Un chirurgo affida a un suo studente un'insolita missione: dovrà studiare segretamente il comportamento di suo fratello, un anziano pittore, Strauch, che si è isolato dal mondo ritirandosi a Weng, un paesino d'alta montagna, buio e malinconico. Durante lunghe passeggiate attraverso un paesaggio pietrificato dal gelo, bellissimo e terribile, lo studente si smarrisce ben presto nel labirinto ossessivo dei monologhi del pittore in cui verità lancinanti sembrano brillare al di là della fitta trama di allucinazioni, manie, congetture filosofiche, deliri persecutori e memorie autobiografiche. Il romanzo è il progressivo coinvolgimento dello studente e del lettore nella visionaria psicosi del pittore e nella vita quotidiana del villaggio, i cui abitanti sono esemplari di una umanità priva di ogni possibile luce di redenzione.
Thomas Bernhard
GELO
Traduzione di Magda Olivetti
Prefazione di Pier Aldo Rovatti
Einaudi
Titolo originale Frost
© 1963 Insel Verlag, Frankfurt am Main
Per la traduzione ©1986 e 2008
Giulio Einaudi editore s.p.a., Torino
Progetto grafico copertina: Bianco.
www.einaudi.it
Ebook ISBN 9788858400746
Contagio
di Pier Aldo Rovatti
Ho riletto Gelo dopo parecchi anni. Con più attenzione della prima volta, fermandomi spesso a pensare a Weng, il paese di montagna più cupo che si possa immaginare, e ai suoi abitatori, la moglie dell’oste che gestisce quella locanda fredda e fuori mano, lo scuoiatore che fa anche il becchino, l’ingegnere che dirige i lavori della centrale elettrica in costruzione, e naturalmente il pittore Strauch, che riempie con i suoi infiniti discorsi, quasi un monologo ininterrotto, le fitte pagine del romanzo, l’esordio stupefacente di quel Thomas Bernhard (1963, a trentadue anni) che oggi tutti considerano una delle vette della narrativa contemporanea. Sottolineando le frasi che via via mi colpivano, e magari le singole parole, per esempio la parola ululato, come si fa quando si studia un testo e si teme che scappi via qualcosa di essenziale.
Il documento di un divenir-folli? Non solo e non semplicemente, anche se la parola follia già di per sé dice tutto, e Bernhard comincia qui a darle una fisionomia speciale, che fa esplodere la cosa (chiamiamola così) in mille frammenti, tutte le tonalità del nero e insieme tutti i colori della realtà. Una preparazione alla morte? L’evolversi di una malattia mortale che i libri di medicina non contemplano? Ma in quella landa mortificata dai brividi del freddo c’è vita, e Strauch, pur debilitato, o – come direbbe Bernhard – infinitamente debilitato, è il più vivo di tutti, il più teatrale e teatrante, con la sua enorme testa che il corpo esile non sa come reggere, con il suo bastone, quasi un prolungamento espressivo di sé, con cui tasta, con cui sospinge il narratore che è andato a Weng per osservarlo, che rotea nell’aria, insomma ben di più che un sostegno nelle incessanti passeggiate, giù per il sentiero infossato, su verso il mucchio di fieno, attraverso il bosco di larici, giù alla stazione per andare a comprare i giornali, su alla canonica o all’ospizio dei poveri, e magari spingendosi, sempre in mezzo alla neve, a passi lenti o lentissimi, fino all’entrata della terribile valle stretta. Da dove viene il fascino che sprigiona? Strauch ha rotto con Vienna e con tutto il resto, ha bruciato i suoi quadri e tutti i suoi rapporti con la cosiddetta società. Ha chiuso. Si è sepolto vivo, si direbbe, aspettando la morte, in uno sperduto, inospitale e malsano paese di montagna. Tuttavia, il motore del suo cervello (della sua anima?) continua a girare vorticosamente, una pala instancabile che macina ogni giorno, e ogni notte (quelle spaventose, deliranti notti insonni), producendo pezzi di mondo, mondi interi.
Non è facile reggere quest’uomo che ti travolge e annienta con i suoi discorsi avviluppanti, e il narratore confessa a tratti di non poterne più e che avrebbe voglia di gridare: «Non lo sopporto». Ma poi lo sopporta e prolunga finché può i giorni della sua osservazione, che ormai si è trasformata in qualcosa d’altro, più importante e meno spiegabile. Aveva avuto l’incarico per due settimane dall’assistente, che è il fratello di Strauch, lui studente e tirocinante in medicina, a Schwarzach, ma i giorni diventano ventisette, quanti sono i capitoli del libro. Che strano incarico! Trasferirsi nel buco più angusto del mondo a osservare il comportamento bizzarro del fratello del suo capo. Osservare? Quasi subito il narratore verifica l’impossibilità di questo compito. Non sa cosa scrivere all’assistente a proposito dell’evolversi di questa osservazione che si rivela impossibile. Poche lettere – deve pure farsi vivo con l’assistente – alquanto impacciate, intricate, un po’ conniventi, e forse decisamente false. Non è solo la presunta sindrome di cui soffrirebbe Strauch a sfuggirgli, anche se si arrampica sugli specchi per farla rientrare in qualche quadro clinico accertato e insomma comunicabile. Scrive che Strauch è malato, ma non sa di quale malattia, visto che certamente non riguarda il corpo, e si capisce bene che sta convincendosi che il suo oggetto di osservazione è innanzitutto un soggetto eccezionale e che non è affatto malato, non clinicamente almeno. La parola malattia perde con Strauch i suoi contorni. Se Strauch è malato, se ha una malattia mentale, allora è piuttosto la vita a essere malata, quella di ciascuno, e magari anche la propria.
Il compito del narratore è un compito alla lettera impossibile soprattutto perché la posizione dell’osservatore non regge, anzi va letteralmente in frantumi. Lo sente questo continuo e insopportabile ululato dei cani, gli dice Strauch. Lui prima non lo sente affatto, poi comincia a sentirlo, ammette a se stesso, pur recalcitrante, che questo ululato c’è e si sente, un ululato nel sottofondo, e talora persino penetrante, un ululato davvero insopportabile e che incute paura. Non può stare a osservare perché quasi da subito luinon è più un osservatore. È piuttosto Strauch che lo osserva, che gli vede scritte in faccia le bugie di circostanza (sono uno studente di Legge, mi sono preso un po’ di respiro, ecc.), che lo porta, di discorso in discorso, nel suo mondo e nella sua folle esperienza. La posizione dell’osservatore, che dovrebbe essere quella del narratore, diventa quindi intenibile, e lascia il posto a quella di chi è avvolto dal fascino e si fa sempre più complice. Se il teatro montato da Strauch è un’allucinante fantasmagoria (il tema del teatro ritorna con insistenza, via via che i giorni con lui si srotolano), tuttavia il narratore, che ne è del tutto consapevole, diventa partecipe e complice di qualcosa per la quale la parola più adatta è la parola verità.
Quanto a me, vorrei essere complice del lettore, mentre rallento la mia lettura e fisso in sottolineature e appunti, non senza difficoltà dato che tutto – mi pare – andrebbe appuntato e sottolineato, quel che ritengo importante o magari solo consonante con la mia sensibilità. Sento a mia volta sbriciolarsi il compito di osservatore per il quale mi sono impegnato con l’editore di questo libro. Perciò avevo deciso un tipo di lettura simile allo studiare, come si fa in questi casi, una «lettura critica», così appunto si dice, allo scopo di fornire una qualche cornice al testo. Come Bernhard, per esempio, cominci a usare qui il linguaggio in un modo che poi ritroveremo in tutti i suoi romanzi a venire, fino alla grandiosa saga finale di Estinzione (1986), ma come nel medesimo tempo adoperi in Gelo una scrittura più nervosa e segmentata, più inquieta, in cui il discorso diretto e quello indiretto si alternano fino a mescolarsi, e dove le virgolette tengono buona parte del campo per poi vorticare in una lingua sdoppiata nella quale spesso il narratore e Strauch si confondono. Oppure come la gelata Weng e la stucchevole Wolfsegg (il paese di Estinzione), per quanto così diverse, siano uno stesso luogo, il medesimo scenario di tutta una vita, quella che naturalmente attribuiamo a Thomas Bernhard. Luoghi deputati per il loro carattere estremo, dove parole quali atrocità e abiezione caratterizzano una disfatta e inclinano verso un’umanità mortalmente malata, ma che lasciano anche vedere con chiarezza che si tratta di luoghi d’amore e che tutto in essi, anche il minimo dettaglio, è un’esperienza di vita eccezionalmente densa. C’è assai di più che una connivenza tra Bernhard e questa assurda comunità percorsa dal gelo e dall’ululato dei cani.
Rileggendo Gelo, mi è venuta spesso la voglia di rappresentarmi, magari con un piccolo e schematico disegno, la mappa del luogo, come si fa quando si entra in una nuova casa per avere un’idea dell’ubicazione e dell’ampiezza dei locali, dei corridoi e dei poggioli. Collocare in questa mappa la locanda con il suo interno e il suo esterno, misurare i percorsi (l’incessante gehen dei protagonisti) con il loro salire e scendere, attraverso la strada o il sentiero infossato o il bosco di larici. Dov’è quel mucchio di fieno presso il quale Strauch stramazza? Dove rimane la stazione? A che distanza sono il paese, la canonica o il cimitero dove si incontra lo scuoiatore con la vanga in mano? E gli operai che lavorano alla centrale elettrica in costruzione e che vanno a mangiare e a bere alla locanda, dove la moglie dell’oste (il quale è ora in prigione) li riempie di cibi pesanti e fiumi di birra, quanta strada devono fare per arrivarci? E dove si trova, in questa mappa, la vecchia fabbrica di cellulosa che dà da vivere a molti degli abitanti di Weng?
Mi piacerebbe saper disegnare questa cartina, che pure ho precisamente nella testa, ma poi penso che ogni lettore di Gelo di sicuro se ne costruisce una propria, e che probabilmente ciascuna sarà diversa dalle altre. Vorremmo forse essere là, in questo luogo per tanti aspetti disgustoso? In realtà, una mappa sommaria non ci basterebbe, perché subito vorremmo zoomare su ogni dettaglio, per esempio su ognuno di quei rami neri che terrorizzano Strauch o sui gesti della moglie dell’oste e di tutti gli altri, o sulla grande testa di Strauch, sugli arrossamenti che compaiono nei suoi esili piedi (arrossamenti che lui ritiene naturalmente mortali). Uno zoom potentissimo (di cui la scrittura di Bernhard è inimitabilmente capace) che arrivi fino ai pezzi di pane che galleggiano nella zuppa bollente che la moglie dell’oste porta in tavola («Ha notato come sono grandi i pezzi di pane che nuotano nel suo brodo? Non a caso questo evoca in me l’immagine della fine del mondo»).
Allora, per cercare di mantenere un poco di distanza, mi rifugio nei miei appunti, che in realtà sono delle semplici citazioni estrapolate. E provo a condensarli più che posso, anche se so benissimo che non è l’operazione giusta. Eccone uno: «Colori, odori, gradi di freddo – questo gelo che avanza, che avanza in tutto e in ogni cosa e dappertutto con la sua inaudita capacità di dilatare i concetti». Così scrive il narratore all’assistente (che, ricordiamolo, è il fratello di Strauch). In un’altra lettera presenta in questo modo le sue giornate a Weng insieme al pittore: «Facciamo lunghe passeggiate da un bosco all’altro, entriamo in una conca e usciamo da un’altra conca: il freddo non permette che ci si fermi restando a lungo immobili, cioè restando immobili all’aperto, oppure che si rallenti il passo per inseguire dei ragionamenti e dei pensieri, lui e io, in tali pensieri congeleremmo all’istante». Ma questa è già un’elaborazione di secondo grado offerta all’assistente, l’appunto di un appunto. Proprio quei pensieri e ragionamenti riempiono infatti le loro passeggiate quotidiane, il narratore davanti e il pittore dietro (con il suo bastone), e allora dobbiamo pensare che tra passeggiate in mezzo alla neve e pensieri ci sia un’identificazione necessaria.
Ecco un altro icastico appunto: «Oggi abbiamo fatto un gioco insieme, abbiamo giocato a chi di noi due riusciva a far piangere l’altro». E questo, altrettanto icastico: «Strauch disse: “La verità è come un giardiniere pazzo che strappa i cavoli nell’orto e poi li lascia in terra”». E ancora: «Il pittore disse: “Questo quadro voglio chiamarlo massacro […] Si vedeva la parola indifeso là in terra, sulla neve, questa malvagia iscrizione segreta, deve sapere, si vedeva la parola abiezione scritta a chiare lettere nel cielo […] Mi chinai, affondai le mani nel sangue e lo mescolai alla neve. Mi misi a tirare palle di neve rosse!”». Strauch vede le parole: questa affermazione, che sembra delirante, entrerà come un motivo chiave nei romanzi successivi di Bernhard, e saranno le sue famose parole scritte in corsivo, il corsivo come visualizzazione delle cose. Qui, la citazione rimanda a una delle scene più terribili di Gelo, quando Strauch racconta al narratore di quelle mucche fatte a pezzi dai ladri di bestiame che scopre con orrore in una delle sue camminate solitarie.
Infine, la parola latrato che ritorna tante volte nelle mie annotazioni: «Potrei dire che lassù in alto – disse il pittore – che laggiù in basso, alternativamente lassù e laggiù, da tutte le parti, ascolti, va a sbattere la testa contro la coltre di neve, si frammenta incessantemente contro l’orribile ferro dell’aria, è dal ferro dell’aria, Lei deve sapere, che viene lacerato, e bisogna respirarlo, respirarlo, attraverso il condotto uditivo, finché non si impazzisce, finché il latrato non ci frantuma e ci lacera, finché non ci distrugge i padiglioni delle orecchie, il cervello e la bocca, la bocca e il cervello».
Un contagio? È forse di qualcosa del genere che dobbiamo testimoniare, quando constatiamo che l’osservazione fallisce, e che noi lettori di Gelo (e di Bernhard) siamo tirati dentro nel mondo di Strauch (e di Bernhard), proprio come accade al narratore? C’è un’altra esperienza di lettura, che ci mantenga in una zona di sicurezza rispetto a Bernhard? E se pure ci fosse (ma non conosco nessun lettore di Bernhard che goda di questa immunità), cosa ne guadagneremmo? Avremmo un’immunità senza godimento: quel godimento che, invece, scopriamo, pagina dopo pagina, non perché vogliamo raggelarci o inorridire, ma perché riusciamo anche noi ad ascoltare il sottofondo continuo che ulula e latra in ogni istante del nostro esistere. Nessuna geometria delle tenebre. Anzi, al posto dell’appiattimento in un unico colore nero, questo «sentire» spalanca tutti i colori, li mette in movimento, e con i colori dà dimensioni alle cose, le staglia, le fa venir fuori dalla loro opacità.
Perciò Strauch è un cosiddetto pittore, un pittore – per dir così – che suona i colori. Ma non deve neppure sfuggirci, se afferriamo questo lato o se solo ci facciamo prendere da esso, la dimensione ridicola e decisamente comica del mondo entro cui Bernhard ci trascina. Già una volta ho affermato1 che Bernhard è un autore intriso di comicità e che forse la comicità è la nota dominante della sua musica narrativa. Contro ogni apparenza, Gelo ne è, a mio parere, una conferma anticipata. Ogni gesto di Strauch è un gesto comico, di cui possiamo sorridere e infine ridere. Anche il riso, d’altra parte, si propaga per contagio.
Gelo è la caricatura e la disfatta di un sapere e dei comportamenti che ne conseguono. Mi riferisco al sapere medico e ai comportamenti di chi, come il narratore, dovrebbe assumerlo e sostenerlo, tenendosi dunque a una certa distanza dalla malattia, come se la malattia fosse qualcosa che possiamo osservare in un corpo, descrivere, isolare, rimanerne immuni. La medicalizzazione della vita (tema quanto mai attuale, quando sono passati quasi cinquant’anni dalla pubblicazione di Gelo, anzi sempre più attuale perché sembra oggi attraversare tutte le nostre pratiche) va in frantumi, e le parole di questo sapere cambiano direzione: la parola malattia, la parola contagio, fino alla parola follia. Ciò che il narratore ha appreso nel suo tirocinio a Schwarzach diventa a poco a poco carta straccia. Il corpo non è isolabile né trasferibile in un manuale, non appena ci accorgiamo che la «malattia» attraversa ogni aspetto della vita e non è più in nessun modo, una malattia da manuale, perché si trasforma in un oltre e in un prima. Una realtà extracorporea? (Rileggiamo la prima pagina del romanzo!) Sì, se quel corpo restasse il corpo-oggetto del manuale. No, se il corpo viene liberato da questa gabbia per diventare semplicemente un corpo vivo, cioè una vita. Sarebbe davvero produttivo (produttivo di pensieri meno angusti) se leggessimo questo romanzo riflettendo a ciò che è avvenuto nella cultura della follia nell’ultimo mezzo secolo. Se riuscissimo, che so, a percepire la sintonia che potrebbe stabilirsi tra le pagine di Bernhard (in cui la follia campeggia) e l’esperienza pratica e teorica della chiusura dei manicomi in Italia ad opera di Franco Basaglia. Anche Bernhard dice di non sapere cosa sia la follia, eppure ce ne parla in tutti i suoi romanzi, a cominciare da questo.
Strauch è folle e Gelo è il resoconto della sua autodistruzione. Solo di ciò? Anche il narratore diventa folle («Non voglio più andarmene da qui») e anche il lettore è contagiato da questa strana follia. Strana? E se fosse la scoperta di un modo di vedere le cose e abitarle? Se fosse l’inizio di un congedo dalle nostre abitudini, incistate, spesso infette e marce, loro sì sintomo di una malattia da cui ogni giorno ci facciamo tranquillamente guidare? L’inizio di un congedo da un’«altra» follia, quella che ci paralizza nelle nostre scatole che portano l’etichetta normalità?
Cominciamo forse a pensarlo, mentre leggiamo Gelo. Ci vengono dei dubbi salutari. Ed è paradossale, nonché istruttivo, che questi dubbi si manifestino proprio quando, assieme a Bernhard, ci isoliamo nella cupissima Weng, mettiamo tra virgolette il mondo ordinario (la città, Vienna), inforchiamo degli occhiali per vedere da vicino, molto da vicino, e allora tutti i particolari cominciano a diventare distinti e chiari, nella loro ricchissima e insondata assurdità.
PIER ALDO ROVATTI
GELO
«Che cosa dice di me la gente? – domandò lui.
– Mi chiamano l’idiota? Che cosa dice la gente?»
Primo giorno
La pratica d’ospedale non sta solo nell’assistere a complicate operazioni intestinali, nell’incidere peritonei, nel pinzare lobi polmonari, nell’amputar piedi, non sta davvero soltanto nel chiuder gli occhi ai morti o nel tirar fuori bambini per farli venire al mondo. La pratica d’ospedale non è soltanto questo: buttare con noncuranza nel secchio smaltato gambe e braccia intere o tagliate a metà. Non sta nel continuare a correr dietro come un cretino al primario e all’assistente e all’assistente dell’assistente, far parte del codazzo durante le visite. Né può consistere solo nel nascondere la verità ai pazienti e nemmeno nel dire: «Il pus naturalmente si scioglierà nel sangue e Lei sarà completamente guarito». O in centinaia d’altre simili fandonie. Nel dire: «Andrà tutto bene!» – quando non c’è piú nulla che possa andar bene. La pratica d’ospedale non serve soltanto a imparare a incidere e a ricucire, a far fasciature e a tener duro. La pratica d’ospedale deve anche fare i conti con realtà e possibilità extracorporee. Il compito che mi è stato affidato di osservare il pittore Strauch mi costringe a occuparmi di questo tipo di realtà e di possibilità. A esplorare qualcosa d’inesplorabile. A scoprirlo sino a un certo sorprendente grado di possibilità. Come si scopre un complotto. E può darsi che l’extracorporeo – e con questo non intendo l’anima – che cioè quel che è extracorporeo senza essere l’anima della quale non so proprio se esista, anche se mi aspetto che esista, può darsi che a questa ipotesi millenaria corrisponda una millenaria verità; può benissimo darsi che l’extracorporeo, vale a dire quel che è senza cellule, sia proprio ciò da cui trae la sua esistenza il tutto e non viceversa, e che non sia semplicemente l’uno conseguenza dell’altro.
Secondo giorno
Ho preso il primo treno, quello delle quattro e mezzo. Viaggiavo tra pareti di roccia. A sinistra e a destra tutto era nero. Quando salii sul treno battevo i denti. Poi lentamente mi scaldai. C’erano anche le voci di operai e di operaie che tornavano a casa dopo il turno di notte. A loro andò subito la mia simpatia. Uomini e donne, giovani e vecchi, ma tutti dello stesso umore, e tutti esausti – dalla testa ai piedi, compresi seni e testicoli – per la notte passata in bianco. Gli uomini con i berretti grigi, le donne coi fazzoletti rossi in testa. Le gambe avvolte in panni di loden, unica arma per combattere il freddo. Capii subito che si trattava di un gruppo di spalatori saliti sul treno a Salzau. Faceva caldo come dentro al ventre di una mucca: come se l’aria, sotto la spinta di potenti muscoli cardiaci si autoaspirasse continuamente da quei corpi umani per poi ripomparsi di nuovo negli stessi corpi. Meglio non starci a pensare! Mi misi con la schiena appiccicata alla parete del vagone. Poiché non avevo dormito tutta la notte, mi appisolai. Quando mi svegliai rividi la traccia di sangue che scorreva piuttosto irregolare sul pavimento bagnato del vagone, come un fiume su una carta geografica continuamente deviato da massicci montuosi, e terminava tra la finestra e la sua cornice, sotto al freno di sicurezza; la traccia era partita da un uccello schiacciato, che la finestra, salita all’improvviso, aveva spezzato in due. Forse già molti giorni prima. S’era richiusa con tale violenza che non entrava piú nemmeno un filo d’aria. Il controllore che passava di lí esercitando il suo squallido mestiere, finse di non accorgersi dell’uccello morto. Ma doveva averlo visto. Quest’era la mia impressione. A un tratto udii la storia di un guardalinee rimasto soffocato nella tormenta, che finiva cosí: «A quello non gli importava niente di niente!» Che fosse il mio aspetto esteriore oppure quello interiore che si esprimeva sul mio volto, o l’emanazione dei miei pensieri, del mio incarico – al quale mi stavo preparando con tutte le mie energie – sta di fatto che accanto a me non venne a sedersi nessuno, benché ogni posto col tempo fosse diventato prezioso. Il treno attraversava sferragliando la valle dove scorre il fiume. Col pensiero tornai brevemente a casa una volta. Poi andai lontanissimo, in qualche grande città dove un giorno ero stato di passaggio. Poi notai delle particelle di polvere sulla mia manica sinistra e tentai di strofinarle via col braccio destro. Gli operai tirarono fuori dei coltelli e si misero a tagliare il pane.
Trangugiavano grossi pezzi di pane e insieme mangiavano fette di carne e di salame, certi bocconi che uno non mangerebbe mai stando seduto a tavola. Soltanto col pranzo sulle ginocchia. Tutti bevevano birra gelata ed erano evidentemente troppo deboli per riuscire a ridere di sé, benché si trovassero ridicoli. La loro stanchezza era tale che non ci pensavano nemmeno a chiuder la bottega dei pantaloni o a pulirsi gli angoli della bocca. Pensavo: appena scesi dal treno quelli cascano subito nel letto. E alle cinque di sera, quando gli altri smettono di lavorare, loro ricominciano. Il treno correva rumoroso e scendeva a precipizio come il fiume al suo fianco. Si faceva sempre piú buio.
La mia camera è piccola e poco confortevole come la mia stanzetta di praticante a Schwarzach. Se laggiú era insopportabile il rumore del fiume che scorreva vicino, qui è insopportabile il silenzio. Su mio desiderio la moglie dell’oste ha staccato le tende. (È sempre la stessa storia: non mi piacciono le tende in stanze che m’incutono paura). La moglie dell’oste mi ripugna. È la stessa ripugnanza che da bambino mi faceva vomitare davanti alle porte spalancate dei mattatoi. Se lei fosse morta – oggi – non mi ripugnerebbe, i cadaveri da sezionare non mi fanno mai pensare a dei corpi vivi – ma lei vive, e vive in mezzo a un odore putrido e stantio di vecchia cucina d’osteria. A quanto pare devo esserle piaciuto, visto che mi ha portato su la valigia e si è dimostrata pronta a servirmi la colazione in camera contrariamente al suo principio che è quello di ignorare che cosa sia una colazione servita in camera. «Il signor pittore è un’eccezione», disse lei. Anche lui era un cliente fisso e i clienti fissi godono di certi privilegi. E sono «piú uno svantaggio che un vantaggio» per gli osti. Come avevo scoperto la sua locanda? «Per caso», dissi io. Volevo rimettermi in salute al piú presto e ritornare a casa dove mi aspettava una montagna di lavoro arretrato. Lei si mostrò comprensiva. Le dissi il mio nome e le diedi il mio passaporto. Fino a questo momento non ho ancora visto nessuno all’infuori della moglie dell’oste, benché nel frattempo un giorno alla locanda si fosse sentito un gran baccano. Durante l’ora del pranzo, mentre mi trovavo in camera mia. Domandai alla moglie dell’oste dove fosse il pittoree lei mi disse che era nel bosco. «È quasi sempre nel bosco», disse lei. Non sarebbe tornato prima dell’ora di cena. Se conoscevo il signor pittore, mi domandò. «No», dissi io. In silenzio, mentr’era ancora nel vano della porta, parve chiedermi una cosa che solo una donna può chiedere a un uomo in modo cosí fulmineo. Rimasi sconcertato. Non potevo essermi sbagliato. Respinsi la sua offerta senza dire una parola e non senza un’improvvisa sensazione di disgusto.
