare a tavola per  paura  che     una  disattenzione  potesse  denunciarla,  ed  era  diventata  evasiva     perfino con la zia Escolástica,  nonostante questa  dividesse  la  sua     ansia  repressa  come  se  fosse  la  propria.  Si chiudeva in bagno a     qualsiasi ora,  senza necessità,  e rileggeva la lettera  cercando  di     scoprire  un  codice segreto,  una formula magica nascosta in qualcuna     delle trecentoquattordici lettere delle sue cinquantotto  parole,  con     la  speranza  che  dicessero  più  di quel che dicevano.  Ma non aveva     trovato niente di più di quello che aveva capito alla  prima  lettura,     quando  era  corsa  a  chiudersi  in bagno col cuore impazzito e aveva     strappato la busta con l'illusione  che  fosse  una  lettera  lunga  e     febbrile,   e  aveva  trovato  solo  un  biglietto  profumato  la  cui     determinazione l'aveva impaurita.
    All'inizio non aveva pensato sul serio di essere obbligata a dare  una     risposta,  ma  la  lettera  era  così  esplicita che non c'era modo di     evitarlo.  Frattanto,  nella tormenta dei dubbi,  si  era  sorpresa  a     pensare  a  Florentino  Ariza più spesso e con più interesse di quanto     volesse permettersi, e si chiedeva perfino,  afflitta,  perché non era     nel giardinetto alla solita ora,  senza ricordarsi che era lei che gli     aveva chiesto di non tornare finché pensava la  risposta.  Così  aveva     finito per pensare a lui come non si era mai immaginata che si potesse     pensare  a qualcuno,  presagendolo dove non stava,  desiderandolo dove     non poteva essere,  svegliandosi  improvvisamente  con  la  sensazione     fisica  che  lui  la  contemplasse  nell'oscurità  mentre lei dormiva,     cosicché il pomeriggio in cui sentì i suoi passi decisi sul  rigagnolo     di  foglie gialle del giardinetto,  a stento credette che non fosse un     altro scherzo della sua  fantasia.  Ma  quando  lui  le  sollecitò  la     risposta  con un'autorità che non aveva niente a che vedere con la sua     delicatezza,  lei riuscì a superare la paura e cercò di sottrarsi alla     verità: non sapeva cosa rispondergli.  Tuttavia,  Florentino Ariza non     aveva superato un abisso per spaventarsi con gli  altri  che  venivano     dopo.
    «Se  ha  accettato  la  lettera»  le disse,  «è cattiva educazione non     rispondere.»
    Questa fu la fine del labirinto. Fermina Daza, padrona di sé, si scusò     per il ritardo e gli diede la sua parola formale che avrebbe avuto una     risposta prima della fine delle vacanze.
    Fu di parola.  L'ultimo venerdì di febbraio,  tre giorni  prima  della     riapertura   delle   scuole,   la  zia  Escolástica  andò  all'ufficio     telegrafico a chiedere quanto costava un telegramma per  il  villaggio     di Piedras de Moler,  che neanche compariva nell'elenco dei servizi, e     si fece servire da Florentino Ariza come se non si fossero mai  visti,     ma  uscendo  finse  di  dimenticare sul banco un breviario rilegato in     pelle di lucertola dentro al quale c'era una busta di carta di lino  a     disegni dorati.  Frastornato dalla felicità, Florentino Ariza passò il     resto  del  pomeriggio  a  mangiare  rose  e  a  leggere  la   missiva     ripassandola lettera per lettera più volte e mangiando più rose quanto     più  la  leggeva,  e a mezzanotte l'aveva letta tanto e aveva mangiato     tante rose che sua madre dovette atterrarlo come un vitello per fargli     ingoiare un decotto di olio di ricino.
    Fu l'anno dell'innamoramento accanito.  Né lui né lei avevano vita per     niente  che  non  fosse  pensare all'altro,  per sognare l'altro,  per     aspettare le lettere con tanta ansia quanta ne avevano nel rispondere.     Mai in quella primavera di delirio,  né l'anno dopo,  ebbero occasione     di  parlarsi direttamente a voce.  Ma ancora: da quando si erano visti     per la prima volta fino a quando lui le ripeté la  sua  determinazione     mezzo secolo dopo,  non avevano mai avuto un'opportunità di vedersi da     soli né di parlare del loro amore.  Ma nei primi tre mesi non passò un     solo giorno senza che si scrivessero,  e in un certo momento anche due     volte al giorno, finché la zia Escolástica si spaventò per la voracità     del falò che lei stessa aveva aiutato ad accendere.
    Dopo la prima lettera, che aveva portato all'ufficio del telegrafo con     uno scrupolo di vendetta contro la propria sorte,  aveva  permesso  lo     scambio  di  messaggi  quasi  quotidiani in incontri per la strada che     sembravano casuali,  ma non aveva avuto il coraggio  di  favorire  una     conversazione, per banale e momentanea che fosse. Dopo tre mesi, però,     capì  che  la  nipote non era alla mercé di una stravaganza giovanile,     come le era  sembrato  all'inizio,  e  che  la  sua  stessa  vita  era     minacciata  da quell'incendio d'amore.  In verità Escolástica Daza non     aveva altro modo di sussistenza che la carità del  fratello  e  sapeva     che  il suo carattere tirannico non le avrebbe mai perdonato un simile     scherzo ai danni della sua fiducia.  Ma  al  momento  della  decisione     finale  non  ebbe  cuore di provocare alla nipote lo stesso infortunio     irreparabile che aveva dovuto  pascolare  fin  dalla  gioventù,  e  le     permise  di  servirsi  di  una risorsa che le lasciava un'illusione di     innocenza.  Fu un metodo semplice: Fermina Daza metteva la sua lettera     in  qualche  nascondiglio  del  percorso  quotidiano  fra la casa e la     scuola e in quella stessa lettera indicava a Florentino Ariza dove  si     aspettava  di  trovare la risposta.  Florentino Ariza faceva la stessa     cosa.  In questo modo i conflitti di coscienza della  zia  Escolástica     furono  demandati  per  il resto dell'anno ai battisteri delle chiese,     alle cavità degli alberi,  alle  crepe  delle  fortezze  coloniali  in     rovina.  Certe volte trovavano le lettere bagnate di pioggia,  sporche     di fango,  lacerate dalle avversità,  e qualcuna andò persa  per  vari     motivi, ma trovarono sempre il modo per riannodare il contatto.     Florentino  Ariza scriveva tutte le notti senza pietà neanche nei suoi     stessi confronti,  avvelenandosi lettera dopo lettera col  fumo  delle     lampade a olio di palma nel retro della merceria,  e le sue lettere si     facevano sempre più lunghe e  lunatiche  quanto  più  si  sforzava  di     imitare  i  suoi poeti preferiti della Biblioteca Popolare,  che già a     quell'epoca arrivava intorno agli ottanta volumi.  Sua madre,  che con     tanto ardore lo aveva incitato a svagarsi nel suo tormento, incominciò     ad  allarmarsi  per  la  sua  salute.  «Ti  rovinerai il cervello» gli     gridava dalla camera da letto quando sentiva cantare  i  primi  galli.
    «Non  esiste  donna  che  meriti  tanto.» Perché non ricordava di aver     conosciuto nessuno in simile stato di perdizione.  Ma lui non le  dava     retta.  A volte arrivava in ufficio senza aver dormito,  con i capelli     ingarbugliati d'amore,  dopo aver lasciato la lettera nel nascondiglio     previsto  perché  Fermina  Daza  la  trovasse  andando a scuola.  Lei,     invece,  sottoposta alla vigilanza del padre e allo spionaggio vizioso     delle  monache,  riusciva  a  malapena  a  completare mezzo foglio del     quaderno di scuola chiusa  nei  bagni  o  facendo  finta  di  prendere     appunti  durante le lezioni.  Ma non solo per la fretta e gli spaventi     improvvisi, bensì anche per il suo carattere, le sue lettere eludevano     qualsiasi scoglio sentimentale e  si  riducevano  a  raccontare  fatti     della  sua  vita  quotidiana con lo stile servizievole di un diario di     navigazione.  In realtà erano  lettere  di  distrazione,  destinate  a     tenere  vive  le  braci  ma  senza  mettere la mano nel fuoco,  mentre     Florentino Ariza si inceneriva a ogni riga. Ansioso di contagiarla con     la sua stessa follia,  le mandava versi da miniaturista incisi con  la     punta  di  uno  spillo sui petali delle camelie.  Fu lui e non lei che     ebbe l'audacia di mettere una ciocca dei suoi  capelli  dentro  a  una     lettera,  ma non ricevette mai la risposta desiderata, che era un filo     completo della treccia di Fermina Daza.  Riuscì quantomeno a  fare  un     passo avanti, perché da allora lei incominciò a mandargli nervature di     foglie  seccate  nei  dizionari,  ali  di  farfalla,  piume di uccelli     magici,  e  gli  regalò  per  il  compleanno  un  centimetro  quadrato     dell'abito  di  San  Pedro  Claver,  di  quelli  che in quei giorni si     vendevano di nascosto a un  prezzo  irraggiungibile  per  una  scolara     della sua età.  Una notte,  senza nessun preannuncio,  Fermina Daza si     svegliò spaventata da una serenata di violino solo con un  a  solo  di     valzer.  La  fece  trasalire  la chiaroveggenza che ogni nota fosse un     ringraziamento per i petali  dei  suoi  erbari,  per  i  tempi  rubati     all'aritmetica  per  scrivere  le  sue lettere,  per lo spavento degli     esami fatti pensando più a lui che alle Scienze Naturali,  ma non  osò     credere che Florentino Ariza fosse capace di una simile imprudenza.     La mattina dopo, durante la prima colazione, Lorenzo Daza non riusciva     a  resistere  alla curiosità.  Innanzitutto perché non sapeva che cosa     significasse un solo pezzo nel linguaggio delle serenate, e poi perché     nonostante l'attenzione con cui l'aveva ascoltata non era  riuscito  a     determinare  in  quale  casa fosse stata.  La zia Escolástica,  con un     sangue freddo che ridiede fiato alla nipote,  assicurò di  aver  visto     attraverso  le  tendine  della  camera  da  letto  che  il  violinista     solitario era dall'altro lato del giardino e disse che in ogni caso un     a solo era una notifica di rottura.  Nella sua lettera di quel giorno,     Florentino  Ariza  confermò di essere stato lui a fare la serenata,  e     che il valzer era stato composto da lui e che era  intitolato  con  il     nome   con   cui  conosceva  Fermina  Daza  nel  suo  cuore:  "La  Dea     Incoronata".  Non lo risuonò nel giardino,  ma  era  solito  eseguirlo     nelle  notti  di  luna  in  luoghi  scelti  di proposito perché lei lo     ascoltasse senza soprassalti nel letto.  Uno dei suoi luoghi preferiti     era  il  cimitero  dei  poveri,  esposto al sole e alla pioggia su una     collina indigente  dove  dormivano  gli  avvoltoi  e  dove  la  musica     prendeva  risonanze  soprannaturali.  Più  tardi imparò a conoscere la     direzione dei venti e così fu sicuro che la sua  voce  arrivasse  dove     voleva.
    Nell'agosto  di  quell'anno  una  nuova  guerra civile delle tante che     rovinavano il paese da più di mezzo secolo minacciò di  generalizzarsi     e  il  governo  impose  la legge marziale e il coprifuoco alle sei del     pomeriggio negli stati del litorale del Caribe.  Anche  se  erano  già     successi  alcuni disordini e la truppa commetteva ogni genere di abusi     punitivi,  Florentino Ariza continuava a essere così perplesso che non     aveva  notizie  dello  stato  del  mondo,  e una pattuglia militare lo     sorprese un'alba  a  perturbare  la  castità  dei  morti  con  le  sue     provocazioni  d'amore.  Sfuggì  per  miracolo a un'esecuzione sommaria     sotto l'accusa di essere una spia che mandava messaggi  in  chiave  di     sol ai battelli liberali che giravano nelle vicinanze.
    «Che spia e che cazzo» disse Florentino Ariza,  «io non sono altro che     un povero innamorato.»
    Dormì  tre  notti  incatenato  alle  caviglie  nelle  prigioni   della     guarnigione locale.  Ma quando lo liberarono si sentì defraudato dalla     brevità della prigionia, e ancora ai tempi della sua vecchiaia, quando     tante altre guerre gli si confondevano  nella  memoria,  continuava  a     pensare  di essere stato l'unico uomo della città,  e forse del paese,     ad aver trascinato ceppi da cinque libbre per motivi amorosi.     Stavano per compiersi due anni di scambi frenetici di  lettere  quando
    Florentino  Ariza,  in una lettera di un solo periodo,  fece a Fermina     Daza la proposta formale di matrimonio.  Nei sei  mesi  precedenti  le     aveva mandato spesso una camelia bianca, ma lei gliela rimandava nella     lettera  successiva,  perché  non  dubitasse  che  lei  era disposta a     continuare a scrivergli, ma senza l'obbligo di un impegno. La verità è     che  aveva  sempre  preso  l'andirivieni   della   camelia   come   un     divertimento amoroso, e non le era mai successo di prospettarselo come     un  bivio  del  suo  destino.  Ma quando arrivò la proposta formale si     sentì straziata dal primo graffio della morte.  In preda al panico  lo     raccontò  alla  zia  Escolástica,  e  lei  prese  la  decisione con il     coraggio e la lucidità che non aveva avuto a vent'anni quando  si  era     vista forzata a decidere sulla propria sorte.
    «Rispondigli di sì» le disse.  «Anche se stai morendo di paura,  anche     se dopo te ne pentirai,  perché comunque ti pentirai per tutta la vita     se gli rispondi di no.»
    Fermina Daza,  però,  era tanto confusa che chiese un po' di tempo per     pensarci.  Chiese prima un mese,  poi un altro e un  altro  ancora,  e     quando  fu scaduto il quarto mese senza risposta ricevette di nuovo la     camelia bianca, ma non sola dentro la busta come le altre volte, bensì     con l'intimazione perentoria che questa era l'ultima: o adesso  o  mai     più.  Allora  fu Florentino Ariza a vedere in faccia la morte,  quello     stesso pomeriggio,  quando ricevette una busta  con  una  striscia  di     carta  strappata  dal  margine  di  un  quaderno  di scuola,  e con la     risposta scritta a matita su una sola riga: "Va bene, mi sposo con lei     se mi promette che non mi farà mangiare melanzane".
    Florentino Ariza non era preparato a quella risposta, ma sua madre sì.     Da quando lui le aveva parlato per la prima volta della sua intenzione     di sposarsi,  sei mesi prima,  Tránsito Ariza  aveva  incominciato  le     pratiche per affittare tutta la casa che finora divideva con altre due     famiglie. Era una costruzione civile del diciassettesimo secolo, a due     piani, dove c'era stato l'Estanco del Tabaco sotto il dominio spagnolo     e  i  cui  proprietari  rovinati avevano dovuto affittarla a pezzi per     mancanza di fondi per mantenerla.  Aveva  una  parte  che  dava  sulla     strada,  laddove  c'era  stata la rivendita,  un'altra nel fondo di un     patio lastricato dove c'era stata la fabbrica  e  una  scuderia  molto     grande  che  gli  attuali  inquilini  usavano  in comune per lavare la     biancheria e stenderla ad asciugare.  Tránsito Ariza occupava la prima     parte,  che era la più utile e la meglio conservata benché fosse anche
    la più piccola.  Nell'antica sala di rivendita c'era la merceria,  con     una  porta  sulla  strada,  e a fianco il vecchio deposito senza altra     ventilazione che un lucernario, dove dormiva Tránsito Ariza.  Il retro     era  la  metà  della sala,  divisa mediante un paravento di legno.  Lì     c'era un tavolo con quattro sedie che serviva  contemporaneamente  per     mangiare  e  per  scrivere,  ed era lì dove Florentino Ariza attaccava     l'amaca quando l'alba non lo sorprendeva ancora  intento  a  scrivere.     Era uno spazio buono per loro due, ma insufficiente per una persona in     più,  e  tantomeno per una signorina del Colegio de la Presentación de     la Santísima Virgen,  il cui  padre  aveva  restaurato  fino  a  farla     ridiventare  come  nuova  una  casa in rovina,  mentre le famiglie con     sette nomi andavano a letto con il terrore che i tetti delle case  gli     cadessero  addosso durante il sonno.  Di modo che Tránsito Ariza aveva     ottenuto che il proprietario  le  permettesse  di  occupare  anche  il     portico del patio,  a condizione che mantenesse la casa in buono stato     per cinque anni.
    Aveva soldi per farlo.  A parte le entrate reali della merceria e  dei     lacci  emostatici,  che  le sarebbero bastate per la sua vita modesta,     aveva moltiplicato i risparmi prestandoli a  una  clientela  di  nuovi     poveri  vergognosi  che  accettavano i suoi interessi eccessivi per la     sua  discrezione.  Signore  con  l'aria  da  regine  scendevano  dalle     carrozze  alla  porta  della  merceria,  senza  nutrici  né  domestici     scomodi,  e fingendo di comprare merletti  olandesi  e  cordoncini  di     passamaneria  impegnavano  tra  un  singhiozzo  e  l'altro  gli ultimi     orpelli del loro paradiso perduto. Tránsito Ariza le toglieva dai guai     con tanta considerazione per  il  loro  lignaggio,  che  molte  se  ne     andavano  più  riconoscenti per l'onore che per il favore.  In meno di     dieci anni conosceva come se fossero stati suoi i gioielli tante volte     riscattati  e  di  nuovo  impegnati  tra  le  lacrime,  e  i  guadagni     convertiti  in oro legale erano sotterrati in un'anfora sotto il letto     quando il figlio prese la decisione di sposarsi.  Allora fece i conti,     e  scoprì  che  non  solo  poteva  tenere in piedi la casa d'altri per     cinque anni, ma con la stessa astuzia e un po' più di fortuna forse la     poteva comprare prima di morire per i  dodici  nipoti  che  desiderava     avere.  Florentino  Ariza,  da  parte  sua,  era  stato nominato primo     aiutante del telegrafo, ad interim,  e Lotario Thugut era intenzionato     a  lasciarlo  come  capufficio quando se ne fosse andato a dirigere la     Scuola di Telegrafia e Magnetismo, prevista per l'anno dopo.
    Così,  il lato pratico del matrimonio era risolto.  Tuttavia  Tránsito     Ariza  credette che fossero prudenti due condizioni finali.  La prima,     verificare chi fosse in  realtà  Lorenzo  Daza,  il  cui  accento  non     lasciava dubbi sulla sua origine ma della cui identità e dei cui mezzi     di  vita  nessuno  aveva  informazioni  certe.   La  seconda,  che  il     fidanzamento fosse lungo perché i fidanzati si  conoscessero  a  fondo     per  il  comportamento  personale  e  che  si  mantenesse  la  massima     discrezione finché tutti e due si fossero sentiti sicurissimi dei loro     affetti. Suggerì di aspettare fino alla fine della guerra.  Florentino     Ariza  fu  d'accordo  sul segreto assoluto,  sia per le ragioni di sua     madre  sia  per  l'ermetismo  proprio  del  suo  carattere.  Fu  anche     d'accordo  sulla durata del fidanzamento,  ma i termini gli sembravano     irreali dato che in più di mezzo secolo di vita indipendente non c'era     stato nel paese neanche un giorno di pace civile.
    «Diventeremo vecchi a furia di aspettare» disse.
    Il  suo  padrino,   l'omeopata,   che  partecipava   per   caso   alla     conversazione,  non  credeva  che  le guerre fossero un inconveniente.     Pensava che fossero solo battaglie di poveri frustati  come  buoi  dai     signori della guerra contro soldati scalzi frustati dal governo.     «La guerra è più su» disse.  «Da quando io sono io, nelle città non ci     uccidono a colpi d'arma da fuoco ma con i decreti.»
    In ogni modo,  i particolari del fidanzamento  vennero  risolti  nelle     lettere  della  settimana  dopo.  Fermina Daza,  consigliata dalla zia     Escolástica, accettò il termine di due anni e il suo assoluto riserbo,     e suggerì che Florentino Ariza chiedesse la sua mano quando lei avesse     ultimato la scuola secondaria  durante  le  vacanze  di  Natale.  Solo     allora  si sarebbero accordati sul modo di formalizzare il compromesso     secondo il gradimento che  lei  avesse  ottenuto  da  suo  padre.  Nel     frattempo  continuarono  a  scriversi con lo stesso ardore e la stessa     frequenza ma senza i timori improvvisi di prima, e le lettere a poco a     poco deviarono verso un tono familiare che già sembrava  da  marito  e     moglie. Nulla turbava i loro sogni.
    La  vita  di  Florentino  Ariza era cambiata.  L'amore corrisposto gli     aveva dato una sicurezza e una forza che non aveva mai  conosciuto  ed     era stato così efficiente nel lavoro che Lotario Thugut aveva ottenuto     senza sforzo che lo nominassero ovviamente suo secondo. Per adesso, il     progetto  della  Scuola  di  Telegrafia e Magnetismo era caduto,  e il     tedesco consacrò il suo tempo libero all'unica cosa che in realtà  gli     piaceva,  che  era  andarsene al porto a suonare la fisarmonica e bere     birra con i marinai,  e tutto finiva nella  locanda.  Passò  parecchio     tempo  prima che Florentino Ariza si rendesse conto che l'influenza di     Lotario Thugut in quel luogo di piacere era dovuta al fatto che  aveva     finito per diventare il padrone dell'impianto, e per di più impresario     delle comete del porto.  Lo aveva comprato poco alla volta, con i suoi     risparmi di parecchi anni,  ma chi faceva il prestanome per lui era un     omino magro e storto con una testa da spazzolino e un cuore così buono     che  nessuno  capiva  come potesse essere un così buon gerente.  Ma lo     era.  Almeno così pareva a Florentino Ariza,  quando  il  gerente  gli     disse,  senza  che  lui glielo chiedesse,  che disponeva di una stanza     permanente nella locanda,  non solo per risolvere i problemi del basso     ventre,  quando  si  fosse  deciso ad averli,  ma anche perché potesse     disporre di un luogo più tranquillo  per  le  sue  letture  e  le  sue     lettere  d'amore.   Così,  mentre  trascorrevano  i  lunghi  mesi  che     mancavano alla formalizzazione del compromesso, passò più tempo lì che     in ufficio e a casa sua, e ci furono periodi in cui Tránsito Ariza non     lo vide se non quando andava a cambiarsi d'abito.
    La lettura si trasformò per lui in un vizio insaziabile. Da quando gli     aveva insegnato a leggere,  sua madre gli comprava i libri  illustrati     degli autori nordici,  che si vendevano come favole per bambini ma che     in realtà erano i più crudeli e perversi che si  potessero  leggere  a     qualsiasi  età.  Florentino Ariza li recitava a memoria a cinque anni,     sia durante le lezioni sia  nelle  feste  della  scuola,  ma  la  loro     familiarità non lo aveva sollevato dal terrore.  Anzi,  lo acutizzava.     Da lì,  il passo alla poesia era stato come  un  ristagno.  Già  nella     pubertà  aveva consumato in ordine di apparizione tutti i volumi della     Biblioteca  Popolare  che  Tránsito  Ariza  gli  comprava  dai  librai     d'occasione del Portal de los Escribanos,  e nei quali c'era di tutto,     da Omero al meno meritevole  dei  poeti  locali.  Ma  lui  non  faceva     distinzione:  leggeva  il volume che era arrivato,  come un ordine del     destino,  e non gli bastarono tutti i suoi anni di letture per  sapere     cosa  era  buono e cosa non lo era nel molto che aveva letto.  L'unica     chiarezza che aveva era che fra la prosa e i versi preferiva i  versi,     e  fra  questi preferiva quelli d'amore,  che imparava a memoria anche     senza proporselo dalla seconda volta che li  leggeva,  con  tanta  più     facilità  quanto  meglio  rimati  e  misurati  e quanto più struggenti     erano.
    Era stata questa la fonte originale  delle  prime  lettere  a  Fermina     Daza,   nelle  quali  apparivano  lunghe  conversazioni  confidenziali     integrali dei romantici spagnoli,  e lo era stata finché la vita reale     lo  aveva  obbligato a occuparsi di argomenti più terrestri dei dolori     del cuore.  Già allora aveva fatto un passo  avanti  verso  i  romanzi     d'appendice  lacrimevoli  e  altre  prose  ancora  più profane del suo     tempo. Aveva imparato a piangere con sua madre leggendo i poeti locali     che si vendevano nelle piazze  e  sulle  porte  su  foglietti  da  due     centesimi.  Ma  al  tempo  stesso  era capace di recitare a memoria la     poesia castigliana più scelta del Secolo d'Oro.  In  generale  leggeva     tutto  quello  che  gli  capitava fra le mani e nell'ordine in cui gli     capitava,  fino all'estremo che molto dopo di quei duri anni  del  suo     primo amore,  quando non era più giovane,  doveva ancora leggere dalla     prima all'ultima pagina i venti  tomi  del  "Tesoro  della  Gioventù",     tutto  il catalogo dei classici dei Fratelli Garnier,  tradotti,  e le
    opere più facili  che  pubblicava  don  Vicente  Blasco  Ibanez  nella     collezione "Prometeo".
