venerdì 13 marzo 2020


 
LA PAROLA
Estratto da "Una bellezza russa e altri racconti"
Vladimir Nabokov

Trascinato dall'estroso vento dei sogni fuori delle vallate della notte, stavo sul ciglio di una strada, sotto un limpido cielo tutto dorato, in una meravigliosa contrada montana. Senza guardare, percepivo da qualche parte laggiù, dietro di me, la lucentezza, gli spigoli e le sfaccettature dell'immenso mosaico di rupi, i precipizi abbaglianti, lo specchio corrusco di molteplici laghi. La mia anima era in preda a una sensazione di divina policromia, di libertà, di sublime: sapevo di essere in Paradiso. Tuttavia, in questa mia anima terrena permaneva, simile a una fiamma che straziava, un (ittico pensiero ancora terreno – e con quale gelosia, con quale inflessibilità lo proteggevo da quell'aura di titanica bellezza che mi circondava… Quel pensiero, quella nuda fiamma di tormento erano rivolti alla mia patria sulla terra: scalzo e misero, sul ciglio di una strada montana, attendevo i caritatevoli, luminosi abitanti del Cielo, mentre il vento, quasi il presentimento di un miracolo, scherzava tra i miei capelli, riempiva le gole di un rombo cristallino, e scompigliava le sete fiabesche degli alberi che fiorivano tra i dirupi lungo la strada; steli d'erba slanciati lambivano i tronchi come lingue di fuoco; ampie corolle dì fiori si staccavano soavi dai rami lucenti e, come aerei calici traboccanti di luce solare, galleggiavano nell'aria, gonfiando i diafani petali aperti; il loro profumo, dolce e umido, mi ricordava quanto di più bello avessi mai conosciuto nella vita.
Di colpo, la strada su cui io mi trovavo – senza fiato per lo sfavillio – si riempì di una bufera d'ali… Sciamando da arcane voragini abbaglianti vennero gli angeli che aspettavo, le ali armoniose spiegate verso l'alto. Il loro incedere era etereo, sembravano nubi variopinte in corsa, i loro volti diafani erano immobili eccetto per il fremito estasiato delle ciglia fulgide. In mezzo a loro si libravano uccelli turchesi il cui canto ricordava allegre risate di fanciulle, e flessuosi animali color arancio dalle bizzarre screziature nere spiccavano lunghi balzi: le creature si avvinghiavano nell'aria, protendevano silenziosamente le zampe satinate, afferravano i fiori volteggianti e, mentre turbinavano e si impennavano con occhi scintillanti, mi sfioravano…
Ali, ali, ali! Come descrivere le loro sinuosità, le loro sfumature? Erano tutte possenti e soffici – fulve, purpuree, di un turchino intenso, di un nero vellutato con uno spolverio fiammeggiante sul margine tondo delle piume incurvate. Quelle nuvole scoscese svettavano imperiose sulle spalle luminescenti degli angeli; ogni tanto uno di loro, colto da una sorta di meraviglioso raptus, come se non potesse trattenere l'esultanza, all'improvviso, per un solo istante, dispiegava la sua bellezza alata, ed era come uno sprazzo di sole, come il luccichio di milioni di occhi.
Passavano a frotte, lo sguardo affiso verso l'alto. Lo vedevo: i loro occhi erano come abissi esultanti, e in quegli occhi si coglieva il deliquio del volo. Incedevano armoniosi, cosparsi di fiori. I fiori spandevano in volo la loro rorida lucentezza; le fiere dal pelo morbido e fulgido giocavano, turbinando e contorcendosi; gli uccelli cinguettavano in beatitudine, spiccando il volo e scendendo in picchiata – mentre io, misero essere accecato e trepido, stavo sul ciglio della strada e nella mia anima di mendicante balbettavo sempre lo stesso pensiero: implora, implorali, racconta, oh sì racconta che sulla più splendida delle stelle di Dio esiste una terra – la mia terra – che sta morendo in un'oscurità opprimente. Avevo la sensazione che, se fossi riuscito ad afferrare nell'incavo della mano anche un solo tremulo riflesso, avrei potuto portare alla mia terra una tale gioia che le anime degli uomini si sarebbero illuminate all'istante, e avrebbero iniziato a vorticare accompagnate dal mormorio e dallo scricchiolio della primavera rinata, dal tuono dorato dei templi che si ridestavano…