Weng è il paese piú malinconico che io abbia mai visto. Molto piú malinconico della descrizione che ne aveva fatto l’assistente. Il dottor Strauch vi aveva accennato come si accenna a un tratto di strada pericolosa che un amico debba percorrere. Tutto ciò che l’assistente aveva detto erano accenni. I lacci invisibili con cui di secondo in secondo lui mi legava sempre piú stretto all’incarico che m’aveva affidato, erano diventati causa di una tensione quasi intollerabile tra lui e me, poiché gli argomenti che lui m’imprimeva nella mente senza il minimo riguardo mi facevano l’effetto di chiodi conficcati a forza nel cervello. Riuscí però a evitare d’irritarmi. Si limitava a mettermi a parte dei punti ai quali avrei dovuto scrupolosamente attenermi. Effettivamente questa regione m’incuteva spavento e me ne incuteva ancora di piú il paese popolato di uomini piccolissimi che si possono tranquillamente chiamare idioti. Non piú alti di un metro e quaranta in media, questi uomini camminano barcollando tra muri pieni di crepe e cunicoli, concepiti nell’ubriachezza. Pare che siano tipici di questa vallata. Weng è un paese situato molto in alto, eppure è come se si trovasse sul fondo diuna gola. È impossibile valicare quelle pareti di roccia. Solola ferrovia laggiú riesce ad aggirarle. È un paesaggio che per via della sua bruttezza estrema ha piú carattere dei paesaggi belli che non hanno carattere. Qui tutti hanno voci da ubriachi, voci infantili e stridule che arrivano sino al do acuto, voci che a udirle da vicino ci trapassano da parte a parte. Ci trafiggono. Voci che ci trafiggono emesse da ombre, devo dire, perché in realtà sinora ho visto solo ombre d’uomini, ombre umane in miseria e in preda a una sensualità convulsa e tremante. E queste voci che ci trafiggono, emesse da queste ombre, sulle prime m’avevano confuso e fatto scappar via di corsa. Queste osservazioni tuttavia io le facevo a mente piuttosto serena, non ne restavo sconvolto. A dire il vero tutto m’infastidiva soltanto perché era terribilmente scomodo. Per giunta mi toccava anche portare la mia valigia di cartone in cui gli oggetti in gran confusione sbatacchiavano da tutte le parti. La strada che dalla stazione laggiú, dove è la fabbrica e stanno costruendo la centrale elettrica, arriva fin lassú a Weng, può essere percorsa solo a piedi. Cinque chilometri che non si possono abbreviare, ad ogni modo non in questa stagione. Dappertutto cani che abbaiano e che latrano. Non stento a credere che a lungo andare la gente diventi pazza a forza di fare osservazioni come quelle che avevo continuato a fare io sia sulla strada che conduce a Weng sia a Weng, se non si distrae col lavoro o coi divertimenti o con altre attività simili come andare a puttane pregare o ubriacarsi, oppure con tutte queste attività simultaneamente. Che cosa può attirare un uomo come il pittore Strauch in una regione come questa, proprio di questa stagione in una regione come questa, che dev’essere come un pugno in faccia in ogni istante?
Il mio incarico è assolutamente segreto e volutamente, calcolatamente, mi è stato affidato di sorpresa, da un giorno all’altro. All’assistente doveva certo essere già venuta da tempo l’idea di affidare a me l’incarico di osservare suo fratello. Perché proprio a me, perché non a uno di quegli altri, anche loro praticanti come me? Forse perché io spesso gli facevo certe domande difficili e gli altri no? Mi raccomandò di non fare mai in nessun caso sorgere nel pittore Strauch il sospetto che tra me e lui, il chirurgo Strauch, ci fosse un qualsiasi rapporto. Per questo se me lo domanderanno dirò che studio legge perché siano completamente distolti dal pensiero della medicina. L’assistente si accollò le mie spese di viaggio e di soggiorno. Mi diede una somma di denaro che gli sembrò sufficiente. Mi chiese di osservare suo fratello con attenzione, niente altro. Vuole che gli descriva i suoi vari modi di comportarsi, come passa le sue giornate; che lo informi sulle sue opinioni, intenzioni, dichiarazioni, sui suoi giudizi. Vuole che gli faccia una relazione su come cammina, sul suo modo di gesticolare, di arrabbiarsi, di «difendersi dagli uomini». Su come maneggia il suo bastone. «Osservi la funzione del bastone che mio fratello tiene in mano, la osservi nel modo piú preciso».
Il chirurgo non vede il pittore da vent’anni. Da dodici anni fanno a meno di scriversi. Il pittore questo loro rapporto lo chiama apertamente inimicizia. «Tuttavia come medico voglio fare un tentativo», disse l’assistente. A tale scopo aveva bisogno del mio aiuto. Le mie osservazioni gli sarebbero state piú utili di tutto ciò che aveva scoperto fino allora. «Miofratello, – aveva detto, – è uno scapolo come me. È, come si suol dire, un pensatore. Ma gravemente disturbato. Perseguitato da vizi, vergogne timori reverenziali, rimproveri e autorità, mio fratello è un tipo che ama le passeggiate, è quindi un uomo che ha paura. È iracondo. Un misantropo». Questo incarico è un’iniziativa personale dell’assistente efa parte della mia pratica d’ospedale a Schwarzach. È la prima volta che considero l’osservazione come un lavoro.
Avevo intenzione di portarmi dietro il libro di Kolz sulle malattie del cervello, che si suddivide in «attività potenziate» (fenomeni di eccitazione) e in «prestazioni ridotte» (paralisi) del cervello e invece l’ho lasciato a casa. In compenso mi son portato dietro un libro di Henry James con cui mi ero già distratto a Schwarzach.
Alle quattro lasciai la locanda. In quell’improvviso, ruvido silenzio una agitazione spaventosa s’impadroní di me, e non soltanto del mio corpo. La sensazione di aver indossato la mia camera come una camicia di forza e che ora me la dovessi togliere mi fece fare le scale a precipizio. Entrai nella sala. Poiché nessuno rispondeva ai miei ripetuti richiami, uscii fuori all’aperto. Inciampai in un cumulo di ghiaccio, ma subito mi rimisi in piedi e mi prefissi una meta: un ceppo a una ventina di metri di distanza. Mi fermai davanti al ceppo. Ora vedevo spuntare dalla neve tanti ceppi simili che parevano squarciati da proiettili, a decine e decine. In quel momento mi venne in mente che avevo dormito per oltre due ore seduto sul letto. Il viaggio e la novità dell’ambiente erano le cause della mia spossatezza. Il föhn, pensavo. Quand’ecco che dal tratto di bosco, a non piú di cento metri da me, vidi spuntare un uomo che camminava a fatica, senza dubbio il pittore Strauch. Ne vedevo spuntare solo il busto, perché le gambe erano nascoste da immensi mucchi di neve. Notai il suo gran cappello nero. Controvoglia, cosí mi parve, il pittore si spostava da un ceppo all’altro. S’appoggiava al suo bastone col quale poi si spronava, come se fosse – a un tempo – mandriano bastone e bestia da macello. Ma questa impressione sparí e restò il problema di come avvicinarmi a lui al piú presto e nel migliore dei modi. Come mi presento a lui? pensai. Mi avvicino e gli domando qualcosa, adotto quindi il metodo sicuro anche se sciocco di quello che vuol sapere l’ora e il luogo? Sí? No? Sí? Non sapevo decidermi. Sí. Decisi di tagliargli la strada.
«Cerco la locanda», dissi io. E tutto era andato bene. Mi squadrò, poiché la mia improvvisa apparizione era piú inquietante che rassicurante – e mi prese con sé. Lui era un cliente fisso della locanda, disse. Non poteva che trattarsi di una stravaganza o di un errore se uno voleva trattenersi a Weng. Venire a Weng per rimettersi in salute. «In quella locanda là?» Non si può essere abbastanza giovani per non capire subito che è una cosa assurda. «In questa regione?» Un’idea cosí balorda poteva venire solo a un cretino. «Oppure a un aspirante suicida». Domandò chi fossi e che cosa studiassi, poiché certamente stavo ancora studiando «qualcosa», e io, come se dicessi la cosa piú ovvia del mondo risposi: «Legge». Gli bastò. «Cammini pure davanti a me. Io sono un vecchio», disse. Per alcuni attimi rimasi cosí spaventato dal suo aspetto che mi rinchiusi completamente in me stesso quando lo vidi per la prima volta cosí indifeso.
«Se Lei continua a camminare nella direzione che Le sto indicando col bastone giungerà in una valle che potrà percorrere per ore e ore in lungo e in largo senza il minimo timore, – disse. – Non deve aver timore di venir scoperto. Non potrà succederLe nulla: tutto è completamente senza vita. Né ricchezze nel sottosuolo, né coltivazioni, nulla. Numerose tracce di questa o quell’epoca, pietre, frammenti di muro, segni, di che cosa nessuno lo sa. Una chiesa in rovina. Scheletri. Orme di animali selvatici passati di lí. Quattro, cinque giorni di solitudine, di silenzio, – disse. – Una natura completamente indisturbata dagli uomini. Qua e là una cascata. È come attraversare un millennio di un’epoca preumana».
La sera qui scende improvvisa come un colpo di tuono. Come se a comando venisse fatto calare un enorme sipario di ferro che separa una metà del mondo dall’altra con un taglio netto. Ad ogni modo: la notte cala nel tempo di fare un passo. Si spengono i tristi opachi colori. Tutto si spegne. Nonvi è transizione. È a causa del föhn che il freddo nelle tenebre non diventa piú intenso. Un clima che a dir poco indebolisce i muscoli cardiaci quando non li blocca del tutto. Gli ospedali la sanno lunga su quest’aria: pazienti che sembravano guariti a forza d’imbottirli d’arte medica sino all’inverosimile, sino a ritrovare la speranza, cadono in deliquio e non possono piú essere riportati alla vita da nessuna teoria umana per quanto abilmente applicata. Influenze atmosferiche che favoriscono gli emboli. Misteriose formazioni di nuvole molto lontano, da qualche parte. I cani corrono come impazziti attraverso vicoli e cortili e aggrediscono anche le persone. I fiumi esalano un odore putrido lungo tutto il loro corso. Le montagne hanno la forma di strutture cerebrali contro cui si può andare a sbattere e sono nitidissime di giorno, assolutamente invisibili di notte. Estranei si rivolgono la parola improvvisamente a un crocicchio, fanno domande e dànno risposte che non gli sono mai state richieste. Come se fosse un momento di fratellanza totale: la bruttezza osa avvicinarsi alla bellezza, la brutalità alla debolezza. Rintocchi d’orologi cadono come gocce sul cimitero e sugli spioventi dei tetti. La morte si fa abilmente strada in mezzo alla vita. Tutt’a un tratto anche i bambini cadono in uno stato di prostrazione. Non gridano, ma si buttano sotto a un treno accelerato. Nelle osterie e alle stazioni, vicino alle cascate, s’intrecciano rapporti che non durano piú di un secondo. Si stringono amicizie che non fanno neanche in tempo a sbocciare; il tu viene esaltato come una tortura sino all’intenzione omicida e poi rapidamente soffocato in una piccola malvagità. Weng si trova in una fossa, scavata durante milioni di anni da enormi blocchi di ghiaccio. Il ciglio dei sentieri invita alla lussuria.
Terzo giorno
«Io non sono un pittore, – ha detto oggi, – tutt’al piú sono stato un imbianchino».
Tra me e lui ora c’è una tensione che crea un rapporto tra noi, al di sotto e al di sopra di noi. Eravamo nel bosco. Muti. Solo la neve bagnata, gravando con i suoi chili di peso sui nostri piedi, sussurrava parole incomprensibili, ma continue. Rompeva il silenzio. S’insinuava tra le parole inudibili, solo pensate, che c’erano e non c’erano. Lui continua a esigere che io lo preceda. Ha paura di me. Dalle storie che si raccontano e per esperienza diretta sa che i giovani rapinatori aggrediscono alle spalle. La fisionomia spesso c’inganna e non vediamo l’arma in mano all’assassino o al rapinatore. L’anima, se cosí si vuol chiamare questa «pellegrina tra le leggi», semplicemente perché si crede che esista, allunga il passo, ma quell’insieme di diffidenza paura e sospetto che è la ragione, rimane indietro e sventa ogni tranello. Benché io dica che non conosco la strada, lui mi fa camminare davanti. Di tanto in tanto un ordine come «sinistra» o «destra» mi toglie dalla convinzione che lui se ne sia andato troppo lontano, assorto nei propri pensieri. Brancolando nel buio totale e con impazienza eseguo questi ordini. Il fatto curioso era che non vedevo alcuna luce secondo cui potermi orientare. Era come remare nel buio – anche per lo spirito e in quei momenti l’equilibrio è ovunque e da nessuna parte. Come farei se ora fossi solo? Questo era uno dei tanti pensieri che sorgevano improvvisi. Il pittore camminava dietro di me come un carico tremendo per il mio sistema nervoso: come se lui dietro alla mia schiena non facesse altro che trinciar giudizi e sputar sentenze. Poi cominciò ad ansimare e mi chiese di fermarmi. «Io faccio questa strada ogni giorno, – disse, – sono decenni che la faccio. Potrei farla nel sonno». Cercai di sapere qualcosa di piú sul perché lui ora si trovasse a Weng. «La mia malattia e tutti gli altri motivi messi assieme», disse lui. Non m’aspettavo chiarimenti piú espliciti. Gli descrissi la mia vita come meglio potevo con poche frasi da epigrafe nelle quali infilai qualche sprazzo di luce e anche una nota di tristezza, come la mia vita – a mio parere – m’avesse fatto diventare quel che sono ora – senza rivelare chi in questo momento io sia veramente – con una sincerità che sorprese anche me stesso. Il mio racconto non lo interessò affatto. Gli importava soltanto di sé.
«Se Lei sapesse qual è la mia età anagrafica, ne sarebbe spaventato, – disse lui. – Lei certo immagina che io sono un vecchio, è una cosa che i giovani fan presto a pensare. Lei però ne resterebbe sbalordito». La disperazione sul suo volto parve ancora incupirsi di qualche grado. «La natura è crudele, – disse, – ma il trattamento piú crudele lo riserva ai suoi talenti piú belli, piú straordinari, a quelli da lei prescelti. Li calpesta senza batter ciglio». Il pittore non stima molto sua madre, ancora meno suo padre. Per i suoi fratelli dopo tanti anni nutre la stessa indifferenza che loro – cosí crede lui – hanno sempre nutrito nei suoi confronti, ma dal modo in cui lo dice risulta chiaro quanto abbia amato sua madre e suo padre e i suoi fratelli. Quanto sia loro rimasto affezionato! «Tutto per me è sempre stato triste», disse. Gli feci percorrere un tratto della mia infanzia. Lui commentò: «Tutte le infanzie sono eguali. Solo che una appare in una luce ordinaria, l’altra in una luce soave, l’altra ancora in una luce diabolica».
Alla locanda mi pare che lo trattino col dovuto rispetto, ma dietro alle sue spalle gli fanno tanti versacci.
«I loro eccessi sono ben noti. La loro mania sessuale si respira nell’aria. Si indovinano i loro pensieri, le loro intenzioni, si sente che in loro si nasconde qualcosa di proibito. I loro letti si trovano sotto alla finestra e dietro alla porta e a volte non si tratta neppure di letti: in quei giacigli passano da una turpitudine all’altra... Gli uomini trattano le donne come carne ben battuta e, viceversa, queste trattano quelli come dei subalterni idioti. Tutti questi potrebbero venir loro imputati come gravi delitti. La primitività è la loro prerogativa comune. Alcuni per reagire hanno bisogno di mettersi d’accordo, altri si può dire che sappiano tutto per natura... i pantaloni troppo stretti, le giacche, risvegliano in loro istinti bestiali. Le sere non passano mai: non se ne può piú! Si fanno due passi, si entra in qualche posto, si torna fuori, si va di qua e di là per non morir di freddo... le bocche rimangono chiuse, ma il resto si scatena... il mattino passa sui loro volti e mette tutto a soqquadro. È la mania sessuale che distrugge tutto. La mania sessuale, la malattia che annienta per sua natura. Presto o tardi rovina anche l’interiorità piú profonda... trasforma una cosa nell’altra, il bene nel male, l’alto nel basso. Senza Dio, perché prima di tutto sopraggiunge la rovina... allora la moralità diventa immoralità, modello di ogni tramonto. Ambiguità della natura, si potrebbe dire. Gli operai che si vedono in giro da queste parti, – disse lui, – vivono solo di sesso come la maggior parte delle persone, come tutte le persone... Vivono implicati in un processo continuo e selvaggio – che si protrae sino alla loro morte – contro il pudore e contro il tempo e viceversa: è la rovina. Il tempo infligge loro duri colpi e dopo la loro strada è tutta lastricata di lussuria. Gli uni la tengono a freno, la mascherano meglio, gli altri meno abilmente. Quelli abili si scoprono solo quando ormai non c’è piú rimedio. Tutti vivono una vita sessuale, non una vita».
Mi domandò quanto tempo mi sarei trattenuto a Weng. Gli dissi che dovevo preparare degli esami per la primavera. «Studiando giurisprudenza, – disse lui, – non Le sarà difficile un giorno trovare un impiego. I giuristi trovano impiego sempre e dappertutto. Avevo un nipote che era giurista, solo che è impazzito sopra montagne di documenti e ha dovuto liquidare la propria attività. È finito a Steinhof. Lei sa che cos’è?» Dissi che il manicomio di Steinhof mi era ben noto. «Allora saprà anche com’è finito mio nipote», disse lui.
Ero preparato a un caso difficile, non a un caso disperato. «Forza di carattere che conduce alla morte», questa frase di un libro letto quand’ero molto giovane mi tornò in mente ed evocò i pensieri che ebbi nel pomeriggio sulla persona del pittore: come mai pensa solo al suicidio? È possibile che per qualcuno il suicidio sia una specie di segreta voluttà, che possa dominare una persona cosí completamente? Ma il suicidio che cos’è? Cancellare se stesso. Con o senza il diritto di farlo. Con quale diritto? Perché no? Cercai di concentrare tutti i miei pensieri su un unico punto, quello in cui si trova la risposta alla domanda: è lecito il suicidio? Non trovai una risposta. In nessun luogo. Poiché gli uomini non sono una risposta, non possono esserla, nulla di ciò che vive e nemmeno i morti. Suicidandomi io anniento una cosa della quale non ho colpa. Una cosa che mi è stata affidata? Affidata da chi? Quando? Ero consapevole allora che questo stava accadendo? No. Ma una voce che è impossibile non udire mi dice che il suicidio è peccato. Un peccato? Un semplice peccato? Un peccato mortale? Un semplice peccato mortale? La voce mi dice che è una cosa che fa precipitar tutto. Tutto? Che cos’è «tutto»? La sua parola d’ordine, sia da sveglio che da addormentato: suicidio. Lui dentro a questa parola ci soffoca. Sta murando una finestra dopo l’altra. Tra poco si sarà murato vivo. Allora, quando non vedrà piú nulla, perché non riuscirà piú a respirare, diventerà convincente: perché sarà morto. Ho l’impressione di trovarmi all’ombra di un processo mentale che mi è affine, il suo: di essere all’ombra del suo suicidio.
«Il cervello ha la struttura di uno stato, – disse il pittore. – Improvvisamente regna l’anarchia». Rimasi ad aspettarlo finché ebbe finito di mettersi le scarpe. I grandi aggressori e i piccoli aggressori, nel mondo delle idee come in quello degli uomini, spesso stringono alleanze per poi romperle da un’ora all’altra. E poi «l’essere capiti e il voler essere capiti sono un inganno, un inganno che si basa su tutti gli errori dei due sessi». I contrasti, come una notte eterna, dominano il giorno che agisce solo in apparenza. «I colori, sa, sono tutto. Dunque le ombre sono tutto. I contrasti hanno un grande valore cromatico». In molte cose succede come coi vestiti che si comprano e s’indossano un paio di volte e poi si levano e non s’indossano mai piú, nel migliore dei casi si rivendono – non si regalano – o si lasciano invecchiare in un armadio. Finiscono in soffitta o in cantina. «Dalla sera si vede il mattino, – disse lui, – il mattino tuttavia è poi sempre ancora una sorpresa». Non esiste esperienza, a rigor di termini: «ecco perché non esiste l’uomo equilibrato!» A dire il vero esistono però delle possibilità che ci consentono di non essere piú alla mercé di tutto, di non essere completamente perduti. «Ma queste possibilità io non le ho mai avute». In un momento tutto ciò che conta nella vita perde ogni valore. «Lo sforzo s’arrampica su per il monte della delusione», disse lui. Mentre la perdita avviene facilmente, lo sforzo è invece un processo brutale, ancora piú brutale di prima. «Chi arriva in cima scopre in ogni caso che la cima non esiste. Quand’ero giovane come Lei, già da tempo mi tranquillizzava sapere che nulla merita uno sforzo. E mi inquietava. Oggi mi spaventa di nuovo: in questo terrore ho perso il senso dell’orientamento». Lui chiamava il proprio stato «spedizioni nelle giungle della solitudine. Come se io dovessi attraversare dei millenni perché un paio di attimi mi rincorrono col bastone», disse lui. Non gli era mai mancata l’occasione di sacrificarsi e non si era mai sottratto né avrebbe potuto sottrarsi allo sfruttamento da parte degli altri. «Io continuavo a investire negli uomini anche quando sapevo già da tempo che mi raggiravano, che avevano deciso di ammazzarmi». In seguito s’era aggrappato soltanto a se stesso «come ci si aggrappa a un albero già morto, ma che è pur sempre un albero», la ragione e il cuore se n’erano andati da lui, scacciati e relegati lontano.