    Comunque,  le  sue  gesta giovanili alla locanda non si ridussero alla     lettura e alla redazione di  lettere  febbrili  ma  lo  iniziarono  ai     segreti  dell'amore senza amore.  La vita della casa incominciava dopo     mezzogiorno,  quando le sue amiche comete si  alzavano  come  le  loro     madri  le  avevano  partorite,  in  modo  che  quando Florentino Ariza     arrivava dal lavoro trovava un palazzo popolato da ninfe nude, intente     a commentare a gridolini,  i segreti della città conosciuti attraverso     le  infedeltà  degli  stessi protagonisti.  Molte esibivano nelle loro     nudità le tracce del  passato:  cicatrici  di  pugnalate  nel  ventre,     stelle  di  ferite  d'arma  da  fuoco,  solchi  di coltellate d'amore,     cuciture di parti cesarei da macellai.  Qualcuna durante il giorno  si     faceva  portare  i  figli piccoli,  frutti sfortunati di dispetti o di     disattenzioni  giovanili,  e  gli  toglievano  i  vestiti  non  appena     entravano  perché non si sentissero diversi nel paradiso della nudità.     Ognuna cucinava il suo,  e nessuno mangiava meglio di Florentino Ariza     quando  lo  invitavano  perché sceglieva il meglio di ognuna.  Era una     festa quotidiana che durava fino al tramonto, quando le nude sfilavano     cantando verso i bagni,  si  chiedevano  in  prestito  il  sapone,  lo     spazzolino  da  denti,  le forbici,  si tagliavano i capelli l'una con     l'altra,  si vestivano con  i  vestiti  che  si  erano  scambiati,  si     dipingevano  come  lugubri  pagliacci  e uscivano in caccia delle loro     prime prede della serata. A partire da quel momento la vita della casa     diventava impersonale, disumanizzata,  ed era impossibile condividerla     senza pagare.
    Non c'era un luogo dove Florentino Ariza stesse meglio da quando aveva     conosciuto Fermina Daza,  perché era l'unico dove non si sentiva solo.     Anzi: aveva finito per essere l'unico dove si sentiva con  lei.  Forse     era  per  gli  stessi  motivi  che  viveva  lì  una donna più vecchia,     elegante,  con una bella testa argentata,  che non  partecipava  della     vita  naturale  delle  nude,   e  nei  confronti  della  quale  queste     professavano un rispetto sacramentale.  Un fidanzato prematuro l'aveva     portata  lì  quando  era giovane,  e dopo averla sfruttata per qualche     anno l'aveva abbandonata alla sua sorte.  Tuttavia,  nonostante la sua     cattiva  reputazione,  era  riuscita a fare un buon matrimonio.  Ormai     molto più vecchia, quando era rimasta sola,  due figli e tre figlie si     erano  contesi il piacere di portarla a vivere con loro,  ma non aveva     trovato un luogo più degno per vivere  di  quella  locanda  di  tenere     impenitenti.  La sua stanza permanente era la sua unica casa, e questo     fatto l'aveva immediatamente resa identica  a  Florentino  Ariza,  del     quale  diceva  che  sarebbe  arrivato a essere un saggio conosciuto in     tutto il mondo perché era capace di arricchire la  sua  anima  con  la     lettura nel paradiso della lascivia.  Florentino Ariza,  da parte sua,     arrivò a esserle  tanto  affezionato  da  aiutarla  nelle  compere  al     mercato,  e  da  passare  di  solito  dei pomeriggi a parlare con lei.     Pensava che fosse una donna saggia nell'amore, dato che gli aveva dato     molti lumi sul suo senza  che  lui  avesse  dovuto  rivelarle  il  suo     segreto.
    Se  prima di conoscere l'amore di Fermina Daza non era caduto in tante     tentazioni a portata di mano,  tantomeno l'avrebbe fatto quando  ormai     era la sua promessa sposa ufficiale. E così Florentino Ariza conviveva     con le ragazze,  condivideva i loro piaceri e le loro miserie, ma né a     lui né a loro capitava di andare oltre.  Un fatto imprevisto  dimostrò     la  severità  della  sua  determinazione.  Un  giorno,  alle  sei  del     pomeriggio,  quando le ragazze si vestivano  per  ricevere  i  clienti
    della  sera,  entrò  nella  sua  stanza l'incaricata della pulizia del     piano: una donna giovane ma precocemente invecchiata e macilenta, come     una penitente vestita nella gloria delle nude.  Lui la vedeva tutti  i     giorni  senza  sentirsi  visto: girava per le stanze con le scope,  un     secchio per la spazzatura e uno straccio speciale per  raccogliere  da     terra   i  preservativi  usati.   Era  entrata  nella  stanzetta  dove
    Florentino Ariza leggeva, come sempre, e come sempre aveva scopato con     una cura estrema per non disturbarlo.  D'un tratto era passata  vicino     al  letto,  e lui aveva sentito la mano tiepida e tenera al centro del     suo  ventre,  l'aveva  sentita  cercarlo,  l'aveva  sentita  trovarlo,     l'aveva  sentita  sbottonarlo mentre il suo respiro riempiva sempre di     più la stanza.  Lui aveva fatto finta di leggere finché non ce l'aveva     fatta più e aveva dovuto sottrarre il corpo.
    Lei  si  era  spaventata,  perché il primo avvertimento che le avevano     fatto nel darle il lavoro di donna delle pulizie era stato  quello  di     non  tentare  di  andare  a letto con i clienti.  Non avrebbero dovuto     neanche  dirglielo,   perché  era  di  quelle  che  pensavano  che  la     prostituzione non era andare a letto per soldi,  ma andare a letto con     gente sconosciuta. Aveva due figli, ognuno da un marito diverso, e non     perché fossero avventure casuali ma perché non era  riuscita  a  amare     uno che era tornato dopo la terza volta.  Fino ad allora era stata una     donna  senza  urgenze,   preparata  per  natura  ad  aspettare   senza     disperare,  ma  la  vita di quella casa era più forte delle sue virtù.     Entrava a lavorare alle sei del pomeriggio,  e passava tutta la  notte     di  stanza  in  stanza,   spazzandole  con  quattro  colpi  di  scopa,     raccogliendo i preservativi,  cambiando le lenzuola.  Non  era  facile     immaginare la quantità di cose che lasciavano gli uomini dopo l'amore.     Lasciavano  vomiti  e  lacrime,  cosa che le pareva comprensibile,  ma     lasciavano anche molti enigmi dell'intimità: pozze di sangue,  schizzi     di escrementi, occhi di vetro, orologi d'oro, dentiere, reliquiari con     riccioli dorati,  lettere d'amore, di affari, di condoglianze: lettere     di ogni genere.  Qualcuno tornava per le sue cose  perdute,  ma  nella     maggior parte restavano lì,  e Lotario Thugut le metteva sotto chiave,     pensando che presto o tardi quel palazzo caduto in disgrazia,  con  le     migliaia di oggetti personali dimenticati,  sarebbe diventato un museo     dell'amore.
    Il lavoro era duro e mal pagato, ma lei lo sapeva bene. Quello che non     riusciva a sopportare erano i singhiozzi, i lamenti,  gli scricchiolii     delle  molle  dei  letti che le andavano sedimentandosi nel sangue con     tanto ardore e tanto dolore che  all'alba  non  ce  la  faceva  più  a     resistere  alla  voglia  di  andare  a  letto col primo mendicante che     avesse incontrato per la strada o con un ubriaco perso che  le  avesse     fatto il favore senza altre pretese né domande. La comparsa di un uomo     senza donne come Florentino Ariza, giovane e pulito, era stata per lei     un dono del cielo,  perché fin dal primo momento si era resa conto che     era uguale a lei: un bisognoso d'amore. Ma lui rimase insensibile alle     sue sollecitazioni.  Si era mantenuto vergine per Fermina Daza,  e non     esisteva forza né ragione a questo mondo che potesse farlo deviare dal     proposito.
    Quella  era  la  sua vita,  quattro mesi prima della data prevista per     formalizzare il compromesso,  quando Lorenzo Daza comparve alle  sette     di mattina all'ufficio del telegrafo e chiese di lui.  Siccome non era     ancora arrivato, lo aspettò seduto sulla panca fino alle otto e dieci,     togliendosi da un dito e infilandolo in un  altro  il  pesante  anello     d'oro  sormontato  da  un  opale  chiaro,  e quando lo vide entrare lo     riconobbe subito come l'impiegato del telegrafo,  e lo  prese  per  un     braccio.
    «Venga  con  me,  giovanotto»  gli  disse.  «Lei e io dobbiamo parlare     cinque minuti, da uomo a uomo.»
    Florentino Ariza,  verde come un morto,  si lasciò condurre.  Non  era     preparato  a  questo  incontro,  perché Fermina Daza non aveva trovato     l'occasione né il modo di avvisarlo.  Il caso era che il sabato prima,     la sorella Franca de la Luz,  superiora del Colegio de la Presentación     de la Santísima Virgen,  era entrata durante la lezione di Nozioni  di     Cosmogonia silenziosa come un serpente e spiando le alunne da sopra le     spalle  aveva  scoperto  che  Fermina  Daza  faceva  finta di prendere     appunti sul quaderno mentre in  realtà  stava  scrivendo  una  lettera     d'amore.  La  mancanza,  in ossequio ai regolamenti della scuola,  era     motivo di espulsione.  Chiamato d'urgenza in rettorato,  Lorenzo  Daza     aveva  scoperto  la  fessura attraverso la quale se ne stava scorrendo     via il suo regime di ferro.  Fermina Daza,  con la sua onestà  innata,     aveva  ammesso  la colpa della lettera ma si era rifiutata di rivelare     l'identità del fidanzato segreto,  e aveva continuato a negare davanti
    al  Tribunale  dell'Ordine  che  per questo motivo aveva confermato il     verdetto di espulsione. Il padre, però,  aveva perquisito la camera da     letto,  che fino a quel momento era stata un santuario inviolabile,  e     in un doppio fondo del baule aveva trovato i pacchetti di tre anni  di     lettere,  nascoste  con  tanto amore quanto quello con cui erano state     scritte. La firma era inequivocabile, ma Lorenzo Daza non poté credere     né allora né mai che la figlia non sapesse del suo fidanzato  nascosto     nient'altro  che la sua attività di telegrafista e il suo amore per il     violino.
    Convinto che una relazione così difficile fosse comprensibile solo con     la complicità della sorella,  non le concedette neanche la  grazia  di     una discolpa, ma la imbarcò senza appello sulla goletta di San Juan de     la Ciénaga.  Fermina Daza non si rimise mai dal suo ultimo ricordo, il     pomeriggio in cui la salutò sul  portone  mentre  bruciava  di  febbre     dentro al suo vestito grigio,  ossuta e cenerentola, e la vide sparire     nella  pioggerellina  del  giardinetto  con  le  uniche  cose  che  le     restavano  nella  vita:  il  bagaglio  da  zitella  e  il  denaro  per     sopravvivere un mese avvolto in un fazzoletto  dentro  al  pugno.  Non     appena  si liberò dall'autorità paterna la fece cercare nelle province     del Caribe,  chiedendo informazioni su di lei a chiunque avesse potuto     conoscerla,  e non trovò nessuna notizia delle sue tracce fino a quasi     trent'anni dopo quando ricevette una lettera che era passata da  molte     mani  per  parecchio  tempo e nella quale la informavano che era morta     quasi centenaria nel lazzaretto di Agua  de  Dios.  Lorenzo  Daza  non     aveva  previsto  la  ferocia con la quale la figlia avrebbe reagito al     castigo ingiusto di cui fu  vittima  la  zia  Escolástica,  che  aveva     identificato  sempre con la madre che a stento ricordava.  Si chiuse a     chiave in camera sua senza mangiare e bere,  e quando lui riuscì  alla     fine  a  farsi  aprire,  prima  con  minacce  e  poi con suppliche mal     dissimulate,  trovò  una  pantera  ferita  che  non  sarebbe  mai  più     ritornata a avere quindici anni.
    Cercò di sedurla con ogni tipo di lusinghe.  Cercò di farle capire che     l'amore alla sua età era un miraggio,  cercò  di  convincerla  con  le     buone  a  rimandare  indietro  le  lettere  e  ritornare alla scuola a     chiedere perdono in ginocchio,  e le diede la sua parola  d'onore  che     sarebbe  stato  il  primo  ad  aiutarla  a  essere felice con un degno     pretendente.  Ma era come parlare a  un  morto.  Sconfitto,  finì  per     perdere  le staffe durante il pranzo di lunedì,  e mentre si soffocava     di improperi e di bestemmie al limite della commozione  cerebrale  lei     si  mise  il coltello da carne contro il collo,  senza drammaticità ma     con polso fermo,  e con degli occhi attoniti che lui non osò  sfidare.     Fu allora che si assunse il rischio di parlare cinque minuti,  da uomo     a uomo,  con l'infausto avventuriero che non ricordava  di  avere  mai     visto  e  che in così cattivo frangente si era messo di traverso nella     sua vita.  Per pura abitudine aveva preso il revolver prima di  uscire     ma aveva avuto la precauzione di nasconderlo sotto la camicia.     Florentino Ariza non aveva ancora ripreso fiato quando Lorenzo Daza lo     portò  tenendolo  per il braccio per Piazza della Cattedrale fino alla     galleria ad archi del Caffè della Parrocchia e  lo  invitò  a  sedersi     sulla terrazza.  Non c'erano altri clienti a quell'ora,  e una matrona     negra strofinava le piastrelle dell'enorme salone a vetrate scheggiate     e polverose le cui sedie erano ancora a gambe all'aria sui  tavoli  di     marmo. Florentino Ariza aveva visto spesso lì Lorenzo Daza a giocare e     a  bere  vino sfuso con gli asturiani del mercato pubblico,  mentre si     accapigliavano urlando per altre guerre  croniche  che  non  erano  le     nostre.  Spesso,  cosciente del fatalismo dell'amore, si chiedeva come     sarebbe stato l'incontro che presto o tardi avrebbe avuto  con  lui  e     che  nessun potere umano avrebbe potuto impedire perché era scritto da     sempre nel destino di tutti e due.  Lo immaginava come una discussione     disuguale,  non  solo  perché  Fermina  Daza  lo  aveva avvisato nelle     lettere sul carattere impetuoso di suo  padre  ma  perché  lui  stesso     aveva notato che i suoi occhi sembravano collerici anche quando rideva     smodatamente  al  tavolo  da  gioco.  Tutto in lui era un tributo alla     grossolanità: la pancia ignobile,  il parlare enfatico,  le basette da     lince,   le   mani  rozze  con  l'anulare  soffocato  dalla  montatura     dell'opale.  Il suo unico tratto che inteneriva,  che Florentino Ariza     aveva riconosciuto dalla prima volta che lo aveva visto camminare, era     che aveva la stessa andatura da cerva della figlia.  Tuttavia,  quando     gli indicò la sedia per sedersi non lo trovò così aspro come sembrava,     e riprese fiato quando lo invitò a bersi un bicchierino di  "anisado".     Florentino  Ariza  non  lo  aveva mai bevuto alle otto di mattina,  ma     accettò di buon grado perché ne aveva urgente necessità.
    Lorenzo Daza,  in effetti,  non tardò più di cinque minuti per dire le     sue  ragioni,  e  lo  fece  con  una sincerità disarmante che finì col     confondere Florentino Ariza.  Dopo la  morte  di  sua  moglie  si  era     imposto  il  solo  scopo  di  fare  della figlia una gran signora.  Il     cammino era lungo e incerto per un commerciante di mule che non sapeva     né leggere né scrivere e la cui reputazione di ladro di  bestiame  non     era  tanto provata quanto molto diffusa nella provincia di San Juan de     la Ciénaga.  Si accese un  sigaro  di  tabacco  nero,  e  si  lamentò:     «L'unica  cosa  peggiore  della  cattiva  salute  è  la cattiva fama».     Tuttavia,  disse,  il vero segreto della sua fortuna era  che  nessuna     delle  sue  mule  lavorava tanto e con tanta determinazione quanto lui     stesso,  anche nei tempi più duri  delle  guerre,  quando  i  villaggi     rimanevano  in cenere e i campi devastati.  Anche se la figlia non era     mai stata  al  corrente  della  premeditazione  del  suo  destino,  si     comportava  come un complice entusiasta.  Era intelligente e metodica,     fino al punto da insegnare al padre a leggere  così  rapidamente  come     aveva imparato lei,  e a dodici anni aveva un dominio della realtà che     le sarebbe bastato per  dirigere  la  casa  senza  bisogno  della  zia     Escolástica.  Sospirò:  «E'  una  mula d'oro».  Quando la figlia aveva     finito la scuola elementare,  col massimo dei voti e con  la  menzione     d'onore alla cerimonia di chiusura, lui aveva capito che l'ambiente di     San Juan de la Ciénaga stava stretto alle sue illusioni.  Allora aveva     liquidato terre e animali e si  era  trasferito  con  nuovo  impeto  e     settantamila  "pesos"  d'oro  in  questa  città in rovina e con le sue     glorie tarlate,  ma dove una donna bella ed educata  all'antica  aveva     ancora  la  possibilità  di  rinascere  con  un  matrimonio fortunato.     L'irruzione di Florentino Ariza era stata  un  intoppo  imprevisto  in     quel  piano  accanito.  «Per  cui  sono venuto a pregarla di una cosa»     disse Lorenzo Daza.  Bagnò la punta  del  sigaro  nell'"anisado",  gli     diede una tirata senza fumo, e concluse con voce afflitta:
    «Si  tolga  dal  nostro  cammino.» Florentino Ariza lo aveva ascoltato     bevendo a piccoli sorsi l'acquavite di  anice,  ed  era  così  assorto     nella  rivelazione  del passato di Fermina Daza da non essersi chiesto     nemmeno che cosa  avrebbe  detto  quando  avesse  dovuto  parlare.  Ma     arrivato il momento si accorse che qualunque cosa avesse detto avrebbe     compromesso il suo destino.
    «Ha parlato con lei?» domandò.
    «Questo non la riguarda» disse Lorenzo Daza.
    «Glielo  chiedo»  disse Florentino Ariza,  «perché mi pare che sia lei     che deve decidere.»
    «Neanche per sogno» disse Lorenzo Daza, «questa è una cosa da uomini e     si sistema tra uomini.»
    Il tono si era fatto minaccioso,  e un cliente di un tavolo vicino  si     voltò  a guardarli.  Florentino Ariza parlò a voce più bassa ma con la     decisione più imperiosa di cui fu capace:
    «In ogni modo» disse,  «non posso rispondere niente senza  sapere  che     cosa pensa lei. Sarebbe un tradimento.»
    Allora  Lorenzo  Daza  si  appoggiò  alla spalliera della sedia con le     palpebre arrossate e umide,  e l'occhio sinistro girò nella sua orbita     e rimase storto verso l'esterno. Anche lui abbassò il tono di voce.
    «Non mi costringa a spararle» disse.
    Florentino  Ariza sentì gli intestini riempirsi di una schiuma fredda.     Ma la voce non gli tremò perché anche lui si  sentì  illuminato  dallo     Spirito Santo.
    «Lo  faccia» disse con la mano sul petto.  «Non c'è maggior gloria che     morire per amore.»
    Lorenzo Daza  dovette  guardarlo  di  lato,  come  i  pappagalli,  per     trovarlo  con  l'occhio storto.  Non pronunciò le tre parole ma sembrò     che le scolpisse sillaba per sillaba:
    «Fi-glio-di-put-ta-na!»
    Quella stessa settimana si portò la figlia nel viaggio dell'oblio. Non     le diede nessuna spiegazione,  ma irruppe nella camera da letto con  i     baffi  sporchi  per la collera mescolata con il tabacco masticato e le     ordinò di fare i bagagli.  Lei gli chiese dove andavano e lui rispose:     «Alla  morte».  Terrorizzata  da  quella  risposta  troppo simile alla     verità, cercò di affrontarlo con il coraggio dei giorni precedenti, ma     lui si tolse il cinturone con la  fibbia  di  rame  massiccio,  se  lo     arrotolò intorno al pugno e diede sul tavolo una cinghiata che risuonò     nella  casa  come  una  fucilata.  Fermina Daza conosceva molto bene i     limiti e il momento della sua forza, cosicché fece un bagaglio con due     stuoie e un'amaca, e due bauli grandi con tutti i suoi vestiti, sicura     che fosse un viaggio senza ritorno.  Prima di vestirsi si  chiuse  nel     bagno  e  riuscì  a  scrivere  a Florentino Ariza una breve lettera di     addio su un foglietto strappato dal rotolo di carta igienica.  Poi con     le  forbici  per  potare  si  tagliò  tutta la treccia fin dalla nuca,     l'avvolse dentro un astuccio di velluto ricamato con fili d'oro  e  la     mandò insieme alla lettera.
    Fu  un  viaggio  folle.  Solo  la  tappa  iniziale  in una carovana di     mulattieri andini durò undici giorni a dorso di mula su per le cornici     della Sierra Nevada, abbrutiti da un sole terso o bagnati dalle piogge     orizzontali di ottobre,  e quasi sempre col fiato sospeso  dal  vapore     soporifero  dei  precipizi.  Al  terzo  giorno  di  cammino,  una mula     impazzita per i tafani precipitò con il suo cavaliere e trascinò tutta     la cordata,  e l'urlo dell'uomo e del suo grappolo  di  sette  animali     legati fra loro continuava a riecheggiare per passi e dirupi molte ore     dopo l'incidente, e continuò a risuonare per anni e anni nella memoria     di  Fermina  Daza.  Tutto  il  suo bagaglio precipitò con le mule,  ma     nell'istante di secoli che durò la caduta finché si estinse sul  fondo     il grido di terrore,  lei non pensò al povero mulattiere morto né alla     fila di bestie fatta a pezzi ma alla disgrazia che la sua stessa  mula     non fosse legata anch'essa alle altre.
    Era  la  prima  volta  che  montava,  ma il terrore e le incalcolabili     penurie del viaggio non le sarebbero sembrati così amari se non  fosse     stato per la certezza che non avrebbe mai più visto Florentino Ariza e     non  avrebbe avuto il conforto delle sue lettere.  Fin dall'inizio del     viaggio non aveva rivolto la parola  a  suo  padre,  e  lui  era  così     confuso  che  le parlava solo nei casi indispensabili o le mandava dei     messaggi attraverso i  mulattieri.  Quando  ebbero  miglior  sorte  si     imbatterono  in  qualche  locanda  sulla strada dove servivano cibi di     montagna che lei si rifiutava di mangiare,  e gli affittavano letti di
    tela  penetrati da sudori e urine irrancidite.  Più spesso,  comunque,     passavano la notte  in  accampamenti  di  indios,  dormitori  pubblici     all'aria  aperta costruiti sul margine delle piste con file di pali di     sostegno e tetti di palma dura, dove chiunque arrivava aveva diritto a     fermarsi fino all'alba.  Fermina Daza non riuscì a dormire  una  notte     intera,  sudando  di  paura,  sentendo  nell'oscurità il tramestio dei     viaggiatori  silenziosi  che  legavano  le  loro  bestie  ai  pali   e     attaccavano le amache dove potevano.
    All'imbrunire,  quando  arrivavano  i  primi,  il  posto era sgombro e     tranquillo, ma quando spuntava l'alba era trasformato in una piazza da     fiera, con un affastellamento di amache attaccate a diversi livelli, e     "aruacos (2) della sierra che dormivano coccoloni,  e la rabbia  delle     capre legate e il chiasso dei galli da combattimento nei loro cesti da     faraoni,  e  il  mutismo ansante dei cani di montagna addestrati a non     latrare per i pericoli della guerra.  Quelle penurie erano familiari a     Lorenzo Daza,  che per mezza vita aveva trafficato nella zona, e quasi     sempre all'alba incontrava vecchi amici.  Per la figlia era  un'agonia     perpetua.   Il   fetore   dei   carichi  di  pesce  salato,   aggiunto     all'inappetenza  stessa  del   rimpianto,   finirono   per   sciuparle     l'abitudine  di  mangiare,  e se non impazzì di disperazione fu perché     trovò sempre un sollievo nel ricordo di Florentino Ariza.  Non  dubitò     che quella fosse la terra dell'oblio.