Protendendo le mani tremanti, tentando di sbarrare il passo agli angeli, presi ad aggrapparmi agli orli dei loro paramenti luminosi, alle sinuose frange roventi delle loro ali ricurve, che scivolavano tra le mie dita come fiori lanuginosi. Gemevo, mi agitavo, imploravo frenetico la loro carità, ma gli angeli continuavano ad avanzare ignorandomi, i visi cesellati rivolti verso l'alto. Si affrettavano in schiera diretti a una festa paradisiaca, verso uno spiraglio di luce intollerabilmente radiosa dove turbinava e alitava una Divinità a cui non osavo rivolgere il mio pensiero. Vedevo ragnatele di fuoco, chiazze, arabeschi sulle gigantesche ali color ruggine, fulve, violette, mentre sopra di me frusciavano ondate di lanugine, e gli uccelli turchesi coronati di arcobaleno becchettavano, e i fiori veleggiavano nell'aria staccandosi dai rami lucenti… «Aspettate, ascoltatemi» gridavo, tentando di abbracciare le gambe vaporose di un angelo, ma le piante dei piedi – impalpabili, inarrestabili – scivolavano via dalle mie mani protese, e gli orli delle ali spiegate, sfiorandomi, bruciavano soltanto le mie labbra. In lontananza lo spiraglio di luce dorata tra le rupi dai colori vividi e pastosi si stava colmando di impetuose tempeste; gli angeli via via si allontanavano; andava spegnendosi il ridente, eccitato cinguettio degli uccelli paradisiaci, i fiori più non volteggiavano cadendo dagli alberi; mi sentii debole, ammutolii…
E allora avvenne un miracolo: uno degli ultimi angeli rimase indietro, si voltò e con calma venne verso me. Colsi lo sguardo penetrante, vigile, dei suoi occhi di diamante che mi fissavano da sotto le veementi sopracciglia arcuate. Il bordo delle ali spiegate scintillava quasi fosse ricoperto di brina, le ali stesse erano grigie, di un'ineffabile sfumatura di grigio, e ogni piuma terminava in una falce argentea. Il suo volto, il profilo delle labbra vagamente sorridenti e della l i onte spaziosa e limpida mi ricordavano tratti già visti sulla terra. Le sinuosità, la luce, il fascino di tutti i visi che avevo amato, i lineamenti di persone che mi avevano lasciato da tempo sembravano amalgamarsi in unico meraviglioso volto. Era come se tutti i suoni conosciuti che singolarmente avevano sfiorato il mio udito ora si fondessero in una sola perfetta melodia.
L'angelo si avvicinò, sorrise, io non riuscivo a guardarlo.
Ma un'occhiata fugace ai suoi piedi rivelò una rete di vene azzurrine sulla pianta e un pallido neo, e da quelle vene, da quella macchia cutanea compresi che egli non si era ancora staccato del tutto dalla terra, che avrebbe potuto capire la mia preghiera.
E allora, chinando la testa, premendo le palme ustionate e sporche di chiara argilla sugli occhi abbagliati, cominciai a dirgli del mio dolore. Volevo spiegare com'era meravigliosa la mia terra, com'era orrido il suo nero deliquio, ma non trovavo le parole giuste. In fretta, ripetendomi, balbettavo di sciocchezze, di qualche casa bruciata dove una volta i lucidi parquet inondati di sole si riflettevano in uno specchio inclinato, farfugliavo di vecchi libri e di vecchi tigli, di ninnoli, dei miei primi versi in un quaderno di scuola color cobalto, di qualche roccia grigia ricoperta di lamponi selvatici in mezzo a un campo disseminato di scabiosa e di margherite – ma la cosa più importante non riuscivo in alcun modo a dirla –, mi confondevo, mi interrompevo di colpo, ricominciavo daccapo e, di nuovo, parlando fitto disperatamente, raccontavo di stanze in una casa di campagna fresca e vibrante di suoni, di tigli, del mio primo amore, di calabroni che dormivano sulla scabiosa… Mi sembrava che di lì a un istante – un solo istante – sarei arrivato all'essenziale, avrei spiegato tutto il dolore della mia terra natale, ma per qualche ragione riuscivo a ricordare soltanto cose secondarie, assolutamente concrete, incapaci sia di spiegare, sia di piangere con quelle grosse, cocenti, terribili lacrime di cui volevo, ma non potevo raccontare…
Tacqui, sollevai il capo. Con un sorriso calmo e intento l'angelo fissò immobile su di me i suoi occhi adamantini dalla forma allungata – e io intuii che aveva capito ogni cosa.
«Perdonami» esclamai, baciando timidamente il neo sulla pianta esangue del suo piede. «Perdona se riesco a parlare solo di cose effimere, insignificanti. Ma tu capisci… Pallido angelo misericordioso, rispondimi, aiutami, dimmi – come salvare la mia terra?».
Circondandomi per un attimo le spalle con le sue ali di colomba, l'angelo pronunciò una sola parola, e nella sua voce riconobbi tutte le voci amate, tutte le voci ora costrette al silenzio. La parola che pronunciò era così meravigliosa che con un sospiro chiusi gli occhi e chinai ancora di più il capo. La fragranza e il suono melodioso della parola iniziarono no a scorrere nelle mie vene, quella parola sorse come un sole nel mio cervello – e le innumerevoli gole montane della mia coscienza captarono e riecheggiarono il suo luminoso canto paradisiaco. Ne fui colmo: come un nodo sottile e stretto, la parola pulsava nelle mie tempie, rugiadosa tremava sulle mie ciglia, la sua dolce frescura spirava tra i miei capelli e irrorava il mio cuore di un calore divino.
La gridavo, deliziandomi di ogni sua sillaba, e d'impeto alzai gli occhi fissando i fulgidi arcobaleni delle mie lacrime di gioia…
Oh, Dio mio! Alla finestra si diffonde verdastro il crepuscolo invernale, e io non ricordo più la parola che avevo gridato…