Nel villaggio c’è gente che non è mai uscita dalla valle. La portatrice di pane per esempio, che ha incominciato a portare pane all’età di quattro anni e non ha mai smesso fino a oggi che ne ha settanta. Il lattaio. Tutti e due finora hanno visto il treno solo da fuori. E la sorella della portatrice di pane e il sagrestano. Il distretto di Pon per loro è come per gli altri l’Africa nera. Il calzolaio. Rimangono là dove si guadagnano il pane e il resto non li interessa. Oppure hanno paura di metter piede fuori casa. «È stato un amico a darmi l’indirizzo della locanda», dissi io. Come ho fatto a dire questa bugia? Nel modo piú naturale, come se nulla fosse piú facile che mentire. «Dato che mi piace visitare luoghi e paesaggi che non conosco, – dissi io, – non ho esitato». «L’aria ha una composizione terribile, – disse il pittore. – Di colpo le condizioni atmosferiche cominciano a limitare la Sua libertà di movimento». Voleva sapere perché come alloggio non mi fossi scelto una locanda migliore, visto che ci sono tante locande e persino delle pensioni. «Anche laggiú nella valle. Ma quelle vanno bene per i viaggiatori di passaggio, soltanto per trascorrervi una notte». Mentii dicendo che tutto era stata un’idea di un amico. Cosí, provvisto di qualche indirizzo, ero partito per venire qui. «E il suo viaggio s’è svolto senza incidenti?» mi domandò. Non riuscivo a ricordare nessun incidente durante il viaggio. «Sa, – disse lui, – quando viaggio io, mi capita sempre qualche incidente». Ritornando al villaggio e alla locanda disse: «Bisogna portarsi dietro qualche libro oppure un lavoro. Lei non s’è portato niente?» «Un libro di Henry James», dissi io. «Henry James?» domandò lui. «Io, – disse lui, – l’ho fatto apposta a lasciare a casa i libri. A dire il vero ho qui con me qualche scritto minore. Ma in realtà nient’altro che il mio Pascal». Non mi guardò mai in faccia per tutto quel tempo, camminava completamente curvo. «Perché io ho chiuso, – disse, – ho chiuso come si chiude un negozio dopo che è uscito l’ultimo cliente». E poi: «Qui Lei può fare un mucchio di osservazioni che si trasformano tutte in gelo, in antipatia verso se stessi. Se vuol dirla cosí: dove c’è gente si ha la possibilità di osservare. Soprattutto di osservare ciò che la gente non fa, che è poi ciò che in realtà la uccide». Qui non esiste un sola cosa «davanti alla quale ci si potrebbe levare il cappello». Non c’è limite alla bruttezza e al prezzo che si paga per ogni cosa. «Mi fa piacere che a Lei non piaccia la moglie dell’oste, – disse lui. – Non poteva essere altrimenti». Non disse nulla di piú preciso. Non avere pietà, ma limitarsi a lasciar lavorare la repulsione e lasciarle raggiungere il suo scopo, questo in molti casi è un vanto assoluto della ragione. «Quella donna è un mostro, – disse lui, – qui Lei incontrerà tutta una serie di mostri. Soprattutto alla locanda». Chissà se avevo la capacità di valutare un carattere mettendolo in relazione con un altro, una capacità «che non richiede nessuna intelligenza, ma che solo poche persone posseggono?» Costruire un terzo carattere intermedio fra i due e cosí via... un esercizio che gli faceva passare il tempo. «C’è la possibilità, – disse lui, – che Lei si svegli durante la notte. Non abbia paura. Si tratta di un compagno di letto della moglie dell’oste che se la sta filando e che non è pratico della casa, oppure è lo scuoiatore di cui si dice che sia completamente cieco di notte. Fratture e slogature di ogni genere non gli hanno sinora impedito d’infilarsi nel letto della moglie dell’oste». La moglie dell’oste secondo il pittore favorisce tutti eccetto lui. Per esempio ogni quattro o cinque giorni cambia le lenzuola in tutte le camere salvo che nella sua. Non gli riempie mai bene il bicchiere e se qualcuno le chiede informazioni sul suo conto, lei s’inventa le bugie piú sfacciate. Ma prove lui non ne ha, perciò non può chiederle delle spiegazioni. Dissi che non credevo che la moglie dell’oste raccontasse cattiverie sul suo conto. «E invece sí, – disse lui, – parla di me come se fossi un cane. Dice persino che faccio la pipí a letto. Dietro alle mie spalle si picchia l’indice in testa per far capire che sono pazzo. Dimentica che esistono gli specchi. La maggior parte della gente se ne dimentica». Lei gli allungava il latte con l’acqua. «E non è solo il mio latte che allunga». Senza contare che – secondo lui – cucinava carne di cane e di cavallo. «Alle sue figlie tanti anni fa ha detto che io sono un orco. Da quel giorno le bambine mi evitano». Secondo lui lei aveva sempre letto le sue cartoline e persino aperto le sue lettere tenendole sopra il vapore di una pentola e ingurgitandone il contenuto. «Era sempre informata su cose che io non le avevo mai raccontato».Ora lui non riceveva piú posta. «È finita per sempre». Disse: «Senza considerare che mi fa pagar tutto due o tre volte di piú perché crede che io sia un uomo ricco. Tutti qui lo credono. Persino il parroco vive in questa illusione e mi assilla con continue richieste di elemosine. Ho l’aria di avere dei soldi? Sembro un possidente?» «Per i contadini, – dissi io, – chiunque venga dalla città ha del denaro che gli si può tirar fuori dalle tasche. Soprattutto si crede che le persone colte abbiano del denaro». «Ho l’aria di una persona colta? – domandò lui, – la moglie dell’oste mi mette in conto delle cose che non ho mai ricevuto. E viene a supplicarmi perché paghi i pasti consumati da qualche disoccupato durante la settimana. Naturalmente io non dico di no. Ma dovrei dire di no. Perché non dico di no? Lei imposta tutto sull’inganno. Inganna tutti. Persino le sue figlie». L’inganno può essere un pungolo per certe persone. «E anche un impulso ad agire», disse il pittore. Quando sono venuto a Weng per la prima volta lei non aveva ancora sedici anni. So che sta a origliare dietro alle porte. Se aprissi una porta di colpo, andrei a sbattere contro la sua testa. Io però mi guardo bene dal farlo. È una pessima guardarobiera. Nei fazzoletti piegati da lei si trovano macchie d’insetti e anche gli insetti stessi, anzi persino dei vermi. Nella notte tra il venerdí e il sabato mette in for-no una enorme torta lievitata, il cosiddetto «Schlögel», nell’intervallo tra due uomini che lei strapazza senza pietà. Lo scuoiatore ignora l’esistenza di un ospite al piano di sotto che lei schiaccia con i suoi seni in modo altrettanto turpe. Le sue ricette corrono di bocca in bocca. È tanto brava a cucinare quanto è pericolosa, quant’è depravata. Nel suo ripostiglio di provviste in cantina e in soffitta, tra sacchi di zucchero e farina, trecce di cipolle, pagnotte, mucchi di patate e di mele, ci sono le prove del reato, i cimeli della sua abiezione, come mutande maschili imputridite e rosicchiate dai topi. «Un’interessante collezione di questi sudici cimeli si trova gettata alla rinfusa laggiú e lassú. Per lei è una soddisfazione particolare, in tempi di scarsità d’uomini, ritornare di tanto in tanto a contare questi cimeli e ricordarsi dei loro proprietari. Sono due anni ormai che lei non si leva mai di dosso le chiavi che le permettono di accedere a questi preziosi oggetti in soffitta e in cantina, e nessuno all’infuori di me immagina che cosa mai con quelle chiavi lei sia in grado d’aprire».
Come i vecchi la saliva, cosí il pittore Strauch sputava le sue frasi. Lo rividi solo per cena. Nel frattempo mi ero seduto in sala e osservavo il gran trambusto del pranzo. Il pittore arrivò troppo tardi per la moglie dell’oste, alle otto passate: a quell’ora i posti rimasti occupati erano soltanto quelli dei bevitori abituali. Nella sala ristagnava un tanfo – ormai denso – di sudore birra e stoffa di tute da lavoro. Il pittore apparve nel vano della porta, allungò il collo per cercare un posto e non appena mi vide, si diresse verso di me e mi si sedette di fronte. Disse alla moglie dell’oste che non voleva mangiare la cena riscaldata. Di portargli del pasticcio di fegato e delle patate arrosto. Rinunciava alla minestra. Per molti giorni aveva sofferto d’inappetenza, oggi invece aveva fame. «Difatti gelavo. Non faceva freddo, al contrario,ma il föhn, sa. Era dentro, capisce, che gelavo. È dentro che si gela».
Non mangia come una bestia né come un operaio e nemmeno come uno capitato lí da un mondo primitivo. È come se ogni boccone si facesse beffe di lui. Il pasticcio di fegato sul suo piatto era «un pezzo di cadavere», disse lui. Nel dire questa frase mi guardò. Ma io non mostrai la ripugnanza che lui s’era aspettata da me. Io con la carne di cadavere ci lavoro sempre e cosí non c’è piú nulla che mi ripugni. «Tutto quel che mangiano gli uomini son parti di cadavere», Disse lui. Vidi quant’era deluso. Una delusione infantile lasciò sul suo volto una traccia di dolorosa insicurezza. Poi parlò del valore e della mancanza di valore degli uomini. «L’elemento bestiale, – disse, – che è sempre in agguato nell’uomo e che ci fa pensare alle zampe dei predatori, pronti – a un solo cenno – a spiccare un balzo e a conficcar gli artigli, è quello stesso elemento bestiale che percepiamo attraversando la strada come centinaia di altre persone assieme a noi, capisce?» Masticava e diceva: «Non ricordo quel che stavo per dire, solo che era una malignità. Questo lo so. Spesso di tutto quel che si sta per dire non ci resta che questa sensazione, che si stava per dire una malignità».
Quarto giorno
«Ovunque si vada non si fa che passare accanto alle cose, – disse il pittore, – e poi si lasciano dietro alle spalle, mentre invece ogni cosa, ogni oggetto, tutto ciò che si è rapidamente appreso costituisce l’intera preistoria. Piú s’invecchia e tanto meno ci si sofferma sui rapporti che si son già conosciuti, studiati, sviscerati una volta. Tavolo, mucca, cielo, ruscello, pietra e albero, tutto questo è già stato analizzato. Tutto ormai viene solo maneggiato. Gli oggetti, l’intera armonia delle invenzioni, completamente incompresa... non ci s’interessa piú di ramificazioni, approfondimenti, sfumature. Ormai ci si preoccupa soltanto di collegare le cose in grandi linee. Tutt’a un tratto si dà un’occhiata all’architettura del mondo e si scopre cos’è: un’ornamentazione universale dello spazio e null’altro. Dai minimi rapporti e dalle riproduzioni piú grandi – tanto, si scopre che si è sempre stati perduti. Con l’età il pensiero si riduce al meccanismo di tortura del toccare il tasto. Non c’è nessun merito. Io dico: albero e vedo enormi foreste. Dico fiume e vedo tutti i fiumi. Dico: casa e vedo i mari di case delle città. Cosí dico neve ed ecco gli oceani. Un pensiero in fin dei conti mette in moto tutto. La grande arte sta nel pensare in grande e in piccolo, nel pensare sempre
simultaneamente in tutti i rapporti...»
È l’insicurezza che sprona gli uomini alle grandi imprese, grazie ad essa uomini che in realtà non erano fatti per nessuna cosa, sono diventati capaci di tutto. Gli eroi sono il prodotto della insicurezza. Vale a dire di uno stato d’ansia, di paura, di disperazione. «Senza parlare delle creazioni dell’arte». Non è la sicurezza a regnare, ma la stoltezza, l’inettitudine, l’ordinario, non lo straordinario. Queste osservazioni le fa durante il pranzo. Rifiuta la carne di manzo benché l’abbia ordinata lui stesso e chiede della carne affumicata. La moglie dell’oste porta via la carne di manzo e scompare. Abbiamo un tavolo tutto per noi, mentre la sala è piena. È impossibile farci stare una persona di piú, vien da pensare. Seggiole che normalmente stanno in cucina vengono portate in sala e sistemate lí, la grande panca viene tirata fuori da sotto alle finestre e allungata di due metri. Alla fine si mettono anche accoccolati per terra, seduti su assi di legno presi da qualchecassa e posati sopra secchi non ancora svuotati. È venerdí, penso. Poi quando proprio non trovano piú posto vengono anche al nostro tavolo. Prima lo scuoiatore e l’ingegnere, poi gli operai che si stringono addosso al pittore. La moglie dell’oste che gli posa sul tavolo la carne affumicata nota con gioia maligna che stanno quasi per stritolare il pittore. Fa di nuovo dei versi dietro alle sue spalle, dietro alle sue e anche dietro alle mie perché ha scoperto che ho fatto amicizia col pittore. Cosí anch’io sono diventato sospetto. Mi accomuna a lui. Visto che lo detesta deve detestare anche me.
Lo scuoiatore è un uomo alto e nero, l’ingegnere è piú basso di lui di tutta la testa, bruno, ciarliero e completamente diverso dallo scuoiatore. «Il lavoro va per le lunghe», dice l’ingegnere. Si riferisce ai lavori del ponte che fanno parte del progetto di costruzione di una centrale elettrica già in corso laggiú nella valle. Questa è la stagione peggiore per i lavori in calcestruzzo, ma van fatti lo stesso. «Neanche le ore di lavoro straordinario non servono a nulla», dice lui. Lui è come si suol dire «impermeabile». Tiene saldamente in pugno le sue maestranze. Parla come loro. Beve come loro. Taglia corto come farebbero loro se fossero al suo posto. Butta lí a caso i loro nomi nella sala. A ogni nome attacca una istruzione per il giorno dopo. L’ingegnere sembra avere in testa tutto: cifre trasporti travi traverse, luoghi da demolire non ancora abbastanza protetti e cosí via. Fuma una sigaretta dopo l’altra e per il gran ridere si schiaccia la pancia contro il tavolo. Lo scuoiatore sta zitto. L’ingegnere sembra affrontare quell’enorme impresa con forze enormi. Gli operai lo stimano. Sanno che non racconta loro delle storie. «Bisogna riuscire a far entrare i binari», dice lui e tutti, all’infuori di me e del pittore, sanno che cosa questo vuol dire, che cosa significa. Il pittore si alza. Scompare senza salutarmi. Non mi dispiace affatto restare ancora per un po’ seduto al tavolo ad ascoltare.
La locanda è una di quelle locande in cui si pernotta una volta sola se proprio non si può farne a meno. Lui, il pittore, ne era attratto come se la vedesse sempre per la prima volta. No, non erano i pregi della locanda ad attirarlo, ma i suoi difetti. Un attaccamento ai tempi di guerra durante i quali era stata un rifugio per lui e per sua sorella. Piú volte s’era trovato implicato in esperienze di fame e di miseria. Di primitività. Di rinuncia a ogni pretesa. «Conosco tutti i rumori di questa casa, anche quelli piú impercettibili», disse il pittore. Lui di notte, tastando col palmo della mano, sapeva ritrovare vecchie e famigliari irregolarità sulle pareti che conosceva sin nei minimi e piú insignificanti particolari. «Ho già dormito in tutte le camere, – disse. – Una volta avrei anche potuto comprar la locanda. Allora ero persino ricco. Ma sarebbe stata la fine, capisce?» Quando ne aveva abbastanza di tutto, veniva qui. «I muri ne avrebbero di cose da raccontare, – disse. – Ogni camera ha il suo episodio inaudito. Anche in questa locanda è entrata la guerra. Per esempio la camera dove dorme Lei...» Disse: «Dato il mio umore preferisco tacere. Si tratta di una decisione che qualcuno ha preso in quella camera. Incomprensibile a tutti. Irreligiosa». I metodi sono diversi, ma tutto è antichissima saggezza. E spesso quanto piú sono retrogradi i ragionamenti di un uomo, tanto piú rivoluzionarie sono le azioni che ne derivano. A volte entra in casa dell’aria fredda, quando hanno dimenticato di chiudere le finestre e tutto dentro di lui muore di freddo. Persino le immagini dei suoi sogni muoiono di freddo. Tutto diventa gelo. La fantasia, tutto. Mai che qui, nella locanda, gli fosse venuto un solo pensiero – come si suol dire – edificante. Tali pensieri gli erano comunque estranei per natura ed era già sconveniente il solo volersi avvicinare a essi. Lui difatti li rifiutava. «Il genere di pensieri che un uomo vuole avere se li sceglie lui». È sorprendente «quanto spesso si dimostrino ostili proprio quelle cose cui ci avviciniamo con fiducia». La vita alla locanda era in linea con tutti quei grandi maltrattamenti che lui in realtà andava cercando. A farsi del male da sé lui si era già esercitato da bambino. «Prima sono stato messo a dura prova. Poi ci ho preso gusto». Con gli anni aveva sviluppato questi esercizi fino alle sublimi altezze della follia. «La locanda tutto sommato è il principale testimone dei miei sentimenti, dei miei modi di essere. “Questo sono io”, dice ogni cosa... niente piú virtú né semplicità, ma soltanto endogamia autoesaltata al di là e al di sotto di tutto l’immaginabile».
«Il mio tempo è passato cosí come passa un tempo che non si vuole vivere. Sí, io il mio tempo non l’ho mai voluto vivere. La mia malattia è la conseguenza del mio disinteresse per il mio tempo, della mia inattività, della mia scontentezza... La malattia è comparsa proprio quando non c’era piú nulla... le mie ricerche si son fermate, a un tratto ho capito: no, io quel muro non lo scavalco! Le cose stavano cosí: dovevo trovare una strada che io non avessi ancora percorso... Le mie notti erano insonni, opache e grigie... talvolta sobbalzavo: e lentamente m’accorgevo che tutto ciò che avevo pensato si rivelava falso, perdeva valore, una cosa dopo l’altra, tutto di conseguenza diventava senza senso e senza scopo... E scoprii che la gente intorno a noi non vuole che la si illumini».
Quinto giorno
«La mia famiglia, i miei genitori, tutto, il mondo intero, al quale avrei potuto aggrapparmi, al quale ho sempre tentato di aggrapparmi, per me già molto presto si è dissolto nelle tenebre, è stato inghiottito dalle tenebre, si è sottratto ai miei sguardi oppure sono stato io ad allontanarmi, a ritirarmi, a ritirarmi nelle tenebre. Non lo so esattamente. Ad ogni modo sono stato lasciato solo molto presto, forse sono stato solo da sempre. Il pensiero della solitudine era già lí nei miei primissimi ricordi. Anche l’idea di solitudine. Dell’esser chiusi in se stessi. Io, cosí com’ero, non riuscivo a immaginare di poter restare solo per sempre, tutto il tempo. Questa idea non mi entrava nella testa, non riuscivo né a farmela entrare nella testa né a farla uscire da me». Disse: «Continuavo a tornarci sopra. A star lí, ero indifeso. A star là, senza rapporti col mondo. Era lí che mi svegliavo, ma era là che avrei voluto svegliarmi secondo il mio temperamento. La mia infanzia e la mia giovinezza furono una solitudine tanto crudele quanto la mia vecchiaia è una solitudine orrenda. Come se la natura avesse il diritto di respingermi continuamente, di darmi sempre addosso, di rigettarmi dentro a me stesso, di scacciarmi lontano da tutti, di scaraventarmi addosso a tutto, ma sempre soltanto fino all’orlo. Lei capisce che cosa voglio dire: i nostri orecchi son pieni dei rimproveri che uno muove a se stesso. E quando si crede di udire un canto, le note di un brano musicale o una melodia selvaggia, ci si sbaglia: anche quello non è altro che solitudine. È cosí anche per gli uccelli nel bosco, per l’acqua nel mare che ci batte contro le ginocchia. Non ho mai saputo cavarmela e oggi so cavarmela meno che mai. Questo non è forse sorprendente? Le persone, credo, fan solo finta di non essere sole perché son sempre sole. Basta vedere come si rianimano quando stanno insieme: oppure sono proprio i gruppi, le associazioni, le religioni, le città a costituire la prova di una solitudine infinita? Vede, sono sempre gli stessi pensieri. Innaturali, forse. Coerenti fino alla nausea. Forse insensati, dilettanteschi, può darsi. Se la solitudine si accompagna a un certo spirito d’indipendenza nella vita pratica, – disse, – allora è tollerabile, ma io non ho mai avuto il benché minimo spirito d’indipendenza. Non sapevo mai da che parte incominciare. Con le cose che capitano, gli influssi, il mondo esterno, l’io, non me la sono mai saputa cavare. Con ciò che purtroppo è sempre stato dentro di me. Già. Vede!» Disse: «Le persone che generano una persona nuova si assumono davvero una grande responsabilità. Tutto è irrealizzabile. Senza speranze. È un grave crimine generare una persona di cui si sa che sarà infelice, che una volta almeno prima o poi sarà infelice. L’infelicità contenuta in un attimo è già tutta l’infelicità. Generare una solitudine perché non si vuol piú restar soli, questo è criminale». Disse: «La forza che muove la natura è criminale e richiamarsi a essa è una scusa, cosí com’è una scusa tutto ciò che gli uomini toccano con le loro mani».
Si voltò verso il villaggio che si stendeva davanti a noi. «Questa non è una bella razza, – disse, – la gente è piuttosto piccola. Ai lattanti vien ficcato in bocca un succhiotto alla grappa per non farli strillare. Nascono molti mostri. Qui è di casa l’anencefalo. La gente non ha figli prediletti, ha soltanto un mucchio di figli. D’estate si prendono l’insolazione perché la loro pelle sottile non sopporta il sole che spesso picchia forte. D’inverno, come già detto, congelano per la strada mentre vanno a scuola. L’alcool ha preso il posto del latte. Tutti hanno voci rauche e acute. La maggioranza nasce con qualche malformazione. Tutti quanti concepiti nell’ubriachezza. In gran parte nature criminali. Un’alta percentuale dei giovani è sempre in prigione. Le gravi lesioni personali, la lussuria e gli atti contro natura sono all’ordine del giorno. Il maltrattamento dei bambini, l’assassinio, episodi riservati alle domeniche pomeriggio... Le bestie stanno meglio: difatti la gente vuole un maiale, non un bambino. Il livello delle scuole è bassissimo e i maestri sono perfidi, disprezzati come dappertutto. Spesso muoiono di ulcera gastrica. La tubercolosi li fa piombare in una torbida malinconia, dalla quale non escono mai piú. A poco a poco i figli dei contadini scompaiono nella massa degli operai. Non ho ancora visto una sola persona bella in questa regione. E in realtà di queste persone non sappiamo nulla, nulla di ciò che avviene dentro di loro: talvolta ci si scontra con questi mestieri, esistenze, torture, con questo pullulare d’uomini. E ci si limita a questo scontro». Da bambino era cresciuto con i nonni, in modo piuttosto libero. D’inverno lo tenevano con severità. In quella stagione spesso per giorni interi doveva stare a tavolino e imparare a memoria frasi fatte. Quando incominciò ad andare a scuola ne sapeva piú dei maestri. L’aula della scuola di campagna, che si trovava in un luogo silenzioso nell’Austria del Sud, «non è cambiata sino ad oggi». Un desiderio improvviso – di recente – gli aveva fatto fare un viaggetto sin lí. Lo stesso odore, disse, che lo aveva sempre irritato anche da bambino, un odore denso di catrame, gabinetti, grano, mele cotte. Proprio in questo momento ha respirato quell’odore come un’intera lunga giornata di primavera. Spesso si sforzava di riprodurre dentro di sé quell’odore, all’improvviso, in qualche luogo. Gli riusciva quasi sempre. All’improvviso, come a un maestro di tanto in tanto riesce un capolavoro. Tutta la sua infanzia era composta di odori, gli odori erano diventati tutt’uno con la sua infanzia. Non era una cosa morta, ma in continuo movimento. Era anche fatta di giochi di parole, di giochi al pallone, di paura, di topi e d’insetti, di animali selvatici, di vicoli bui, di fiumi impetuosi, di fame e di futuro. Nella sua infanzia aveva conosciuto topi e insetti, fame, animali selvatici e anche fiumi impetuosi. Anche il futuro e l’avversione. La guerra gli aveva permesso di vedere ciò che la gente che non conosce la guerra non vede mai. Spesso nella sua vita s’erano alternate la grande città e la campagna, perché suo nonno era un uomo inquieto, esattamente come lui. Sua nonna era piena di spirito, una signora, inaccessibile alla gente ordinaria. Il nonno portava con sé il nipote a visitare paesaggi, lo faceva partecipare alle conversazioni, viaggiare di notte. «Gran signori erano i miei nonni», disse. La perdita dei nonni fu la sua perdita piú grave. I genitori si occupavano poco di lui e molto di piú di suo fratello maggiore dal quale si aspettavano tutto ciò che non si aspettavano da lui: un futuro programmato: insomma un futuro. Suo fratello aveva sempre ricevuto piú amore e piú denaro di lui. Nelle cose in cui lui li deludeva, suo fratello non li deludeva mai. A sua sorella lo univa un legame troppo debole per essere duraturo. Lo riannodarono piú tardi attraverso l’oceano scrivendosi dall’Europa in Messico, dal Messico in Europa, tentando di trasformarlo quasi per incanto in una reciproca predilezione, in amore, in dipendenza, cosa che forse persino gli riuscí. «Mi scrive due o tre volte l’anno, non piú di quanto le scriva io», disse. Da questa solitudine e dal fondo del suo animo scaturirono tutti quei pensieri che si fecero sempre piú cupi. Con la morte dei nonni entrò «in tenebre che non sarebbero finite mai».