    Un altro terrore costante era quello della guerra. Fin dall'inizio del     viaggio  si era parlato del pericolo di incontrare gruppi di sbandati,     e i mulattieri li avevano istruiti sui diversi modi di sapere  da  che     parte stavano per comportarsi di conseguenza. Era frequente incontrare     un gruppo di soldati a cavallo,  comandati da un ufficiale, che faceva     la leva di nuove reclute prendendole al laccio come torelli  in  piena     corsa. Spossata da tanti orrori, Fermina Daza aveva dimenticato quello     che  le  sembrava più leggendario che imminente,  finché una notte una     pattuglia non ben identificata sequestrò due membri della  carovana  e     li appese a un albero a mezza lega dall'accampamento. Lorenzo Daza non     aveva  niente a che vedere con loro,  ma li fece staccare e diede loro     cristiana sepoltura come ringraziamento  per  non  aver  corso  uguale     sorte.  Non era per altro. Gli assalitori lo avevano svegliato con una     canna di fucile nel ventre e un comandante stracciato  con  la  faccia     dipinta di nerofumo,  illuminandolo con una lampada, gli aveva chiesto     se era liberale o conservatore.
    «Né l'uno né l'altro» aveva  detto  Lorenzo  Daza.  «Sono  un  suddito     spagnolo.»
    «Che  fortuna!»  aveva detto il comandante,  e si era congedato da lui     con la mano alzata: «Viva il re!».
    Due giorni dopo scesero nella pianura luminosa  dove  c'era  l'allegro     villaggio di Valledupar. C'erano lotte di galli nei patios, musiche di     fisarmonica  agli  angoli  delle strade,  cavalieri su cavalli di buon     sangue,  razzi e campane.  Stavano montando un  castello  pirotecnico.     Fermina Daza non si accorse nemmeno della festa.  Alloggiarono in casa     dello zio Lisímaco Sánchez,  fratello di sua madre,  che era uscito ad     accoglierli  sulla  strada maestra a capo di una rumorosa cavalcata di     parenti giovani che montavano le bestie di razza migliore di tutta  la     provincia,  e  li avevano guidati per le strade del villaggio in mezzo     al fragore dei fuochi artificiali.  La casa dava sulla Piazza  Grande,     vicino alla chiesa coloniale,  e sembrava una fattoria di campagna per     le stanze ampie e ombrose e il corridoio che odorava di succo di canna     caldo di fronte a un orto di alberi da frutta.
    Non appena smontarono nelle scuderie,  i saloni da ricevimento  furono     invasi  da  parecchi parenti sconosciuti che davano fastidio a Fermina     Daza con le loro insopportabili effusioni, perché non poteva amare più     nessun altro a questo mondo, arrossata per il cammino a cavallo, morta     di sonno e con la diarrea,  e l'unica cosa che desiderava ardentemente     era  un  luogo  solitario  e  quieto  dove poter piangere.  Sua cugina     Hildebranda Sánchez,  di due anni maggiore di lei e con la sua  stessa     alterigia imperiale, fu l'unica a capire il suo stato fin da quando la     vide per la prima volta,  perché anche lei si consumava nelle braci di     un amore temerario.  All'imbrunire la portò nella camera da letto  che     aveva  preparato per dividere con lei e non riuscì a capire come fosse     ancora viva con le ulcere infuocate delle sue natiche.  Aiutata da sua     madre,  una  donna  molto  dolce  e così somigliante al marito come se     fossero gemelli,  le preparò un bagno  e  le  mitigò  gli  ardori  con     compresse  di  arnica,  mentre  il  fragore  del  castello pirotecnico     scuoteva le fondamenta della casa.
    Verso mezzanotte le visite  se  ne  andarono,  la  festa  pubblica  si     scompose  in  varie  braci disperse,  e la cugina Hildebranda prestò a     Fermina Daza una camicia lunga di madapolam per dormire e la  aiutò  a     coricarsi  in  un  letto  dalle  lenzuola terse e cuscini di piume che     immediatamente le infusero il panico istantaneo della felicità. Quando     infine rimasero sole nella camera da letto, chiuse la porta a chiave e     tirò fuori da sotto la stuoia del suo letto  una  busta  di  carta  di     Manila  sigillata  con  la  ceralacca  con  gli  emblemi del Telegrafo     Nazionale.  A Fermina  Daza  bastò  vedere  l'espressione  di  malizia     raggiante  della  cugina  per  far tornare nella memoria del suo cuore     l'odore concentrato delle gardenie bianche,  prima  di  sminuzzare  il     sigillo  di  ceralacca  con  i  denti  e  di rimanere a sguazzare fino     all'alba nel pantano di lacrime degli undici telegrammi illegali.     Allora lo seppe.  Prima di intraprendere il viaggio Lorenzo Daza aveva     commesso  l'errore di annunciarlo per telegrafo a suo cognato Lisímaco     Sánchez,  e questo a sua volta aveva mandato la notizia alla sua vasta     e intricata parentela, disseminata in parecchi villaggi e luoghi della     provincia.  Così  Florentino  Ariza  non  solo  aveva  potuto scoprire     l'itinerario completo,  ma aveva stabilito una  lunga  fratellanza  di     telegrafisti  per  seguire  le  tracce di Fermina Daza fino all'ultimo     accampamento del Cabo de la Vela.  Questo gli permise di mantenere con     lei  una  comunicazione  intensa  da quando arrivò a Valledupar,  dove     rimase tre mesi,  fino al termine del viaggio a Riohacha,  un  anno  e     mezzo  dopo,  quando  Lorenzo  Daza  diede  per scontato che la figlia     avesse finalmente dimenticato e decise di tornare a  casa.  Forse  lui     stesso  non era conscio di quanto si fosse allentata la sua vigilanza,     distratto com'era dalle lusinghe dei parenti politici,  che dopo tanti     anni  avevano  messo  da  parte i loro pregiudizi tribali e lo avevano     accettato  a  cuore  aperto  come  uno  di  loro.  La  visita  fu  una     riconciliazione tardiva,  anche se non era stato questo l'intento.  In     effetti,  la famiglia di Fermina Sánchez si era opposta a  ogni  costo     che  lei si sposasse con un immigrante senza origini,  chiacchierone e     bruto,  che era sempre in giro con un traffico di mule di montagna che     sembrava  troppo  semplice per essere pulito.  Lorenzo Daza giocava il     tutto per tutto perché quella cui aspirava era la più pregiata di  una     famiglia tipica della regione: una tribù confusa di donne animose e di     uomini  dal  cuore  tenero  e dal grilletto facile,  turbati fino alla     demenza dal senso dell'onore.  Tuttavia Fermina Sánchez si era fissata     nel suo capriccio con la determinazione cieca degli amori contrastati,     e si era sposata con lui a dispetto della famiglia, con tanta fretta e     tanti  misteri  da  dare  l'impressione  di farlo non per amore ma per     coprire con un manto sacramentale qualche disattenzione prematura.     Venticinque anni dopo,  Lorenzo Daza non si rendeva conto che  la  sua     intransigenza  con  gli innamoramenti della figlia era una ripetizione     viziosa della sua stessa storia e si  lamentava  della  sua  disgrazia     davanti  agli stessi cognati che si erano opposti a lui come questi si     erano lamentati a loro volta davanti ai loro.  Tuttavia,  il tempo che     perdeva  a  lamentarsi  lo guadagnava la figlia nei suoi amori.  Così,     mentre lui  andava  castrando  torelli  e  domando  mule  nelle  terre     avventurose dei suoi cognati, lei passeggiava a briglia sciolta in una     folla  di  cugine  comandate  da  Hildebranda Sánchez,  la più bella e     servizievole,  la cui passione senza futuro per un uomo  di  vent'anni     più vecchio di lei si rassegnava a sguardi furtivi.
    Dopo  la  prolungata  sosta a Valledupar proseguirono il viaggio per i     contrafforti della sierra attraverso praterie fiorite e  altipiani  di     sogno,  e  in  tutti  i  villaggi furono ricevuti come nel primo,  con     musiche e petardi,  e con nuove cugine complici  e  puntuali  messaggi     telegrafici.  Ben  presto Fermina Daza si rese conto che il pomeriggio     del suo arrivo a Valledupar non era stato diverso,  ma che  in  quella     provincia  fertile  si vivevano tutti i giorni della settimana come se     fossero di festa. I visitanti dormivano dove li sorprendeva la notte e     mangiavano dove li trovava la fame,  perché erano case  con  le  porte     aperte dove c'era sempre un'amaca attaccata e un bollitore di tre tipi     di  carne  che cuoceva sul fuoco nel caso che qualcuno arrivasse prima     del suo telegramma d'avviso, come succedeva quasi sempre.  Hildebranda     Sánchez  accompagnò  la  cugina  nel  resto del viaggio guidandola con     polso allegro attraverso i gineprai del sangue  fino  alle  sue  fonti     d'origine.  Fermina  Daza si riconobbe,  si sentì padrona di se stessa     per la prima volta,  si sentì accompagnata e protetta,  con i  polmoni     pieni  di  un'aria  di libertà che le restituì la calma e la voglia di     vivere.  Perfino nei suoi ultimi anni di vita  evocava  quel  viaggio,     ogni  volta più recente nella memoria,  con la lucidità perversa della     nostalgia.
    Una sera ritornò dal passeggio quotidiano stordita  dalla  rivelazione     che  si  poteva  essere  felice  non  solo senza amore ma anche contro     l'amore.  La rivelazione l'allarmò perché una delle sue  cugine  aveva     sorpreso  una  conversazione dei suoi genitori con Lorenzo Daza in cui     lui aveva suggerito l'idea di concertare il matrimonio di  sua  figlia     con  l'unico erede della fortuna favolosa di Cleofás Moscote.  Fermina     Daza lo conosceva.  Lo aveva visto caracollare nelle piazze con i suoi     cavalli perfetti,  con gualdrappe così ricche da sembrare paramenti da     messa,  ed era elegante e esperto,  e aveva delle ciglia da  sognatore     che  facevano sospirare i sassi,  ma lei lo paragonò al suo ricordo di     Florentino Ariza seduto sotto i mandorli  del  giardinetto,  povero  e     smorto,  con  il  libro di versi in grembo,  e non trovò nel suo cuore     neanche un'ombra di dubbio.
    In quei giorni, Hildebranda Sánchez andava delirando di illusioni dopo     aver fatto visita a una maga la cui chiaroveggenza l'aveva spaventata.     Atterrita dalle intenzioni di suo padre,  anche Fermina  Daza  andò  a     consultarla.  Le  carte le annunciarono che nel suo avvenire non c'era     nessun ostacolo a un matrimonio lungo e felice,  e quella profezia  le     ridiede  fiato,  perché  non  concepiva  che un destino così fortunato     potesse essere con un uomo diverso da quello che  amava.  Esaltata  da     questa  certezza,  prese dunque il comando della sua volontà.  Fu così     che la corrispondenza telegrafica con Florentino Ariza smise di essere     un concerto di intenzioni e di promesse illusorie,  e si fece metodica     e pratica,  e più intensa che mai.  Fissarono date,  stabilirono modi,     impegnarono le loro vite nella determinazione comune di sposarsi senza     chiedere consiglio a nessuno,  dove fosse e  come  fosse,  non  appena     fossero  tornati  a incontrarsi.  Fermina Daza considerava così severo     questo impegno che la sera in cui suo padre le diede  il  permesso  di     partecipare al suo primo ballo da adulti,  nel villaggio di Fonseca, a     lei non parve decente accettarlo senza il consenso del  suo  promesso.     Florentino  Ariza  era  quella sera alla locanda a giocare a carte con     Lotario Thugut quando lo avvisarono che aveva una chiamata telegrafica     urgente.
    Era il telegrafista di Fonseca,  che aveva allacciato  sette  stazioni     intermedie  perché  Fermina  Daza  potesse  chiedere  il  permesso  di     assistere al ballo. Ma una volta che l'ebbe ottenuto non si accontentò     della semplice risposta affermativa,  e chiese  una  prova  che  fosse     effettivamente   Florentino   Ariza   quello   che   stava  usando  il     trasmettitore all'altro capo della linea.  Più stupito che  lusingato,     lui  compose una frase di identificazione: "Dille che glielo giuro per     la dea incoronata".  Fermina Daza  riconobbe  la  parola  d'ordine,  e     rimase  al suo primo ballo di adulti fino alle sette di mattina quando     dovette  cambiarsi  al  volo  per  non  arrivare  tardi  a  messa.   A     quell'epoca  aveva  sul  fondo  del  baule più lettere e telegrammi di     quanti gliene avesse  portati  via  suo  padre,  e  aveva  imparato  a     comportarsi  con i modi di una donna sposata.  Lorenzo Daza interpretò     quei cambiamenti del suo  modo  di  essere  come  un'evidenza  che  la     distanza   e  il  tempo  l'avessero  ristabilita  dalle  sue  fantasie     giovanili  ma  non  le  prospettò  mai  il  progetto  del   matrimonio     combinato. I loro rapporti si fecero fluidi, all'interno delle riserve     formali  che  lei  gli  aveva  imposto  dopo  la  cacciata  della  zia     Escolástica,  e questo permise loro una  convivenza  così  comoda  che     nessuno avrebbe dubitato del fatto che era fondata sull'affetto.     Fu in quell'epoca che Florentino Ariza decise di raccontarle nelle sue     lettere  di  essersi  impegnato  a  recuperare  per  lei il tesoro del     galeone sommerso.  Ne era sicuro,  e gli era venuto come un soffio  di     ispirazione  in  un  pomeriggio  luminoso  in  cui  il  mare  sembrava     acciottolato di alluminio per la quantità di pesci portati a galla dal     verbasco (3).  Tutti gli uccelli del cielo si  erano  agitati  per  la     mattanza,  e i pescatori dovevano scacciarli con i remi perché non gli     disputassero i frutti di quel miracolo proibito.  L'uso del  verbasco,     che addormentava solo i pesci, era sancito dalla legge dai tempi della     Colonia,  però  aveva  continuato a essere una pratica comune in pieno     giorno fra i  pescatori  del  Caribe  finché  venne  sostituito  dalla     dinamite.  Uno dei divertimenti di Florentino Ariza, mentre continuava     il viaggio di Fermina  Daza,  era  guardare  dalle  scogliere  come  i     pescatori  caricassero  le  loro  canoe  con  le  enormi reti di pesci     addormentati.  Nello stesso tempo,  una combriccola di  ragazzini  che     nuotavano come pescecani chiedevano ai curiosi di gettare delle monete     da recuperare in fondo al mare.  Erano gli stessi che uscivano a nuoto     con lo stesso proposito incontro ai transatlantici e sui  quali  erano
    state  scritte tante cronache di viaggio negli Stati Uniti e in Europa     per la loro maestria nell'arte di nuotare sott'acqua. Florentino Ariza     li conosceva da sempre,  ancora prima dell'amore,  ma non gli era  mai     capitato  di  pensare  che  forse erano capaci di riportare a galla la     fortuna del galeone.  Gli capitò quel  pomeriggio,  e  dalla  domenica     seguente fino al ritorno di Fermina Daza,  quasi un anno dopo, ebbe un     motivo in più di delirio.
    Euclides,  uno dei bambini nuotatori,  si agitò come lui  all'idea  di     un'esplorazione  sottomarina,  dopo  aver  parlato  non  più  di dieci     minuti.  Florentino Ariza non gli rivelò la verità della  sua  impresa     finché  non  si  informò  a  fondo  sulle  sue  qualità  di  nuotatore     sottomarino e di navigante. Gli chiese se potesse scendere senz'aria a     venti metri di profondità,  ed Euclides disse di  sì.  Gli  chiese  se     fosse  capace di portare da solo una canoa da pescatore in mare aperto     in mezzo a una burrasca,  senza  altri  strumenti  che  l'istinto,  ed     Euclides  disse  di  sì.   Gli  chiese  se  sarebbe  stato  capace  di     localizzare  un  posto  preciso  a  sedici  miglia  marine  a  nordest     dell'isola più grande dell'arcipelago di Sotavento,  ed Euclides disse     di sì.  Gli chiese se fosse capace di navigare di  notte  orientandosi     con le stelle, ed Euclides disse di sì. Gli chiese se fosse disposto a     farlo  per  la  stessa  paga  diaria  che gli pagavano i pescatori per     aiutarli a pescare, ed Euclides gli disse di sì,  ma con un aumento di     cinque  "reales"  la domenica.  Gli chiese se sapesse difendersi dagli     squali,  ed Euclides gli disse di sì,  che aveva artifici  magici  per     tenerli lontani. Gli chiese se fosse capace di tenere un segreto anche     se  lo  avessero  messo  sotto  tortura  con  le  macchine del palazzo     dell'Inquisizione,  ed Euclides gli disse di sì,  perché non diceva di     no  a  niente,  e  sapeva dire di sì con tanta proprietà che non c'era     modo di metterlo in dubbio.  Alla fine  fece  il  conto  delle  spese:     l'affitto  della  canoa,  l'affitto  del  remo,  l'affitto di una rete     perché nessuno sospettasse la verità delle sue  scorrerie.  Bisognava,     inoltre, portare da mangiare, un grosso recipiente di acqua dolce, una     lampada  a olio,  un mazzo di candele di sego e un corno da cacciatore     per chiedere aiuto in caso d'emergenza.
    Aveva sui dodici anni,  ed era rapido  e  furbo,  e  un  chiacchierone     instancabile,  con  un  corpo da anguilla che pareva fatto per passare     strisciando attraverso un occhio di bue.  Le  intemperie  gli  avevano     abbronzato  la pelle a un punto tale che era impossibile immaginare il     suo colore originale,  e questo faceva sembrare più splendenti i  suoi     grandi occhi gialli. Florentino Ariza decise immediatamente che era il     complice  perfetto  per  un'avventura  di  tale portata,  e vi diedero     inizio senza ulteriori formalità la domenica successiva.
    Salparono dal porto dei pescatori all'alba,  ben  provvisti  e  meglio     disposti. Euclides quasi nudo, solo con lo straccio intorno ai fianchi     che portava sempre,  e Florentino Ariza con la finanziera, il cappello     da tenebroso,  gli stivaletti lucidi e il fiocco da poeta al collo,  e     un  libro  per passare il tempo durante la traversata fino alle isole.     Dalla prima domenica si rese conto che Euclides era un abile  marinaio     quanto  un  buon  sommozzatore,  e  che aveva una pratica meravigliosa     della natura del mare e dei rifiuti della baia.  Poteva raccontare con     i  particolari  più  impensati  la  storia di ogni scafo di bastimento     tarlato  dall'ossido,  conosceva  l'età  di  ogni  boa,  l'origine  di     qualsiasi  rottame,  il  numero  di  anelli  della  catena con cui gli     spagnoli chiudevano l'entrata della baia.  Temendo che  sapesse  anche     quale  era  l'intento della sua spedizione,  Florentino Ariza gli fece     qualche domanda astuta,  e così capì che Euclides non aveva il  minimo     sospetto del galeone affondato.
    Da  quando  aveva  sentito  per  la prima volta il racconto del tesoro     nella locanda,  Florentino Ariza si era informato per quanto possibile     sulle consuetudini dei galeoni. Aveva saputo che il "San José" non era     solo  sul  fondale di coralli.  In effetti,  era la nave insegna della     Flota de Tierra Firme,  ed  era  arrivata  qui  dopo  il  maggio  1708     proveniente  dalla  fiera  leggendaria di Portobello,  a Panama,  dove     aveva caricato parte della sua fortuna: trecento bauli con argento del     Perù e Veracruz,  e centodieci  bauli  di  perle  raccolte  e  contate     nell'isola di Contadora.  Durante il lungo mese che era rimasto qui, i     cui giorni e notti erano stati di feste popolari,  avevano caricato il     resto  del  tesoro  destinato  a  togliere  dalla  povertà il regno di     Spagna: centosedici bauli di smeraldi delle miniere Muzo e  Somondoco,     e trenta milioni di monete d'oro.
    La Flota de Tierra Firme era composta da non meno di dodici bastimenti     di  diversa  grandezza,  ed  era salpata da questo porto viaggiando di     conserva con una squadra francese molto ben armata che però non  aveva     potuto  salvare  la  spedizione  davanti  alle cannonate precise della     squadra inglese al comando del comandante  Carlos  Wager  che  l'aveva     aspettata nell'arcipelago di Sotavento, all'uscita della baia. Così il     "San  José" non era l'unica nave affondata,  anche se non esisteva una     certezza documentata di quante avessero ceduto  e  di  quante  fossero     riuscite  a  scampare al fuoco degli inglesi.  Quello su cui non c'era     dubbio era che l'ammiraglia fosse stata tra le prime a colare a picco,     con tutto l'equipaggio e il comandante immobile al suo  posto,  e  che     lei sola portasse il carico maggiore.
    Florentino  Ariza  aveva  imparato  la  rotta  dei galeoni sulle carte     nautiche  dell'epoca  e  credeva  di  aver  stabilito  il  luogo   del     naufragio.  Uscirono dalla baia fra le due fortezze della Boca Chica e     dopo  quattro  ore  di  navigazione   entrarono   nel   mare   interno     dell'arcipelago,  sul  cui fondale di coralli si potevano prendere con     le mani le aragoste addormentate.  L'aria era così delicata e il  mare     così sereno e trasparente, che Florentino Ariza si sentì come se fosse     il suo stesso riflesso nell'acqua.  Alla fine dell'acqua stagnante,  a     due ore dall'isola maggiore, si trovava il luogo del naufragio.     Congestionato  dal  sole  infernale  dentro  al  suo  abito   funebre,     Florentino  Ariza  indicò  a  Euclides  di cercare di scendere a venti     metri e di portargli qualsiasi cosa avesse trovato sul fondo.  L'acqua     era  così  chiara  che  lo  vide  muoversi  di sotto,  come uno squalo     penetrato tra gli squali azzurri che si  incrociavano  con  lui  senza     toccarlo.  Poi  lo  vide  sparire  in  una fratta di coralli e proprio     quando pensava che non potesse più avere aria sentì la sua voce dietro     alle proprie spalle.  Euclides era in piedi sul fondo,  con le braccia     alzate e l 'acqua alla cintola. Cosicché andarono a cercare luoghi più     profondi,  sempre verso il nord, navigando sopra le mante indolenti, i     calamari timidi,  i rosai delle  tenebre,  finché  Euclides  capì  che     stavano perdendo tempo.
    «Se non mi dice che cosa vuole che trovi,  non so come lo troverò» gli     disse.
    Ma lui non glielo disse.  Allora Euclides gli propose di togliersi gli     abiti  e di scendere con lui,  anche solo per vedere quell'altro cielo     sotto il mondo che erano i fondali di corallo. Ma Florentino Ariza era     solito dire che Dio  aveva  fatto  il  mare  solo  per  vederlo  dalla     finestra  e non aveva mai imparato a nuotare.  Poco dopo il pomeriggio     si annuvolò,  l'aria  divenne  fredda  e  umida,  e  fece  scuro  così     rapidamente che dovettero orientarsi con il faro per trovare il porto.     Prima  di  entrare  nella  baia,  videro passare vicinissimo a loro il     transatlantico di Francia con tutte le luci accese,  enorme e  bianco,     che lasciava una scia di vivande delicate e di cavolfiori bolliti.     Così  perdettero tre domeniche e avrebbero continuato a perderle tutte     se Florentino Ariza non avesse deciso di dividere il suo  segreto  con     Euclides.  Questi  modificò allora tutto il piano di ricerca,  e se ne     andarono a navigare per l'antico canale dei galeoni,  situato  più  di     venti  leghe  marine a oriente del luogo previsto da Florentino Ariza.     Prima di due mesi, un pomeriggio di pioggia sul mare,  Euclides rimase     molto  tempo  sul  fondo,  e la canoa era andata tanto alla deriva che     dovette nuotare quasi mezz'ora per raggiungerla,  dato che  Florentino     Ariza non era riuscito ad avvicinarsi con i remi. Quando infine riuscì     a  accostarsi,  si  tolse  dalla  bocca e mostrò come un trionfo della     perseveranza due monili da donna.