Poi morí anche suo padre, la madre lo seguí un anno dopo. Mentre suo fratello faceva la sua strada, saliva uno alla volta gli scalini della propria carriera diventando sempre piú simile al chirurgo che è ora, lui, il fratello, si perdeva sempre piú nel mondo dei suoi pensieri. Non trovava salvezza né di qua né di là. Ora era qua, ora era là, a pochi passi dalla rovina. Davanti agli altri non lasciava trapelar nulla, per la strada andava sempre vestito bene. Ma in casa, in camera sua, sempre piú insonne, cadeva in preda alle sue costellazioni meno propizie, alle scienze, a considerazioni sull’arte, alla povertà. Man mano che la sua povertà aumentava, lui si richiudeva sempre piú in se stesso. I suoi «tentativi artistici» lasciavano alquanto a desiderare. Lui stesso si rendeva anche troppo chiaramente conto che quanto riusciva a tirar fuori da sé nonostante l’enorme fatica, non era nulla che potesse suscitare meraviglia e tantomeno strappar grida d’entusiasmo. Tutto quel che veniva fuori da lui gli pareva molto comune. Tutto franava. Malgrado ciò qualche colpo di fortuna, «puri abbagli», riversavano su di lui gran profusione di affetto, anzi gli procuravano persino i mezzi per vivere. Chissà perché? Talvolta gli si prospettavano delle gite che «come un soffio d’aria primaverile» che lo trasportavano in qualche cittadina sul Danubio, in qualche villaggio costruito in mezzo al bosco, persino oltre il confine con l’Ungheria, vicino alla «pianura della malinconia» di cui non avrebbe mai smesso di riempirsi gli occhi per tutta la vita. Ma la sua infanzia diventò ancora piú orribile il giorno in cui non ebbe piú i nonni a spalleggiare i suoi genitori. Era cosí solo che spesso stava seduto sui gradini di un cortile sconosciuto credendo di dover morire di nausea. Andava in giro per giorni e giorni, rivolgeva la parola a gente che lo prendeva per matto e che lo trovava maleducato e ripugnante. In campagna non gli andò diversamente: lui spesso per giorni interi non vedeva né i campi né i prati perché i suoi occhi pieni di lacrime avevano perduto la vista. Lo mandavano a destra e a sinistra e pagavano per lui. Oppure s’indebitavano per farlo andare a destra o a sinistra e questo per lui era ancora peggio. Cercava di credere d’avere improvvisamente trovato un amico, ma si trattava solo di un’illusione alla quale si sottraeva spaventato. Ricadeva in uno smarrimento ancora piú grande, in un desiderio ancora piú forte di farla finita, in una mancanza di chiarezza ancora piú totale. A questo s’aggiungeva l’elemento distruttivo e seducente del sesso, lo turbava il contatto con un mondo proibito, le malattie che lui, abbandonato a se stesso, doveva curarsi da solo. Come tutto era diverso per i suoi fratelli che potevano starsene a casa con i genitori, che lí potevano «sfogarsi liberamente». Dato che per lui tutto si svolgeva nel disordine piú totale, s’era giocato tutte le sue prospettive scolastiche e un bel giorno non gli restò altro che accettare un lavoro in un ufficio – situazione da cui riuscí a tirarsi fuori soltanto facendo uno scandalo – ed entrare all’Accademia delle Belle Arti. Ottenne qualche borsa di studio, superò gli esami finali in tutte le materie richieste. «Ma non combinai mai nulla», disse. La giovinezza per lui divenne ancora piú amara. Forse aveva maggiori contatti con i giovani della sua età e del suo stesso temperamento, ma «tutto l’insieme era piuttosto povero d’idee». Infanzia e giovinezza non erano state facili per lui. In molte cose mi ricordavano la mia infanzia e la mia giovinezza. Anch’io ero triste, mai però amareggiato come lo era stato lui già cosí presto. Malgrado ciò la sua infanzia e la sua giovinezza erano le sole cose da cui gli riuscisse difficile staccarsi.
Oggi ha confessato d’aver dato alle fiamme tutti i quadri che aveva dipinto. «Dovevo separarmi da ciò che mi metteva continuamente davanti agli occhi che non valgo nulla». Erano come ascessi che scoppiavano ogni giorno e lo gettavano in un muto stupore. «Tagliai corto. Un giorno capii chiaramente che non avrei mai combinato nulla di buono. Ma, come tutti, non ci volevo credere e prolungai quell’orrore per diversi anni. Finché il giorno prima della mia partenza fu come prendermi una randellata in testa».
«Vi era stato un tempo nel quale non avrei ritenuto possibile perdermi dentro a me stesso in modo cosí stupido», disse il pittore. Si ferma, riprende fiato e dice: «E pensare che potrei essere di buon umore. Perché mai non essere di buon umore? Niente noia, niente ansia. Niente dolori. Nulla che mi irriti. Come se momentaneamente io fossi una persona completamente diversa. Ma ecco che ricomincia: qualcosa mi fa male e mi irrita. Sí, sono me stesso. Vede: per tutta la vita... Io non sono mai stato un tipo espansivo! Mai! Mai un tipo allegro! Mai quel che si dice un tipo felice. Perché la smania di ciò che è straordinario, strano, eccentrico, unico e irraggiungibile, perché la smania, anche quella di torturarmi lo spirito, mi ha sempre rovinato tutto. Mi ha stracciato ogni cosa, come un pezzo di carta! La mia paura è una paura a lungo meditata, analizzata nelle sue componenti, sviscerata a fondo, scomposta in ogni dettaglio, non una paura ignobile. Io mi esamino continuamente, ecco cos’è! Corro continuamente dietro a me stesso! Provi Lei a immaginare che cosa sia aprire se stessi come si apre un libro in cui si trovano tanti errori di stampa, uno dopo l’altro, ogni pagina brulicante di errori di stampa! Ma l’insieme, nonostante queste centinaia e migliaia di errori di stampa, è un capolavoro! Si tratta di una serie di piccoli capolavori!... I dolori si fanno strada dal basso verso l’alto e poi ridiscendono dall’alto verso il basso e diventano dolori umani. Dappertutto vado a sbattere contro muri che mi circondano. Ormai sono l’uomo di calcestruzzo! Ma è anche vero che spesso mi sono nascosto dietro alle mie risate!
Ma sa che cosa sento ora? Sento le accuse pronunciate contro le grandi idee, un immenso tribunale s’è riunito per giudicare le grandi idee. Sento come poco alla volta tutte le grandi idee vengono processate. Cresce continuamente il numero delle grandi idee che vengono arrestate e messe in prigione. Le grandi idee saranno condannate a pene terribili, questo lo so! Lo sento con le mie orecchie! Le grandi idee vengono arrestate alle frontiere! Molte fuggono, ma vengono arrestate e punite e finiscono in carcere. L’ergastolo, dico, l’ergastolo, è il minimo della pena a cui vengono condannate le grandi idee. Le grandi idee non hanno avvocato difensore! Quelle non hanno nemmeno un misero difensore d’ufficio! Sento le arringhe dei Pubblici Ministeri contro le grandi idee! Sento la polizia che prende a randellate le grandi idee! Da quando mondo è mondo, la polizia ha sempre riempito di botte le grandi idee! Le ha messe in prigione! Presto tutte le grandi idee saranno messe in prigione! Non ci sarà piú una sola grande idea che circoli liberamente! Ascolti! Guardi! Tutte le grandi idee per principio sono sempre state decapitate! Ascolti!» Il pittore mi dice di precederlo e io lo precedo e lui col suo bastone mi spinge verso la valle.
Il caso ha voluto che io incontrassi il pittore già prima nel bosco di larici e non laggiú sul sentiero infossato nel bosco dove ci eravamo dati appuntamento e dove m’aspettavo d’incontrarlo quand’ero ormai a venti o trenta passi dal bosco di larici, lui dunque era saltato fuori all’improvviso di dietro un albero prima del bosco di larici e aveva brandito il bastone come se volesse sbarrarmi il passaggio. Io non avevo mai smesso di cantare dall’istante in cui ero partito dal villaggio, cantavo melodie che non sapevo da dove venissero, una dopo l’altra senza interrompermi mai e lui aveva detto: «Ma Lei sa cantare! Perché canta soltanto quando è solo? Lei non ha mai cantato quand’era in mia compagnia! Una voce strana la sua, non sgradevole». Ero imbarazzato e non sapevo che cosa dire. Mi prese sottobraccio e, respirando a fatica, mi condusse nel bosco di larici. Ma io non cantai piú. Anche se avessi voluto non mi sarebbe piú uscita una sola nota. Lui aveva deciso di aspettarmi un po’ prima del bosco di larici, «perché sul sentiero infossato nel bosco doveva far molto freddo». Camminavamo piuttosto in fretta. Lui però sembrava già stanco e si fermava tutti i momenti. «La fantasia è l’espressione di un disordine, – disse lui, – non può non esserlo. Nell’ordine infatti la fantasia è impossibile, l’ordine non tollera la fantasia, non sa neanche che cosa sia. Lungo il sentiero infossato nel bosco non ho fatto che chiedermi che cosa fosse la fantasia. Io sono certo che la fantasia è una malattia. Una malattia che non si può prendere per contagio, perché è congenita. Una malattia che ha sulla coscienza tutto, in particolar modo la ridicolaggine e la malvagità. Lei capisce la fantasia? Che cos’è la fantasia? mi son chiesto, e allo stesso tempo se fosse possibile capire la fantasia. Ma la fantasia è incomprensibile». Col suo bastone agganciò e tirò giú un ramo carico di neve facendola precipitare su di noi. Dovetti dargli dei colpetti per scuotergli la neve di dosso. «Un uomo che non sappia nulla può esistere? – domandò, – un uomo che non abbia mai saputo nulla?»
Erano già le cinque quando arrivammo giú alla stazione. Era piú affollata del solito e il pittore voleva farsi largo in mezzo a tutta quella gente per andare al buffet. Allungò la mano e la gente vedendo il suo bastone lo fece passare. Io lo seguivo a due metri di distanza. Al buffet dapprima andò a sedersi in un angolo dal quale si potevano guardare i binari e veder partire e arrivare i treni. Poi incominciò a sentir freddo: «C’è una corrente d’aria spaventosa!» e ci sedemmo accanto alla stufa. Ci scolammo due bicchierini di slivoviz a testa e poi andammo all’edicola a scegliere ciò che volevamo. Stracarichi di giornali – che io porto sempre in camera mia per leggerli fino all’ultima riga dopo che ha finito di leggerli lui – ci proponemmo di arrivare alla locanda, se fosse stato possibile, ancora prima delle sette. Davanti alla locanda, mentre mi scrollavo la neve dalle scarpe, lui disse: «La fantasia è la morte dell’uomo. Oggi ho avuto un sogno che non ricordo piú dove si svolgesse, ma certamente in un paesaggio che mi è sempre stato familiare; ma in quale paesaggio fosse, questo non lo ricordo piú. Un sogno inconsueto, non uno dei soliti sogni disperati. Il paesaggio dove il sogno si è svolto probabilmente nel giro di pochi secondi, ora appariva bianco, ora verde, ora blu, ora nerissimo. Nulla era del colore che gli corrisponde secondo la percezione umana. Il cielo per esempio era verde, la neve nera, gli alberi azzurri... i prati bianchi come la neve... Questo m’ha fatto pensare a certi dipinti a olio della nostra epoca, benché quei pittori non procedano in modo altrettanto rigoroso, no, quei pittori non sono rigorosi come il mio sogno... uno dei sogni piú rigorosi che io abbia mai avuto. Un sogno cosí radicale, in quel paesaggio... gli alberi alti sino all’infinito, i prati cosí duri, l’erba cosí dura che quando la sfiorava il vento, ne traeva una musica sonora, una musica ch’era un compendio di tutte le epoche musicali. Tutt’a un tratto mi trovai seduto in quel paesaggio, in mezzo a un prato. Il fatto curioso era che le persone avevano gli stessi colori del paesaggio. Io avevo preso il colore del prato, poi quello di un albero e infine il colore delle montagne. Avevo preso simultaneamente tutti i colori. La mia risata in quel paesaggio aveva attirato l’attenzione generale, non so perché. Quel paesaggio piuttosto irregolare era il paesaggio piú animato che io avessi mai visto. Certamente un paesaggio umano. Ora Lei mi domanderà che aspetto avessero le persone in quel paesaggio. Le persone, dato che come me avevano i colori del paesaggio, erano riconoscibili solo dalle loro voci, cosí come anch’io ero riconoscibile solo dalla mia voce. Voci talmente differenziate, sa, voci incredibilmente differenziate! Ma tutt’a un tratto accadde una cosa orribile: la mia testa cominciò a gonfiarsi in modo tale che il paesaggio si oscurò di alcuni gradi e le persone scoppiarono in lamenti, nei lamenti piú spaventosi che avessi mai udito sino allora. In lamenti intonati al paesaggio. Non so perché, dato che la mia testa tutt’a un tratto era diventata cosí grande e pesante, si mise a rotolare giú per la collina sulla quale mi trovavo, giú per i candidi prati, giú per la neve nera – in quel paesaggio coesistono sempre simultaneamente tutte le stagioni! – schiacciando molti alberi azzurri e molte persone. Ne sentivo il rumore. Tutt’a un tratto notai che dietro a me tutto era morto. Tutto spento, morto. La mia enorme testa era posata su una terra morta. Nelle tenebre. Rimase lí in quelle tenebre finché non mi svegliai. Perché mai quel sogno era finito in modo cosí orribile?, mi domandai». Il pittore tirò fuori il suo Pascal dalla tasca sinistra della giacca e se lo mise nella tasca destra. «È sconcertante», disse.
Ci fermammo a casa del distillatore di grappa. Prima percorremmo tutto il sentiero infossato, poi andammo oltre addentrandoci sempre piú in quel bosco nel quale non ero ancora stato. Tutti i momenti il mio compagno di strada si fermava dicendo: «Vede! Vede! La natura tace! Vede! Vede!» Zoppicava come quel gobbo che avevo visto a Floridsdorf sullo Spitz. I nostri piedi erano simili a palle di neve. Continuava a fermarsi osservando: «La natura dà le dimissioni!» «Vede, la natura tace!» Già, tace. «Non sta ferma, sta ferma, non sta ferma... capisce?» «I pensieri, – disse lui, – vanno simultaneamente in su e in giú». Mi spiegava le impronte degli animali selvatici. «Un cervo, vede! Una lepre, vede! Un capriolo, vede! Ecco, una volpe! Non son lupi questi?» Spesso affondava nella neve e si vergognava perché io dovevo tirarlo su aggrappato al suo bastone. «È una cosa penosa», diceva allora. Enumerava le costellazioni: «Cassiopea, l’Orsa, Orione». Ora spariva nella neve, ora ne rispuntava. Se rimanevo indietro mi ordinava di tornare a camminargli davanti. «Sempre profondità e superficie, – disse. – Superficie e profondità». I tronchi d’albero sono delle apparizioni, «grandi personalità di giudici». Disse: «Pronunciano grandi sentenze! Queste terribili sentenze!» Una visita al distillatore di grappa era sempre una tappa obbligata. «La gente continua a dire che lui non può farcela a passare l’anno, a passare l’inverno, ma tutte le volte che vengo qui, ce lo trovo ancora». Del distillatore dice che è l’uomo piú taciturno che abbia mai incontrato. E il distillatore davvero non spiccicava parola. Il pittore continuava a insistere perché si camminasse piú in fretta benché fosse colpa sua se non si andava avanti. Ma alla fine apparve davanti a noi la casa del distillatore. Lí dentro il distillatore di grappa abitava con le sue due figlie come in una caverna. Lui opprime le figlie e ha paura che l’abbandonino, loro temono lui. Presto non saranno piú in età da marito. «Lui continua a tenerle d’occhio e a ordinar loro: Lardo! Pane! Zuppa! Latte!» A parte questo non apre bocca tutto il giorno. Loro eseguono gli ordini come delle minorenni. «Quando lui prova ribrezzo per le proprie figlie le rinchiude in soffitta e le costringe a filare il lino, capisce. Solo a lavoro finito possono scendere. Non prima. Quelle due hanno le manette ai polsi, manette invisibili ma che è impossibile spezzare».
Il pittore bussò alla porta ed ecco apparire un uomo lungo e secco come un pezzo di legno. «Sí», disse, e neanche una parola di piú. Ci fece entrare. Le figlie avvicinarono due sedie, corsero in dispensa e tornarono con del lardo e della grappa. Prepararono la tavola. Mangiammo e bevemmo con il distillatore. Non appena avevamo finito di mangiare e di bere lui diceva: «Lardo» o «pane» o «grappa» e le figlie correvano in dispensa. Ci trattenemmo lí per due ore. Poi ci alzammo e il distillatore, quando fummo davanti alla porta, disse: «Sí» e richiuse la porta. Raggiungemmo la locanda all’ora di cena.
«Ascolti, – disse il pittore tutt’a un tratto dopo la passeggiata. – Ascolti il latrato dei cani!» Ci fermammo. Questi cani non si vedono, ma si sentono. A me questi cani fanno paura. Paura forse non è l’espressione giusta visto che ammazzano la gente. Ammazzano tutto. «Che ululati! Che latrati! Che guaiti! Ascolti! – disse, – il mondo attorno a noi è un mondo di cani».
Sesto giorno
«D’estate Lei deve continuamente difendersi da milioni di zanzare. È per via del terreno paludoso. Ben presto Lei, sull’orlo della pazzia, verrà spinto nel folto del bosco, ma neanche nel sonno non le daranno tregua queste zanzare, questi sciami di zanzare. Lei si metterà a correre, ma naturalmente non troverà scampo. Ogni volta tutto il mio corpo è disseminato di ferite dovute alle punture delle zanzare. Che grande tormento è stato per mia sorella, Lei deve sapere: le zanzare per via del suo odore dolciastro l’avevano quasi divorata. Dopo le prime punture Lei incomincerà a girarsi nel letto accrescendo cosí quella tortura silenziosa. Il mattino seguente Lei si troverà invecchiato di molti anni. Il suo corpo sarà febbricitante per effetto del loro veleno... Lei si sveglierà in quell’orribile stato di debolezza e si renderà conto: all’improvviso è ritornata la stagione delle zanzare. Non creda che io stia esagerando. Io poi, come Lei avrà già potuto notare, non sono affatto portato all’esagerazione. Ma eviti di organizzare il suo viaggio in modo da essere qui nella stagione delle zanzare... ma tanto Lei qui non ci tornerà piú... la gente però in quella stagione, deve sapere, Le verrà incontro in uno stato di malevola vulnerabilità, non gli si può rivolger la parola. Io stesso, come Le ho già detto, corro a destra e a sinistra in cerca di riparo. A questo si aggiunge la calura, tutto è deserto, tutto sembra calcolato per riuscire fatale. Il cielo è oscurato dalle zanzare. Probabilmente è a causa del fiume ormai quasi secco, – disse, – a causa del terreno paludoso». Oggi indossava un camice, un camice di velluto rosso, il suo «camice da pittore». Per la prima volta vestiva come vestono i pittori: in modo stravagante! Già di buon mattino si fece vedere da fuori premendo la testa contro il vetro della finestra mentre io ero in sala. Si fece sentire battendo contro il telaio della finestra. Una grossa macchia gialla che diventava sempre piú gialla. Era già uscito di casa alle quattro e mezzo del mattino con l’intenzione di riuscire ancora ad acciuffare l’anima di qualche morto.
«Una cosa da far venire i brividi», disse entrando. La moglie dell’oste aveva tolto la sbarra dalla porta prima della solita ora per via di una moneta da cinque scellini che lui le aveva offerto ma che lei non aveva voluto accettare. Lui disse: «Si riusciva a udire il fiume fin quassú. Nessun rumore di macchine. Né canti di uccelli, naturalmente. Nulla. Come se tutto fosse irrigidito sotto a una coltre di ghiaccio». Si era trovato in un mondo che assomigliava in modo approssimativo alla realtà. Col suo bastone aveva esorcizzato mostri di neve e di ghiaccio. S’era lasciato cadere a braccia e gambe divaricate sull’immacolata coltre di neve. «Come un bambino». Era rimasto disteso cosí finché non ebbe raggiunto lo stadio in cui si crede di dover congelare istantaneamente. «Il gelo è onnipotente», disse. Si mise seduto. Disse: «Non vi è nulla di piú inconcepibile del fatto che io stia facendo colazione». I tipi mattinieri, se escono e si mettono in cammino, possono ammirare un gelo magnifico e crudele. «La scoperta che il gelo s’impadronisce di tutto non è affatto spaventosa». Ai tipi mattinieri il mondo si manifesta in una meravigliosa chiarezza e verità. Il mondo crudele del gelo li smentisce e li piega. Ai tipi mattinieri che hanno dormito a sufficienza il mondo sembra «protetto contro la follia». Che si sarebbe immediatamente tolto il suo camice da pittore, disse, se l’era messo solo «per infliggersi una tortura», una tortura programmata per l’alba. «Naturalmente agli occhi del mondo che io abbia indossato questo camice è parso un atto sconveniente, – disse. – Che io abbia finto di essere l’uomo ch’ero stato un tempo. Ora sono un altro, come fossero passati mille anni. Forse. Dopo tutti gli errori». La moglie dell’oste portò del caffè e del latte e «intere montagne di cibo» – queste le parole del pittore – a un giovane avventore seduto al lato opposto della sala. «Un tipo distinto, mi pare. Che cosa ci fa qui? Forse è un parente dell’ingegnere. È possibile». La moglie dell’oste portò un orario ferroviario allo sconosciuto e costui lo sfogliò per un po’ di tempo. Voleva sapere se per andare alla stazione gli convenisse prendere la scorciatoia. Converrebbe sí, ma d’inverno è impossibile. Lo sconosciuto si alzò, pagò il conto e uscí. «Il mio camice da pittore, – disse il pittore, – è una disgrazia tutta per sé. Quando me lo levai di dosso mi levai di dosso quella disgrazia». Oggi aveva indossato quel camice per l’ultima volta, disse.
Mi venne in mente che oggi compio ventitre anni. Nessuno, proprio nessuno ci ha pensato. Forse qualcuno ci ha pensato, ma nessuno sa dove sono. All’infuori dell’assistente nessuno sa dove mi trovo.
«Esiste un centro del dolore, da questo centro del dolore s’irradia tutto, – disse, – esso si trova nel centro della natura. La natura sorge su molti centri, ma soprattutto sul centro del dolore. Questo centro del dolore, come tutti i centri della natura, sorge sul dolore supremo, si potrebbe dire che poggia sul monumento del dolore. Sa». Disse ancora il pittore: «Dovrei tenermi dritto, ma non mi è possibile. Sono piú curvo della media delle persone, vero? Mi perdoni se mi tengo cosí curvo. Probabilmente ho un aspetto che ispira pietà. Ma Lei certo non immagina quanto è spaventoso il mio dolore. Dolore e tormento dentro di me diventano una cosa sola, braccia e gambe li combattono ma finiscono col diventarne le vittime piú innocenti. Inoltre c’è questa neve bagnata, ci sono queste enormi masse di neve! In certi momenti sono incapace di sostenere il peso della mia testa. Uno sforzo enorme: dieci persone normali non sarebbero in grado di sollevare la mia testa senza un periodo di allenamento. E ora pensi: io ho la forza di dieci atleti allenati a portare il peso della mia testa. Se avessi potuto sviluppare tali forze per me stesso! Lo vede che spreco le mie forze per una cosa insensata: poiché è certamente insensato tener su una testa come la mia. Se avessi potuto investire anche solo un centesimo di quella forza in me stesso, in ciò che sarebbe stato importante... Avrei rivoluzionato tutte le regole e tutte le conoscenze. Avrei concentrato su di me tutta la gloria del mondo dello spirito. Un centesimo di quella forza e sarei diventato una specie di secondo creatore! Gli uomini non sarebbero certo riusciti a smentirmi. In un baleno avrei fatto tornare indietro la Storia di millenni e le avrei fatto prendere un corso migliore e diverso. Cosí invece le mie forze si concentrano solo sulla mia testa, sul mio mal di testa e tutto è senza senso. Questa testa, Lei deve sapere, è inetta. Nel suo centro vi è un globo terrestre incandescente ancora privo di qualsiasi risorsa, e tutto risuona di armonie lacerate!»