    Quello che raccontò allora era così affascinante che Florentino  Ariza     si  ripromise  di imparare a nuotare e a immergersi fin dove gli fosse     possibile solo per constatarlo con i suoi occhi.  Raccontò che in quel     luogo,  a  solo  diciotto  metri di profondità,  c'erano tanti velieri     antichi adagiati fra  i  coralli  che  non  era  possibile  calcolarne     neanche  la  quantità,  ed erano disseminati in uno spazio così esteso     che si perdevano di vista.  Raccontò che la cosa più sorprendente  era     che delle tante carcasse di barche che si trovavano a galla nella baia     nessuna  era  in così buono stato come le navi sommerse.  Raccontò che     c'erano diverse caravelle ancora con le vele intatte  e  che  le  navi     affondate  erano  visibili  sul fondo,  e che sembrava come se fossero     affondate nel loro spazio e tempo,  in  modo  che  lì  continuavano  a     essere  illuminate dallo stesso sole delle undici di mattina di sabato     9 giugno in cui erano colate a picco.  Raccontò,  soffocandosi con  lo     stesso  impeto  della  sua  immaginazione,  che  quello  più  facile a     distinguersi era il galeone "San José",  il cui nome  era  visibile  a     lettere  d'oro  sulla poppa,  ma che era anche la nave più danneggiata     dall'artiglieria degli inglesi.  Raccontò di averci  visto  dentro  un     polpo  vecchio  di  più  di  tre secoli,  i cui tentacoli uscivano dai     portelli dei cannoni,  ma era cresciuto tanto nella sala da pranzo che     per  liberarlo  si sarebbe dovuto sfasciare la nave.  Raccontò di aver     visto il corpo  del  comandante  con  la  sua  uniforme  da  battaglia     fluttuare  di fianco dentro l'acquario del castello di prua,  e se non     era sceso fino alla stiva del tesoro era perché l'aria dei polmoni non     gli era stata sufficiente.  Le prove erano lì: un  orecchino  con  uno     smeraldo  e  una  medaglia della Vergine con la sua catenella consunta     dal salino.
    Quella fu la prima menzione del tesoro che  Florentino  Ariza  fece  a     Fermina  Daza  nella lettera che le mandò a Fonseca poco prima del suo     ritorno.  La storia del galeone affondato le era familiare,  perché ne     aveva sentito parlare spesso da Lorenzo Daza,  che aveva perso tempo e     denaro a cercare di convincere una compagnia di palombari tedeschi  ad     associarsi  con  lui  per  recuperare  il  tesoro  sommerso.   Avrebbe     persistito  nell'intento  se  non  fosse  stato  per  diversi   membri     dell'Accademia  di  Storia che lo avevano convinto che la leggenda del     galeone naufragato era stata inventata da qualche viceré brigante, che     in questo modo si era impadronito dei capitali della Corona. Comunque,     Fermina Daza sapeva che il galeone era a una  profondità  di  duecento     metri,  dove  nessun essere umano poteva raggiungerlo,  e non ai venti     metri di cui parlava Florentino Ariza.  Ma era così abituata  ai  suoi     eccessi  poetici che elogiò l'avventura del galeone come uno di quelli     meglio riusciti.  Tuttavia,  quando continuò a ricevere altre  lettere     con particolari ancora più fantastici e scritti con tanta serietà come     le sue promesse d'amore, dovette confessare a Hildebranda la sua paura     che il fidanzato allucinato avesse perduto la ragione.
    In  quei  giorni Euclides era tornato a galla con talmente tante prove     della sua favola che non era più tempo di continuare a tirar  su  alla     rinfusa  orecchini  e  anelli  sparpagliati  fra  i  coralli,   ma  di     capitalizzare una grande impresa per recuperare la cinquantina di navi     con la fortuna babilonese che avevano dentro.  Allora  accadde  quello     che presto o tardi doveva accadere,  che Florentino Ariza chiese aiuto     a sua madre per portare a buon fine la  sua  avventura.  A  lei  bastò     mordere  il metallo dei gioielli e guardare in controluce le pietre di     vetro per rendersi conto che qualcuno stava speculando sul candore  di     suo  figlio.  Euclides  giurò  in ginocchio a Florentino Ariza che non     c'era niente di torbido in quella faccenda ma non si  fece  vedere  la     domenica dopo al porto dei pescatori né mai più da nessuna parte.     L'unica cosa che rimase di quell'infortunio a Florentino Ariza,  fu il     rifugio d'amore del faro. Era arrivato fin lì con la canoa di Euclides     una notte in cui li aveva sorpresi la tempesta in  mare  aperto  e  da     allora  era  solito  andare  di pomeriggio a conversare con l'uomo del     faro sulle innumerevoli meraviglie della terra e dell'acqua che l'uomo     conosceva.  Era stato l'inizio di un'amicizia che sopravvisse ai molti     cambiamenti del mondo.  Florentino Ariza imparò ad alimentare la luce,     prima con carichi di legna e poi con orci di olio,  prima  dell'arrivo     dell'energia  elettrica.  Imparò  a  dirigerla e ad aumentarla con gli     specchi, e in svariate occasioni in cui l'uomo del faro non poté farlo     si fermò a vigilare dalla torre le notti del mare.  Imparò a conoscere     le  imbarcazioni  dalle  loro  voci,  dalla  misura  delle  loro  luci     sull'orizzonte,  e a  percepire  che  qualcosa  di  loro  gli  tornava     indietro nei lampi del faro.
    Durante  il  giorno il piacere era un altro,  soprattutto la domenica.     Nel quartiere dei Viceré,  dove vivevano i ricchi della città vecchia,     le  spiagge  delle  donne  erano separate da quelle degli uomini da un     muro di malta: una alla destra e l'altra  alla  sinistra  del  faro...     Cosicché  l'uomo del faro aveva installato un cannocchiale mediante il     quale si poteva contemplare,  pagando un centesimo,  la spiaggia delle     donne. Senza sapersi osservate, le signorine si mostravano alla meglio     che  potevano dentro ai loro costumi da bagno dai grandi volants,  con     scarpette e cappelli che nascondevano i corpi quasi come gli abiti per     la strada,  e inoltre erano meno attraenti.  Le  madri  le  vigilavano     dalla riva,  sedute in pieno sole su sedie a dondolo di vimini con gli     stessi vestiti, gli stessi cappelli di piume, gli stessi ombrellini di     organza con cui erano andate alla messa solenne,  per  paura  che  gli     uomini  delle spiagge vicine le seducessero sott'acqua.  La realtà era     che col cannocchiale non si poteva vedere niente di più  eccitante  di     quello  che  si poteva vedere per la strada,  ma erano molti i clienti     che venivano ogni domenica a contendersi il  telescopio  per  il  puro     diletto di assaggiare i frutti insipidi della vicinanza altrui.
    Florentino Ariza era uno di loro, più per noia che per piacere, ma non     era  stato  per  quel  motivo in più che era diventato così buon amico     dell'uomo del faro. Il motivo reale era che dopo l'affronto di Fermina     Daza,  quando lo aveva preso la febbre degli  amori  sparpagliati  per     cercare di rimpiazzarla,  in nessun altro luogo diverso dal faro aveva     vissuto le ore più felici né aveva trovato miglior  consolazione  alle     sue infelicità.  Fu il posto che amò di più.  Tanto che per anni cercò     di convincere sua madre,  e più  tardi  lo  zio  León  Dodicesimo,  di     aiutarlo a comprarlo.  Poiché i fari del Caribe erano a quell'epoca di     proprietà privata e i lori  proprietari  riscuotevano  il  diritto  di     passo  fino  al  porto  a  seconda della grandezza delle imbarcazioni.     Florentino Ariza pensava che quella fosse l'unica maniera onorevole di     fare un buon affare con la poesia,  ma  né  la  madre  né  lo  zio  la     pensavano  allo stesso modo,  e quando avrebbe potuto farlo con le sue     risorse i fari erano già diventati proprietà dello stato.
    Nessuna di quelle illusioni fu vana,  però.  La favola del galeone,  e     poi la novità del faro,  gli alleviarono l'assenza di Fermina Daza,  e     quando meno se lo sentiva gli arrivò la notizia del suo ritorno.  Alla     fine,  dopo una sosta prolungata a Riohacha, Lorenzo Daza aveva deciso     di rientrare.  Non era la stagione più  propizia  del  mare,  per  gli     alisei di dicembre,  e la storica goletta, l'unica che arrischiasse la     traversata,  poteva tornare al porto d'origine trascinata da un  vento     contrario.  E  così  era  stato.  Fermina Daza aveva passato una notte     d'agonia,  vomitando bile,  legata alla cuccetta  di  una  cabina  che     sembrava un cesso di taverna, non solo per la strettezza oppressiva ma     anche  per  la  puzza e il caldo.  Il rollio era così forte che spesso     aveva avuto l'impressione che  si  sarebbero  rotte  le  corregge  del     letto,  dalla  coperta le arrivavano brani di qualche grido addolorato     che pareva di naufragio,  e il russare da tigre  di  suo  padre  nella     cuccetta  contigua  era  un ingrediente in più di paura.  Per la prima     volta in quasi tre anni passò una notte in  bianco  senza  pensare  un     momento  a  Florentino  Ariza,   mentre  invece  lui  restava  insonne     nell'amaca del retro a contare  a  uno  a  uno  i  minuti  eterni  che     mancavano al suo ritorno.  All'alba,  il vento cessò improvvisamente e     il mare si calmò,  e Fermina  Daza  si  rese  conto  di  aver  dormito     malgrado i danni del mal di mare,  perché la svegliò lo strepito delle     catene dell'ancora.  Allora slacciò le cinghie e si affacciò  all'oblò     con  l'illusione di scoprire Florentino Ariza in mezzo alla confusione     del porto,  ma quello che vide furono i magazzini della dogana fra  le     palme  dorate  dal  primo  sole  e  la  banchina di Riohacha da cui la     goletta era salpata la notte prima.
    Il resto della giornata fu come un'allucinazione,  nella  stessa  casa     dove  era  stata fino al giorno prima,  ricevendo le stesse visite che     l'avevano salutata,  parlando delle  stesse  cose,  e  stordita  dalla     sensazione  di  vivere di nuovo un pezzo di vita già vissuto.  Era una     ripetizione così fedele che Fermina Daza tremava alla sola idea che lo     fosse anche il viaggio della goletta,  il cui solo ricordo le incuteva     terrore.  Ma  l'unica  possibilità diversa di tornare a casa erano due     settimane a dorso di mulo sulle cornici della sierra,  e in condizioni     ancora  più  pericolose  della prima volta,  dato che una nuova guerra     civile iniziata nello stato andino del Cauca si stava estendendo nelle     province del Caribe. E così alle otto di sera fu accompagnata un'altra     volta al porto dallo stesso corteo di parenti chiassosi, con le stesse     lacrime di addio e gli stessi sacchi di provviste regalate  all'ultimo     momento  che  non  ci  stavano in cabina.  Al momento di salpare,  gli     uomini della famiglia salutarono la goletta con una salva di spari per     aria, e Lorenzo Daza rispose loro dalla coperta con le cinque cartucce     del suo revolver.  L'ansia di Fermina  Daza  si  dissipò  prestissimo,     perché  il vento fu favorevole per tutta la notte,  e il mare aveva un     odore di fiori che la  aiutò  a  dormire  bene  senza  le  cinghie  di     sicurezza.  Sognò  di  rivedere  Florentino Ariza,  e che lui si fosse     strappato la faccia che lei gli  aveva  visto  da  sempre,  perché  in     realtà era una maschera, ma la faccia vera era identica. Si alzò molto     presto,  incuriosita  dall'enigma  del  sogno,  e  trovò suo padre che     beveva caffè amaro con brandy nella cambusa del capitano, con l'occhio     storto dall'alcol,  ma senza  il  minimo  indizio  di  incertezza  sul     ritorno.
    Stavano  entrando  in  porto.  La goletta stava scivolando in silenzio     attraverso  il  labirinto  di  velieri  ancorati  nell'insenatura  del     mercato pubblico, il cui fetore si percepiva in mare da diverse leghe,     e  l'alba  era  satura  di  una  pioggerellina tersa che ben presto si     trasformò in un acquazzone di  quelli  grandi.  Appostato  al  balcone     dell'ufficio  del  telegrafo,  Florentino  Ariza  riconobbe la goletta     mentre attraversava la baia di Las Animas con le vele allentate  dalla     pioggia e calò l'ancora davanti all'imbarcadero del mercato. Il giorno     prima  aveva  aspettato  fino  alle undici del mattino,  quando si era     imbattuto in un telegramma casuale sul rientro  della  goletta  per  i     venti  contrari,  e quel giorno era tornato ad aspettare dalle quattro     del mattino.  Continuò ad aspettare senza spostare  lo  sguardo  dalle     scialuppe  che  portavano  a riva i pochi passeggeri che decidevano di     sbarcare nonostante la tempesta.  La  maggior  parte  di  loro  doveva     abbandonare   a   metà  strada  la  scialuppa  arenata  e  raggiungeva     l'imbarcadero sguazzando nel fango. Alle otto, dopo aver atteso invano     che smettesse di piovere,  uno  scaricatore  negro  con  l'acqua  alla     cintola  prese  Fermina  Daza  sul  bordo  della  goletta e la portò a     braccia a riva,  ma era così bagnata che Florentino Ariza non riuscì a     riconoscerla.
    Lei  stessa non fu cosciente di quanto era maturata nel viaggio finché     non entrò nella casa chiusa e  intraprese  immediatamente  il  compito     eroico  di tornare a renderla vivibile,  con l'aiuto di Gala Placidia,     la domestica negra che  era  tornata  dalla  sua  vecchia  capanna  di     schiavi non appena avvisata del loro ritorno. Fermina Daza non era più     la figlia unica, contemporaneamente viziata e tiranneggiata dal padre,     ma  la  padrona  e  signora di un impero di polvere e di ragnatele che     poteva essere riscattato solo dalla forza di un amore invincibile. Non     restò  sbigottita  perché  si  sentiva  ispirata  da  un   soffio   di     levitazione che le avrebbe fatto muovere il mondo.  La stessa sera del     rientro,  mentre prendevano cioccolata con  frittelle  sul  tavolo  di     cucina, suo padre delegò a lei i poteri per la direzione della casa, e     lo fece con il formalismo di un atto sacro.
    La  verità  è  che  Florentino  Ariza  era  sicuro  che  lei non fosse     ritornata,  finché il telegrafista di Riohacha non gli confermò che si     era  imbarcata  venerdì  sulla  stessa goletta che non era arrivata il     giorno prima per i venti contrari.  Così passò  il  fine  settimana  a     spiare  qualsiasi  segnale  di vita in casa sua,  e dall'imbrunire del     lunedì vide attraverso le finestre una luce ambulante che poco dopo le     nove si spense nella camera da letto del  balcone.  Non  dormì,  preda     delle  stesse  voglie di nausea che avevano turbato le sue prime notti     d'amore.  Tránsito Ariza si alzò al canto del gallo,  allarmata che il     figlio  fosse uscito nel patio e non fosse rientrato da mezzanotte,  e     non lo trovò in casa. Se n'era andato a errare per le scogliere,  e si     era soffermato a recitare versi d'amore contro il vento,  piangendo di     gioia,  finché si era fatto giorno.  Alle otto era  seduto  sotto  gli     archi del Caffè della Parrocchia,  allucinato dalla veglia,  a cercare     di escogitare un modo per far pervenire il  suo  benvenuto  a  Fermina     Daza,  quando  si  sentì  scosso da uno sconvolgimento sismico che gli     fece a pezzi i visceri.
    Era lei.  Attraversava Piazza della Cattedrale  accompagnata  da  Gala     Placidia,  che  portava le ceste per le compere,  e per la prima volta     andava vestita senza la divisa scolastica.  Era più alta di quando  se     n'era  andata,  più affilata e intensa,  e con la bellezza depurata da     una maggiore padronanza di sé.  La treccia le era ricresciuta,  ma non     la  portava  sciolta,  bensì  di  lato,  sulla  spalla destra,  e quel     semplice cambiamento l'aveva  spogliata  di  ogni  traccia  infantile.     Florentino  Ariza  rimase  attonito  al suo posto,  finché la creatura     apparsa finì di attraversare la piazza senza alzare lo sguardo dal suo     cammino.  Ma lo stesso potere  irresistibile  che  lo  paralizzava  lo     obbligò  poi  a  precipitarlesi  dietro  quando  svoltò l'angolo della     cattedrale e si  perdette  nel  tumulto  assordante  dei  meandri  del     commercio.
    La seguì senza farsi vedere,  scoprendo i gesti quotidiani, la grazia,     la maturità prematura dell'essere che più amava al mondo e che  vedeva     per  la  prima volta nel suo stato naturale.  Lo sbalordì la sicurezza     con cui si faceva  strada  tra  la  folla.  Mentre  Gala  Placidia  si     scontrava  in continuazione,  e le si aggrovigliavano i cesti e doveva     correre per non perderla,  lei navigava nel disordine della strada con     una  sua dimensione e un tempo distinto,  senza inciampare in nessuno,     come un pipistrello nelle tenebre. Era stata spesso a far spese con la     zia Escolástica, ma erano sempre state compere minuscole, dato che suo     padre in persona si incaricava di approvvigionare la casa,  e non solo     di mobili e roba da mangiare,  ma anche di vestiti da donna.  Cosicché     quella prima uscita fu per lei un'avventura  affascinante  idealizzata     nei suoi sogni di bambina.
    Non prestò attenzione alle sollecitazioni dei cacciatori di vipere che     le  offrivano  lo  sciroppo per l'amore eterno,  né alle suppliche dei     mendicanti sdraiati negli androni con le loro piaghe  fumanti,  né  al     falso  indio  che tentava di venderle un caimano ammaestrato.  Fece un     percorso lungo e minuzioso,  senza rotta pensata,  con soste  che  non     avevano  altro  motivo che il diletto senza fretta nello spirito delle     cose.  Entrò in ogni porta  dove  ci  fosse  qualcosa  in  vendita,  e     dappertutto  trovò  qualcosa  che  aumentava  la sua voglia di vivere.     Godette con l'odore di vetivèr dei panni nei cassoni,  si  avvolse  in     sete  stampate,  rise  del  suo  stesso ridere vedendosi travestita da     popolana con un pettine e un ventaglio coi fiori dipinti davanti  allo     specchio  a  corpo  intero  di  "El Alambre de Oro".  Nei magazzini di     generi coloniali stappò un barile di aringhe sotto sale che le ricordò     le notti del nordest,  molto bambina,  a San Juan de  la  Ciénaga.  Le     fecero  assaggiare una salsiccia di sanguinaccio di Alicante che aveva     un sapore di liquirizia,  e ne comprò due per la prima  colazione  del     sabato,  e poi dei baccalà e un fiasco di alcol di ribes.  Nel negozio     di spezie, per il puro piacere dell'olfatto, strofinò foglie di salvia     e origano sui palmi  delle  mani  e  comprò  un  pugno  di  chiodi  di     garofano,  un  altro  di  anice stellato,  e altri due di zenzero e di     ginepro,  e uscì bagnata di lacrime di risa dal tanto  starnutire  per     gli effluvi del pepe di Cayenna. Nel negozio francese, mentre comprava     saponi  di Reuter e acqua di benzoino,  le misero dietro l'orecchio un     tocco di profumo che era di moda a Parigi,  e le diedero una tavoletta     deodorante per il dopo-fumo.
    Giocava  a  comprare,  certo,  ma  quello  che realmente le mancava lo     comprava senza tante  giravolte,  con  un'autorità  che  non  lasciava     pensare  che  lo  faceva  per  la prima volta,  dato che sapeva di non     comprare solo per lei ma anche per lui,  dodici metri di lino  per  le     tovaglie  della tavola di tutti e due,  il percalle per le lenzuola da     matrimonio con l'umidità notturna degli umori di tutti e due  all'alba     del  giorno  dopo,  il  più  squisito di ogni cosa per goderlo insieme     nella casa dell'amore.  Chiedeva sconti e sapeva farlo,  discuteva con     grazia e dignità fino a ottenere il meglio,  e pagava con monete d'oro     che i dettaglianti provavano per puro gusto di  sentirle  cantare  sul     marmo del banco.
    Florentino  Ariza  la  spiava  meravigliato,  la  seguiva senza fiato,     inciampò diverse volte nelle ceste della domestica  che  rispose  alle     sue  scuse  con un sorriso,  e lei gli era passata così vicino che lui     riuscì a percepire il sentore del suo odore,  e se allora non lo aveva     visto non era stato perché non aveva potuto ma per l'alterigia del suo     modo  di  camminare.  Gli  sembrava così bella,  così seducente,  così     distinta  dalla  gente  comune,   da  non  capire  perché  nessuno  si     scombussolasse  come  lui  con  il  rumore ritmico dei suoi tacchi sul     selciato della strada,  né gli si disordinasse il cuore con l'aria dei     sospiri  dei suoi volants,  né diventasse pazzo d'amore tutto il mondo     con gli sventolii della sua treccia,  col volo  delle  sue  mani,  con     l'oro  del suo ridere.  Non aveva perduto un suo gesto,  né un indizio     del suo carattere,  ma non si azzardava ad avvicinarsi a  lei  per  il     timore di rompere l'incanto.  Tuttavia,  quando lei si intrufolò nella     confusione del Portal de los Escribanos,  lui  si  accorse  che  stava     rischiando di perdere l'occasione anelata per anni.
    Fermina  Daza  divideva con le sue compagne di scuola l'idea peregrina     che il Portal de los Escribanos fosse un luogo di perdizione,  vietato     dunque alle signorine ben educate.  Era una galleria ad arcate davanti     a una piccola piazza dove stazionavano le carrozze a nolo e i carretti     da carico trainati da asini, e dove si faceva più denso e chiassoso il     commercio popolare.  Il nome gli veniva dalla Colonia,  perché  lì  si     sedevano già da quell'epoca i calligrafi taciturni coi gilè di panno e     le  mezze maniche posticce,  a scrivere a richiesta tutta una serie di     documenti a prezzi da poveri:  memoriali  di  offesa  o  di  supplica,     allegati  giuridici,  biglietti  di congratulazioni o di condoglianze,     biglietti d'amore per qualsiasi età.  Non era da loro,  comunque,  che     veniva  la  cattiva  reputazione  di  quel  mercato  rumoroso,  ma  da     commercianti ambulanti più recenti che offrivano sottobanco tutti  gli     articoli   equivoci   che   arrivavano   di  contrabbando  sulle  navi     provenienti dall'Europa,  da cartoline oscene e pomate  incoraggianti,     fino  ai  celebri  preservativi  catalani  con creste di iguana che si     muovevano quando  era  il  caso,  o  con  fiori  all'estremità  perché     aprissero i loro petali secondo la volontà dell'utente.  Fermina Daza,     poco esperta nell'uso della strada,  si introdusse  nel  Portal  senza     rendersi  conto  dove  stava  andando,  alla  ricerca  di  un'ombra di     conforto al sole violento delle undici.
    Si inabissò  nella  lingua  incomprensibile  dei  lustrascarpe  e  dei     venditori di uccelli,  dei librai d'occasione e dei ciarlatani e delle     banditrici di dolci che annunciavano  gridando  sopra  il  baccano  le     focacce  di  ananas  per  le bambine,  quelle di cocco per i matti,  i     biscottini  per  Micaela.  Ma  lei  rimase  indifferente  al  fragore,     catturata   immediatamente   da   un   fanfarone   che  stava  facendo     dimostrazioni di tinte magiche per scrivere, colori rossi con il clima     del sangue, colori con trasparenze tristi per messaggi funebri, colori     fosforescenti per leggere  nell'oscurità,  colori  invisibili  che  si     rivelavano  con  lo  splendore  della  luce.  Lei  le voleva tutte per     giocare con Florentino Ariza, per spaventarlo col suo ingegno, ma dopo     parecchie prove si decise per una boccetta di color  oro.  Poi  se  ne     andò con i barattoli di vetro messi dietro alle sue grandi ampolle,  e     comprò sei dolci di ogni tipo,  indicandoli con  il  dito  perché  non     riusciva  a  farsi  sentire  in  mezzo  alla confusione: sei capellini     d'angelo, sei piccole conserve di latte, sei tavolette di sesamo,  sei     "alfajores"  di manioca,  sei cioccolatini incartati,  sei "piononos",     sei "bocaditos" della regina,  sei di questo e sei dell'altro,  sei di     tutto,  e  continuava  a  metterli  nei  cesti della domestica con una     grazia irresistibile,  completamente estranea al tormento dei nuvoloni     di  mosche  sullo  sciroppo,  estranea al fracasso continuo,  estranea     all'esalazione di sudori rancidi che riverberavano nel calore mortale.     La svegliò dal sortilegio una negra  felice  con  un  drappo  colorato     sulla  testa,  rotonda  e  bella,  che le offrì un triangolo di ananas     infilzato sulla punta di un coltello da macellaio. Lei lo prese, se lo     mise intero in bocca,  lo  assaporò,  e  stava  assaggiandolo  con  lo     sguardo  che  errava  sulla folla,  quando una commozione la prese sul     posto. Alle sue spalle,  così vicino al suo orecchio che solo lei poté     sentirla nella confusione, aveva sentito la voce:
    «Questo non è un buon posto per una dea incoronata.»