Il ricordo ci rende malati. Basta che riaffiori una parola per sventrare intieri quartieri di una città. Un’architettura terrificante. Basta guardare i luoghi dove si riunisce la gente: inutili tentativi di riavvicinamento! Il giorno è finito. «Novantotto persone su cento soffrono di ossessioni al momento di addormentarsi e al momento del risveglio. Ogni uomo passa continuamente a guado la profondità di un pensiero, gli uni arrivano in basso, gli altri ancora piú giú. Finché le tenebre non mostrano loro chiaramente la vanità dell’impresa; le prigioni con i loro silenzi pomeridiani, il sonno e le esalazioni dei detenuti... pensieri identici attraversano la testa dell’uno e dell’altro: lo spappolamento umano in una catastrofe stradale avvenuta settimane prima, anni prima. Campi di grano ruotano in tutte le direzioni celesti, in ogni riflesso del cielo: boschi, prati, strade maestre, scorci di fiere paesane, ancora una volta strappati in mille pezzi dalla fantasia, gorgogliano frammenti di fiumi, artigiani armati di lunghi coltelli trafiggono i centri nervosi di uomini completamente indigenti». Esistono sogni letteralmente caduti in disuso, esiste la cosiddetta «giurisprudenza delle persone semplici». Esiste una legge per cui tutto si ripete e tutto allo stesso tempo è irripetibile. Eterno ribaltarsi di ogni cosa, infinito dissolversi di ogni concetto. La gioia attira altra gioia, il vizio attira il vizio, l’esibizione altra esibizione, l’amore attira l’amore. «Ciò che mi tiene unito a me stesso è quanto vi è di piú lontano da me», e poi: «Io sono la vittima delle mie teorie e allo stesso tempo ne sono il maestro». Si domandava che cosa fossero i ricordi, questi brandelli di fatti notevoli che non si capiscono piú. Il ricordo rimane indietro e non la smette mai di ripetere quello stesso identico spettacolo che metteva in scena al momento in cui l’avevamo lasciato quando non era ancora un ricordo. La gente si ritira come sulle scene. A quanto pare si ritira sempre e soltanto su un unico piano. La vera dimora del ricordo è lassú in soffitta nel palcoscenico dell’eternità. E poi? Diminuirà l’intensità della sua voce e anche l’impressione «che ricevono gli occhi dalle cose da cui debbono ritirarsi, lentamente, incessantemente. Con gli anni tutto svanisce». Prima o poi, di tanto in tanto, un’immagine riemerge dalla corrente, vi è riconoscibile, stupenda nei suoi colori come l’oggetto della nostra disperazione. Passato: infanzia, giovinezza, dolore, morto da tempo, dolore non ancora morto, un frammento di primavera, un frammento d’inverno, un frammento d’estate – ma di quale estate? – la cosa che si è amata di piú. S’incrociano strade e sentieri sassosi, tombe di familiari o di amanti: uomini che portano la bara di una donna oscurano l’intera scena, camion che trasportano botti, operai di fabbriche di birra, di caseifici, un ramo spezzato davanti alla casa paterna: angoscia che ci guida verso il fondo del lago. Coincidenze e casi trasformano in malattia tutto ciò ch’era ancora salute: un processo inesauribile. «Tutto al mondo non è altro che un’idea di se stessi». Il processo che tiene assieme un essere fantastico come l’uomo grazie alle sue capacità, non costa fatica. Il ricordo è solo predilezione. «Se non lo è uccide tutto, distrugge in noi anche la parte piú coriacea». Follia, felicità, ostinazione e ignoranza, fede e mancanza di fede, sono in ogni momento a sua disposizione. «Ricordare è un godimento unico che fa arretrare la morte». Avere con il ricordo lo stesso rapporto che si ha con una persona che di tanto in tanto si manda via di casa, per poi riaccoglierla ogni volta con piú amore e determinazione, «ecco la convivenza ideale tra il ricordo e il suo possessore»: il ricordo è preceduto da un progetto. Quanti progetti! Il ricordo ha lo sguardo rivolto indietro, è capace di farci qualche elemosina dall’alto della sua torre di guardia, ma non sempre è disposto a farla. Distribuisce regali a sorpresa per i compleanni, falsifica documenti. Spesso trasforma i funerali in miti ed estenuate cerimonie pomeridiane. Il ricordo sa fare orecchi da mercante cosí come li sa fare il mondo e spesso è involontariamente brusco nel rivolgerci la parola, quasi come un fratello prediletto che chieda notizie sul conto di sua sorella. Il ricordo si affina rapidamente tra i pensieri e i sentimenti di un uomo, di un carattere e «a quanto pare giunge sempre al momento giusto». Non è mai menzogna. Calcolo questo sí. Non è Spirito. Non è moderazione. Sprofondato in tutte le sue possibilità, l’uomo se ne va muto ed è sordo a tutto ciò che non proviene da esso. Il ricordo è un perpetuo «pensare e subito rattristarsi», non è un episodio a sé, ma serve a creare «confusione quotidiana e la quotidiana sensazione d’esser costretti alla disperazione perenne».
«Oggi ho dei dolori tali, – disse, – che mi è quasi impossibile continuare ad andare avanti. Ogni passo è un tormento. Provi a immaginare: questa testa enorme e queste piccole gambe rinsecchite... che debbono sostenerne il peso. Lassú in alto quella testa enorme e laggiú quelle deboli fragili gambe che non si fermano mai. Immagini di avere un liquido dentro alla sua testa, per esempio dell’acqua che bolle e che tutt’a un tratto si solidifica e diventa piombo che le batte con violenza contro la scatola cranica. Ho la sensazione che ormai non c’è luogo in cui la mia testa possa essere contenuta. Nemmeno in questo paesaggio. Non ci sono che i dolori. Non ci sono che tenebre. Riesco a orientarmi seguendo le Sue parole, il rumore dei suoi passi. Un giorno o l’altro, lo so, la mia testa si aprirà. Ho molti modi diversi d’immaginare conclusioni diverse, – disse il pittore, – ammesso che io voglia aspettare una fine naturale. Il suicidio: causa prima della natura, il Nulla piú resistente e il piú solido per natura... l’intera evoluzione ridotta a pura ricerca: le generazioni passano il loro tempo sedute in una specie di aula giudiziaria dove si svolgono solo i preliminari di un processo... I dolori nella mia testa han raggiunto un grado di intollerabilità ignoto alla scienza... si vuole sperimentare su se stessi che cosa si è in grado di sopportare: in cammino verso l’estrema insensibilità o verso l’ipersensibilità, a intervalli regolari con gran pena si tenta la scalata alla colonna del dolore... la temperatura ha raggiunto migliaia di gradi... io porto sulle spalle una testa in cui gli orizzonti si capovolgono. Se riuscissi soltanto a farLe un accenno che fosse qualcosa di piú di un accenno... io mi limito alle tanto deprecate facoltà della vecchiaia; solo cosí mi è possibile tenere il passo con il mio tormento. Vede là quei paletti, – disse il pittore, – potrei conficcarmeli uno per uno nel cervello! Anche i piedi mi dolgono, anche le articolazioni. Tutto. In me non vi è nulla che sia libero dal dolore. Certo devo proprio sembrarle un grande commediante! Lei non può immaginare come sia: improvvisamente tutto si gonfia sempre di piú e diventa un gigantesco meccanismo. Sempre le stesse vie, – disse, – è una cosa che fa impazzire. A questo si aggiungono tormenti autoimposti, dei supplementi che mi creo io. Per inettitudine e anche per calcolo. Per ignoranza e anche per presunzione. Morire assiderato perché non si è fatto quel tale gesto?... Poi mi attraversa la mente quel numero infinito di atti mancati: sono legati a viaggi, ad affari, a intrighi religiosi, incontrollabili. Lei capisce: tutto è divisibile! Cosí come: nulla è divisibile! E il dolore viene esaltato a suon di frusta. Fa dei balzi sempre piú folli. Esercitato a dar prova della piú mostruosa abilità, s’avventa su di noi come una belva. Li sente, – domandò il pittore, – li sente?» Allora udii i cani.
Settimo giorno
Lo scuoiatore ha incontrato il pittore nel sentiero infossato nel bosco. Stava accoccolato in terra. Sulle radici di un albero. Ma il pittore non ha neppure alzato gli occhi quando lui gli è passato accanto. Allora allo scuoiatore son venuti i brividi, s’è voltato e ha rivolto la parola al pittore. «Sto lavorando a un problema», avrebbe risposto il pittore. A sentir questo lo scuoiatore fece dietro-front lasciandolo lí seduto. Allora il pittore lo indusse a ritornare nuovamente indietro da lui grazie all’espressione «gelo polare». «Sto facendo tutti i tentativi possibili, – avrebbe detto, – ma tutti questi tentativi falliscono». Allora lo scuoiatore si sedette accanto a lui e cercò di convincerlo. Che doveva alzarsi, disse, tornare alla locanda e farsi fare un tè forte dalla moglie dell’oste. La cosa migliore sarebbe stata debellare con un paio di bicchierini di grappa di prugna il raffreddore che certamente doveva essersi già insediato in ogni parte del suo corpo. Pare che gli fossero venute le lacrime agli occhi quando lo scuoiatore gli disse: «Ma signor pittore, non vorrà mica disperarsi!»
Pare che gli abbia dovuto ripetere per un paio di volte d’alzarsi prima che il pittore ammettesse che era insensato e che alla lunga sarebbe diventata una tortura starsene lí seduto. Poi avrebbe detto: «Non conduce a niente» e si sarebbe alzato. Dopodiché erano risaliti lungo il sentiero infossato sino al bosco di larici. «Piú che camminare andava carponi», racconta lo scuoiatore. In seguito, aggrappato al bastone, s’era fatto trascinare dallo scuoiatore sino alla locanda. «Ho sempre saputo che il pittore aveva qualche rotella fuori posto». Lo scuoiatore lo dice in tono benevolo e cosí privo di emozione da suscitare per contrasto una grande emozione: «Ma questo sfiora l’intenzione suicida», avrebbe detto lo scuoiatore al pittore. Che il pittore fosse cambiato dai tempi in cui «rideva sempre, specialmente quando era assieme a sua sorella» l’aveva già osservato durante il suo ultimo soggiorno a Weng. «È stato qui per un breve periodo nel tardo autunno».
In passato non si isolava a quel modo, non viveva cosí ritirato. Al contrario: partecipava a tutto e si sforzava di essere come la gente del paese, di essere uno di loro. Insieme a loro andava da un’osteria all’altra e aveva piú resistenza di tanti montanari. «Aveva sempre partecipato alle bevute dell’Epifania». Ma non si era mai ubriacato al punto di dover essere trasportato a casa come tanti altri, benché avesse sempre bevuto quanto loro. «Gran mangiatore di sanguinaccio quel pittore», disse lo scuoiatore. A Goldegg aveva partecipato all’incontro di curling alla locanda della birra dove «basta un giro di chiave per aprire le vergini come se fossero i cassetti di un comò». Gli era sempre parso un «tipo pensieroso ma affabile». L’incontro sul sentiero infossato lo aveva spaventato. Disse alla moglie dell’oste di mettere della legna in piú nella stufa in camera del pittore. Di «farlo stare al caldo il piú possibile». Lo scuoiatore aveva avuto la sensazione che il pittore se non lo avesse incontrato, sarebbe rimasto lí seduto e non sarebbe piú tornato vivo. Si fa presto a morire assiderati «tra un pensiero e l’altro». Non ci si accorge nemmeno. Si è condotti in un sogno dal quale non si esce piú. A quanto pare il pittore stava passando un brutto momento, disse lo scuoiatore. «Parlava di un problema. Ma non so di quale problema». Lui, lo scuoiatore, era sempre andato d’accordo con il pittore. D’altra parte le storie di guerra che raccontava lo scuoiatore erano sempre piaciute al pittore.
Ha dei dolori ai piedi. Sembra che questi dolori ai piedi gli impediscano di camminare com’era abituato, come avrebbe voluto camminare. «Probabilmente vi è un legame misterioso tra il mio mal di testa e questi dolori ai piedi», disse. È risaputo che esistono dei legami fra tutte le cose. «Per quanto misteriosi. E dunque anche tra le varie parti del corpo; tra l’intero corpo e questa o quella parte». Ma tra la sua testa e il suo piede sinistro c’era un legame del tutto speciale. I dolori che lui aveva al piede e che si manifestavano tutt’a un tratto al mattino erano imparentati con i dolori dentro alla sua testa. «Mi sembra che siano gli stessi dolori». Si possono avere gli stessi dolori in parti del corpo lontanissime fra loro, «esattamente gli stessi dolori». Cosi come si possono sentire in determinate parti del corpo determinati dolori dell’anima (di tanto in tanto dice la parola anima!) E anche sentire nell’anima i dolori del corpo! Adesso il suo piede sinistro gli incute paura. (Non si tratta che di una semplice borsite al piede sinistro, nella parte interna, sotto la caviglia). Per le scale, ancora nel buio, mi mostra la sua bozza. Una bozza grossa come un uovo d’oca. «Non è sconcertante questa bozza? Durante la notte la malattia che ho alla testa si manifesta nel mio piede. Sconcertante». Da decine d’anni lui andava molto in giro ogni giorno. «Non può dunque dipendere dal fatto che io abbia sforzato il mio piede. Non ha nulla a che vedere col piede. Viene dalla testa. Dal cervello». Quella bozza era la prova del fatto che ora la sua malattia si stava propagando in tutto il corpo. «Presto avrò delle bozze simili in tutto il corpo», disse. Vidi subito che si trattava di una comunissima borsite, conseguenza della sua marcia forzata attraverso il sentiero infossato e gli dissi che la sua bozza era innocua, che non c’entrava nulla con la sua sofferenza cerebrale, che non c’entrava nulla con la sua testa. Che non era nulla dal punto di vista medico. Che anch’io una volta avevo avuto una bozza simile. Ci mancò poco che non mi tradissi: se avessi usato un certo termine che stavo per usare, avrei rivelato che ero quello studente in medicina che per tutto quel tempo con tale forza di volontà avevo cercato di non fargli riconoscere in me. Ma mi era andata bene e avevo detto: «Di bozze come queste se ne formano tutti i giorni». Ma lui non mi aveva creduto. «Questo Lei lo dice perché non vuole demoralizzarmi, non vuole demoralizzarmi completamente, – disse. – Perché non mi dice la verità? Che la mia bozza è sconcertante? Non ha forse sconcertato anche Lei la mia bozza?» «Tra due giorni sarà sparita, sparirà con la stessa rapidità con cui è apparsa, – dissi io. – Lei mente come mio fratello, il medico», disse il pittore. Lo disse con un lampo di avversione negli occhi. Scintillavano come pietre preziose, inaccessibili. «Non so perché Lei stia mentendo. Nel suo volto c’è molta insincerità, piú di quanta non ne avessi notata finora».
Mi scrutò e mi parve di riavere davanti agli occhi uno dei miei vecchi e temuti maestri di scuola, risuscitato all’improvviso dopo tanto tempo. «Sembra un bubbone della peste», disse. Si palpò la bozza e m’invitò a fare lo stesso, cioè a palpare la sua bozza. Ci pigiai sopra come in passato avevo pigiato su centinaia d’altre bozze, non tutte cosí innocue come quella. Non deve mai aver visto un bubbone della peste, pensai. La sua bozza non ha la benché minima somiglianza con un bubbone della peste. Ma non dissi nulla. Lasciai che tirasse su la calza e che la fissasse alla giarrettiera. Constatai che in certe parti del suo corpo aveva una pelle decisamente femminile. Sui piedi, sul volto e sulla nuca. Quelle parti mi sembravano malaticce benché io non sappia dire perché. Avevano un colore biancastro, anzi grigio. Un colore che filtrava debolmente attraverso le cellule. Zone di decomposizione. Macchie gialle che sfumavano in aloni azzurri. La sua pelle mi ricordava la scorza di certe zucche troppo mature che si trovano in terra nei campi abbandonati. Questa è già putrefazione. «I dolori al piede, – disse lui, – per quanto riguarda l’intensità del dolore, non sono paragonabili al mio mal di testa. Eppure hanno la stessa origine. Contro una malattia come questa non c’è rimedio. Questi due dolori, quello alla testa e quello al piede, messi insieme, costituiscono una malattia ben definita».
Non posso dire che la mia decisione di studiar medicina poggi su una profonda chiarezza di idee, no, non è su questo che poggia, ma piuttosto sul fatto che non mi veniva in mente assolutamente nulla che mi sarebbe davvero piaciuto studiare, che avrei studiato con vero piacere, e in realtà poggia unicamente sul caso che m’ha fatto incontrare il dottor Marwetz il quale è tuttora convinto che un giorno io prenderò il suo posto nel suo studio medico. Non posso dirlo neanche oggi, forse non potrò dirlo mai che lo studio della medicina mi piace, che la medicina mi piace. Ma non sono piú ritornato sulla mia decisione – e in quale altra direzione avrei potuto andare? – visto che son sempre riuscito a sostenere regolarmente i miei esami. Non posso dire d’aver durato grande fatica, no, a dire il vero tutto m’è sempre andato come in sogno. Agli esami mi son sempre presentato impreparato e meno ne sapevo tanto meglio me la cavavo, certi esami li ho superati persino con lode. Ora mi aspettano esami piú difficili, ma certo supererò facilmente anche quelli. Perché, non so. Non ho mai avuto paura di un esame. E la pratica d’ospedale a Schwarzach mi diverte. Anche perché sono riuscito a fare amicizia con un paio di colleghi. Perché ho la sensazione che abbiano bisogno di me. Col dottor Strauch vado d’accordo. Lui, se potesse, non mi lascerebbe piú andar via. Spera di prendere il posto del primario quando questi andrà in pensione. Tra due anni. E di tenermi con sé. E nemmeno mi sono mai domandato a fondo se la gente studia medicina perché vuole aiutare gli altri. È bello quando un’operazione riesce bene, quando si è curato bene un paziente. È una bella cosa; tutti sono di buon umore quando gli riesce bene qualcosa; allora l’assistente lo si incontra ancheal caffè. È la mancanza di fantasia, dice mio fratello, che induce a studiar medicina. Può darsi. Ma che cos’è davvero? E quali rapporti ha con me una faccenda come quella di osservare il pittore Strauch e di lasciare che faccia su di me i suoi effetti? E quali rapporti ho io con una simile faccenda? E non è forse una strana impresa andare a far visita a un uomo che si conosce solo attraverso l’idea che ci si è fatta di lui, col quale si fanno passeggiate per ascoltare ciò che dice, per osservare ciò che fa, per scoprire ciò che pensa o ha in mente di fare? L’assistente lo aveva descritto piuttosto bene eppure soltanto in modo superficiale. Ma se fossi io ora a dover dire qualcosa sul conto del pittore, non saprei che cosa dire. Non avrebbe alcun senso. E da dove incomincerei se m’interrogassero? Scrivere all’assistente non ha alcun senso. Non sono mai stato bravo a scrivere lettere, figuriamoci lettere come queste! Lo studio della medicina mi ha portato cosí rapidamente nel mondo della medicina che ho praticamente fatto tutto a occhi chiusi. Dicono che sto facendo dei «buoni progressi». I miei genitori sono contenti che da me venga fuori qualcosa di buono. Ma io non so che cosa diventerò. Un medico forse? Sarebbe sconcertante.
Era già buio quando mi misi a passeggiare in su e in giú per la stazione e a un certo punto mi spinsi piú in là e arrivai a una casa a un solo piano che sembrava una baracca e portava la scritta «Dormitorio della stazione». Dentro a quella casa vidi degli uomini che a torso nudo si chinavano sopra dei lavandini sporchi, si asciugavano con degli asciugamani grigiastri, poi si guardavano allo specchio, si radevano e consumavano la loro cena seduti in mutande sopra a delle brande. Neri berretti da ferrovieri erano appesi alle pareti, mentre ai ganci delle porte erano attaccati cappotti giacche e borse che spenzolavano traboccanti di carte. I coltelli mandavano lampi tra grosse pagnotte e le bottiglie di birra sul tavolo si riflettevano negli specchi dei lavandini.
Feci qualche passo in su e in giú solo per non farmi notare, ma continuavo a guardar dentro dove c’era la luce. Come sarebbe se tu, come uno di questi uomini, ti trovassi là davanti a uno di quegli specchi a conversare con loro e se loro non notassero affatto che tu sei tu, perché sei davvero come loro? Come sarebbe se la tua evoluzione fosse stata quella, se quella ti fosse parsa la strada giusta? Se io non fossi io sarei come loro, ecco a quali conclusioni possono condurre simili pensieri. Mi misi a camminare fra due treni merci, arrivai là dove finisce la banchina, tornai indietro, contavo le ruote e immaginavo di rimaner stritolato tra due cuscinetti e di finire poi nelle ultime righe della penultima pagina del giornale locale, nel posto riservato agli annunci mortuari che non interessano assolutamente nessuno. Poi rivedo gli uomini già distesi in alto nei letti a castello, un tipo di branda in uso ormai solo nelle caserme. Le finestre hanno doppi vetri, tutto è ermeticamente chiuso. Perché non corrano il rischio di congelare. C’è anche una sveglia che alle quattro del mattino farà un baccano infernale. Allora scivoleranno giú dai letti e s’infileranno in fretta i pantaloni perché fa piú freddo di quanto sia sopportabile e perché loro dovrebbero già essere sul treno a controllare se son chiuse tutte le sbarre. Ecco già i primi scolari seduti nel primo vagone, pieni di sonno e d’ansia perché non sanno se ciò che li aspetta a scuola non sia qualcosa di orribile. Sono sceso alla stazione completamente solo – correndo non ci metto piú di quindici o venti minuti – avevo promesso al pittore che gli avrei portato un giornale, ma l’edicola era già chiusa. Era anche un giorno in cui passavano pochi treni, al momento del mio arrivo in stazione non ne vidi neppure uno ad eccezione di qualche merci che passò tuonando. Di fronte alle baracche dei ferrovieri s’erge una ripida parete di roccia, svettano pini e abeti, crescono sterpi, ma al buio non si vedeva nulla. Il fiume scorreva impetuoso riempiendo tutto del suo fragore.
Dalle case situate sulle sue sponde giungevano risate, poi le voci concitate di un litigio che però non degenerava, anzi s’andava a poco a poco spegnendo, cessava del tutto. Nelle camere da letto, una dopo l’altra, si fece buio finché la luce rimase accesa in una sola stanza nella quale vidi un vecchio che alzava il suo braccio tatuato per spegnere la luce. Incominciai a sentir freddo e affrettando il passo attraversai il ponte e arrivai su alla locanda.
«Qui per me ogni sasso è una vicenda umana, – disse il pittore. – Lei deve sapere che io da questo posto sono rimasto stregato. Qui tutto, ogni odore, è legato a un crimine, a un oltraggio, alla guerra, a qualche gesto infame... Anche se ora tutto è coperto di neve, – dice lui. – Centinaia e migliaia di ascessi che scoppiano continuamente. Voci che gridano in continuazione. Lei può dirsi fortunato di essere cosí giovane e in fondo senza esperienza. La guerra era già finita quando Lei ha incominciato a pensare. Lei della guerra non sa niente. Ma queste persone, tutte di bassissimo livello, anche come carattere, queste persone sono tutte testimoni oculari di grandi crimini. A questo si aggiunga che a forza di guardare le pareti di roccia si finisce col rovinarsi la vista. Questa valle è mortale per ogni natura». Poi dice: «Irritare gli altri, sa, è sempre stata una mia caratteristica. Io La irrito. Io irrito Lei cosí come ho sempre irritato tutti. Lei si sente offeso. Lo so, spesso le mie allusioni maligne la soffocano... Io qui ho la sensazione che si dissolva tutto ciò che è vivo, solido, sento l’odore del disfacimento di tutte le idee e di tutte le leggi... E qui, vede, le conversazioni con la gente, col macellaio, col parroco, col gendarme, col maestro, con tutta questa gente dai berretti di lana... con questo tipico bevitore di latte che storpia le parole ancor prima di pronunciarle, con quel tipo terribile di grande malinconico... tutta questa gente ha i suoi complessi. Questo può dipendere dal fatto che da bambini bagnavano il letto, può essere legato ai disegni della carta da parato nella stanza della loro infanzia, la stanza dove si aprono gli occhi per la prima volta. Tutte queste facce spaventate, – dice lui, – che s’incontrano in questi paesi da tutte le parti. Il maestro mi fa ripensare al periodo in cui ero supplente e mi viene la nausea. Freddezza di sentimenti, già, con gli anni si dànno tagli sempre piú radicali, scompaiono i fronzoli in favore di una espressione piú rude, in favore della razionalità... tutte esperienze di guerra, sa, tutto quel che la gente racconta qui riguarda la guerra...»
Tutto è «fuori posto». La vita si tira indietro e la morte appare come una montagna, nera, erta, invalicabile. Lui ce l’avrebbe fatta ad arrivare alla grande fama, a far molto parlare di sé, ma la cosa non lo interessava. «Il mio talento sarebbe bastato a rendermi famoso in tutto il mondo, – disse. – La gente spesso riesce a far chiasso con pochissimo talento. Astuzie! Far chiasso, battere la grancassa! Io sono rimasto in disparte a guardare come si faceva chiasso, come si batteva la grancassa e non sono diventato famoso. Visto che ne stavamo parlando: la guerra è un retaggio inestirpabile. La guerra è il vero terzo sesso. Capisce!» Voleva tornar giú al piú presto alla stazione per comprare i giornali. «Questo odore, – disse lui, – questo odore di uomini indegni d’esser uomini, l’odore dell’abbandono e della solitudine, l’odore degli arrivi e della disperazione d’essere lontani, la smania dell’uomo affamato di viaggi mi ha sempre affascinato».