    Lei  girò  la  testa e vide a due palmi dai suoi occhi gli altri occhi     glaciali, il viso livido, le labbra impietrite dalla paura,  così come     le  aveva  viste  nel tumulto della messa di mezzanotte la prima volta     che lui era stato così vicino a lei,  ma a differenza  di  allora  non     sentì  la  commozione  dell'amore  ma  l'abisso del disincanto.  In un     istante le si rivelò nella sua completezza la misura  del  suo  stesso     inganno,  e  si  chiese  atterrita come avesse potuto covare per tanto     tempo e con tanta sevizia una simile chimera  nel  cuore.  A  malapena     riuscì  a pensare: "Dio mio,  pover'uomo!".  Florentino Ariza sorrise,     cercò di dire qualcosa,  cercò di seguirla,  ma lei lo cancellò  dalla     sua vita con un cenno della mano.     «No, per favore» gli disse. «Se lo scordi.»
    Quel  pomeriggio,  mentre  suo  padre  faceva la siesta,  tramite Gala     Placidia gli mandò una lettera di due righe: "Oggi, vedendola, mi sono     resa conto che la nostra non è che la nostra non è che  un'illusione".     La domestica gli portò anche i suoi telegrammi,  i suoi versi,  le sue     camelie secche,  e gli chiese di restituire le lettere e i regali  che     lei gli aveva mandato: il messale della zia Escolástica,  le nervature     di foglie dei suoi erbari,  il centimetro quadrato dell'abito  di  San     Pedro Claver,  le medaglie di santi, la treccia dei suoi quindici anni     con il nastro di seta dell'uniforme scolastica.  Nei giorni  seguenti,     sull'orlo della follia, lui le scrisse molte lettere di disperazione e     assediò  la  domestica  perché  gliele  portasse,  ma questa eseguì le     istruzioni precise di  non  accettare  nient'altro  se  non  i  regali     restituiti. Insistette con tanta efficacia che Florentino Ariza glieli     mandò  tutti,  salvo  la  treccia,  che  non  voleva restituire finché     Fermina Daza non l'avesse presa di persona per parlare con  lei  anche     se per un attimo.  Non ci riuscì.  Temendo una decisione fatale di suo     figlio,  Tránsito Ariza mise da parte  il  suo  orgoglio  e  chiese  a     Fermina Daza di concederle una grazia di cinque minuti, e Fermina Daza     la  ricevette  un  momento  nel cortile di casa sua,  in piedi,  senza     invitarla a entrare e senza il minimo segno di debolezza.  Due  giorni     appresso,  dopo  una  lite con sua madre,  Florentino Ariza staccò dal     muro della sua camera la nicchia polverosa di  cristallo  dove  teneva     esposta la treccia come una reliquia sacra, e la stessa Tránsito Ariza     la   restituì  nell'astuccio  di  velluto  ricamato  con  fili  d'oro.     Florentino  Ariza  non  ebbe  mai  più  un'opportunità  di  vedere   a     quattr'occhi  Fermina  Daza,  né  di parlare con lei da soli nei tanti     incontri delle loro lunghissime vite, fino a cinquantun anni nove mesi     e quattro giorni dopo,  quando le reiterò  il  giuramento  di  fedeltà     eterna e amore perenne nella sua prima notte di vedova.
    NOTE.
    NOTA  2: "Aruaco" (o "aruco"): trampoliere facilmente addomesticabile.
    (Nota del Traduttore).
    NOTA 3: Genere di pianta  della  famiglia  delle  Scrofulariacee,  dal     latino "verbascum". (Nota del Traduttore).
    Il  dottor  Juvenal  Urbino era stato lo scapolo più desiderato quando     aveva ventotto anni.  Ritornava da un lungo soggiorno a  Parigi,  dove     aveva fatto studi superiori di medicina e chirurgia,  e da quando posò     il piede sulla terraferma diede pesanti prove di non aver  perduto  un     minuto  del suo tempo.  Tornò più elegante di quando se ne era andato,     più padrone  del  suo  carattere,  e  nessuno  dei  suoi  compagni  di     generazione  sembrava  così  severo  e  così saggio come lui nella sua     scienza, ma non c'era neanche nessuno che ballasse meglio la musica di     moda né che improvvisasse meglio al piano.  Sedotte dalle  sue  grazie     personali e dalla certezza della sua fortuna familiare, le ragazze del     suo  livello  facevano riffe segrete per giocare a restare con lui,  e     anche lui giocava a restare con loro,  ma riuscì a mantenersi in stato     di  grazia,  intatto  e  tentatore,  fino  alla  caduta incondizionata     davanti agli incanti plebei di Fermina Daza.
    Amava dire che quell'amore era stato il frutto di uno sbaglio clinico.     Lui stesso non poteva credere che sarebbe successo,  e men che mai  in     quel  momento  della sua vita,  quando tutte le sue riserve passionali     erano concentrate sulla sorte della sua  città,  di  cui  aveva  detto     troppo  spesso  e  senza  pensarci  due  volte che non aveva eguali al     mondo. A Parigi,  passeggiando sottobraccio a una fidanzata casuale in     un  autunno tardivo,  gli sembrava impossibile immaginare una felicità     più pura di quella di quei pomeriggi dorati, con l'odore rustico delle     castagne  sui  bracieri,  le  fisarmoniche  languide,  gli  innamorati     insaziabili che non finivano mai di baciarsi sulle terrazze aperte,  e     però lui si era detto con la mano sul cuore di non essere  disposto  a     cambiare  per  tutto  quello un solo istante del suo Caribe in aprile.     Era ancora troppo giovane per sapere che la memoria del cuore  elimina
    i   cattivi   ricordi   ed  esalta  quelli  buoni,   e  che  grazie  a     quell'artificio riusciamo a sopportare il passato.  Ma  quando  rivide     dalla  ringhiera  della  nave  il  promontorio  bianco  del  quartiere     coloniale,  gli avvoltoi immobili sui tetti,  la biancheria da  poveri     stesa ad asciugare sui balconi,  solo allora capì fino a che punto era     stato una vittima facile delle trappole caritatevoli della nostalgia.     La nave si fece strada nella baia attraverso una trapunta galleggiante     di animali affogati,  e la maggioranza dei passeggeri  si  rifugiò  in     cabina  rifuggendo  la  pestilenza.  Il  giovane  medico  scese  dalla     passerella vestito impeccabilmente di alpaca,  con gilè e  spolverino,     con  una  barba  alla  Pasteur  giovane  e  i  capelli  divisi  da una     scriminatura netta e pallida,  e con  abbastanza  dominio  di  sé  per     dissimulare  il nodo alla gola che non era di tristezza ma di terrore.     Sul molo quasi deserto, presidiato da soldati scalzi senza divisa,  lo     aspettavano le sorelle e la madre con i suoi amici più cari.  Li trovò     macilenti e senza futuro, nonostante le loro arie mondane, e parlavano     della crisi e della guerra  civile  come  di  qualcosa  di  remoto  ed     estraneo,   ma   tutti   avevano  un  tremito  evasivo  nella  voce  e     un'incertezza nelle pupille che tradivano le parole. Quella che più lo     commosse fu la madre,  una donna ancora giovane  che  si  era  imposta     nella  vita con la sua eleganza e il suo impeto sociale,  e che adesso     avvizziva a fuoco lento nell'alito di canfora dei suoi veli di vedova.     Lei dovette riconoscersi nel turbamento del figlio, perché lo anticipò     a chiedergli in propria  difesa  perché  arrivasse  con  quella  pelle     traslucida come se fosse di paraffina.
    «E' la vita, mamma» disse lui. «A Parigi si diventa verdi.»
    Poco dopo, soffocando di caldo vicino a lei nella carrozza chiusa, non     poté  sopportare  più  l'inclemenza  della  realtà  che si intrufolava     impetuosamente dal finestrino.  Il mare sembrava di cenere,  i  vecchi     palazzi  da  marchese  stavano  per soccombere alla proliferazione dei     mendicanti,  ed era  impossibile  trovare  la  fragranza  ardente  dei     gelsomini  dietro  i  suffumigi  di  morte delle fogne a cielo aperto.     Tutto gli sembrò più piccolo di quando se n'era andato,  più povero  e     lugubre,  e c'erano tanti topi affamati nell'immondezzaio delle strade     che i  cavalli  della  carrozza  inciampavano  spaventati.  Nel  lungo     tragitto dal porto a casa sua, nel cuore del quartiere dei Viceré, non     trovò niente che gli sembrasse degno delle sue nostalgie. Deluso, girò     la  testa  perché  non  lo vedesse sua madre,  e si mise a piangere in     silenzio.
    Il vecchio palazzo del Marchese de Casalduero, residenza storica degli     Urbino de la Calle,  non era quello che si  manteneva  più  eretto  in     mezzo al naufragio.  Il dottor Juvenal Urbino lo scoprì con il cuore a     pezzi fin da  quando  entrò  dall'androne  scuro  e  vide  la  fontana     polverosa  del giardino interno,  e i cespugli senza fiori in mezzo ai     quali giravano le iguane,  e si accorse che mancavano molte piastrelle     di marmo, e che altre erano rotte, sulla grande scala con le ringhiere     di rame che portava alle stanze principali.  Suo padre,  un medico più     dedito che eminente,  era morto durante l'epidemia di colera  asiatico     che aveva distrutto la popolazione sei anni prima, e con lui era morto     lo spirito della casa.  Doña Blanca,  la madre,  soffocata da un lutto     previsto per essere eterno,  aveva sostituito con novene vespertine le     celebri  serate  liriche  e  i concerti di musica da camera del marito     morto.  Le due sorelle,  contro le loro  grazie  naturali  e  la  loro     vocazione festaiola, erano carne da convento.
    Il dottor Juvenal Urbino non dormì neanche un momento la notte del suo     arrivo,  spaventato dall'oscurità e dal silenzio,  e recitò tre rosari     allo Spirito  Santo  e  quante  preghiere  ricordava  per  scongiurare     calamità  e  naufragi  e  ogni tipo di agguati della notte,  mentre un     "alcaraván" (4) che si era intrufolato dalla porta mal chiusa  cantava     a  ogni  ora,  all'ora  in  punto,  dentro  la  stanza  da  letto.  Lo     tormentarono le urla allucinate delle pazze nel vicino manicomio della     Divina Pastora,  la goccia inclemente della cisterna sul catino la cui     risonanza  colmava  l'ambito  della  casa,   i  passi  da  trampoliere     dell'"alcaraván" perduto nella stanza da letto, la sua paura congenita     dell'oscurità,  la presenza invisibile del padre  morto  nella  grande     casa addormentata. Quando l'"alcaraván" cantò le cinque, insieme con i     galli del circondario,  il dottor Juvenal Urbino si raccomandò anima e     corpo alla Divina Provvidenza,  perché non si sentiva il  coraggio  di     vivere  un  altro  giorno  nella  sua  patria  di  rottami.  Tuttavia,     l'affetto dei suoi, le domeniche in campagna, le cupide lusinghe delle     nubili della sua classe finirono  per  mitigargli  le  amarezze  della     prima  impressione.  Si  abituò  a poco a poco alle calure di ottobre,     agli odori eccessivi,  ai giudizi prematuri dei suoi amici,  al domani     vedremo,  dottore,  non si preoccupi,  finché finì per arrendersi alle     malie dell'abitudine. Non tardò a concepire una giustificazione facile     per il suo abbandono.  Quello era il suo mondo,  si  disse,  il  mondo     triste  e  oppressivo  che  Dio  gli  aveva  concesso,  e a quello era     obbligato.
    La prima cosa che fece fu prendere possesso dello studio di suo padre.     Conservò al loro posto i mobili inglesi,  duri e seri,  il  cui  legno     sospirava  con  i  freddi  dell'alba,  ma mandò in soffitta i trattati     della scienza dell'epoca dei Viceré  e  della  medicina  romantica,  e     collocò  sugli scaffali invetriati quelli della nuova scuola francese.     Staccò le litografie  scolorite,  salvo  quella  del  medico  che  sta     contendendo  alla  morte  una malata nuda e il giuramento di Ippocrate     stampato  a  caratteri  gotici,  e  attaccò  al  loro  posto,  insieme     all'unico  diploma  di  suo  padre,  i  molti e svariati che lui aveva     ottenuto con ottimi voti in diverse scuole europee.
    Cercò di imporre criteri innovativi all'Ospedale  della  Misericordia,     ma  non  gli fu tanto facile come gli era sembrato nei suoi entusiasmi     giovanili, perché la vecchia casa di salute si ingarbugliava nelle sue     superstizioni ataviche,  come quella di mettere i piedi del  letto  in     barattoli  pieni  d'acqua  per  impedire  che  salissero le malattie o     quella di  esigere  roba  di  marca  e  guanti  di  camoscio  in  sala     chirurgica,  perché  si  dava  per  scontato  che l'eleganza fosse una     condizione essenziale dell'asepsi.  Non  potevano  sopportare  che  il     giovane appena arrivato assaggiasse l'urina del malato per scoprire la     presenza di zucchero,  che citasse Charcot e Trousseau come se fossero     i suoi compagni di stanza,  che  durante  le  lezioni  facesse  severe     avvertenze  sui  rischi mortali delle vaccinazioni e che invece avesse     una fede sospettosa nella nuova invenzione delle supposte. Contrastava     in tutto: il suo spirito innovatore, il suo civismo maniacale,  il suo     senso  dell'humour ritardato in una terra di burloni immortali,  tutto     quello che erano in realtà le sue virtù più apprezzabili suscitava  la     diffidenza  dei  suoi  colleghi  più  anziani  e le burle nascoste dei     giovani.
    La sua ossessione era il pericoloso stato sanitario della città.  Fece     appello  alle  più  alte istanze perché chiudessero le fogne spagnole,     che erano un immenso vivaio di topi,  e si costruissero al loro  posto     dei  condotti  chiusi  i cui rigurgiti non sboccassero nell'insenatura     del mercato,  come succedeva da sempre,  ma  in  qualche  condotto  di     scarico distante. Le case coloniali ben attrezzate avevano latrine con     fosse  settiche,  ma  i  due  terzi  della  popolazione accatastati in     baracche sulla riva delle paludi facevano i  propri  bisogni  all'aria     aperta.  Le feci si seccavano al sole,  si trasformavano in polvere, e     venivano respirate da tutti con allegrie  natalizie  nelle  fresche  e     tempestose  brezze  di  dicembre.  Il  dottor  Juvenal Urbino cercò di     imporre al Consiglio Comunale un corso  obbligatorio  di  abilitazione     affinché  i  poveri  imparassero  a  costruire le loro latrine.  Lottò     invano perché i rifiuti non fossero gettati nelle lagune,  trasformate     da  secoli  in  serbatoi di putrefazione,  e perché li si raccogliesse     perlomeno due volte alla settimana e  fossero  poi  inceneriti  in  un     luogo disabitato.
    Era  conscio dell'insidia mortale dell'acqua da bere.  La sola idea di     costruire un acquedotto sembrava fantastica, perché chi avrebbe potuto     darle   impulso   disponeva   di   cisterne   sotterranee   dove    si     immagazzinavano  sotto  uno  spesso strato cremoso di muschio le acque     piovute per anni.  Fra i mobili più  pregiati  dell'epoca  c'erano  le     cisterne  di legno lavorato i cui filtri di pietra gocciolavano giorno     e notte dentro gli orci.  Per  impedire  che  qualcuno  bevesse  nella     stessa brocca di alluminio con cui si tirava su l'acqua,  questa aveva     i bordi dentati come la  corona  di  un  re  per  burla.  L'acqua  era     cristallina  e  fresca nella penombra dell'argilla cotta e lasciava un     retrogusto di foresta.  Ma il dottor  Juvenal  Urbino  non  cadeva  in     questi inganni di purificazione perché sapeva che, a dispetto di tante     precauzioni,  il  fondo  degli orci era un santuario di vermiciattoli.     Aveva passato le lente ore della sua infanzia a contemplarli  con  una     paura  quasi mistica,  convinto come tanta gente di allora che i vermi     fossero le anime delle creature soprannaturali  che  corteggiavano  le     donzelle  dai  sedimenti  delle acque gelide e erano capaci di furiose     vendette d'amore.  Aveva visto da bambino i danni nella casa di Lázara     Conde,  una maestra di scuola che aveva osato disprezzare le anime,  e     aveva visto la scia di vetri per la strada e il mucchio di pietre  che     avevano tirato per tre giorni e tre notti contro le finestre. Cosicché     passò  molto  tempo prima che imparasse che i vermi erano in realtà le     larve delle zanzare, ma lo imparò per non dimenticarlo mai,  perché da     allora  si  rese  conto che non solo loro ma molte altre anime maligne     potevano passare intatte attraverso i nostri candidi filtri di pietra.     All'acqua delle cisterne si attribuì per molto tempo,  e a gran vanto,     l'ernia  dello scroto che tanti uomini della città soffrivano non solo
    senza pudore ma anche con  una  certa  insolenza  patriottica.  Quando     Juvenal Urbino andava alla scuola elementare non riusciva a evitare un     palpito di orrore nel vedere gli erniosi seduti sulla porta delle loro     case  nei  pomeriggi  di  calore mentre si facevano vento ai testicoli     enormi come se fossero un bambino addormentato fra le gambe. Si diceva     che l'ernia emettesse un fischio da uccello  lugubre  nelle  notti  di     tempesta  e si torcesse con un dolore insopportabile quando bruciavano     vicino una piuma di avvoltoio,  ma nessuno si lamentava di quei danni,     perché  un'ernia allo scroto grande e ben portata si distingueva sopra     a tutto come un onore da uomo.  Quando il dottor Juvenal Urbino  tornò     dall'Europa  conosceva  ormai  molto  bene  la menzogna scientifica di     queste credenze, ma erano così radicate nella superstizione locale che     molti  si  opponevano  all'arricchimento  minerale  dell'acqua   delle     cisterne  per  timore  che  gli  portasse  via  la  virtù di provocare     un'ernia onorevole.
    Come  per  le  impurità  dell'acqua,  il  dottor  Juvenal  Urbino  era     allarmato per le condizioni igieniche del mercato pubblico,  una vasta     distesa all'aperto davanti alla baia di Las Animas,  dove attraccavano     i  velieri delle Antille.  Un viaggiatore illustre dell'epoca lo aveva     descritto come uno dei  più  pittoreschi  del  mondo.  Era  ricco,  in     effetti,  abbondante e rumoroso, ma forse anche il più allarmante. Era     assestato sul suo stesso immondezzaio,  alla mercé delle velleità  del     mare grosso,  ed era lì dove i rutti della baia riportavano a terra le     immondizie delle chiaviche.  Lì si avventavano anche  gli  avanzi  del     mattatoio  contiguo,  teste  macellate,  viscere  marcite,  pattumi di     animali che restavano a galla al sole e al sereno  in  un  pantano  di     sangue.  Gli  avvoltoi  se  li contendevano con i topi e i cani in una     rissa perpetua,  fra i  cervi  e  i  castrati  saporiti  di  Sotavento     attaccati alle pareti dei baracconi,  e i legumi primaverili di Arjona     esposti su stuoie per terra.  Il dottor Juvenal Urbino voleva risanare     il  luogo,  voleva  che facessero il mattatoio da un'altra parte,  che     costruissero un mercato coperto con cupole a  vetri  come  quelle  che     aveva  conosciuto  negli  antichi  grandi  mercati  sulle  Ramblas  di     Barcellona, dove le provviste erano così ricche e pulite che era quasi     un peccato mangiarsele.  Ma anche i più  compiacenti  dei  suoi  amici     notabili compativano la sua passione illusoria.  Erano così: passavano     la loro vita a proclamare l'orgoglio  della  loro  origine,  i  meriti     storici della città,  il prezzo delle loro reliquie, il loro eroismo e     la loro bellezza,  ma erano ciechi davanti al  tarlo  degli  anni.  Il     dottor Juvenal Urbino,  invece, aveva abbastanza amore per vederla con     gli occhi della verità.
    «Quanto sarà nobile questa città» diceva,  «che sono quattrocento anni     che  stiamo  cercando  di farla finita con lei,  e ancora non ci siamo     riusciti.»
    Erano a buon punto,  comunque.  L'epidemia di  colera,  le  cui  prime     vittime  caddero  fulminate  nelle  pozzanghere  del  mercato,   aveva     provocato in undici settimane la più  grande  mortalità  della  nostra     storia. Fino a quel momento, qualche morto insigne era sepolto sotto i     pavimenti delle chiese, nella vicinanza sprezzante degli arcivescovi e     dei capitolari, e gli altri meno ricchi venivano seppelliti nei patios     dei conventi.  I poveri andavano al cimitero coloniale, su una collina     ventosa separata dalla città da un canale  di  acque  secche,  il  cui     ponte  di malta aveva una pensilina con un'insegna scolpita per ordine     di  qualche  sindaco  lungimirante:  "Lasciate  ogni   speranza,   voi     ch'entrate".  Durante  le  due  prime settimane del colera il cimitero     traboccava, e non era rimasto un posto libero nelle chiese, nonostante     avessero passato nell'ossario comune  i  resti  consunti  di  parecchi     grandi  senza nome.  L'aria della cattedrale si fece rarefatta con gli     effluvi delle cripte mal sigillate, e le loro porte si riaprirono solo     tre anni dopo all'epoca in cui Fermina Daza  vide  da  vicino  per  la     prima  volta  Florentino  Ariza alla messa di mezzanotte.  Nella terza     settimana il chiostro del convento di Santa Clara si trovò pieno  fino     ai  viali  e  fu  necessario  abilitare  come  cimitero  l'orto  della     comunità,  che era grande il doppio.  Lì scavarono fosse profonde  per     interrare a tre livelli,  in fretta e senza precauzioni, ma si dovette     desistere dal  progetto  perché  il  terreno  che  era  traboccato  si     trasformò  come  in  una  spugna che trasudava sotto i passi un sangue     marcio nauseabondo.  Allora si dispose di continuare le sepolture alla     Mano de Dios, una fattoria di bestiame a meno di una lega dalla città,     che poi venne consacrata Cimitero Universale.
    Da  quando  fu  proclamato  il bando del colera,  nella fortezza della     guarnigione locale si sparò un colpo di cannone ogni quarto d'ora,  di     giorno  e  di  notte,  d'accordo con la superstizione cittadina che la     polvere purificava l'ambiente.  Il colera fu molto più feroce  con  la     popolazione  negra,  che  era  la più numerosa e la più povera,  ma in     realtà non fece  considerazioni  di  colore  né  di  lignaggio.  Cessò     improvvisamente  come  era iniziato,  e non si conobbe mai la quantità     dei suoi danni,  non perché fosse impossibile stabilirla ma perché una     delle nostre virtù più usuali era il pudore delle proprie disgrazie.     Il dottor Marco Aurelio Urbino, padre di Juvenal, fu un eroe civile di     quelle  giornate  infauste,  e anche la sua vittima più notevole.  Per     decisione ufficiale ideò e diresse di persona la strategia  sanitaria,     ma  di  sua  iniziativa  finì  per  intervenire in tutti gli affari di     ordine sociale al punto che nei momenti più critici  della  peste  non     sembrava che esistesse nessuna autorità al di sopra di lui. Anni dopo,     rivedendo la cronaca di quei giorni, il dottor Juvenal Urbino verificò     che  il metodo di suo padre era stato più caritatevole che scientifico     e che in molti modi era contrario alla ragione così da  aver  favorito     in gran misura la voracità della peste. Lo verificò con la compassione     dei  figli  che la vita ha trasformato a poco a poco in padri dei loro     padri,  e per la prima volta si dolse di non essere stato con  il  suo     nella  solitudine  dei  suoi  errori.  Ma non lesinò i suoi meriti: la     diligenza e l'abnegazione, e soprattutto il suo valore personale,  gli     meritarono  molti  onori  che  gli  furono  resi  quando  la  città si     ristabilì dal disastro,  e il suo nome rimase giustamente  fra  quelli     delle altrettante vittime di altre guerre meno onorevoli.