Feci un pezzo di strada con il gendarme. Mi coinvolse subito in una conversazione. Disse che lui non faceva altro che il proprio dovere, ma che non ne vedeva la fine, non riusciva a immaginare nessun cambiamento. Una promozione significherebbe uno scatto di stipendio, ma il lavoro rimarrebbe lo stesso. Inizialmente gli sarebbe piaciuto studiare. I suoi genitori lo mandarono alle elementari, poi gli fecero fare due anni di ginnasio dal quale lo tolsero perché suo padre temeva che continuando a frequentare il ginnasio sarebbe rincretinito. «Lui odiava l’idea che io frequentassi il ginnasio», Disse. Un posto da apprendista nella bottega di un ebanista seguí ai voli ad alta quota del latino, al greco seguí il banco del falegname. Questa fu la sua disgrazia. A partire da allora incominciò il suo declino. Dal momento in cui aveva lasciato il ginnasio e s’era detto: io qui non ci tornerò mai piú. E quindi: io non avrò mai piú una vita migliore. Tutto senza prospettive per il futuro come una triste e grigia giornata senza fine, piena di pensieri suicidi, lassú su quella montagna che si erge alta sopra la città, una montagna dalla quale avrebbe voluto buttarsi giú. E poi invece finí col presentarsi a un maestro ebanista. Il giorno seguente s’infilò la tuta da lavoro e non se la levò piú per quattro anni. Se prima erano stati i vocaboli latini a oscurargli la vista, se erano stati Livio Orazio e Ovidio, ora erano i trucioli, la segatura, le scoppole in testa che gli dava il maestro. Tuttavia diede l’esame da garzone e rimase in bottega per un altro anno. Ma in seguito a un annuncio sul giornale in cui si cercavano reclute per la gendarmeria, abbandonò il banco del falegname «solo per tirarsi fuori da tutto quanto» e incominciò a prestar servizio come gendarme. Ben presto si trovò con l’uniforme addosso e si svegliò in un enorme dormitorio assieme ad altre reclute come lui. Superati gli esami, chiese d’essere trasferito in alta montagna. Prima fu mandato a Golling, poi a Weng. Da un anno ha preso il posto d’un quarantenne morto di setticemia. «Si era ferito con un osso di capriolo». Studiare medicina, quello sí che avrebbe fatto per lui. Diventare medico. Questa sua affermazione mi parve strana, m’attraversò come un fulmine. Avevo la testa in ebollizione. «Studiar medicina», dissi io. «Sí, studiar medicina», disse il gendarme. Portava a tracolla una carabina nuova fiammante munita d’una crepitante cartucciera di pelle chiara. Com’è fare il gendarme? «È sempre uguale», disse lui. «Tutto è sempre uguale», dissi io. «No, no», disse lui. Lui aveva creduto che fare il gendarme fosse un mestiere molto vario, che fosse tutto un arrestare, un mettere in prigione, un’investigare. «E in effetti è cosi, ma è sempre la stessa cosa». «È un mestiere sano, però», gli dissi io. «Per essere sano è sano». Eppure è un mestiere vario, basta pensare alle risse giú al cantiere, nelle osterie. Mi venne in mente l’omicidio commesso dall’oste, ma non ne feci parola. «Vorrei andare a stare in città», Disse lui. «Già, in città», dissi io. In città ci sono ben altre opportunità. In città si commettono dei delitti che in campagna non se li sognano nemmeno. I grandi delitti però son quelli commessi in campagna, ma quelli ancor piú grandi, quelli piú interessanti, quelli «piú intelligenti» son tipici della città. «La gendarmeria però non è la polizia, – disse lui, – e cosí mi tocca restare in campagna». «Già», dissi io.
Oggi mentre tornavo dal bosco di larici, il postino mi ha dato la posta per la moglie dell’oste. Tre lettere e fra queste una del marito. Non appena vidi la calligrafia sulla busta immediatamente pensai all’oste. Non mi ero sbagliato. Quando la moglie dell’oste prese le lettere disse: «Ah sí, è lui!» e infilò nella tasca del grembiule tutte e tre le lettere, le altre dovevano essere delle fatture commerciali spedite da qualche ufficio. A mezzogiorno, da una conversazione tra lei e lo scuoiatore che l’aiutava a mescere la birra, dedussi che si trattava veramente di una lettera di suo marito. Voleva che lei gli mandasse del denaro per potersi comprare qualcosa da mangiare, dato che il vitto nelle carceri era diventato pessimo da quando sui giornali avevano scritto che nessuno al mondo sta meglio dei carcerati: da quel giorno avevano inasprito tutte le misure disciplinari. Il denaro doveva mandarlo a una certa persona dell’amministrazione del carcere la quale poi avrebbe agito per suo incarico. Ero seduto vicinissimo al banco delle mescite e udii ogni parola.
Lo scuoiatore disse alla moglie dell’oste di esaudire «immediatamente» i desideri di suo marito riferendosi anche a una somma precisa, probabilmente quella indicata nella lettera dell’oste, ma lei rispose che non gli avrebbe mandato nulla. E come mai lo scuoiatore si permetteva di darle degli ordini. Era affar suo se voleva o non voleva mandare dei soldi all’oste. Lo scuoiatore le disse che gli pareva una cosa ovvia. Tanto piú che la gente, che sarebbe venuta a conoscenza del fatto dopo il ritorno dell’oste, avrebbe raccontato a destra e a sinistra che lei, la moglie dell’oste, non aveva mandato nulla al marito, benché in realtà tutto ciò di cui disponeva fosse «denaro di lui», tutto proprietà dell’oste. Lei non aveva il diritto di abbandonare il marito in una situazione come questa. Dopo essersi ancora a lungo ribellata a ulteriori rimproveri dell’amante, lo scuoiatore, alla fine lei fu costretta a cedere, ma decise di mandare una somma che non corrispondeva neanche lontanamente a quella richiesta dal marito. Disse che il marito con la sua dissolutezza l’aveva gettata «sull’orlo della disperazione», che non si era mai occupato né di lei né delle figlie. E ora lei doveva anche mandargli del denaro? Non era il solo a non ricevere denaro in carcere. Le carceri sono fatte apposta perché ci si patisca la fame e si venga castigati. In carcere ci si va proprio per aver modo di riflettere, mangiando pane e acqua. «Ma quello lí non cambierà mai», disse lei. L’aveva sposato solo perché il bambino era dentro di lei, per nessun altro motivo. All’osteria non ci pensava nemmeno. «Solo al bambino», disse lei. Lo scuoiatore era arrabbiato. Ogni volta che lei tornava con i boccali da birra vuoti lui le muoveva qualche nuovo rimprovero. Che lei era sempre stata dipendente dal marito, e anche che l’oste molte volte aveva mostrato qualche «lato buono». Non bisognava dimenticare che dopotutto era stato conseguenza delle sollecitazioni da parte di lei «perché lei voleva a tutti i costi che andasse a finir cosí», se si era arrivati all’arresto dell’oste, al processo e al suo atroce finale con l’incarcerazione dell’oste. Perché nessuno mai era stato neanche sfiorato dal dubbio che l’avventore accoppato dall’oste non fosse stato vittima di una disgrazia. Era stata lei a far notare ai gendarmi che la ferita sulla testa dell’avventore – un operaio della centrale elettrica – non era dovuta a una caduta dell’operaio, ma alla botta che suo marito gli aveva dato con il boccale di birra. Dato che l’oste aveva agito per legittima difesa, come risultò in modo lampante nel corso del processo, l’oste fu condannato a soli due anni. «Ma non sarebbe neanche finito in prigione, – disse lo scuoiatore, – oggi lui se ne andrebbe in giro a piede libero come ha sempre fatto». La moglie dell’oste replicò: «Sei proprio tu a dir questo? Dal momento che l’ho denunciato solo per te». Lo scuoiatore non ebbe nulla da controbattere. «Perché io non lo volevo piú in casa, – disse lei, – perché noi due non lo volevamo piú in casa». Lo scuoiatore disse che lei aveva agito senza riflettere quando aveva denunciato il marito. La gente del villaggio, tutti quanti, ce l’avevano con la moglie dell’oste perché sapevano benissimo che era stata lei a correre in gendarmeria a fare la denuncia. L’uomo ucciso dalla botta in testa era già sotto terra da molte settimane. Nessuno pensava piú a quella faccenda. Finché, indotti da lei, non lo avevano dissepolto, esaminato con cura e non avevano inscenato il «grande processo» contro l’oste. Se non ci fossero state prove lampanti che s’era trattato di legittima difesa – quante volte capita che la verità non riesce a venire a galla, anzi che viene addirittura respinta con violenza! – l’oste sarebbe finito in carcere per tutta la vita. Non le capitava mai di avere qualche rimorso? domandò lo scuoiatore alla moglie dell’oste. Non aveva intenzione di rispondergli, replicò lei. Non aveva bisogno di difendersi. In ogni caso tutto era andato secondo giustizia. «Tutto è andato secondo giustizia», disse lei. E ora che lei – com’era comprovato – s’era resa colpevole della disgrazia capitata a suo marito, non voleva nemmeno esaudire il suo desiderio di ricevere qualche scellino per procurarsi qualcosa di meglio da mangiare o perlomeno qualcosa di piú? «E va bene, – disse lei, – manderò quei soldi». Lo scuoiatore le ingiunse di mandarli subito, voleva esser lui a spedirli personalmente. Lei disse che il suo portafoglio era nel cassetto del banco. Davanti ai suoi occhi lo scuoiatore tirò fuori un paio di banconote, le mise in una busta su cui scrisse subito l’indirizzo. Nella gran confusione che c’era intorno – tantopiú che tutto era pieno di fumo e di vapori di cucina – i due non s’erano accorti di me. Scelsi il momento piú opportuno per andare a sedermi accanto al pittore che si trovava vicino alla finestra. «Che tipo è realmente l’oste?» gli domandai. Il pittore senza star molto a pensarci su: «Certo è un povero diavolo. Quella storia dell’omicidio gli ha definitivamente spezzato l’osso del collo. È solo colpa della moglie se gli è capitata quella disgrazia. Non appena esce di prigione e ritorna alla locanda succederà qualcosa di terribile. Naturalmente la moglie dell’oste ne ha paura». Sí, ne ha paura.
Lo scuoiatore fa anche il becchino. Lo s’incontra ora qua ora là. Proprio come gli tocca seppellire i corpi dei cani, delle vacche e dei maiali morti, seppellisce anche gli uomini. Si era appena levato l’uniforme quando gli affidarono – anzi il comune gli affidò – quegli incarichi per i quali non si presentava mai nessun candidato. Dato che non aveva un mestiere, quella fu la cosa giusta per lui. Per incominciare a fare il taglialegna dopo la guerra era ormai troppo tardi, nella fabbrica di cellulosa non ci voleva entrare, per un impiego presso le ferrovie era già troppo vecchio, alle poste l’avevano semplicemente rifiutato, non vi erano per lui altre possibilità. Ha parecchio tempo libero e vive quasi sempre all’aria aperta. Ogni due settimane va in città, fra tutti lui è il solo che di tanto in tanto riesce a vedere qualcosa di quel mondo che tutti gli altri ignorano. Scava le fosse e poi le riempie nuovamente di terra. Deve portar via le corone quando sono appassite e ogni tanto fa qualche piccolo guadagno vendendo il letame del cimitero a qualche contadino. Mentre scava le fosse spesso gli vengono tra le mani dei gioielli che lui – a quanto pare – porta con sé in città e rivende. D’estate e d’inverno veste sempre allo stesso modo. Ha una giacca di cuoio e dei pantaloni di cuoio legati al fondo, all’altezza delle caviglie. Durante i funerali deve starsene appoggiato a un muro della chiesa ed aspettare che la cerimonia sia finita. Non appena se ne sono andate anche le ultime persone, lui subito si mette all’opera e in breve tempo riempie di terra la fossa e mette in ordine la tomba quando si è finalmente assestata: la ricopre di terra nera, ritaglia dei mattoni d’erba e li raduna a formare una montagnola perfetta. Per queste sue montagnole spesso gli regalano interi zaini pieni di carne burro salame e delle uova e gli bastano per molte settimane e che lui rivende alla moglie dell’oste nel senso che lei gliele sottrae dal conto alla fine del mese quando lui viene a pagare.
Spesso trascorre ore intere girando carponi per il cimitero, trascinandosi dietro i mattoni d’erba, la livella, una gran quantità di sottili assicelle che gli servono per prendere le misure. Non fa mistero del fatto che gli tocca stare con le gambe nell’acqua fino alle ginocchia perché la fossa regolarmente dev’essere profonda due metri e venti. Nessuno ci crede finché non constata di persona. Ma da tempo ormai il terreno argilloso mescolato al pietrisco non riesce piú a guastargli l’umore. Verso le nove si mette subito seduto sui talloni e si scola la sua bottiglia di birra. Quando alle cinque scende dal cimitero perché alle cinque e un quarto deve chiudere a chiave la cappella funebre, fischietta strada facendo. A tutti piacciono le sue storie, anche quelle che s’inventa mentre le racconta. Ci si accorge che per lui una storia tira l’altra e che gli viene sempre qualche nuova ispirazione che nessuno si sarebbe aspettata.
«Quando si fa lo scuoiatore e anche il becchino si è una persona importante, un uomo che la gente non può trattare come tutti gli altri», dice lui. Spesso quel che ha nello zaino è un cane finito sotto un treno; altre volte invece ne estrae oggetti assolutamente inconsueti che ha trovato da qualche parte in una soffitta, come quei due angeli di legno che ieri ha posato sul centro del tavolo per bere alla loro salute.
La moglie dell’oste si trovava in cucina quando andai a prendere dell’acqua calda. Stava sbucciando le patate mentre le sue due figlie rimestavano nelle pentole sopra i fornelli o correvano nel ripostiglio della legna a prender legna e l’aggiungevano sul fuoco, oppure prendevano in mano certi indumenti per spazzolarli. La moglie dell’oste voleva imprestarmi un cappotto pesante di suo marito. «Lei deve patire il freddo continuamente, – disse, – visto che porta sempre un impermeabile. E attraverso quello il freddo ci passa proprio tutto». Le dissi che non pativo il freddo perché portavo sempre il mio panciotto di lana. «Questo Lei lo dice tanto per dire», disse la moglie dell’oste. «Non patisco il freddo». «Se Lei va sempre in giro col pittore», disse lei. «Già, se vado sempre in giro con lui», dissi io. Mandò in cantina le figlie. «Per quanto tempo ancora pensa di trattenersi qui?» Non lo sapevo. Di solito le sue camere erano tutte occupate «ma non quest’anno. La gente non ci viene volentieri con tutto questo rumore. Quelli della centrale elettrica fanno troppo rumore». Ma intanto lei non guadagnava molto sui clienti abituali. «Sa com’è, a loro non si può chiedere molto... Ai clienti bisogna pur mettergli davanti qualcosa da mangiare... non dev’essere una porzione troppo scarsa... dev’essere qualcosa di saporito... Gli operai invece di denaro alla locanda ne portano un bel po’». Mi disse di sedermi in poltrona. Me la spinse sotto il sedere. Se soltanto la locanda si trovasse in un’altra posizione, intendeva lei, «e non qui in questo buco!»
Quel suo sbucciar patate mi faceva pensare alla casa dei miei nonni, alle camere dalle porte sempre leggermente socchiuse, a quell’odore, all’aggirarsi guardingo dei gatti, al latte che a volte traboccava, al ticchettío degli orologi. Disse: «Anche a essere uno studente non si ha la vita facile». Era una frase che ripeteva per sentito dire senza pensarci. Un giorno era stata nella capitale e s’era comprata qualche vestito. «Fui contenta quando mi ritrovai seduta in treno». E poi: «Adesso invece mi piacerebbe essere in città, non nella capitale, ma in una città». Ha gambe da contadina, gambe da camminatrice, gambe da lavandaia. Grosse, gonfie e solcate da varici. Quest’anno scaldare la sala costava il doppio dell’anno scorso. «La carne costa tre volte tanto», disse lei. Poi disse qualcosa che mi distrasse completamente, che mi portò via lontano, fino a un lago, in un bosco, in una casa in pianura. Gli affari d’inverno vanno esattamente come vanno gli affari d’estate. Lei ha in mente di metter a posto la casa, di rifare l’intonaco, di ritappezzare le pareti in tutte le stanze, di sostituire molte cose antiquate con qualcosa di nuovo. «Gli armadi per esempio io li cambierei tutti, – disse, – e ci vorrebbero dei tavoli nuovi in sala da pranzo, delle nuove tende, una nuova scala, le finestre dovrebbero essere grandissime, le farei allargare il piú possibile per far entrare la luce». Versai l’acqua calda nel mio bricco. Lei disse: «Ma mio marito non vuole sentirne parlare. Quando ritorna, ma tanto, sa, allora sarà la fine di tutto. Quando ritorna...» Come lo diceva! Non riuscii piú a togliermi dalla testa quel suo modo di dire: «Quando ritorna...»
Ogni volta che arrivano i portatori di birra, la moglie dell’oste sta sulla porta di casa e li squadra da capo a piedi. Forse sta pensando: un bel giorno dovrò pur riuscire a portarmi a letto uno di questi tipi. I portatori di birra arrivano alle tre del pomeriggio, ma lei entra in agitazione già di mattina, si dà un gran da fare, corre di qua e di là, vuota il canterano, scambia cucchiai e forchette, cosa che spesso crea una serie di piccoli incidenti durante il pranzo di mezzogiorno. Manda le figlie in ricognizione davanti alla casa per vedere se non stiano già arrivando i portatori di birra. Ma quelli son sempre puntuali e non sono mai arrivati prima delle tre. «Andate a vedere se arrivano i portatori di birra!» comanda lei. Apre la finestra di cucina per poter sporgere fuori la testa, ma non vede nulla perché c’è la piccola collina che nasconde la strada lungo la quale devono arrivare i portatori di birra. Lei questo lo sapeva fin dal primo giorno, ma continua a guardar fuori lo stesso. Se le si domanda perché è tanto agitata lei risponde: «Ma come? Non sono affatto agitata!» Già verso le undici apre anche la porta di casa, la attacca al grosso gancio che si trova sul muro appendendovi semplicemente il laccio che è fissato alla porta. «Bisogna che entri dell’aria fresca! – dice lei, – qui si soffoca. C’è un odoraccio in tutta la casa!» Poi quando arrivano i portatori di birra lei si precipita fuori a dire quante casse e quante botti le occorrono. Dice loro di non fare tanto chiasso, ché alla locanda ci sono dei malati e delle persone che s’inquietano per un n0nnulla. Sta a guardare i portatori di birra mentre scaricano casse e botti facendo rotolare queste o trasportando quelle dentro alla locanda. Indossano grembiuloni di cuoio, spessi, lucidi, che partono dal collo e scendono fin sotto alle ginocchia. In testa hanno dei berretti verdi e – anche d’inverno – tengono sbottonati i primi bottoni delle loro giacche da lavoro. Lei gli ordina di posare la prima botte sul banco delle mescite, di collegarla al tubo e poi riempie di birra i primi bicchieri che crescono come funghi sul banco delle mescite, tre quattro otto nove, traboccanti di schiuma, per offrirli ai portatori di birra e mette loro sul tavolo anche del salame, del pane e del burro. Si siede con loro e li interroga: «Che cosa c’è di nuovo laggiú?» domanda.
Loro raccontano quel che sanno, che è capitata una disgrazia, che c’è stato un battesimo, una rissa, una riunione di comunisti, un bambino nato morto, che sul fiume c’era un zattera cosí grande che non era riuscita a passare sotto al ponte. Che sta diventando sempre piú difficile percorrere in camion la strada per arrivare lassú in montagna finché non spalano la neve a regola d’arte. «Ma non lo fa nessuno», dicono loro. Mangiano tutto quel che i loro stomaci riescono a contenere, poi si alzano, si puliscono la bocca con la manica ed escono, montano sul camion e ripartono. A questo punto lei non vede piú nient’altro che il braccio robusto che uno dei portatori di birra tiene appoggiato al finestrino aperto del camion. «Quelli hanno un bel ridere», dice lei entrando nella sala da pranzo.
La moglie dell’oste è una di quelle persone che non vogliono mai fare uno sforzo, che non aspirano a diventare nulla che sia un po’ fuori dal comune, ma col tempo diventano qualcosa di orribilmente ripugnante che però non costa alcuno sforzo, per diventarlo basta lasciarsi completamente andare. A lui, il pittore, lei talvolta appare davanti al letto, in ispirito, un’immagine che emerge semplicemente dal suo inconscio, metà sogno e metà realtà, un’apparizione odiosa che perciò non gli dà pace: quando non riesce a dormire; quando ode dei rumori «venir su dalla sala da pranzo»; spesso anche quand’è per la strada; nel bosco, un’apparizione particolarmente crudele sia nei confronti della moglie dell’oste che nei confronti di se stesso. Quell’immagine è diventata un suo nemico segreto proprio come altre immagini di altre persone che un giorno hanno incrociato il suo cammino e che da molto tempo si sono dimenticate di lui e anche dell’attimo in cui gli sono appartenute. Per natura lei ha un’indole solitaria come migliaia di altre persone del suo tipo. E anche qualche attitudine per questa o quella cosa, come migliaia d’altre persone. Era anche vero che migliaia di persone si voltavano a guardar passare il pittore dopo che si è voltata lei con quella sua pesantezza, quel suo fare ipocrita e anche con quella sua paura, una paura che tiene continuamente a freno la sua rapacità. «Dotata di qualità che le avrebbero permesso di raggiungere vette altissime», ma che erano state continuamente soffocate, lei vive per le sensazioni del proprio corpo, un gioco a nascondersi con se stessa, nelle tenebre, sostenuta dal proprio grasso e da qualche massima elementare, tre o quattro in tutto.
La moglie dell’oste sa il fatto suo. Ma in realtà non lo sa. «Ecco che si mostra il rovescio della medaglia... Dotata di grande forza di volontà, ma in realtà priva di forza perché volgare». Lui questo lo disse come se l’oggetto delle sue affermazioni fosse del ciarpame che lui stava buttando via. Molto lontano da sé. «Tutto il suo sapere si basa su una bassa forma di autoinganno che non si può certo chiamare intellettuale. Non è diverso da quello di un gatto o di un cane. Solo che in lei è piú fiacco. Piú dipendente». Poi racconta brevemente che una volta aveva sorpreso lo scuoiatore mentre cercava di farsi dare una grossa somma di denaro dalla moglie dell’oste. «Dietro alla locanda. Prima nella toilette, poi fuori sotto a un albero». Circa quattrocento o cinquecento scellini: «Erano dei biglietti grandi. Poiché posso escludere che si trattasse di biglietti da mille, devono esser stati dei biglietti da cento. Che lui s’infilò rapidamente nella tasca dei pantaloni quando comparvi io». La moglie dell’oste avrebbe detto: «Non occorre che tu me li renda. Mio marito non ne sa niente». «Quand’è che esce di prigione tuo marito?» avrebbe domandato lo scuoiatore. «Preferirei che non ne uscisse mai piú. Io non ho bisogno di lui», fu il suo commento. Quei due passavano insieme intere notti «senza la minima passione, – disse il pittore. – Solo perché è una cosa turpe. È lei, non lui, la forza motrice che li fa ricadere con sempre maggiore intensità nelle stesse azioni». Cieca e scervellata come tutte le donne del suo genere. «Non vedeva l’ora che suo marito andasse in prigione. Del marito era già stufa a diciassette anni, un anno dopo le nozze. Incominciò a tradirlo allora». Confessava sempre apertamente ogni cosa, ammesso che sia il caso di parlare di confessione, visto che lei non faceva mistero di niente. «La sua grande arma è sempre stata quella di non far mistero di niente. E non le mancava certo la possibilità di sbizzarrirsi, – disse il pittore. – Le bastava girar l’angolo della piazza del paese. Per tuffarsi nel vizio, – disse il pittore. – Il mattino dopo, al crepuscolo, ritornava in montagna, per nulla esausta, anzi rinvigorita. L’ho vista spesso mentre ritornava perché vi erano dei periodi in cui mi alzavo già alle tre del mattino, uscivo di casa e facevo dei lunghi giri. Appena la vedevo mi nascondevo. Qui ci sono degli ottimi nascondigli. Quando lei tornava a casa, il piú delle volte suo marito non era ancora rientrato. Questo le andava bene perché poteva farsi una bella dormita. Certo per anni non s’erano mai domandati che cosa andassero a fare di preciso quando uscivano né dove fossero stati quando rientravano all’alba. Le figlie sapevano tutto». Il pittore disse: «Per mandare in prigione il marito lei era persino andata a S. alla procura di Stato. Perché l’oste rischiava di restare impunito». La notte stessa in cui suo marito fu arrestato dai gendarmi lei accolse lo scuoiatore nel proprio letto. «Lui era già in agguato sopra un albero, – disse il pittore. – Vi furono anche dei periodi in cui lo scuoiatore non si faceva vedere. In quei periodi alla locanda regnava un gelido silenzio». Allora – a quanto pare – lei mandava le sue figlie a cercarlo in paese. Se non lo riportavano con sé le buscavano dalla madre. «Calci e botte», disse il pittore. D’altronde anche la moglie dell’oste «è un essere che si lascia picchiare, corre a nascondersi e poi riappare, come se nulla fosse stato».