    Non  visse la sua gloria.  Quando riconobbe in se stesso gli scompigli     irreparabili che aveva  visto  e  compatito  negli  altri,  non  tentò     neanche  una  battaglia  inutile,  ma  si  appartò  dal  mondo per non     contaminare nessuno.  Chiuso,  da solo,  in  una  stanza  di  servizio     dell'Ospedale  della Misericordia,  sordo alle chiamate dei colleghi e     alle  suppliche  dei  suoi,  estraneo  all'orrore  dei  pestiferi  che     agonizzavano  sul  pavimento  dei  corridoi traboccanti,  scrisse alla     moglie e ai figli una lettera d'amore  febbrile,  di  gratitudine  per     essere  esistiti,  nella quale si rivelava quanto e con quanta avidità     avesse amato la vita.  Fu un addio di venti fogli stracciati nei quali     si  notavano  i  progressi  della  malattia  dal  deterioramento della     scrittura, e non era necessario avere conosciuto chi li avesse scritti     per sapere  che  la  firma  era  stata  messa  con  l'ultimo  respiro.     D'accordo con le sue disposizioni,  il corpo incenerito si confuse nel     cimitero comune e non fu visto da nessuno che lo avesse amato.     Il dottor Juvenal Urbino ricevette il telegramma  tre  giorni  dopo  a     Parigi  durante  una cena di amici e fece un brindisi con lo champagne     alla memoria di suo padre.  Disse: «Era  un  uomo  buono».  Più  tardi     avrebbe  dovuto  rimproverare a se stesso la sua mancanza di maturità:     eludeva la realtà per non piangere.  Ma tre settimane  dopo  ricevette     una  copia della lettera postuma e allora si arrese alla verità.  D'un     tratto gli si rivelò a fondo l'immagine dell'uomo che aveva conosciuto     prima di chiunque altro,  che lo aveva allevato  e  istruito  e  aveva     dormito e fornicato trentadue anni con sua madre, e tuttavia mai prima     di  quella lettera gli si era mostrato così come era in anima e corpo,     per pura e semplice timidezza. Fino ad allora il dottor Juvenal Urbino     e la sua famiglia avevano pensato alla morte come a un  incidente  che     capitava  agli altri,  ai padri degli altri,  ai fratelli e ai coniugi     degli altri,  ma non ai loro.  Era gente di vita  lenta,  che  non  si     vedeva  diventare  vecchia  né  ammalarsi  né  morire,  ma  che andava     svanendo a poco a poco nel suo tempo,  diventando  ricordi,  brume  di     un'altra  epoca,  finché li assimilava l'oblio.  La lettera postuma di     suo padre, più del telegramma con la cattiva notizia,  lo mandò con la     faccia a terra contro la certezza della morte. E comunque uno dei suoi     ricordi più remoti, forse di quando aveva nove anni, forse undici, era     in  un  certo  modo  un  segnale  prematuro della morte attraverso suo     padre. Tutti e due erano rimasti nello studio di casa un pomeriggio di     pioggia,  lui a disegnare allodole e girasoli  con  gessetti  colorati     sulle  piastrelle  del  pavimento,  e  suo  padre  a leggere contro il     bagliore della finestra,  con il gilè sbottonato ed elastici di  gomma     alle  maniche  della camicia.  D'un tratto aveva interrotto la lettura     per grattarsi la spalla con un raschietto col manico lungo  che  aveva     una  manina d'argento all'estremità.  Siccome non ce la faceva,  aveva     chiesto al figlio di grattarlo con le  sue  unghie,  e  lui  lo  fece,     dandogli  la  strana sensazione di non sentire il proprio corpo mentre     veniva grattato.  Alla fine suo padre lo aveva guardato da sopra  alla     spalla con un sorriso triste.
    «Se  morissi adesso» gli aveva detto,  «ti ricorderesti a stento di me     quando avrai la mia età.»
    Lo aveva detto senza nessun motivo apparente,  e l'angelo della  morte     era  fluttuato per un attimo nella penombra fresca dello studio ed era     uscito nuovamente dalla finestra lasciando al suo passaggio  una  scia     di  piume,  ma  il  bambino  non le aveva viste.  Erano passati più di     vent'anni da allora, e Juvenal Urbino avrebbe avuto molto presto l'età     che aveva suo padre quel pomeriggio.  Si sapeva identico a lui e  alla     coscienza  di esserlo si era aggiunta ora la coscienza sorprendente di     essere mortale come lui.
    Il colera si trasformò per lui in un'ossessione.  Non ne sapeva  molto     più di quanto avesse imparato di routine in qualche corso marginale, e     gli  era  sembrato  inverosimile  che  solo  trent'anni  prima  avesse     provocato in Francia, compresa Parigi, più di centoquarantamila morti.     Ma dopo  la  morte  di  suo  padre  apprese  tutto  quanto  si  poteva     apprendere  sulle  diverse forme del colera,  quasi come una penitenza     per pacificare la sua  memoria,  e  fu  allievo  dell'epidemiologo  di     maggior  fama  del  suo  tempo  e  creatore  dei cordoni sanitari,  il     professor Adrien Proust,  padre del  grande  scrittore.  Così,  quando     tornò alla sua terra e sentì dal mare il fetore del mercato,  e vide i     topi  nelle  fogne  e  i  bambini  che  si  rivoltolavano  nudi  nelle     pozzanghere delle strade,  non solo capì che la disgrazia era successa     ma ebbe la certezza che si sarebbe ripetuta in qualsiasi momento.     Non passò molto tempo. Prima di un anno,  i suoi allievi dell'Hospital     de  la  Misericordia  gli chiesero di aiutarli con un malato di carità     che aveva uno strano colore azzurro  su  tutto  il  corpo.  Al  dottor     Juvenal  Urbino  fu sufficiente vederlo dalla porta per riconoscere il     nemico.  Ma fu fortunato: il malato era arrivato tre giorni  prima  su     una goletta di Curação ed era andato all'ambulatorio dell'ospedale con
    i  suoi mezzi,  e non pareva probabile che avesse contagiato qualcuno.     In ogni modo,  il dottor Juvenal Urbino mise sull'avviso  i  colleghi,     ottenne  che  le  autorità  dessero l'allarme ai porti vicini affinché     venisse  localizzata  e  fosse  posta   in   quarantena   la   goletta     contaminata,  e  dovette  frenare  il capo militare della piazza,  che     voleva decretare la  legge  marziale  e  applicare  immediatamente  la     terapia del colpo di cannone ogni quarto d'ora.
    «Economizzi  quella  polvere per quando verranno i liberali» gli disse
    con garbo. «Non siamo più nel Medioevo.»
    Il malato morì quattro giorni dopo,  soffocato da un vomito  bianco  e     granuloso,  ma nelle settimane successive non fu scoperto nessun altro     caso  nonostante  l'allarme  costante.  Poco  dopo,   il  "Diario  del     Comercio" pubblicò la notizia che due bambini erano morti di colera in     luoghi diversi della città.  Si provò che uno di loro aveva una comune     diarrea,  ma l'altro,  una bambina di cinque anni,  sembrava che fosse     stata in effetti vittima del colera.  I suoi genitori e i tre fratelli     furono isolati e messi in quarantena individuale,  e tutta la zona  fu     sottoposta  a  una stretta vigilanza medica.  Uno dei bambini prese il     colera e guarì prestissimo,  e  tutta  la  famiglia  tornò  a  casa  a     pericolo scampato. Altri undici casi si registrarono in tre mesi, e al     quinto  ci fu una recrudescenza allarmante,  ma alla fine dell'anno si     considerò che i rischi di un'epidemia erano stati scongiurati. Nessuno     mise in dubbio che il rigore sanitario del dottor Juvenal Urbino,  più     della capacità dei loro bandi,  avesse reso possibile il prodigio.  Da     allora, e per molto tempo in questo secolo,  il colera fu endemico non     solo  nella città ma in quasi tutto il litorale del Caribe e il bacino     de la Magdalena,  ma non tornò a incrudelire come epidemia.  L'allarme     servì  a far sì che gli avvertimenti del dottor Juvenal Urbino fossero     ascoltati con più serietà dal  potere  pubblico.  Venne  istituita  la     cattedra  obbligatoria  di  colera  e  febbre  gialla  alla  Scuola di     Medicina,  e si comprese l'urgenza di chiudere le fogne e di costruire     un mercato distante dall'immondezzaio.  Il dottor Urbino, però, non si     preoccupò in quel momento di invocare la sua vittoria né si  sentì  in     animo di perseverare nelle sue missioni sociali, perché lui stesso era     a quell'epoca con un'ala rotta, stordito e sperso, e deciso a cambiare     tutto  e  a  dimenticarsi di tutto il resto nella vita per il bagliore     d'amore di Fermina Daza.
    Era stato in realtà il frutto di un errore clinico.  Un medico  amico,     che  aveva  creduto di intravedere i sintomi premonitori del colera in     una paziente di diciotto anni,  chiese al  dottor  Juvenal  Urbino  di     andare a visitarla.  Ci andò quello stesso pomeriggio, allarmato dalla     possibilità che la peste  fosse  entrata  nel  santuario  della  città     vecchia,  dato che tutti i casi fino ad allora si erano verificati nei     quartieri marginali,  e quasi tutti fra la  popolazione  negra.  Trovò     altre  sorprese  meno  ingrate.  La  casa,  all'ombra dei mandorli del     Giardino de Los Evangelios,  da fuori sembrava  altrettanto  distrutta     delle  altre  della  zona  coloniale,  ma  dentro c'erano un ordine di     bellezza e una luce incantata  che  sembravano  di  un'altra  età  del     mondo.  L'atrio  dava direttamente su un patio sivigliano,  quadrato e     bianco  di  calce  recente,   con  aranci  fioriti  e   il   pavimento     piastrellato  con  le stesse piastrelle delle pareti.  C'era un rumore     invisibile di acqua continua,  mazzolini di garofani sui cornicioni  e     gabbie di uccelli strani sotto gli archi.  I più strani, in una gabbia     molto grande, erano tre corvi che scuotendo le ali riempivano il patio     di un profumo equivoco.  Parecchi cani alla catena  da  qualche  parte     della  casa  incominciarono  improvvisamente a latrare,  impazziti per     l'odore dell'estraneo, ma un grido di donna li fece tacere di colpo, e     molti gatti saltarono fuori da tutte le parti e  si  nascosero  tra  i     fiori, spaventati dall'autorità della voce. Allora si fece un silenzio     così  chiaro,  che  attraverso il disordine degli uccelli e le sillabe     dell'acqua sulla pietra si coglieva il respiro struggente del mare.
    Spaventato dalla certezza della presenza  fisica  di  Dio,  il  dottor     Juvenal  Urbino  pensò  che  una  casa  come quella fosse immune dalla     peste. Seguì Gala Placidia nel corridoio ad archi,  passò davanti alla     stanza  da lavoro dove Florentino Ariza aveva visto per la prima volta     Fermina Daza quando il patio era ancora in macerie,  salì per le scale     di  marmo nuovo fino al secondo piano,  e aspettò di essere annunciato     prima di entrare nella camera da letto della malata.  Ma Gala Placidia     venne fuori con un messaggio:
    «La  signorina  dice che non può entrare adesso perché suo padre non è     in casa.»
    E così tornò alle cinque del pomeriggio,  secondo l'indicazione  della     domestica,  e  Lorenzo  Daza  in  persona  gli  aprì  il  portone e lo     accompagnò fino alla camera da letto della figlia.  Restò seduto nella     penombra dell'angolo,  con le braccia incrociate e facendo vani sforzi     per dominare il respiro farraginoso,  finché durò la visita.  Non  era     facile sapere chi era più represso,  se il medico col suo tatto pudico     o la malata col suo riserbo da vergine dentro il camicione di seta, ma     nessuno guardò l'altro negli occhi,  se non che lui domandava con voce     impersonale e lei rispondeva con voce tremante, tutti e due dipendendo     dall'uomo  seduto  nella penombra.  Alla fine il dottor Juvenal Urbino     domandò alla malata di sedersi,  e le aprì la camicia  da  notte  fino     alla  cintura con un'attenzione squisita: il seno intatto e altero coi     capezzoli infantili risplendette per un attimo come una vampata  nelle     ombre  dell'alcova,  prima che lei si affrettasse a nasconderlo con le     braccia incrociate. Imperturbabile,  il medico le allontanò le braccia     senza guardarla, e l'auscultò con l'orecchio contro la pelle, prima il     petto e poi le spalle.
    Il  dottor  Juvenal  Urbino  era solito raccontare di non aver provato     nessuna emozione quando aveva conosciuto  la  donna  con  cui  sarebbe     vissuto fino al giorno della sua morte. Ricordava il camicione celeste     con i bordi di pizzo, gli occhi febbrili, i lunghi capelli sciolti giù     per  le  spalle,  ma  era  così preoccupato dall'irruzione della peste     nella zona coloniale, che non guardò niente del molto che lei aveva di     adolescente in fiore, quanto invece il più infimo che potesse avere di     appestata. Lei era stata più esplicita: il giovane medico di cui tanto     aveva sentito parlare a  proposito  del  colera  le  era  sembrato  un     pedante  incapace  di amare nessun altro al di fuori di se stesso.  La     diagnosi fu un'infezione intestinale  di  origine  alimentare  che  si     arrese  con  un  trattamento casalingo di tre giorni.  Sollevato dalla     prova che la figlia non aveva preso il colera, Lorenzo Daza accompagnò     il dottor Juvenal Urbino fino alla carrozza,  gli pagò il  peso  d'oro     della visita,  che gli sembrò eccessivo anche per un medico da ricchi,     ma lo congedò con ostentazioni smodate di gratitudine.  Era abbagliato     dallo splendore dei suoi nomi, e non solo non lo nascondeva ma avrebbe     fatto qualsiasi cosa per vederlo un'altra volta, e in circostanze meno     formali.
    La cosa sarebbe dovuta finire lì.  Tuttavia il martedì della settimana     seguente,  senza essere chiamato e senza nessun preavviso,  il  dottor     Juvenal  Urbino  tornò  alla  casa  all'ora  inopportuna delle tre del     pomeriggio.  Fermina Daza era nella stanza da lavoro  a  prendere  una     lezione  di  pittura  a olio insieme a due amiche,  quando lui apparve     alla finestra con  la  finanziera  bianca,  impeccabile,  e  anche  il     cappello bianco,  a cupola alta,  e le fece segno di avvicinarsi.  Lei     appoggiò la tela sulla sedia e si diresse verso la finestra camminando     in punta di piedi con la gonna a volants alzata fino alle caviglie per     impedire che strusciasse per terra.  Aveva un diadema con un  ciondolo     che  le  cadeva  sulla  fronte,  la cui pietra lucente aveva lo stesso     colore scontroso dei suoi occhi,  e tutto in lei  esalava  un'aura  di     frescura. Al medico richiamò l'attenzione il fatto che si vestisse per     dipingere  in  casa  come  se  andasse a una festa.  Le sentì il polso     dall'esterno della finestra, le fece tirar fuori la lingua, le esaminò     la gola con una  spatola  di  alluminio,  le  guardò  l'interno  delle     palpebre  inferiori,  e ogni volta fece un gesto di approvazione.  Era     meno represso della visita precedente, ma lei lo era di più perché non     capiva il motivo di quella visita  imprevista,  se  lui  stesso  aveva     detto  che  non  sarebbe  tornato  a  meno che l'avessero chiamato per     qualche novità. Anzi: non voleva più rivederlo. Quando finì la visita,     il medico mise la spatola nella valigetta strapiena di strumenti e  di     boccette di medicine, e la chiuse con un colpo secco.
    «Lei sta come una rosa appena spuntata» disse lui.
    «Grazie.»
    «A  Dio» disse,  e citò male San Tommaso: «Si ricordi che tutto quello     che è buono,  venga da dove venga,  proviene dallo Spirito  Santo.  Le     piace la musica?».
    Lo chiese con un sorriso affascinante,  in modo casuale, ma lei non lo     corrispose.
    «Perché questa domanda?» chiese a sua volta.
    «La musica è importante per la salute» disse lui.
    Lo credeva davvero,  e lei avrebbe saputo molto presto e per il  resto     della  sua  vita che il tema della musica era quasi una formula magica     che  lui  usava  per  proporre  un'amicizia,   ma  in   quel   momento     l'interpretò  come  una presa in giro.  Per di più le due amiche,  che     avevano fatto finta di dipingere mentre loro parlavano alla  finestra,     fecero  dei  risolini da topi e si coprirono la faccia con le tele,  e     questo finì di offuscare Fermina Daza.  Cieca  di  rabbia,  chiuse  la     finestra con un colpo secco. Il medico, perplesso davanti alle tendine     di pizzo,  cercò di trovare la via verso il portone ma sbagliò strada,     e nel suo turbamento inciampò nella gabbia dei corvi profumati. Questi     lanciarono uno stridio sordido e agitarono le ali  spaventati,  e  gli     abiti  del  medico  rimasero impregnati di una fragranza da donna.  Il     tuono della voce di Lorenzo Daza lo fece bloccare dove stava.
    «Dottore: mi aspetti lì.»
    Aveva visto tutto dal piano di sopra e stava scendendo le scale mentre     si abbottonava la camicia, gonfio e paonazzo,  e ancora con le basette     scompigliate  da  un  cattivo  sogno della siesta.  Il medico tentò di     dominare il rossore.
    «Ho detto a sua figlia che sta come una rosa.»
    «E' così» disse Lorenzo Daza, «ma con troppe spine.»
    Passò vicino al dottor Urbino senza salutarlo. Spinse le imposte della     finestra della stanza da lavoro e ordinò  alla  figlia  con  un  grido     ruvido: «Vieni a chiedere scusa al dottore».
    Il  medico  cercò  di  mediare per impedirlo,  ma Lorenzo Daza non gli     prestò attenzione.  Insistette: «Sbrigati».  Lei guardò le amiche  con     una  supplica  nascosta  di  comprensione e rispose a suo padre di non     avere niente di che scusarsi,  dato che aveva chiuso la finestra  solo     per impedire che continuasse a entrare il sole. Il dottor Urbino tentò     di  dare  per  buone  le  sue  ragioni,  ma  Lorenzo  Daza persistette     nell'ordine.  Allora Fermina Daza  tornò  alla  finestra,  pallida  di     rabbia  e,  portando  davanti  il  piede destro mentre si sollevava la     gonna con la punta delle dita, fece al medico un inchino teatrale.
    «Le faccio le mie più sentite scuse, signore» disse.
    Il dottor Juvenal  Urbino  la  imitò  giovialmente,  facendo  col  suo     cappello a tuba un gesto da moschettiere, ma non ottenne il sorriso di     pietà  che  si aspettava.  Lorenzo Daza lo invitò poi a prendere nello     studio un caffè riparatore e lui accettò compiaciuto,  perché  non  ci     fosse nessun dubbio che non gli restava nell'animo neanche un sospetto     di risentimento.
    La verità era che il dottor Juvenal Urbino non beveva caffè, salvo una     tazza  a  digiuno.  Non  beveva  neanche alcoolici,  all'infuori di un     bicchiere di vino con i cibi in occasioni solenni,  però non  solo  si     bevette  il  caffè  che  gli  offrì Lorenzo Daza,  ma accettò anche un     bicchierino di "anisado".  Poi accettò un altro  caffè  con  un  altro     bicchierino,  e  poi  un  altro  e un altro ancora,  nonostante avesse     alcune visite da fare.  All'inizio ascoltò con attenzione le scuse che     Lorenzo Daza continuava a fargli a nome di sua figlia, che definì come     una  ragazza  intelligente  e seria,  degna di un principe di qui o di     qualsiasi parte,  il cui unico difetto,  secondo quanto disse,  era il     suo  carattere  da  mula.  Ma  dopo il secondo bicchierino credette di     sentire  la  voce  di  Fermina  Daza  in  fondo  al  patio  e  la  sua     immaginazione  se  ne andò dietro di lei,  la seguì nella notte che si     era appena fatta nella casa mentre accendeva le  luci  del  corridoio,     suffumigava   le  camere  da  letto  con  la  pompa  dell'insetticida,     scoperchiava in cucina la pentola della minestra che si sarebbe bevuta     quella sera con suo padre, lui e lei soli a tavola, senza sollevare lo     sguardo,  senza sorbire la minestra  per  non  rompere  l'incanto  del     rancore,  finché  lui avesse dovuto arrendersi e chiederle perdono per     la sua durezza del pomeriggio.
    Il dottor Urbino conosceva abbastanza le donne per rendersi conto  che     Fermina  Daza  non  sarebbe  passata dall'ufficio finché lui non se ne     fosse andato,  ma  si  attardava  in  ogni  modo  perché  sentiva  che     l'orgoglio  ferito  non  lo  avrebbe  fatto più vivere in pace dopo la     vergogna di quel pomeriggio.  Lorenzo Daza,  ormai quasi ubriaco,  non     sembrava notare la sua mancanza di attenzione perché non aveva bisogno     di  nessuno  con  le  sue  chiacchiere  indomabili.  Parlava a briglia     sciolta,   masticando   il   fiore   del   sigaro   spento,   tossendo     rumorosamente, sputando, sistemandosi a fatica sulla poltrona girevole     le cui molle liberavano lamenti da animale in gabbia. Aveva bevuto tre     bicchierini per ognuno di quelli del suo invitato,  e si interruppe un     attimo solo quando si accorse che  ormai  non  si  vedevano  più  l'un     l'altro e si alzò ad accendere la lampada. Il dottor Juvenal Urbino lo     guardò  di  fronte con la nuova luce,  vide che aveva un occhio storto     come quello di un pesce e che le sue  parole  non  corrispondevano  al     movimento  delle  labbra,  e  pensò che erano sue allucinazioni per il     troppo alcol ingerito.  Allora si alzò con la sensazione  affascinante
    di  essere  dentro  a  un  corpo  che non era il suo,  ma in quello di     qualcuno che continuava a stare seduto sulla sedia dove stava  lui,  e     dovette fare un grande sforzo per non perdere la ragione.
    Erano  le  sette passate quando uscì dallo studio preceduto da Lorenzo     Daza.  C'era la luna piena.  Il patio idealizzato dall'anice fluttuava     sul  fondo  di un acquario,  e le gabbie coperte da stracci sembravano     fantasmi addormentati sotto l'odore caldo dei fiori  d'arancio  nuovi.     La  finestra  della  stanza da lavoro era aperta,  e c'era una lampada     accesa sul tavolo,  e i quadri non finiti stavano sui cavalletti  come     in  una  mostra.  «Dove  stai  che  non ci sei» disse il dottor Urbino     passando,  ma Fermina Daza non lo sentì,  non poteva sentirlo,  perché     stava piangendo di rabbia in camera da letto, sdraiata a pancia in giù     e   aspettando   suo   padre  per  rifarsi  dell'umiliazione  di  quel     pomeriggio.  Il medico non rinunciava all'illusione di  salutarla,  ma     Lorenzo Daza non glielo propose.  Rimpianse l'innocenza del suo polso,     la sua lingua da gatta,  le sue tonsille  delicate,  ma  lo  scoraggiò     l'idea che lei non voleva mai più vederlo né doveva permettere che lui     ci  si  provasse.  Quando  Lorenzo  Daza entrò nell'androne,  i corvi,     svegli  sotto  gli  stracci,  lanciarono  un  gracidio  funereo.   «Ti     strapperanno gli occhi» disse ad alta voce il medico pensando a lei, e     Lorenzo Daza si girò a chiedergli che cosa avesse detto.
    «Non sono stato io» disse lui. «E' stato l'anice.»
    Lorenzo  Daza lo accompagnò fino alla carrozza cercando di convincerlo     a prendere il "peso" d'oro della seconda visita,  ma lui non  accettò.     Diede  corrette  istruzioni  al  cocchiere  di portarlo a casa dei due     ammalati che doveva ancora vedere, e salì in carrozza senza bisogno di     aiuto.  Ma incominciò a sentirsi male  con  i  sobbalzi  sulle  strade     acciottolate,  e  così  ordinò  al cocchiere di cambiare percorso.  Si     guardò per un attimo nel vetro della carrozza e vide che anche la  sua     immagine continuava a pensare a Fermina Daza.  Scrollò le spalle. Alla     fine emise  un  rutto  impastato,  chinò  la  testa  sul  petto  e  si     addormentò,  e  nel  sonno cominciò a sentire le campane a lutto.  Udì     prima quelle della cattedrale,  e poi quelle di tutte le  chiese,  una     dopo l'altra, fino ai cocci rotti di San Julián el Hospitalario.
    «Merda» mormorò ancora semiaddormentato, «sono morti i morti.»     Sua  madre  e le sue sorelle stavano cenando a caffellatte e frittelle     sulla tavola da cerimonie della  sala  da  pranzo  grande,  quando  lo     videro apparire sulla porta con la faccia sconvolta e con tutta la sua     persona  disonorata  dal  profumo  da  puttane  dei corvi.  La campana     maggiore della cattedrale contigua risuonava nell'ambito immenso della     casa. Sua madre gli chiese allarmata dove si era cacciato, dato che lo     avevano cercato dappertutto perché  andasse  a  visitare  il  generale     Ignacio  María,  ultimo nipote del Marchese di Jaraíz de la Vera,  che     era stato colpito quel pomeriggio da una  congestione  cerebrale:  era     per  lui  che  suonavano a morto le campane.  Il dottor Juvenal Urbino     ascoltò sua madre senza sentirla,  attaccato alla cornice della porta,     e poi fece un mezzo giro cercando di arrivare alla sua camera da letto     ma cadde bocconi in un'esplosione di vomito di anice stellato.     «Maria  Santissima» strillò sua madre.  «Deve essere successo qualcosa     di molto strano perché tu ti presenti in casa tua in questo stato.»     La cosa più strana, però, non era ancora accaduta. Approfittando della     visita del famoso pianista Romeo Lussich, che suonò un ciclo di sonate     di Mozart non appena la città si fu ripresa dal lutto per il  generale     Ignacio  María,  il  dottor Juvenal Urbino fece caricare il pianoforte     della Scuola di Musica su un carretto di muli e portò a  Fermina  Daza     una  serenata che fece epoca.  Lei si svegliò ai primi accordi,  e non     dovette fare altro che affacciarsi al balcone per sapere  chi  era  il     promotore  dell'insolito  omaggio.  L'unica cosa che deplorò fu di non     avere il coraggio di altre donzelle già viziate che avevano vuotato il     vaso da notte sulla testa del pretendente indesiderato.  Lorenzo  Daza     invece si vestì in fretta e furia durante l'esecuzione della serenata,     e  alla  fine  fece  entrare  nel salone il dottor Juvenal Urbino e il     pianista, ancora vestiti con gli abiti da cerimonia del concerto, e li     ringraziò della serenata con un bicchiere di buon brandy.
    Fermina Daza si accorse ben presto che suo  padre  stava  cercando  di     intenerirle  il cuore.  Il giorno dopo la serenata le aveva detto come     per caso: «Immagina come si sentirebbe tua madre se  sapesse  che  sei     corteggiata da un Urbino de la Calle».  Lei aveva risposto seccamente:     «Morirebbe di nuovo dentro la bara». Le amiche che dipingevano con lei     le raccontarono che Lorenzo Daza era stato invitato a pranzo  al  Club     Social  dal  dottor Juvenal Urbino,  e che questi era stato oggetto di     una nota di biasimo per essere andato contro le norme del regolamento.     Solo allora  ebbe  anche  notizia  che  suo  padre  aveva  sollecitato     parecchie volte la sua ammissione al Club Social, e in tutte era stato     rifiutato con una quantità di palline nere da non rendere possibile un     nuovo  tentativo.  Ma  Lorenzo  Daza  incassava  le umiliazioni con un     fegato da buon bottaio e continuava  a  fare  sforzi  di  ingegno  per     incontrare  per  caso  Juvenal  Urbino,  senza  rendersi conto che era     Juvenal Urbino a fare l'impossibile per lasciarsi incontrare.  A volte     passavano  ore  a chiacchierare nello studio,  e la casa nel frattempo     rimaneva come sospesa ai margini del tempo,  perché Fermina  Daza  non     permetteva  che  nulla seguisse il suo corso nella vita finché lui non     se ne fosse andato.  Il  Caffè  della  Parrocchia  fu  un  buon  porto     intermedio.  Fu lì dove Lorenzo Daza insegnò a Juvenal Urbino le prime     nozioni degli scacchi,  e lui fu un allievo  così  diligente  che  gli     scacchi si trasformarono in un'assuefazione incurabile che lo tormentò     fino al giorno della sua morte.
 Una sera,  poco dopo la serenata di pianoforte, Lorenzo Daza trovò una     lettera con la busta sigillata nel cortile di casa sua,  indirizzata a     sua  figlia e con il monogramma J.U.C.  impresso sul sigillo.  La fece     scivolare sotto la porta quando passò davanti alla camera da letto  di     Fermina,  e  lei non riuscì a capire come fosse arrivata fin lì,  dato     che le pareva inconcepibile che suo  padre  fosse  tanto  cambiato  da     portarle una lettera di un pretendente.  La lasciò sul comodino, senza     sapere davvero cosa farne,  e lì rimase chiusa  per  parecchi  giorni,     fino  a un pomeriggio di pioggia in cui Fermina Daza sognò che Juvenal     Urbino era tornato a casa per regalarle la spatola con  cui  le  aveva     esaminato  la gola.  La spatola del sogno non era d'alluminio ma di un     metallo appetitoso che lei  aveva  assaggiato  con  piacere  in  altri     sogni,  cosicché  la ruppe in due pezzi disuguali e diede a lui quello     più piccolo.
    Quando si svegliò aprì la  lettera.  Era  breve  e  irreprensibile,  e     l'unica  cosa  che  Juvenal Urbino le domandava era di permettergli di     chiedere  a  suo  padre  il  permesso  di  venirla   a   trovare.   La     impressionarono  la  sua  semplicità  e  la  sua serietà,  e la rabbia     coltivata con tanto amore per molti giorni  si  sedò  improvvisamente.     Mise  la lettera in un piccolo forziere fuori uso sul fondo del baule,     ma si ricordò che era lì dove aveva messo anche le  lettere  profumate     di Florentino Ariza, e la tolse dal forzierino per cambiarle di posto,     turbata  da  un  lampo  di vergogna.  Allora le sembrò che la cosa più     decente fosse darla come non  ricevuta,  e  la  bruciò  sulla  lampada     guardando  come le gocce della ceralacca sbocciassero in bolle azzurre     sulla fiamma. Sospirò: «Pover'uomo». Improvvisamente si rese conto che     era la seconda volta che lo diceva in poco più di un anno,  e  per  un     attimo  pensò  a Florentino Ariza,  e lei stessa fu sorpresa di quanto     lontano fosse dalla sua vita: pover'uomo.
    In ottobre,  con le ultime piogge,  arrivarono altre tre  lettere,  la     prima   accompagnata  da  una  scatoletta  di  pastiglie  di  violetta     dell'Abbazia di Flavigny.  Due le aveva consegnate al portone di  casa     il  cocchiere  del  dottor  Juvenal Urbino,  e lui aveva salutato Gala     Placidia dal finestrino della carrozza,  innanzitutto  perché  non  ci     fosse  dubbio  che le lettere erano sue,  e poi perché nessuno potesse     dirgli che non erano  state  ricevute.  In  più,  tutte  e  due  erano     sigillate   con  il  monogramma  di  ceralacca,   e  scritte  con  gli     scarabocchi criptici che Fermina Daza ormai conosceva: calligrafia  da     medico.  Tutte  e due dicevano in sostanza le stesse cose della prima,     ed erano concepite con lo stesso spirito di sottomissione, ma in fondo     alla loro decenza si incominciava a intravedere un'ansia che  non  era     mai  stata  evidente  nelle  lettere  circospette di Florentino Ariza.
    Fermina Daza le lesse non appena furono consegnate,  con due settimane     di  differenza,  e  senza  spiegarselo lei stessa cambiò parere quando     stava per gettarle nel fuoco. Tuttavia, non pensò mai di rispondere.     La terza lettera  di  ottobre  era  stata  fatta  scivolare  sotto  il     portone, e in tutto era diversa da quelle precedenti. La scrittura era     così puerile che era stata fatta senza dubbio con la mano sinistra, ma     Fermina Daza non se ne accorse se non quando il testo stesso si rivelò     come  un  anonimo  infame.  Chi  l'aveva scritto dava per scontato che     Fermina Daza avesse incantato con i  suoi  filtri  il  dottor  Juvenal     Urbino,  e  da  quella  supposizione  traeva conclusioni sinistre.  Si     chiudeva con una minaccia: se Fermina Daza non avesse rinunciato  alla     sua pretesa di elevarsi con l'uomo più desiderato della città, sarebbe     stata esposta alla pubblica vergogna.
    Si  sentì vittima di una grave ingiustizia,  ma la sua reazione non fu     di vendetta,  bensì esattamente il contrario: avrebbe voluto  scoprire     l'autore  della  lettera  anonima  per  dissuaderlo dal suo errore con     quante spiegazioni fossero pertinenti,  dato che si sentiva sicura che     mai,  per  nessun  motivo,  sarebbe stata sensibile alle galanterie di     Juvenal Urbino.  Nei giorni seguenti ricevette altre due lettere senza     firma,  perfide  come la prima,  ma nessuna delle tre sembrava scritta     dalla stessa persona.  O era  vittima  di  una  congiura  o  la  falsa     versione  dei  suoi  amori  segreti  era  andata più lontano di quanto     potesse  supporre.   La  inquietava  l'idea  che  tutto  quello  fosse     conseguenza di una semplice indiscrezione di Juvenal Urbino.  Le venne     in mente che forse era un uomo diverso  dal  suo  aspetto  degno,  che     forse  chiacchierava  durante  le  visite  e  si  vantava di conquiste     immaginarie,  come tanti altri della sua classe.  Pensò di  scrivergli     per  rimproverargli  l'offesa  del  suo  onore  ma  poi desistette dal     proposito,  perché forse era questo quello che voleva  lui.  Cercò  di     informarsi  dalle amiche che andavano a dipingere con lei nella stanza     da lavoro, ma l'unica cosa che avevano sentito erano commenti benevoli     sulla serenata di pianoforte. Si sentì furiosa,  impotente,  umiliata.     Contrariamente  all'inizio,  quando  avrebbe voluto incontrarsi con il     nemico invisibile per convincerlo dei suoi errori,  adesso voleva solo     farne carne trita per salsicciotti con le cesoie.  Passava le notti in     bianco ad analizzare dettagli ed espressioni  delle  lettere  anonime,     con  l'illusione  di  trovare  una  via  di consolazione.  Fu una vana     illusione: Fermina Daza era estranea per  natura  al  mondo  interiore     degli Urbino de la Calle, e aveva armi per difendersi dalle loro buone     arti, ma non da quelle cattive.
    Questa  convinzione  si  fece  ancora più amara dopo lo spavento della     bambola negra che le arrivò in quei giorni senza nessuna  lettera,  ma     la  cui  origine le parve facile a immaginarsi: solo il dottor Juvenal     Urbino poteva averla  mandata.  Era  stata  comprata  alla  Martinica,     secondo  l'etichetta  originale,  e  aveva  un bel vestito e i capelli     arricciati con dei filamenti d'oro,  e chiudeva gli occhi quando la si     coricava.  Fermina  Daza  la  trovò  così divertente che superò i suoi     scrupoli, e la coricava sul suo cuscino durante il giorno. Si abituò a     dormire con lei. Dopo un po' di tempo, però,  dopo un sogno spossante,     scoprì  che la bambola stava crescendo: lo splendido vestito originale     con cui era arrivata le lasciava le cosce scoperte,  e  le  scarpe  si     erano spaccate per la pressione dei piedi.  Fermina Daza aveva sentito     parlare di stregonerie africane,  ma di nessuna così  spaventosa  come     questa.  D'altra parte,  non poteva concepire che un uomo come Juvenal     Urbino fosse capace di una simile atrocità.  Aveva ragione: la bambola     non  era stata portata dal cocchiere,  ma da un venditore ambulante di     gamberi,  di cui nessuno aveva potuto dare nessuna informazione certa.     Cercando  di  decifrare l'enigma,  Fermina Daza pensò per un momento a     Florentino Ariza,  la cui condizione malinconica la spaventava,  ma la     vita  si  incaricò  di convincerla del suo errore.  Mai fu chiarito il     mistero e solo evocarlo le provocava un  brivido  di  terrore  fino  a     molto tempo dopo che si sposò,  ed ebbe figli,  e si credette l'eletta     dal destino: la più felice.
    L'ultimo tentativo del dottor Urbino fu la  mediazione  della  sorella
    Franca  de  la  Luz,  superiora  del  Colegio de la Presentación de la     Santísima Virgen,  che non poteva dire di no  alla  richiesta  di  una     famiglia che aveva favorito la sua comunità da quando si era stabilita     nelle  Americhe.  Arrivò  accompagnata  da  una  novizia  alle nove di     mattina,  e tutte e due dovettero intrattenersi per  mezz'ora  con  le     gabbie  di uccelli finché Fermina Daza avesse finito di fare il bagno.     Era una  tedesca  virile  con  un  accento  metallico  e  uno  sguardo     imperioso  che  non  avevano  nessuna  relazione  con  le sue passioni     infantili.  Non c'era niente a questo mondo che Fermina  Daza  odiasse     più  di lei,  e di quanto aveva avuto a che vedere con lei,  e il solo     ricordo della sua falsa pietà le provocava un prurito da scorpioni nei     visceri.  Le bastò riconoscerla dalla porta del bagno per rivivere  di     colpo  i  supplizi  del collegio,  l'incubo insopportabile della messa     quotidiana,  il  terrore  degli  esami,  la  diligenza  servile  delle     novizie, la vita tutta pervertita dal prisma della povertà di spirito.     La  sorella  Franca  de  la Luz,  invece,  la salutò con una gioia che     sembrava sincera.  Si sorprese di quanto fosse cresciuta e maturata  e     lodò il giudizio con cui dirigeva la casa, il buon gusto del patio, il     braciere  degli  aranci.  Ordinò alla novizia di aspettarla lì,  senza     avvicinarsi troppo  ai  corvi,  che  in  un  attimo  di  disattenzione     potevano cavarle gli occhi,  e cercò un posto appartato dove sedersi a     parlare a quattr'occhi con Fermina.
    Fu una visita breve e aspra.  La  sorella  Franca  de  la  Luz,  senza     perdere  tempo  in preamboli,  offrì a Fermina Daza una riabilitazione     onorevole. Il motivo dell'espulsione sarebbe stato cancellato non solo     negli atti ma anche dalla memoria della comunità,  e questo le avrebbe     permesso  di  finire  gli studi e di ottenere il diploma di Licenza in     Lettere. Fermina Daza, perplessa, volle conoscerne il motivo.     «E' la richiesta di qualcuno che merita tutto e il cui solo  desiderio     è farti felice» disse la monaca. «Sai chi è?»
    Allora  capì.  Si  domandò  con  che  autorità  servisse  da emissaria     dell'amore una donna che le aveva sconvolto la vita  per  una  lettera     innocente,  ma  non  si azzardò a dirlo.  Disse,  invece,  di sì,  che     conosceva quell'uomo,  e che proprio per quello sapeva che  non  aveva     nessun diritto di intromettersi nella sua vita.
    «L'unica cosa che ti chiede è di permettergli di parlare con te cinque     minuti» disse la monaca. «Sono sicura che tuo padre sarà d'accordo.»     Fermina  Daza  ruminò l'impertinenza guardando la monaca senza battere     ciglio,  la guardò fissa negli  occhi,  senza  parlare,  ruminando  in     silenzio, finché vide con un piacere infinito che i suoi occhi da uomo     si  riempivano  di lacrime.  La sorella Franca de la Luz se le asciugò     con il fazzoletto appallottolato,  e si alzò in piedi.  «Dice bene tuo     padre che sei una mula» disse.
    L'arcivescovo non venne. Cosicché l'assedio sarebbe finito quel giorno     se  non  fosse stato che Hildebranda Sánchez venne a passare il Natale     con sua cugina, e la vita cambiò per tutte e due. Andarono a prenderla     alla goletta di Riohacha alle cinque del mattino, in mezzo a una turba     di passeggeri moribondi per il mal di mare,  ma lei sbarcò  raggiante,     molto  donna,  e  con  lo spirito agitato dalla cattiva notte di mare.     Arrivò carica di cesti di pavoni vivi e di  quanti  frutti  esistevano     nelle sue fertili terre, perché non mancasse a nessuno il cibo durante     la  sua  visita.  Lisímaco Sánchez,  suo padre,  mandava a chiedere se     mancavano i musicisti per le feste,  dato che lui aveva i  migliori  a     sua  disposizione,  e  prometteva  di  mandare  un  carico  di  fuochi     artificiali.  Annunciava anche di non poter venire per la figlia prima     di marzo, cosicché c'era tempo d'avanzo per vivere.
    Le due cugine incominciarono subito. Fecero il bagno insieme dal primo     pomeriggio,  nude,  facendosi  abluzioni  reciproche  con  l'acqua del     serbatoio.  Si aiutavano a insaponarsi,  si schiacciavano  i  lendini,     confrontavano le loro natiche, i loro seni immobili, l'una guardandosi     nello  specchio  dell'altra per valutare con quanta crudeltà le avesse     trattate  il  tempo  dall'ultima  volta  che  si  erano  viste   nude.     Hildebranda era grande e soda,  con la pelle dorata,  ma tutto il pelo     del suo corpo era da mulatta,  corto e riccio come paglietta di ferro.     Fermina Daza,  invece,  aveva una nudità pallida,  di linee lunghe, di     pelle chiara,  di peli lisci.  Gala Placidia aveva fatto  mettere  per     loro  due letti uguali nella stanza,  ma spesso si coricavano in uno e     chiacchieravano a luci spente fino all'alba.  Fumavano dei sigarini da     ladri  da  strada  che Hildebranda aveva portato nascosti nelle fodere     del baule,  e dopo dovevano bruciare dei fogli di carta d'Armenia  per     purificare l'aria da tugurio che lasciavano nella camera. Fermina Daza     lo  aveva fatto per la prima volta a Valledupar,  e aveva continuato a     farlo a Fonseca, a Riohacha,  dove si chiudevano anche in dieci cugine     in  una  stanza  a  parlare  di  uomini e a fumare di nascosto.  Aveva     imparato a fumare all'incontrario, con la brace dentro la bocca,  come     fumavano gli uomini nelle notti di guerra perché non li denunciasse la     brace del tabacco.  Ma non avevano mai fumato da sole. Con Hildebranda     a casa sua lo fece tutte le sere prima di dormire,  e da allora  prese     l'abitudine  di  fumare,  anche se sempre di nascosto,  perfino da suo     marito e dai suoi figli,  non solo perché era malvisto che  una  donna     fumasse  in  pubblico  ma anche perché aveva il piacere associato alla     clandestinità.
    Anche il viaggio di Hildebranda le era stato imposto dai genitori  per     cercare di allontanarla dal suo amore impossibile, anche se le avevano     fatto  credere  che  fosse per aiutare Fermina a decidersi per un buon     partito.  Hildebranda lo aveva accettato con  l'illusione  di  eludere     l'oblio,  come  aveva  fatto la cugina al suo momento,  ed era rimasta     d'accordo con il  telegrafista  di  Fonseca  perché  mandasse  i  suoi     messaggi  con  la massima segretezza.  Per questo fu così amara la sua     delusione quando seppe che Fermina  Daza  aveva  ripudiato  Florentino     Ariza.   Inoltre,   Hildebranda   aveva   una   concezione  universale     dell'amore,  e pensava che qualsiasi cosa fosse accaduta a uno avrebbe     colpito  tutti  gli  amori del mondo intero.  Tuttavia non rinunciò al     progetto.  Con un'audacia che provocò a  Fermina  Daza  una  crisi  di     spavento,  se  ne andò da sola all'ufficio del telegrafo con l'intento     di guadagnarsi il favore di Florentino Ariza.
    Non lo avrebbe riconosciuto,  dato che non aveva neanche una  fattezza     corrispondente  all'immagine  che  lei  si era fatta di lui attraverso     Fermina Daza.  A prima vista le parve impossibile che sua cugina fosse     stata sul punto di impazzire per quell'impiegato quasi invisibile, con     l'aria  da cane bastonato,  il vestito da rabbino in disgrazia e i cui     modi solenni non potevano alterare il cuore di nessuno.  Ma ben presto     si  pentì della prima impressione,  perché Florentino Ariza si mise al     suo servizio incondizionatamente senza sapere chi fosse: non lo  seppe     mai. Nessuno l'avrebbe capita come lui, così non le chiese di dire chi     fosse  né  le  domandò  alcun  indirizzo.  La  sua  soluzione fu molto     semplice:  lei  sarebbe  passata  tutti  i  mercoledì  al   pomeriggio     all'ufficio  del  telegrafo  perché  lui  le consegnasse le risposte a
    mano, e nient'altro. D'altro canto,  quando lui lesse il messaggio che     Hildebranda portava scritto le domandò se accettava un suggerimento, e     lei  fu d'accordo.  Florentino Ariza fece prima qualche correzione fra     le righe, le cancellò, le riscrisse, rimase senza spazio,  e alla fine     stracciò  il  foglio e scrisse di nuovo un messaggio diverso che a lei     parve commovente. Quando uscì dall'ufficio del telegrafo,  Hildebranda     stava per piangere.
    «E' brutto e triste» disse a Fermina, «ma è tutto amore.»
    Quello  che  maggiormente  richiamò  l'attenzione di Hildebranda fu la     solitudine  della  cugina.  Sembrava,  le  disse,   una  zitellona  di     vent'anni.  Abituata a una famiglia numerosa e dispersa,  in case dove     nessuno sapeva esattamente  quanti  ci  vivessero  né  chi  andasse  a     mangiare  ogni  volta,  Hildebranda non poteva immaginarsi una ragazza     della sua età ridotta alla clausura della sua vita privata.  Era così:     da  quando  si alzava alle sei del mattino finché spegneva la luce del     comodino si consacrava alla perdita del tempo.  La vita le si imponeva     da fuori.  Prima,  con gli ultimi galli, l'uomo del latte la svegliava     col batacchio del portone.  Poi bussavano la donna del  pesce  con  la     cassetta  di  pagari  moribondi  in  un letto di alghe,  le venditrici     sontuose con le verdure di María la Baja, la frutta di San Jacinto.  E     poi,  durante  tutto  il  giorno,  bussavano  tutti: i mendicanti,  le     ragazze  delle  riffe,  le  suore  della  carità,  l'arrotino  con  la     coramella,  quello  che  comprava  bottiglie,  quello che comprava oro     rotto,  quello che comprava carta di giornale,  le false gitane che si     offrivano  di leggere il destino nelle carte,  nelle linee della mano,     nel fondo del caffè, nell'acqua dei catini. A Gala Placidia andava via     la settimana aprendo e chiudendo il portone per dire di no,  torni  un     altro  giorno,  o  gridando dal balcone con l'umore inverso di non dar     più fastidio,  cazzo,  che abbiamo già comprato quello che ci mancava.     Aveva  rimpiazzato la zia Escolástica con tanto fervore e tanta grazia     che Fermina la confondeva con lei perfino per amarla. Aveva ossessioni     da schiava.  Non appena trovava un momento  libero  se  ne  andava  in     guardaroba a stirare la biancheria, la lasciava perfetta, la sistemava     negli  armadi con fiori di spigo,  e non solo stirava e piegava quella     che aveva appena lavato ma anche  quella  che  aveva  perduto  il  suo     nitore  per  mancanza  di  uso.  Con la stessa attenzione continuava a     curare il vestiario di Fermina Sánchez, la madre di Fermina,  morta da     quattordici  anni.  Ma  era  Fermina  Daza  che prendeva le decisioni.     Ordinava quello che si doveva mangiare, quello che si doveva comprare,     quello che bisognava fare in ogni caso,  e in quel modo determinava la     vita di una casa che in realtà non aveva niente da determinare. Quando     finiva  di  lavare  le gabbie e di dar da mangiare agli uccelli,  e di     curare che non mancasse niente ai fiori,  restava  senza  sapere  cosa
    fare.  Spesso,  dopo  che  era  stata  espulsa  dal  collegio,  si era     addormentata durante la siesta e non si era svegliata fino  al  giorno     dopo.  Le  lezioni  di  pittura  furono solo un modo più divertente di     perdere il tempo.
    I rapporti con suo padre erano privi di affetto dall'esilio della  zia     Escolástica,  anche  se  tutti e due avevano trovato il modo di vivere     insieme senza darsi fastidio a vicenda. Quando lei si alzava,  lui già     se ne era andato ai suoi affari. Raramente mancava al rito del pranzo,     anche  se  non mangiava quasi,  dato che gli bastavano gli aperitivi e     gli stuzzichini "gallegos" del Caffè della Parrocchia.  E  non  cenava     nemmeno:  gli  lasciavano la sua parte sul tavolo,  tutta in un piatto     solo e coperta con un altro,  anche  se  sapevano  che  non  l'avrebbe     mangiata  fino  al  giorno  dopo riscaldata alla prima colazione.  Una     volta alla settimana dava alla figlia il denaro per le spese,  che lui     calcolava   molto   bene  e  che  lei  amministrava  con  rigore,   ma     accondiscendeva con piacere a qualsiasi richiesta che lei  gli  avesse     fatto per qualche spesa imprevista.  Non le lesinava mai il centesimo,     non le chiedeva mai conti,  ma lei si comportava come se avesse dovuto     renderli  di  fronte  al tribunale del Sant'Uffizio.  Non le aveva mai     parlato della natura e dello stato dei suoi affari, né l'aveva portata     mai a conoscere i suoi uffici del porto, che erano in un luogo vietato     alle signore di buoni costumi anche se accompagnate dai propri  padri.     Lorenzo  Daza  non arrivava a casa prima delle dieci di sera,  che era     l'ora del coprifuoco nelle epoche meno critiche delle guerre. Rimaneva     fino a quell'ora al Caffè della Parrocchia,  a giocare  a  quello  che     capitava  perché  era uno specialista in tutti i giochi di società,  e     anche un buon maestro.  Era sempre arrivato a casa in  possesso  delle     sue  facoltà  senza  svegliare la figlia,  nonostante bevesse il primo     "anisado" appena sveglio e continuasse a  masticare  un'estremità  del     sigaro spento e a bere bicchierini distanziati durante il giorno.  Una     notte,  però,  Fermina lo sentì entrare.  Udì i suoi passi da  cosacco     sulle  scale,  il suo fiato grosso nel corridoio del secondo piano,  i     suoi colpi col palmo della mano sulla  porta  della  camera.  Lei  gli     aprì,  e  per la prima volta si spaventò per il suo occhio storto e il     rallentamento delle sue parole.