Negli ultimi anni il pittore non aveva avuto nessuno all’infuori della sua governante. Si serviva di lei anche per le sue cosiddette «esigenze fisiche», esigenze di cui gli altri abusavano senza posa e spudoratamente, nelle quali lui invece era sempre meno interessato. «Lei di queste cose proprio non se ne intendeva, – disse il pittore. – Era una donna dotata dell’intelligenza necessaria a una governante, si vestiva con gusto, sapeva ritirarsi nell’istante stesso in cui lo si desiderava senza che ci fosse bisogno di dirglielo». In lui, contrariamente a tutte le altre governanti, lei aveva sempre e soltanto visto il padrone. Era libera due giorni la settimana. Che lui considerava come una limitazione della propria libertà. Lei soffriva di solitudine. Il suo tempo libero non sapeva come impiegarlo. Lui la pagava piú del normale e di tanto in tanto le procurava dei biglietti per qualche spettacolo, cosa di cui lei si sdebitava lavandogli la biancheria e stirandogli gli abiti con particolare cura e dimostrandosi una cuoca zelante. Veniva dalla campagna e le governanti che vengono dalla campagna son sempre le migliori. Non l’aveva tenuta a lungo, solo due o tre anni, perché prima non s’era potuto permettere una governante. Ora lei si trova a T. a casa dei genitori. Era tornata da loro il giorno stesso in cui l’aveva licenziata. «Una ragazza di quarantacinque anni», disse lui. Conosceva l’arte di ricevere gli ospiti e di riaccompagnarli alla porta cosí come i grandi matematici conoscono l’uso delle proprie formule. «Ma io non ricevevo quasi mai gente!» Le erano bastati due o tre giorni per capire i suoi gusti e «come lui voleva che fosse fatta ogni cosa». Lui la lasciava piuttosto libera. «Riusciva a metter ordine nel mio caos assoluto», disse lui. Era «versata» nelle questioni artistiche, le capiva. «Proprio perché di arte non sapeva nulla: l’ho sentita dare i giudizi piú acuti». Sapeva lucidar le scarpe cosí come sapeva tirar le tende senza far rumore, scegliere i sigari e scagliarsi contro la megalomania del mondo dei grandi artisti... Quando la ebbi al mio servizio incominciai a capire i ricchi. Anzi capii improvvisamente che cosa fossero il benessere e la libertà di movimento. Se qualcosa non le andava a genio sapeva dirlo nel modo piú incisivo, piú efficace e piú gradevole che avessi mai udito. «Voleva sempre metter dei fiori dappertutto, ovunque c’era posto, ma io glielo proibivo». «La pulizia non deve essere la cosa piú importante di tutte», le spiegò lui. Lei si adeguò. Gli apriva la porta e gliela richiudeva. Spolverava libri e pareti senza che a lui venisse voglia di protestare. Andava a impostargli le lettere. Faceva gli acquisti per lui. Andava in tutti gli uffici in vece sua. Gli portava notizie di cui in altro modo lui non sarebbe mai venuto a conoscenza. «Mi faceva gli impacchi e mille volte diceva alla gente che ero partito benché fossi a letto in camera mia». Disse: «La ricchezza chiarisce le idee quanto la povertà». Una mattina, dopo aver capito d’essere in fin di vita, lui chiuse casa e infine chiuse fuori anche la governante. «Lei pianse, – disse il pittore, – ora io non torno piú indietro. Mi sembrerebbe di andare a cercare del vecchio ciarpame. In realtà non potrei piú tornare indietro nemmeno se lo volessi: per me tanto è finita». Disse: «Effettivamente non ho mai avuto nessuno all’infuori della mia governante. Salvo che per lei, per tutti gli altri io sono morto da un pezzo».
I bambini hanno i pidocchi. Gli adulti la gonorrea, la sifilide che a periodi paralizza il sistema nervoso. «La gentequi non va dal medico, – disse il pittore. – È difficile convincerli che andar dal medico è una necessità come tenere un cane. Gente istintiva, – disse, – sono contrari agli interventi. Naturalmente». Spesso cadevano rami spezzati dalla tempesta e ammazzavano chi ci passava sotto. «Perché nessuno è protetto. Mai. Da nessuna parte». La morte li sorprende nel sonno, sui campi, sui prati. «La gente muore tra un discorso “triviale” e un discorso “elevato”. Ricade in uno stato primigenio. Spesso “per andare a morire” si scelgono un posto dove non sarà facile trovarli. Oltre il confine del loro comune». Anche gli animali se ne vanno via lontano, lontano dagli altri animali, quando si sentono morire. «Qui le persone sono come gli animali... Frammenti di vite sconosciute». Spesso cadevano morte ai suoi piedi. Questo lo spaventava. In una radura, sul ponte, nel folto del bosco, «dove l’oscurità spesso fa scattare le sue trappole». Spesso lui si ferma e si volta convinto di sentirsi chiamare alle sue spalle – una sensazione che provo anch’io – ma non vede nulla. Esamina i cespugli, le acque, le rocce e le creature nell’acqua «che sa essere tanto crudele quanto è profonda». Ha vari metodi per girovagare nel bosco: con le mani dietro alla schiena, con le mani nelle tasche della giacca. Con le mani che tengon giú la testa, la proteggono. Spesso corre avanti per raggiungersi. Resta indietro e ricomincia a rincorrersi. Conversa con i tronchi d’albero «come con i membri di una accademia ultraterrena, come fanno i bambini quando hanno la sensazione di trovarsi improvvisamente soli in mezzo a un caotico disastro». Le sue doti d’inventiva gli permettono di escogitare sorprendenti costruzioni verbali che sfiorano la profondità di pensiero. Parole che lui scopre nel bosco, sulle rocce, sui prati, nella neve fonda. Anche sul sentiero infossato nel bosco dove a volte si mette a sedere: Professorspregiarealtà è un esempio di queste parole, un’altra è Meccanicoinfrangileggi. Questa mania gli era venuta un’estate chissà quando e continuava ancora.
Tacitatoreoccultaumanvoleri era una parola che un giorno lui aveva sepolto nello stagno gettandola in un buco fatto spaccando il ghiaccio col tacco del suo stivale. «Esiste qualcosa che ci domina e che – a quanto pare – non ha nulla a che vedere con noi». Questo spesso lo metteva fuori combattimento. Si potrebbe riderne. Ma è cosí pericoloso che «si può anche lasciarci la pelle». Lui si era sempre ribellato contro questo Lassú finché – per lui – aveva cessato di esistere». Una ribellione deve pur arrivare da qualche parte. Le sue ribellioni non arrivavano piú da nessuna parte. Di tanto in tanto gli appariva qualcuno che aveva scritto in volto: tu hai un capitale enorme, un capitale inesauribile, un capitale simile io non l’ho mai avuto! Disse: «Ci vogliono ore per abituarsi a sopportare il ritmo del proprio cuore che davanti a tale spettacolo di colpo s’è messo a battere come un tamburo. Che alla lunga diventa intollerabile». Qui la gente non ha capitale e, se lo avesse, non avrebbe la forza di sfruttarlo, al contrario, «lo sprecherebbe». Qui, «dove ogni possibilità umana diventa un’impossibilità». Qui, dove la bruttezza s’intrufola dappertutto sotto forma di «emergenza sessuale». L’intera regione è permeata dalle sue malattie. «È una vallata questa in cui il decadimento fisico parla una lingua per sordi»: ciò che altrove di solito resta a lungo nascosto e segreto finché non sta per raggiungere il suo fine, qui non incontra tale discrezione: «la gente porta scritta in fronte la propria tubercolosi. Ne fanno un’esibizione cosí spudorata che il vento dei ghiacciai può andarci a rovistare come in un mucchio di foglie secche».
«Vi sono degli scolari, – disse il pittore, – che per andare a scuola impiegano tre ore a scendere dalle loro case. Spesso, prima di uscir di casa – alle quattro del mattino – sbrigano anche qualche lavoretto in cucina, bambini dodicenni che devono dar da mangiare alle mucche e mungerle, ché altrimenti non c’è nessuno che lo faccia, perché la madre è morta o è a letto gravemente malata, il fratellino è ancora piú piccolo di loro e il padre è in galera per debiti d’osteria. Provvisti di un grosso pezzo di pane nero si sottopongono al tormento della discesa nel freddo. No, qui non v’è traccia di progresso. Le tempeste arrivano improvvise, non serve a nulla urlare poiché nessuno sente. Son già state costruite molte scuole, situate sul fondo delle valli, ma i bambini continuano a dover sopportare il martirio di una strada troppo lunga per andare a scuola, se non vogliono restare analfabeti. Nei sentieri infossati nei boschi son già stati trovati gruppi di due o tre bambini, grovigli pietrificati, per i quali tutto era ormai troppo tardi. I bambini che s’incontrano qui diventano adulti troppo presto. Son furbi. Hanno le gambe a O, tendenza all’idrocefalia. Le bambine sono pallide e secche, tormentate da infezioni purulente dovute ai fori degli orecchini. I ragazzi hanno teste bionde, mani grandi, fronti piatte».
Saltar su e scappar via per ritornare a star seduto immobile, ecco come – in realtà – s’era consumata la sua infanzia. Camere in cui si respirava l’odore dei morti. Letti scoperti che esalano l’odore dei morti. Lungo i corridoi passavano una dopo l’altra parole altisonanti, la parola «Mai» per esempio oppure la parola «Scuola», la parola «Morte», la parola «Funerale». Per anni e anni quelle parole lo avevano perseguitato e irritato, gettato in «stati d’animo spaventosi». Poi invece gli parevano un canto che si muovesse di un prodigioso moto autonomo: la parola «Funerale» arrivava fino al cimitero e molto piú in là, piú in là di tutti i cimiteri, raggiungeva l’infinito e ne entrava a far parte, a far parte dell’idea che l’uomo ha d’infinito. «L’idea d’infinito che ho io è la stessa che avevo già a tre anni. Prima ancora. Comincia dove finiscono gli occhi. Dove finisce tutto. E non comincia mai. L’infanzia gli si era presentata» come una persona che entri in una casa raccontando vecchie favole che sono piú terrificanti di quanto si possa immaginare, recepire, sopportare, favole mai udite proprio perché le abbiamo sempre udite. Mai ancora udite. Per lui l’infanzia inizia sul ciglio a sinistra di una strada e continua su per un ripido sentiero che conduce in montagna. «Da quel giorno non ho pensato ad altro che a precipitare. Alla possibilità di precipitare, me lo sono augurato e ho fatto vari tentativi in quel senso. Questo è un errore fondamentale». Certe zie, con le loro brutte lunghe braccia lo trascinavano in cappelle funebri, lo sollevavano sopra parapetti dorati perché potesse guardar bene nel fondo delle bare. Gli facevano tenere in mano i fiori per i morti e lo costringevano continuamente a metterci dentro il naso e ad ascoltarle mentre dicevano: «Che uomo era quello! Com’è bella quella morta! Guarda com’è vestito quel morto! Guarda! Guarda! Senza la minima sensibilità mi immergevano in un mare di putrefazione». Nei treni lui sente che gli dicono «avanti». Nelle lunghe notti gli piaceva lo spiraglio della porta socchiusa che dava nella stanza dei nonni ancora illuminata, dove ancora si parlava, dove ancora si leggeva. Godeva di quel sonno comune. «Dormire insieme come le pecore», ecco la sensazione che provava. Come sono unite nell’intreccio dei respiri. I mattini sorgono sopra un campo di grano. Sopra il lago. Sopra il fiume. Da dietro la collina. Nel vento fresco cinguettano gli uccelli. Sere che tramontano nei canneti e nel silenzio nel quale lui mormora le sue prime preghiere. Nitriti lacerano le tenebre. Bevitori camionisti e pipistrelli lo spaventano. Tre compagni di scuola morti per la strada. Una barca capovolta che un annegato non è piú riuscito a raggiungere. Grida d’aiuto. Enormi forme di formaggio potrebbero schiacciarlo. Nascosto nelle cantine di una birreria ha paura. Tra lapidi funerarie si gioca un gioco in cui dei numeri vengono lanciati dall’uno all’altro. Teschi ammiccano nel sole. Porte che si aprono e si chiudono. Nelle canoniche si mangia. Nelle cucine si cucina. Nei mattatoi si macella. Nei forni si fa il pane. Nelle botteghe dei calzolai si fabbricano scarpe. Nelle scuole s’insegna: a finestra spalancata, da far tremare tutti di paura. Nei cortei si vedono facce variopinte. Bambini dall’aria ebete vengono portati al battesimo. Un vescovo strappa a tutti grida di acclamazione. Su un terrapieno della ferrovia dei ferrovieri si son scambiati i berretti suscitando l’ilarità di uomini che hanno addosso solo i pantaloni da lavoro, nient’altro. Treni. Luci di treni. Vermi e coleotteri. Musica di bande militari. Poi uomini grandi su grandi strade: un convoglio che fa tremare il mondo. Compagnie di cacciatori lo portano con sé. Lui conta le pernici colpite, i camosci morti, i cervi abbattuti. Daini, cerbiatti, quante varietà! Selvaggina grossa. Selvaggina minuta. La neve che cade su tutto. I desideri degli otto anni. Quelli dei tredici. Le delusioni che intridono le lenzuola. Con torrenti di lacrime contro l’incomprensibile! Non ha ancora sei anni e intorno a sé un mondo cosí spietato!
Città che si ribellano ai loro fondatori.
«L’infanzia continua a seguirti come un cagnolino che un tempo era stato un allegro compagno e ora bisogna curarlo, mettergli le stecche, somministrargli migliaia di medicine perché non ci muoia tra le mani». Si cammina lungo fiumi e si scende nei burroni. La sera, se la si aiuta un po’, costruisce i piú preziosi intricati inganni. Non ci risparmia dolore né indignazione. Gatti in agguato ispiravano cupi pensieri. Le ortiche in certi momenti scatenavano in lui – come in me – una lussuria selvaggia. La paura – proprio come lui – io la sbocconcellavo insieme a more e lamponi. Uno stormo di cornacchie ci mostrava la morte nel giro di qualche secondo. La pioggia portava umidità e disperazione. La gioia si dipanava dalle corolle dell’acetosella. «La coltre di neve ricopriva la terra come un bambino». Né innamoramenti né ridicolaggini né sacrifici. «Nelle aule scolastiche si mettevano insieme pensieri semplici, uno dopo l’altro». Poi c’erano i negozi di città con il loro odore di carne. Facciate e muri, nient’altro che muri e facciate finché non si ritornava in campagna, spesso inaspettatamente, da un giorno all’altro. Dove ricominciavano i prati gialli e verdi; i campi bruni; i boschi neri. L’infanzia: un albero che si scuote e ne cadono troppi frutti per una stagione cosí breve! Il segreto della sua infanzia è solo dentro di lui. Selvaggi risvegli in luoghi dove c’erano cavalli pollame latte e miele. E poi di nuovo: venir allontanato da quella condizione primigenia e incatenato a propositi che superavano le sue forze. Progetti su di lui. Possibilità moltiplicate per mille che si riducono al nulla in un pomeriggio di pianti. Che si riducono a tre quattro certezze. Immutabili. A tre quattro principî fondamentali. Idee generali. «Come si comincia presto a costruire delle avversioni. Ancor prima di saper parlare il bambino vuole sapere tutto. E non arriva a niente». I bambini sono molto piú diabolici degli adulti. «Sono i dilazionatori della Storia. Senza coscienza. I censori della Storia. Gli evocatori di sconfitte. D’una impietosità senza pari». Prima ancora di saper usare un fazzoletto il bambino è un pericolo mortale in assoluto. Spesso per lui – come per me – è un duro colpo quando prova una sensazione che aveva già provata da bambino e quando questa, evocata da un odore o da un colore, gli è diventata estranea. «In un momento come quello ci si sente terribilmente soli».
Aveva ricevuto la peggiore educazione, la peggiore che si potesse immaginare. «Il fatto che non si fossero occupati di me, un vantaggio che piú tardi si rivelò un errore spaventoso. In fondo, sin dall’inizio non si erano mai dati pensiero per me. Ma non si possono educare dei bambini senza darsi pensiero per loro. S’erano preoccupati, sí, della mia scuola. Non del mio cuore. Di quel che mangiavo. Non del mio spirito. Dopo, ben troppo presto, avevo appena compiuto tredici anni, posso dire che non si occuparono nemmeno piú di quel che mangiavo né delle mie scarpe». Mi domando: che genere d’educazione ho ricevuto io? È stata una vera educazione? oppure soltanto un crescere? Un inselvatichire? Come piante testarde che inselvatichiscono in un giardino pieno d’erba cattiva? Non sono forse sempre stato abbandonato a me stesso? Amorose cure? Parole consolatrici? Dove? Quando mai? Dai quattordici anni in poi ho dovuto pensare a tutto da solo. A tutto? Anche alle cose dello spirito. Alle cose che non si possono toccare. Ma non ne ho mai sofferto in modo cosí atroce come il pittore. Per me non è stata una cosa tanto grave. Io sono diverso. Non sono un inquieto come lui. Continuamente inquieto e irritato. Io non sono né sempre inquieto né sempre irritato.
Spesso si era domandato: «Come farò a uscire dalle tenebre? La testa avvolta nelle tenebre, legata stretta con un laccio di tenebra, ho sempre tentato di liberarmi dalle tenebre. Segni, sí, segni di ottusità... Le tenebre raggiungono i supremi gradi di durezza della follia. A venti, a trenta, a trentacinque anni. Piú tardi in modo sempre piú spietato. Ho tentato di uscirne: mi sembra importante farle notare questo fatto, questa idea... Mi piacciono le spiegazioni molto semplici: l’ansa di un fiume, deve sapere, che ricorda l’incurvarsi di una spina dorsale umana, queste parti luccicanti sfavillanti nel sole pomeridiano di spina dorsale umana infinita che s’incurva sopra gli orizzonti: ecco cos’è... In certi casi basta distruggere le tenebre nella propria testa – perché solo nella propria testa ci sono le tenebre – con le tenebre stesse della propria testa. Se lo ricordi: le tenebre sono una faccenda che dipende dalla nostra testa chiusa a chiave, dalla nostra testa recisa. Gli uomini respinti dalle proprie tenebre verso tenebre eterne, sempre di nuovo respinti, Lei deve sapere... Cosí come son stato respinto io, un giorno, appoggiato al muro della casa paterna, a torso nudo, nelle tenebre. Davanti a me: una bicicletta avvolta nel vento, due scolaretti che ballano. Odore d’uva passa. E l’ottusità che s’insinua dappertutto, che costruisce fondamenta. Ritagliato dalla pagina di un giornale il volto del nostro professore di matematica che ci mette a confronto con le conquiste di Voltaire. Qualche idea generale su Omero... che irrompe nel mio cervello, nelle tenebre, senza che vi sia un legame fra causa ed effetto, concetto di tempo e subconcetto di tempo. Crivellato da questi concetti. Nessuna risposta a innumerevoli domande tipiche dell’età. L’amarezza generale procede con precisione mortale; un cane si rotola nell’erba. Potrebbe essere una talpa o un cane; anche solo dello sterco... la cosa su cui cade il sospetto di voler esistere... si danza sull’orlo del precipizio nel quale giorno per giorno vanno a sfracellarsi le nostre sofferenze e le sofferenze generate da queste sofferenze».
Mi spiegò come avesse allacciato rapporti e come li avesse di nuovo sciolti. A farne un vero racconto non ci pensava nemmeno. L’arte di raccontare è riservata a ben altri temperamenti. Non a lui. Mi spiegò come realizzasse i suoi viaggi o come li progettasse senza poi realizzarli. Come avesse conosciuto il piacere e la voluttà in sé e per sé e come li avesse entrambi esaltati in sé e per sé dentro di sé fino a vette ad altri irraggiungibili e proibite. Si riprendeva da cadute, da sconfitte quotidiane, comuni oppure personalissime. Spesso s’incolpava di mentire e rivolgeva contro se stesso l’arma dell’incorruttibilità e dell’esattezza nel riscontro dei fatti. Con spietatezza, si può dire. Ciò che è confuso gli pareva troppo futile per aver voglia di interessarsene. Gli oceani ai suoi occhi erano una oscura follia, una follia che traccia un confine, che sbeffeggia l’infinito. I massicci dei monti scintillavano durante l’ascensione. Baratri, neri e ostili, da far venire i brividi. Spesso l’aria attorno a lui tremava per un tuono lontano. Ora splendevano nitidi i profili di enormi catene calcaree a sud. Ogni cosa era come stordita dopo la caduta di un fulmine. Ora città si addensavano lungo volubili coste. Concetti come «Baldanza» e «Abbandono», «Severità» e «Solitudine mortale» prendevano forma attraverso i gesti delle mani in modo del tutto inconsapevole. La memoria che può esser limpida come la luce di uno di quei giorni d’agosto che appartengono all’eternità, lo metteva in condizione di disporre d’un ingegno stupefacente e di una stupefacente esperienza del mondo. La Storia faceva su di lui studi approfonditi e lui faceva lo stesso con la Storia – regnava l’armonia. Secondo la sua logica nulla gli sembrava chiaro come quando si affidava alla sua sensibilità che era la piú pura che si potesse immaginare. Sin da bambino era stato educato a credere al Cielo e all’Inferno e al regno intermedio tra i due. Ma erano sempre soltanto attimi che secondo lui dimorano in ogni animo umano e che un bel giorno, come su comando, non tornano piú. Si guardava bene dall’intervenire con violenza contro i «distruttori della sua sensibilità». Li malediceva ma erano loro i vincitori. Giaceva a terra sconfitto ciò da cui aveva sperato eterna salvezza. Ai suoi piedi giaceva il «regno delle possibilità che è senza colpa». Mi spiegò come avesse imparato a trattare le persone come sassi e a considerare le cose nuove come fatti antichi. Come avesse scoperto che cosa è privo di pensiero, che cosa ci rende privi di pensiero, solitari, torpidi. Come lui in se stesso sapesse conciliare futuro presente e passato, e portare avanti questo gioco fino al punto in cui cominciava a sfuggirgli di mano. Come avesse imparato con un semplice calcolo a spegnere il proprio corpo, a spegnere anche lo spirito, a spingerlo in una direzione che per lui in quel dato momento era quella prestabilita, «l’unica direzione», una sensazione che durava forse solo una frazione di secondo. Come osasse vivere soltanto in mezzo ai morti, ai dimissionari, a uomini spenti destituiti precipitati. Passava attraverso la vita come attraverso a un tunnel senza fine e a null’altro che tenebre. E gelo. Pensava alla giovinezza ch’era stata irrequieta ma immobile, come oggi sapeva.
I disegni sulla carta da parato nella sua camera durante la notte acquistavano via via l’aspetto di un inferno nel quale scene terrificanti si svolgevano tra esseri deformi. Verso l’alba le pareti lo schiacciavano. Era solo in quel momento che lui, per sfinimento e disgusto verso tutto e verso se stesso, si assopiva. Non si addormentava. No. Figure grottesche si avventavano contro di lui con i loro rimproveri che gli distruggevano il cervello. Immondezza umana. Le voci diventavano piú forti. Ma insensate. «E pensare che non sono altro che disegni ornamentali che imitano sagome molto grossolane di piante grasse. Probabilmente son io che ogni notte cerco l’orrore. Qui e dappertutto. Soltanto cosí mi spiego perché ogni notte l’orrore mi si ripresenta. L’intera stanza è tappezzata di queste brutture. Lei lo sa bene che qui tappezzano anche il soffitto. Di tanto in tanto devo alzarmi. E verificare se la porta è veramente chiusa. Se è chiusa a chiave: già una volta sono stato sorpreso! Allora tutto è ancora piú spaventoso». Figure fantastiche lo assalivano «da dietro», quando tentava di giacere prono per non essere costretto a guardare la carta da parato.
Questo lo raccontò mentre eravamo giú in sala. Non c’era nessuno. La moglie dell’oste era andata in paese a ordinare la birra in fabbrica. Ieri, anzi ieri notte, era finita la birra perché avevano fatto un gran bere e gozzovigliare consumando tutto ciò che restava nei suoi armadi ripostigli e casse. Tutto era vuoto. Non era avanzato neanche un pezzo di pane. Fino alle tre del mattino l’intera locanda era stata scossa dalle risate degli avventori. Quando si usciva bisognava posare la chiave di casa sulla mensola della finestra a sinistra, nascondendola dietro al trave. Il freddo era diventato piú intenso. Le finestre di mattina erano opache, biancastre. Sui vetri s’erano disegnati fiori e volti umani, «maschere di distruzione», come le chiamava il pittore. Non si poteva guardare fuori. Centinaia di bicchieri sporchi, brocche e bottiglie erano ammucchiati alla bell’e meglio sul tavolo delle mescite. Un paio d’indumenti dimenticati dagli operai erano appesi al muro e alla porta. Uno spettacolo miserabile. Contenevano banconote spiegazzate, fazzoletti, fotografie, pettini, come constatammo piú tardi il pittore e io ispezionando questi indumenti.