    «Siamo rovinati» disse lui. «Rovina totale, ora lo sai.»
    Fu tutto quello che disse, e non lo ridisse mai più né successe niente     che indicasse se aveva detto o meno la verità,  ma dopo  quella  notte     Fermina  Daza  prese  coscienza di essere sola al mondo.  Viveva in un     limbo sociale.  Le sue vecchie compagne di scuola stavano in un  cielo     proibito per lei,  e molto di più dopo il disonore dell'espulsione, ma     non era neanche  vicina  dei  suoi  vicini,  perché  questi  l'avevano     conosciuta  senza  passato  e  con l'uniforme della Presentación de la     Santísima Virgen.  Il  mondo  di  suo  padre  era  di  commercianti  e     stivatori,  di  rifugiati  da guerre nel covo pubblico del Caffè della     Parrocchia,  di uomini soli.  Nell'ultimo anno,  le lezioni di pittura     l'avevano un po' alleggerita della sua reclusione, perché l'insegnante     preferiva  le  lezioni  collettive ed era solita portare altre allieve     nella stanza  da  lavoro.  Ma  erano  ragazze  di  condizioni  sociali     disperse e mal definite, e per Fermina Daza non erano altro che amiche     precarie  il cui affetto terminava a ogni lezione.  Hildebranda voleva     aprire la casa,  rinnovare l'aria,  portare i musicisti e i razzi e  i     castelli  pirotecnici  di suo padre e fare un ballo di carnevale i cui     venti impetuosi radessero al suolo l'animo tarlato  della  cugina,  ma     ben  presto si rese conto che i suoi propositi erano inutili.  Per una     semplice ragione: non c'era con chi.
    In ogni modo,  fu lei a inserirla nella vita.  I  pomeriggi,  dopo  le     lezioni di pittura,  si faceva portare in giro per conoscere la città.     Fermina Daza le mostrò il percorso che faceva ogni giorno con  la  zia     Escolástica,  la panchina del giardinetto dove Florentino Ariza faceva     finta di leggere mentre l'aspettava,  le stradine lungo  le  quali  la     seguiva,  i nascondigli delle lettere,  il palazzo sinistro dove c'era     stato il carcere del Sant'Uffizio e che poi  era  stato  restaurato  e     trasformato nel Colegio de la Presentación de la Santísima Virgen, che     lei odiava con tutta la sua anima. Salirono sulla collina del cimitero     dei  poveri,  dove Florentino Ariza suonava il violino a seconda dello     spirare dei venti perché lei potesse  sentirlo  dal  letto,  e  da  lì     videro  tutta  la  città storica,  i tetti rotti e i muri tarlati,  le     rovine delle fortezze in mezzo alle erbacce, la distesa di isole della     baia, le baracche di miseria intorno ai pantani, il Caribe immenso.     La notte di Natale andarono alla messa di mezzanotte nella cattedrale.     Fermina  occupò  il  posto  dove  le   arrivava   meglio   la   musica     confidenziale  di  Florentino  Ariza  e  mostrò  a sua cugina il luogo     esatto in cui in una notte come quella aveva visto da  vicino  per  la     prima volta i suoi occhi spaventati.  Si arrischiarono da sole fino al     Portal de los Escribanos,  comprarono dolci,  si fermarono nel negozio     di  carte  di fantasia,  e Fermina Daza indicò alla cugina il luogo in     cui aveva improvvisamente scoperto  che  il  suo  amore  era  solo  un     miraggio.  Non  si  rendeva  conto lei stessa che ogni suo passo dalla     casa al collegio, ogni luogo della città, ogni momento del suo passato     recente non sembravano esistere se  non  grazie  a  Florentino  Ariza.     Hildebranda  glielo  fece  notare,  ma  lei non lo ammise,  perché mai     avrebbe ammesso la realtà che Florentino Ariza,  nel bene o nel  male,     era l'unico che le era capitato nella vita.
    In  quei giorni venne un fotografo belga che installò il suo studio ai     piani superiori del Portal  de  los  Escribanos,  e  chiunque  potesse     pagarlo  approfittò  dell'occasione  per farsi un ritratto.  Fermina e
    Hildebranda furono tra le prime.  Svuotarono il guardaroba di  Fermina     Sánchez,  si divisero i vestiti più vistosi, gli ombrellini, le scarpe     da festa,  i cappelli,  e si vestirono da dame di  metà  secolo.  Gala     Placidia  le  aiutò  a  stringere  i corsetti,  gli insegnò a muoversi     dentro le armature di fil  di  ferro  delle  crinoline,  a  calzare  i     guanti,  ad abbottonarsi gli stivaletti con i tacchi alti. Hildebranda     preferì un cappello a  falde  larghe  con  piume  di  struzzo  che  le     cadevano su una spalla.  Fermina se ne mise uno più recente,  guarnito     con frutti di gesso dipinto e fiori di tessuto  di  crine.  Alla  fine     risero  di  loro  stesse quando si videro allo specchio così simili ai     dagherrotipi delle nonne, e se ne andarono felici, morte dal ridere, a     farsi fare la fotografia della loro vita.  Gala Placidia le guardò dal     balcone  mentre  attraversavano  il  parco  con gli ombrellini aperti,     tenendosi in equilibrio  come  potevano  sui  tacchi  e  spingendo  le     crinoline con tutto il corpo come girelli da bambini,  e diede loro la     benedizione perché Dio le aiutasse nei loro ritratti.
    C'era  confusione  davanti  allo  studio  del  belga,  perché  stavano     fotografando  Beny  Centeno,   che  in  quei  giorni  aveva  vinto  il     campionato di boxe a Panama. Era in pantaloncini da combattimento, con     i guanti indosso e la corona sulla testa, e non fu facile fotografarlo     perché doveva rimanere  in  posizione  di  guardia  per  un  minuto  e     respirando il meno possibile,  ma appena alzava la guardia i suoi fans     prorompevano in ovazioni,  e lui non poteva resistere alla  tentazione     di  compiacerli  esibendo  le  sue arti.  Quando arrivò il turno delle     cugine il cielo si era annuvolato e la pioggia  pareva  imminente,  ma     loro si lasciarono incipriare le facce con amido e si appoggiarono con     tale  naturalezza  a una colonna di alabastro che riuscirono a restare     immobili per più tempo di quanto sembrasse ragionevole. Fu un ritratto     eterno. Quando Hildebranda morì, quasi centenaria,  nella sua fattoria     di  Flores  de  María,  trovarono  la  sua  copia  chiusa  sottochiave     nell'armadio della stanza da  letto,  nascosta  tra  le  pieghe  delle     lenzuola  profumate,  vicino a un fossile di viola del pensiero in una     lettera cancellata dagli anni.  Fermina Daza tenne sempre la  sua  per     molti  anni  nella  prima  pagina  di  un  album di famiglia,  da dove     scomparve senza che si sapesse né come né quando, e capitò tra le mani     di Florentino Ariza per una serie di casualità inverosimili quando già     tutti e due avevano superato i sessanta.
    La piazza davanti al Portal de los Escribanos era  stracolma  fino  ai     balconi  quando Fermina e Hildebranda uscirono dallo studio del belga.     Avevano dimenticato di avere le facce bianche di  amido  e  le  labbra     dipinte  con  una  pomata  color cioccolato,  e che i loro vestiti non     erano adatti né all'ora né all'epoca.  La strada  le  accolse  con  un     fischio ironico. Erano in un angolo, cercando di sottrarsi al pubblico     dileggio, quando si fece strada in mezzo alla folla il landò dai sauri     dorati.  Il fischio cessò e i gruppi ostili si dispersero. Hildebranda     non avrebbe mai dimenticato la prima visione dell'uomo che apparve sul     predellino, il suo cilindro di raso,  il suo gilè di broccato,  i suoi     gesti  saggi,  la  dolcezza dei suoi occhi,  l'autorevolezza della sua     presenza.
    Anche se non l'aveva mai visto,  lo riconobbe subito.  Fermina Daza le     aveva  parlato  di  lui,  quasi per caso e senza nessun interesse,  un     pomeriggio del mese prima quando non aveva voluto passare  dalla  casa     del  Marchese  de  Casalduero  perché  il  landò coi due cavalli d'oro     stazionava  davanti  al  portone.  Le  aveva  raccontato  chi  era  il     proprietario   e  aveva  cercato  di  spiegarle  i  motivi  della  sua     antipatia,  anche se non le aveva detto una parola delle sue  pretese.     Hildebranda lo aveva dimenticato.  Ma quando lo identificò sulla porta     della carrozza come un'apparizione da favola, con un piede per terra e     l'altro sul predellino, non capì le ragioni della cugina.
    «Fatemi la cortesia di salire» disse loro il  dottor  Juvenal  Urbino.
    «Vi porto dove volete.»
    Fermina  Daza  fece  un  gesto di reticenza ma ormai Hildebranda aveva     accettato.  Il dottor Juvenal Urbino scese a terra,  e  con  la  punta     delle  dita,  quasi  senza  toccarla,  la  aiutò a salire in carrozza.     Fermina, senza alternative,  salì dopo di lei con la faccia accesa dal     rossore.
    La  casa  era appena a tre isolati.  Le cugine non si accorsero che il     dottor Urbino si era messo d'accordo col cocchiere,  ma doveva  essere     così,  perché la carrozza impiegò più di mezz'ora per arrivare.  Erano     sedute sul sedile principale, e lui di fronte a loro,  dando le spalle     al  senso  di  marcia della carrozza.  Fermina girò la faccia verso il     finestrino e si sprofondò nel vuoto. Hildebranda invece era incantata,     e il dottor Urbino ancora più incantato con il suo  incantamento.  Non     appena la carrozza incominciò a muoversi,  lei sentì l'odore caldo del     cuoio naturale dei  sedili,  l'intimità  dell'interno  "capitonné",  e     disse  che  le  sembrava  un  posto buono dove fermarsi a vivere.  Ben     presto incominciarono a ridere,  a scambiarsi scherzi da vecchi amici,     e  trasformarono  persino un gioco di ingegno in un gergo facile,  che     consisteva nell'intercalare a ogni sillaba una sillaba  convenzionale.     Facevano finta di credere che Fermina non li capisse,  benché non solo     sapessero che li capiva  ma  anche  che  stava  dietro  a  quello  che     facevano  e  per  questo lo facevano.  A un certo momento,  dopo molto     ridere,  Hildebranda confessò di  non  farcela  più  a  sopportare  il     supplizio degli stivaletti.
    «Niente di più facile» disse il dottor Urbino. «Vediamo chi fa prima.»     Incominciò a slacciarsi i lacci delle scarpe, e Hildebranda accettò la     sfida. Non le fu facile, per l'impedimento del corsetto con le stecche     che  non  le  permetteva  di chinarsi,  ma il dottor Urbino indugiò di     proposito,  finché lei si tolse gli stivaletti da sotto la  gonna  con     una risata di trionfo, come se li avesse appena pescati in uno stagno.     Tutti  e  due  guardarono  allora  Fermina,  e videro il suo magnifico     profilo da  rigogolo  più  affilato  che  mai  contro  l'incendio  del     tramonto.  Era  tre volte furiosa: per la situazione immeritata in cui     si trovava,  per la  condotta  libertina  di  Hildebranda,  e  per  la     certezza che la carrozza continuava a girare senza senso per ritardare     l'arrivo. Ma Hildebranda andava a briglie sciolte.
    «Adesso  mi  rendo conto» disse,  «che quello che mi dava fastidio non     erano le scarpe ma questa gabbia di fil di ferro.»
    Il  dottor  Urbino  capì  che  si  riferiva  alla  crinolina  e  colse     l'occasione al volo.  «Niente di più facile» disse. «Se la tolga.» Con     rapido gesto da prestigiatore si tolse il fazzoletto dal taschino e si     bendò gli occhi.
    «Io non guardo» disse.
    La benda fece risaltare la purezza delle  sue  labbra  in  mezzo  alla     barba  rotonda  e nera e i baffi dalle punte affilate,  e lei si sentì     scossa da una fitta di panico. Guardò Fermina,  e stavolta non la vide     furiosa, ma terrorizzata al pensiero che lei fosse capace di togliersi     la sottana. Hildebranda si fece seria e le chiese con l'alfabeto muto:     «Che cosa facciamo?». Fermina Daza le rispose con lo stesso codice che     se  non  andavano  subito  a  casa  lei  si  sarebbe buttata giù dalla     carrozza in marcia.
    «Sto aspettando» disse il medico
    «Adesso può guardare» disse Hildebranda.
    Il dottor Juvenal Urbino la trovò diversa quando si fu tolto la benda,     e capì che il gioco era finito, ed era finito male.  A un suo cenno il     cocchiere fece girare la carrozza su se stessa,  ed entrò nel Giardino     de Los Evangelios  nel  momento  in  cui  il  lampionaio  accendeva  i     lampioni  pubblici.  Tutte le chiese suonarono l'Angelus.  Hildebranda     scese in fretta,  un po' turbata dall'idea di aver fatto inquietare la     cugina,  e  si  congedò  dal  medico  con  una  stretta  di mano senza     cerimonie.  Fermina la imitò,  ma quando cercò di ritirare la mano con     il  guanto  di  raso,  il  dottor  Urbino le strinse forte il dito del     cuore.
    «Sto aspettando la sua risposta» le disse.
    Fermina allora diede uno strattone più forte,  e il guanto vuoto restò     penzoloni nella mano del medico, ma non si attardò a recuperarlo. Andò     a  letto senza toccare cibo.  Hildebranda,  come se non fosse successo     niente, entrò in camera dopo aver cenato con Gala Placidia in cucina e     commentò con la sua grazia naturale gli incidenti del pomeriggio.  Non     nascose il suo entusiasmo per il dottor Urbino,  per la sua eleganza e     la sua simpatia,  e Fermina non le rispose con nessun commento,  ma si     era  ripresa  dalla  contrarietà.  A  un  certo  punto  Hildebranda lo     confessò: quando il dottor Juvenal Urbino si era bendato gli  occhi  e     lei  aveva  visto  lo  splendore  dei denti perfetti fra le sue labbra     rosate aveva sentito un desiderio irresistibile di mangiarselo a forza     di baci.  Fermina Daza si girò verso  il  muro  e  pose  termine  alla     conversazione senza intenzione di offendere,  anzi sorridente,  ma con     tutto il cuore.
    «Che puttana sei!» disse.
    Dormì  a  sbalzi,   vedendo  il  dottor  Juvenal  Urbino  dappertutto,     vedendolo ridere, cantare, sprigionando faville di zolfo dai denti con     gli  occhi bendati,  burlandosi di lei con un gergo senza regole fisse     in una carrozza distinta che saliva verso il cimitero dei  poveri.  Si     svegliò molto prima dell'alba, esausta, e restò sveglia a occhi chiusi     pensando  agli  anni  innumerevoli che ancora le mancavano per vivere.     Poi,  mentre Hildebranda faceva il bagno,  scrisse una lettera di gran     fretta, la piegò di gran fretta, la mise di gran fretta nella busta, e     prima  che  Hildebranda uscisse dal bagno l'aveva mandata tramite Gala     Placidia al dottor Juvenal Urbino.  Era una lettera delle  sue,  senza     una sillaba di più né di meno,  in cui diceva sì, dottore, che avrebbe     parlato con suo padre.
    Quando Florentino Ariza seppe che Fermina Daza stava per sposarsi  con     un  medico  illustre  e  fortunato,   educato  in  Europa  e  con  una     reputazione insolita  alla  sua  età,  non  ci  fu  potere  capace  di     sollevarlo  dalla  sua  prostrazione.  Tránsito  Ariza  fece  più  del     possibile per consolarlo con espedienti da fidanzata quando si accorse     che aveva perduto la parola e l'appetito e passava le notti in  bianco     a  piangere  in  continuazione,  e  dopo  una settimana riuscì a farlo     mangiare di nuovo.  Parlò  allora  con  don  León  Dodicesimo  Loayza,     l'unico  ancora  vivo  dei  tre fratelli,  e senza dirgli il motivo lo     pregò di dare al nipote un  impiego  per  fare  qualsiasi  cosa  nella     compagnia di navigazione,  sempre che fosse in un porto sperduto nella     boscaglia di La Magdalena,  dove non ci fossero né posta né telegrafo,     né  vedesse  nessuno  che  gli  raccontasse  niente di questa città di     perdizione.  Lo zio non gli diede l'impiego per riguardo nei confronti     della  vedova  del  fratello,  che  non  sopportava  neanche  la  sola     esistenza del bastardo,  ma gli procurò il  posto  di  telegrafista  a     Villa de Leyva,  una città di sogno a più di venti giorni di viaggio e     a quasi tremila metri di altezza sul livello di Calle de las Ventanas.     Florentino  Ariza  non  fu  mai  molto  cosciente  di   quel   viaggio     terapeutico.  Lo  avrebbe  ricordato  sempre,  come  tutto  quello che     avvenne in quell'epoca,  attraverso i cristalli  rarefatti  della  sua     sventura.  Quando  ricevette  il  telegramma  della  nomina  non pensò     neanche di prenderlo in considerazione,  ma Lotario Thugut lo convinse     con  argomenti  tedeschi  che  lo  attendeva un avvenire radioso nella     pubblica amministrazione.  Gli disse: «Il telegrafo è  la  professione     del  futuro».  Gli  regalò  un  paio  di  guanti  foderati con pelo di     coniglio,  un  colbacchetto  e  un  soprabito  con  collo  di  peluche     sperimentato nei gennai glaciali della Baviera. Lo zio León Dodicesimo     gli regalò due vestiti di panno e degli stivali impermeabili che erano     appartenuti al fratello maggiore,  e gli diede un passaggio con cabina     per il prossimo battello. Tránsito Ariza ridusse gli abiti alle misure     di suo figlio, che era meno corpulento del padre e molto più basso del     tedesco,  e gli comprò calze di lana e mutandoni lunghi perché non gli     mancasse  niente  contro  i  rigori  di quel luogo freddo.  Florentino     Ariza,  indurito da  tanto  soffrire,  assisteva  ai  preparativi  del     viaggio  come se avesse assistito un morto nella preparazione dei suoi     onori funebri.  Non disse a nessuno  che  se  ne  andava,  non  salutò     nessuno,  con  l'ermetismo  ferreo  con  cui aveva rivelato solo a sua     madre il segreto della sua passione  nascosta,  ma  alla  vigilia  del     viaggio fece coscientemente un'ultima follia del cuore che ben avrebbe     potuto  costargli  la  vita.  A  mezzanotte si mise il suo abito della     domenica e suonò da solo sotto il balcone di Fermina  Daza  il  valzer     d'amore che aveva composto per lei,  che solo loro due conoscevano,  e     che  era  stato  per  tre  anni  l'emblema   della   loro   complicità     contrastata.  Lo suonò mormorandone le parole,  con il violino bagnato     di lacrime e con un'ispirazione così intensa che  alle  prime  battute     incominciarono a latrare i cani della strada, e poi quelli di tutta la     città,  ma poi si calmarono a poco a poco con la malìa della musica, e     il valzer terminò in un silenzio soprannaturale.  Il  balcone  non  si     aprì,  e  nessuno  si  affacciò sulla strada,  neanche il "sereno" che     quasi sempre accorreva con la sua lucerna  a  cercare  di  godersi  le     ultime note delle serenate.  L'azione fu uno scongiuro di sollievo per     Florentino Ariza,  perché quando rimise il violino nell'astuccio e  si     allontanò  per  le strade morte senza voltarsi a guardare indietro non     sentiva più di andarsene il mattino dopo ma  di  essersene  andato  da     parecchi anni con la decisione irrevocabile di non tornare mai.     Il  battello,  uno dei tre uguali della Compagnia Fluviale del Caribe,     era stato ribattezzato in omaggio al fondatore  "Pío  Quinto  Loayza".     Era  una  casa  galleggiante  di due piani di legno sopra uno scafo di     ferro,  largo e piatto,  con un pescaggio massimo di cinque piedi  che     gli permetteva di sfruttare al meglio i fondali variabili del fiume. I     battelli  più  antichi  erano  stati  fabbricati  a  Cincinnati a metà     secolo,  con il modello  leggendario  di  quelli  che  svolgeranno  il     commercio  dell'Ohio  e  del  Mississippi,  e avevano su ogni lato una     ruota di propulsione mossa da una caldaia  a  legna.  Come  questi,  i     battelli  della  Compagnia  Fluviale  del Caribe avevano nella coperta     inferiore,  quasi sul pelo dell'acqua,  le  macchine  a  vapore  e  le     cucine,  e  i grandi recinti da pollaio dove l'equipaggio attaccava le     amache,  incrociate a diversi livelli.  Al piano superiore avevano  la     plancia di comando,  le cabine del capitano e dei suoi ufficiali,  una     sala di divertimenti e una  sala  da  pranzo,  dove  i  passeggeri  di     riguardo  erano  invitati almeno una volta a cena e a giocare a carte.     Nel piano intermedio avevano sei cabine di prima classe da tutti e due     i lati di un corridoio che serviva da sala da pranzo comune,  e a prua     un  salone aperto sul fiume con corrimano di legno lavorato e pilastri     di ferro,  dove di notte attaccavano le loro amache  i  passeggeri  di     poco conto.  A differenza dei più vecchi,  questi battelli non avevano     le  pale  di  propulsione,   ma  un'enorme  ruota  a  poppa  con  pale     orizzontali sotto i gabinetti soffocanti della coperta dei passeggeri.     Florentino Ariza non si era preso il fastidio di esplorare il battello     appena salito a bordo,  una domenica di luglio alle sette del mattino,     come facevano quasi per istinto quelli che viaggiavano  per  la  prima     volta.  Aveva preso coscienza della sua nuova realtà solo al tramonto,     navigando davanti al gruppo di case di Calamar,  quando era  andato  a     orinare  a  poppa  e aveva visto dall'oblò del gabinetto la gigantesca     ruota a grandi pale girare sotto  i  suoi  piedi  con  una  confusione     vulcanica di spume e vapori ardenti.
    Non  aveva  mai  viaggiato.  Portava  con  sé  un  baule  di latta con     l'abbigliamento pesante, i racconti illustrati che comprava a dispense     mensili e che lui stesso rilegava con copertine di cartone,  e i libri     di versi d'amore che recitava a memoria e che stavano per trasformarsi     in polvere da quanto erano letti e riletti. Aveva lasciato il violino,     che si identificava troppo con la sua disgrazia, ma sua madre lo aveva     obbligato  a  portare  il  "petate",  che era l'occorrente per dormire     molto popolare e pratico: un cuscino,  un lenzuolo,  una bacinella  di     peltro  e una tenda di maglia per le zanzare,  il tutto avvolto in una     stuoia con due corde per attaccare  un'amaca  in  caso  di  necessità.     Florentino  Ariza non voleva portarlo perché pensava che sarebbe stato     inutile in una cabina dove c'era servizio di letti distesi,  ma  dalla     prima  notte dovette ringraziare una volta di più il buon senso di sua     madre.  In effetti,  all'ultimo momento salì  a  bordo  un  passeggero     elegantemente   vestito   che   era  arrivato  all'alba  su  una  nave     dall'Europa,  ed era accompagnato dal governatore della  provincia  in     persona.  Voleva proseguire immediatamente il viaggio con sua moglie e
    sua figlia,  e con il servo in livrea e i  sette  bauli  con  i  bordi     dorati che passarono a stento dalle scalette.  Il capitano, un gigante     di Curação,  riuscì a far leva sul senso patriottico  dei  locali  per     sistemare  i  viaggiatori imprevisti.  A Florentino Ariza spiegò in un     misto di castigliano e di "papiamento" (5) che  l'uomo  era  il  nuovo     ministro  plenipotenziario  d'Inghilterra in viaggio verso la capitale     della repubblica,  gli ricordò come quel regno  avesse  portato  aiuti     decisivi per la nostra indipendenza dal dominio spagnolo, e che quindi     qualsiasi  sacrificio  era  poco  perché  una  famiglia  di  così alto     lignaggio  si  sentisse  a  casa  nostra  meglio  che  nella  propria.