L’odore della gran baldoria – scatenatasi chissà come – era ancora nell’aria, in sala, in tutta la casa, non poteva uscire. Nessuno osava cambiar l’aria per via del freddo. Un’occhiata alla cucina rivelava un disordine spaventoso. Tutt’a un tratto tremarono le finestre, le pareti sobbalzarono a causa di una esplosione laggiú nella valle che aveva «colpito in pieno volto l’atmosfera». «Fan saltare le mine per scavare un grosso buco nella montagna, – disse il pittore. – Al primo lago artificiale se ne aggiunge un altro».
Laggiú stan facendo una costruzione cosí grande che non si capisce «come sia possibile». L’ingegnere gli aveva parlato di cifre. Di pagamenti. Di scadenze. «Una cosa enorme, – disse il pittore, – oltre mille operai laggiú si muovono pancia a terra come le formiche». Ma indirettamente grazie a quest’opera vengono occupate e aiutate a sopravvivere decine di migliaia, anzi centinaia di migliaia di persone. «Gli investimenti sono dell’ordine dei miliardi». Lo Stato sapeva sfruttare le proprie risorse, sapeva come utilizzare i propri scienziati. Era una cosa «gloriosa». Eppure laggiú e «non solo laggiú» s’è messo in moto qualcosa che ancora una volta rivoluzionerà tutto quanto. La tecnica superava se stessa in ogni istante. «Venga, – disse, – usciamo. Forse si vede qualcosa». Uscimmo e ci fermammo davanti alla locanda. Ma davanti ai nostri occhi non c’era altro che una nuvola grigia che, quasi l’avessimo chiamata, si addensava sempre di piú. «Oggi dal mio solito posto che sovrasta il sentiero infossato, voglio osservare il funerale, – disse, – seppelliscono il padrone del bazar».
Ottavo giorno
Oggi ho spalato il sentiero che va dalla locanda alla strada. La moglie dell’oste ha detto che sono un «signore gentile» e mi ha portato due bicchieri colmi di slivoviz quando ha visto che mi stavo riposando un po’ piú a lungo. Disse: «Non si direbbe che Lei è cosí robusto». Le dissi che ero abituato ai lavori materiali. Mi capitava sempre che le circostanze mi costringessero a fare lavori materiali. Che io dovessi sempre interrompere quel mio gran studiare con qualche lavoro materiale per non diventar matto le parve un argomento convincente. «Da anni non cadeva tanta neve», disse lei. Indicò le montagne a sud che però erano nascoste dalle nuvole. Entrò nella locanda e ne ritornò fuori con un panino di carne affumicata. «Chi lavora deve anche mangiare», disse. Era contenta che avessi spalato la neve, perché lei non ce l’avrebbe fatta. «C’era da vergognarsi», disse. Appena vide il pittore uscire dalla locanda mi piantò in asso, gli passò accanto e tornò indietro. Si aveva la sensazione che lei volesse evitarlo. Che non volesse farsi vedere da lui. Sembrava proprio cosí.
Era incredibile quanto lavoro fossi riuscito a compiere in cosí poco tempo, disse il pittore. Non aveva smesso neppure un momento di osservarmi dalla sua finestra. «Se non ci si fosse messo Lei, – disse, – a nessuno sarebbe venuto in mente di spalare». Quella notte in via eccezionale era riuscito a dormire. «Dormire per me significa che non sono costretto a camminare in su e in giú per la stanza, sa». Dai dolori del mattino riusciva sempre a prevedere i dolori della sera e della notte. «Sarà una sera terribile, una notte terribile. Ma certo, non durerà piú molto a lungo». Nella capitale, decine d’anni prima, aveva fatto parte di una squadra di spalatori. «Per tre,0 scellini e ottanta centesimi l’ora, sa, alla luce della lampada a carburo». Vedermi spalare la neve gli ricordava tempi amari. «Tempi in cui ero piú morto che vivo. La verità è che sono stato spesso allo stremo, – disse lui. – Ma com’erano meravigliosi quei tempi rispetto a questi che sto vivendo ora... che sto attraversando per concluderli con la morte». Non lo stetti quasi ad ascoltare. Aveva voglia di andare al caffè nel pomeriggio. «Viene anche Lei? Alla stazione? Ci sono dei settimanali nuovi». Poi mi descrisse brevemente come una volta avesse avuto la sensazione di andare incontro a se stesso come se fosse stato un altro. «Ha mai avuto una simile sensazione? – mi domandò. – Mentre mi andavo incontro volevo naturalmente stringermi la mano, ma di colpo – trovandomi di fronte a me stesso – l’ho ritirata. Sapevo perché». Spalai anche l’ultimo tratto di sentiero e poi riportai in casa la pala. Il pittore mi aspettava fuori. Quando tornai disse: «L’uomo giovane prende in mano la pala e vive. Ma quello vecchio?»
Nella vita succede come nel bosco dove si continuano a trovare segnali e indicazioni fino a quando, tutt’a un tratto, non se ne vedono piú. E il bosco è infinito e la fame ha fine con la morte. E si va sempre a finire dentro a delle intercapedini e dall’interno di queste intercapedini non si riesce mai a guardar fuori. «Persino l’universo in certi casi è troppo angusto». Ma mostrare le vie per arrivare dov’è lui ora a quelli che non le conoscono, che non le conoscono ancora, questo lui non era piú disposto a farlo. «Lavoro con le mie idee che ho acquisito mercanteggiando col caos grazie alle mie sole risorse». Bisognerebbe innanzitutto che si sapesse che cosa significano «amarezza» e «fondamentale» e «luce» e «ombra» e «povertà» per lui. Ma non lo si sa. Tuttavia si sente qual è il mondo in cui si muove. Che lo fa soffrire. Forse anche piú di quanto non si creda. «Non occorre saperlo». E con questo lui intende ancora una cosa diversa da ciò che si crede. «Il sapere distoglie dal sapere, sa!» La gente che indossa uniformi lo rendeva nervoso. «Odio la polizia, i gendarmi, i militari, persino i pompieri». Tutti costoro sono per lui causa di ossessioni sessuali che preferirebbe non avere. Non riesce a liberarsi di loro, di questi impiegati delle ferrovie, di questa gente legata alla guerra. Gli ufficiali gli ripugnano. Anche per via della loro disumanità che essi «esaltano ancora artificialmente». Sí, gli ripugnano con la stessa brutalità con cui lo attraggono. «Sí, ne sono anche attratto. Le ho spiegato perché. Problemi che naufragano già nell’odore che precede l’immagine». E poi: «Le donne – dell’età adatta a suscitare questo tipo di eccitazione e in circostanze favorevoli – mi eccitano piú che altro con la loro assenza: donne anziane e piuttosto brutte». In generale lo aveva sempre attirato di piú ciò che è assente, con una passione infantile e viziosa. Ma non aveva mai avuto le idee chiare in nessuna cosa. «La chiarezza è qualcosa di sovrumano». Lui cerca e propugna la semplicità, ma la detesta: ha sempre voluto fuggirne lontano. Lui mette lo stesso impegno nel perseguire sia l’inquietudine che la calma senza sapersi spiegare perché. Prendeva una decisione: simultaneamente decideva sempre anche il contrario. Eppure era sempre lui. Perfettamente delimitatoentro lo spazio circoscritto dai suoi punti di vista. «È follia questa?» domanda lui dopo avermi spiegato un fatto come se fosse una stanza dentro a un edificio infinitamente grande. «La parola incompleto fa sempre crollare gli spazi verso i quali volevo salire». Pur di lasciare dietro di sé il terreno che ha sotto ai piedi, lui cammina, si muove continuamente, va dappertutto, non importa dove e come: «ma non riesco maia lasciar dietro di me il terreno che ho sotto ai piedi». È una legge di natura... Dormire e pensare e ogni altra attività intermedia, infrapposta, intrusa, non è altro che distrazione da se stessi. Eppure non c’è metodo che permetta di distrarsi da se stessi. «Naturalmente tutto è desolato, perché prevedibile, stabilito; ma ciò che dico è anche semplice». Il luogo in cui si riconosce che tutto è ridicolo lo si ritrova sempre, basta uno sguardo fuori dalla finestra, uno sguardo dentro a se stessi. Ovunque si guardi. «Un giorno riesce a tutti il colpo grosso: farla finita!» «Quando mi appaiono, tutti quelli che conosco mi sembrano uguali. Anche quel che c’è dentro sembra sempre uguale, a chiunque appartenga. Dentro a tutti c’è la stessa cosa. È questo che mi ripugna. Quando li faccio sparire, quando dico “ritirarsi”, resta un odore che ottenebra tutto». Disse che gli uomini, inizialmente controvoglia, poi senza opporre resistenza, non sono altro che portatori di professioni, portatori di opinioni, guidati dall’ottusità, per loro variano solo i limiti di velocità, la durata della vita. «La semplice ragazza di campagna, il presidente di una grande industria». Bloccato dal sentimento e dall’intelletto, non è piú l’individuo che conta. «A che serve che siano i piú abili e non i piú intelligenti a occupare i posti migliori? Che abbiano sottoscritto assicurazioni che son dell’ordine dei milioni? Che garantiscano milioni di prospettive future? Milioni di consegne? Di sofisticherie? Di assurdità?» Ci precede una fama che ci uccide.
«Molte idee diventano delle deformità che poi non si correggono piú per tutta la vita», disse lui. Le idee spesso ci stupiscono ancora dopo anni, ma prima o poi rendono sempre ridicolo chi le ha avute. Le idee vengono da un regno che esse in realtà non abbandonano mai. Continuano a restare lí dentro, le idee: nel regno dei sogni. «Non esiste una sola idea che si spenga, che possa venir spenta. L’idea è reale e tale resta». Quella notte aveva meditato sul dolore. «Il dolore inrealtà non esiste. È un’invenzione necessaria». Il dolore non è il dolore come una mucca è una mucca. La parola dolore attira l’attenzione di un sentimento su un altro sentimento. Il dolore è un sovrappiú. Ma è l’idea del dolore ad essere realtà. Di conseguenza il dolore esiste e non esiste. «Ma il dolore non esiste, – disse lui. – Come non esiste la felicità, nessuna felicità. Creare un’architettura basata sul dolore». Tutti i pensieri, le immagini sono involontari come i concetti di chimica, di fisica e di geometria. Bisogna conoscere questi concetti per sapere qualcosa. Per sapere ogni cosa. Se ci si limita alla filosofia non si fa un solo passo avanti. «Nulla è progressivo, ma nulla è meno progressivo della filosofia. Il progresso è una sciocchezza. Impossibile». Le osservazioni del matematico sono fondamentali. «Eh già, – disse lui, – in matematica tutto è un gioco da bambini, poiché in essa è presente tutto». Ma come tutti i giochi anche la matematica può distruggerci. Quando improvvisamente, poiché si è superato il limite, non si capisce piú lo scherzo, non si capisce piú il mondo, non si capisce dunque piú niente. Tutto non è che l’idea del dolore. «Un cane subisce come l’uomo la forza di gravità, eppure non si può dire che abbia vissuto, capisce!» Un giorno avrei varcato una soglia, sarei entrato in un parco gigantesco, anzi infinito, in quel parco le bellezze, le invenzioni artistiche si susseguono l’una dopo l’altra. Piante e musica in quella natura si avvicendano secondo leggi matematiche nel modo piú meraviglioso e piú gradevole per l’orecchio toccando i massimi vertici immaginabili della raffinatezza: ma attraversare, quindi sfruttare quel parco non mi è assolutamente dato, poiché esso consiste di migliaia di piccole e piccolissime isole quadrate rettangolari e circolari, pezzi di prato talmente isolati l’uno dall’altro che io non posso abbandonare quello sul quale mi trovo. «C’è sempre in mezzo una distesa d’acqua talmente ampia e profonda che è impossibile passare da un’isola all’altra. Nelle mie immagini. Ma sul pezzetto di prato sul quale si è giunti chissà come, sul quale ci ha svegliati chissà cosa, sul quale si è costretti a restare, alla fine si perisce, si muore di fame e di sete». Il desiderio struggente di percorrere l’intero parco ci uccide.
Lo incontrai dietro al mucchio di fieno, rannicchiato su un asse di legno. Era già buio e lui disse che m’aveva sentito arrivare dallo stagno. «Conosco perfettamente il suo passo». Le persone come lui che tengono quasi sempre gli occhi chiusi – «anche quello un modo per prepararsi alla morte» – hanno un orecchio incredibilmente ben esercitato. «Lei era ancora lontanissimo e io già La sentivo. Lei si stava lentamente avvicinando al mio malumore. Sa che Lei non cammina affatto come un giovane?» Doveva certo sembrarmi strano d’averlo incontrato qua dietro al mucchio di fieno. Dopotutto – a dir la verità – lui mi offriva uno spettacolo continuo di stranezze. «Non sono forse stranezze tutto ciò che faccio? Mi sono accoccolato qui perché non riuscivo a stare in piedi. Quel suo consiglio di farmi l’impacco – ci provava gusto, cosí mi parve, nel pronunciare queste parole e le pronunciò piú volte di seguito come se stesse sporgendo la testa dalla tana di una volpe –, quel suo consiglio di farmi l’impacco è stato un pessimo consiglio. La mia bozza è sempre lí. Avevo ragione io, si tratta della “cosa orribile”. Tra poco non riuscirò piú a camminare. Voglio sperare che Lei abbia finalmente smesso di credere che si tratti di qualcosa d’innocuo». Ricominciò con una lunga descrizione della sua malattia che si stava propagando in modo «addirittura filosofico» tra il suo cervello e il suo piede. In fondo nel suo caso trovava conferma una «scienza sacra».
Aveva attraversato il bosco di larici e poi era andato allo stagno «Qui ci sono due soli sentieri che si possano seguire: o l’uno o l’altro» – in realtà voleva anche andar giú alla stazione per riempirsi di giornali e per «farsi spaventare dal mondo dei viaggiatori. I giornali sono l’unica distrazione che ho. I giornali per me ora sono ciò che gli uomini non sono piú, ciò che la natura non è mai stata: svago, superamento». Nei giornali lui trovava confermate molte delle sue teorie. I giornali in realtà sono il mondo, sono tutto, l’universo intero in ogni copia che si apre. «Il mondo non è il mondo, esso non è nulla». Giorno per giorno grazie ai giornali lui era costretto a discutere con se stesso. «I giornali, nonostante il male che fanno a molti, non a caso e a buon diritto sono i soli grandi consolatori dell’uomo». I giornali per lui erano ciò che fratello e sorella, padre e madre non erano mai stati. «Ciò che il mondo per me non è mai stato. Spesso non ho avuto altro che il giornale, per giorni interi, intere settimane, interi anni solo il giornale che diceva che tutto esiste ancora, tutto, sa, tutto ciò che attorno a me e dentro di me io credevo fosse già morto».
Sul pendio sotto al tiglio gigante dove il ronzio dei fili telefonici è piú forte, a pochi passi dal grosso palo dell’alta tensione, era stato colto da malore e aveva fatto un rapido dietrofront. «È colpa del piede». S’era dovuto trascinare dietro il suo piede come un peso di un quintale. «Avevo la sensazione che stesse per staccarsi». Prima aveva tentato di raggiungere la locanda prendendo una scorciatoia, ma – a sentirlo raccontare – era crollato. Con le sue ultime forze era fuggito verso il mucchio di fieno dove sperava di ripararsi dal vento. «Ho la schiena al caldo, il fieno, vede!» Nel pensiero che stava rivolgendo a sua sorella – «un pensiero molto triste» – si era poi insinuato il mio passo che si faceva sempre piú vicino – «questo rumore intermittente e smorzato».«Mi fa piacere che Lei sia arrivato. È un caso oppure mi aveva visto?» «È un caso», dissi io. «Appena mi sono seduto il dolore al piede è diminuito. Si è spostato piú in su, piú vicino al cervello».
Continua a lamentarsi dei suoi dolori al piede «che compaiono e diventano forti, irriducibili, soprattutto quando diminuisce il dolore alla testa». Aveva seguito il mio consiglio di tenere il piede in alto, di mettergli sotto un cuscino durante la notte, ma, «come vede, non serve a nulla. Al contrario. La bozza è diventata molto piú grande. È come se risucchiasse tutto quel che c’è dentro al mio corpo. È la stessa sensazione di risucchio che ho sempre nei confronti del mio cervello». Effettivamente la bozza ora è aumentata. Perché lui continua a camminare. Forse è il doppio di quella che avevo visto per la prima volta. Ma non ha cambiato colore. Non si riesce piú a vedere la sua caviglia. «La cosa migliore è non andare in giro con un piede simile», gli dissi. «Lei crede che una malattia cosí terribile si possa curare in modo cosí semplice?» «Tra qualche giorno certamente non ci sarà piú, – dissi io, – sarà scomparsa». «Anche qui sul mio braccio, vede, c’è un inizio di bozza», disse lui. Mi mostrò un punto dell’avambraccio dove, – a sentir lui, – si annunciava una bozza, ma non vidi nulla. Tastai la parte e non riuscii ad accorgermi di nessuna anormalità. «Lei non potrà non aver notato come si stia preannunciando. Lei non ha sensibilità per le malattie». Nella sua testa avvenivano «macchinazioni indescrivibili». Immagini che lui aveva come ogni altra persona improvvisamente si capovolgevano, venivano strappate «in mille pezzi, capisce. Mi sono però rassegnato al fatto che tutto in me è malattia. Che la malattia si è impossessata di tutto. La mia malattia, almeno credo, non è contagiosa. Subito, appena la scoprii ebbi la sensazione che fosse inguaribile». «Inguaribile», ripeté e poi smise di parlare. Camminavamo uno dietro all’altro come sempre, io davanti, lui dietro a me, prima in direzione del paese, poi della locanda. «Una malattia inguaribile il paziente la riconosce subito. Di solito però questa certezza la tiene per sé. La malattia inguaribile si manifesta in modo totalmente diverso da come si manifesta una malattia guaribile». Nel suo sangue c’erano tante sostanze tossiche che sarebbero bastate a sterminare interi quartieri di una città. Queste sostanze tossiche si depositano continuamente sotto la pelle, in qualsiasi punto ne abbiano l’opportunità. «Ecco la causa della bozza sul mio piede, – disse lui. – Come in riva ai grandi fiumi si trovano relitti di navi, cosí quelle sostanze si depositano sulle sponde delle mie arterie e delle mie vene. La morte non può essere altro che la cessazione di tutti i dolori. La morte significa liberazione da tutto; soprattutto da me stesso». Tra lui e la propria morte non ci sono piú problemi irrisolti. «L’accordo che ho stipulato con la mia morte è per entrambi i contraenti il piú vantaggioso e perfetto che ci possa essere».
Se dipendesse da loro gli abitanti del paese non farebbero altro che gozzovigliare e ubriacarsi tutta la vita. Dovrebbero essere molto preoccupati per le loro mascelle perché già ora una quantità paurosa di cibo e di liquidi casca loro fuori dagli angoli della bocca. La moglie dell’oste li istiga ad avventarsi sulla trippa, sui salumi, e sui boccali di birra come si aizzano i cani contro qualcosa d’ignoto che si teme. Su, dài! Al pittore ripugnano il cibo e le bevande su cui si buttano l’ingegnere e lo scuoiatore. Quelli che prima cantavano si sono ridotti a belare. L’ingegnere dice qualcosa contro la Chiesa, lo scuoiatore racconta di un bue infetto che certa gente in paese ha squartato e poi mangiato. Che ieri una spiacevole circostanza lo aveva costretto a ridiscendere il sentiero infossato nel bosco e a risalire il pendio sul versante nord per andare a prendere un cane morto. Molta gente è incapace di sotterrare da sola le proprie bestie. Gli dànno delle mance e lo interrogano. Vogliono sapere da dove venga questo o quello. Dov’è che si va a finire, com’è l’aldilà. Da dove si viene fuori, anche questo nessuno lo sa. «Già, il misticismo», quest’è la sola risposta che sappia dare lo scuoiatore. E poi: «Il lato mistico» e l’ingegnere già completamente sbronzo aggiunge: «Gli scolastici!» e spezza l’osso della bistecca che ha in mano. La moglie dell’oste non ce la fa a tener dietro a tutte le richieste di birra, si apre coraggiosamente un varco sferrando calci al suo passaggio, li sferra sotto al tavolo per non farsi notare. C’è anche chi interpreta questi calci in modo sbagliato. Quelli cui questi calci son destinati di tanto in tanto come segreto invito a raggiungerla nel suo letto a un’ora e a una data stabilita, li prendono come vanno presi. Lei suda, ha il mento lucido come la salsiccia che posa talmente vicino all’uniforme del gendarme da fargli fare un balzo all’indietro contro il muro e poi dare un’occhiata alla sua pancia. «No, no! – dice l’ingegnere, – ma neanche per sogno!» Lui sa bene come si trattano le teste dure, come si trattano gli sfaticati! «Ma non li prendo a botte! – dice lui, – non ne ho bisogno. No, no!» E poi nella sala risuona un tale boato che non si riesce piú a capire neanche una parola. Le figlie dell’oste passano dalle ginocchia di un uomo a quelle di un altro. «Che tanfo, – dice il pittore, ma a quanto pare è troppo debole per alzarsi. – Voglio solo vuotare il mio bicchiere», disse. «Spesso, quando meno ci si aspetta, organizzano una festa!» dice l’ingegnere. Quelli che hanno una posizione inferiore se la prendono con quelli che hanno una posizione superiore, dice lui, ma nessuno sa dire chi dovrebbe avere la posizione superiore e chi quella inferiore. In Cielo però c’è posto anche per l’ultimo dei mocciosi. «Eh, sí, – disse lo scuoiatore, – in Cielo c’è sempre qualche posto libero». Qualche volta gli succede come a un cavaliere che vuole continuare a cavalcare senza cavallo, dice l’ingegnere che sta per scoppiare dal caldo, «è possibile rimanere cosí sospesi per aria e continuare ad andare avanti per un po’. Ma appena si incomincia a pensare, mentre si è sospesi per aria, si precipita in terra e tutto finisce male». E appena tolti i piatti tutti quanti si mettono a cantare una canzone, A Mantova i briganti..., da far tremare le pareti della sala. Il pittore in mezzo a quelle urla va in camera sua. Ma prima che regni un silenzio assoluto si fanno le due del mattino. Prima d’allora si sentirà ancora molto parlare di buonumore, di sudiciume umano e di quel gran vuoto che c’è dentro a tutte le cose.
Nono giorno
«Ha sentito gli ubriachi? Li ha sentiti anche dopo mezzanotte? – domandò lui. – Sono rimasto sveglio tutta la notte. Camminando in su e in giú. Ho persino aperto la finestra e ho fatto entrare dell’aria, quell’aria orribilmente gelida. Ovunque ci si scontra solo con l’incomprensibile. La cosa che mi rende piú furioso è questo continuo sbattere di porte. Questo orribile sbattere di porte. Come ricevere continui colpi in testa! Non c’è cosa piú orribile che una casa in cui si sbattono sempre le porte. La gente le sbatte senza minimamente pensarci. È una caratteristica della gente inferiore. Si può anche venire uccisi dagli sbattitori abituali di porte! La mia giornata è rovinata ogni volta che qualcuno sbatte una porta. Ma qui sbattono le porte in continuazione. Immagini di essere costretto a vivere in una casa in cui vengono continuamente sbattute le porte! In cui vivono degli sbattitori abituali di porte! Lei è in balia...» Dice: «Guardi queste piccole scarpe, queste scarpe minuscole! È pazzesco quel che son costrette a sopportare queste gambe, quando penso alla mia testa! Sembro un insetto spaventosamente gonfio! La mia testa è cosí pesante che una decina di uomini robusti non basterebbero a sollevarla... e le mie gambe, queste gambe striminzite ci riescono. Ora tutte le sere faccio un pediluvio. Mi fa bene. La mia testa non vede nulla. Tutto è grigio. E giallo. Poi questi colori si mescolano e io non vedo altro che il dolore».
Quando batte con la testa contro un albero è come se la sua testa fosse una mano gonfia. «Sente? Dentro alla mia testa è stata istallata una sega circolare. Questa sega fa un rumore in cui mi pare di morire! Enormi assi di legno restano continuamente incastrati da qualche parte della mia testa, non so dire esattamente dove: molto in basso, molto indietro... poi c’è di nuovo quella cascata che mi fa svenire. Sento la Sua voce che giunge da lontano come attraverso una parete. Naturalmente io so che Lei sta camminando accanto a me. Ma è come se Lei camminando accanto a me camminasse lontanissimo da me. Io La sento camminare affondando nella neve come me. È Lei che mi trascina. Che mi costringe ad andare con Lei. Si tratta di costrizione, sí... La giovinezza in realtà è sempre indolore», disse poi. Eravamo a metà strada tra la chiesa e il paese. In certi momenti non si vedeva né il paese né la chiesa perché giganteschi cumuli di nebbia si spostavano lungo la valle. «La giovinezza quasi non conosce il dolore. La depressione. La disperazione. Ma quel che sto dicendo è falso. Durante la giovinezza tutto è ancora molto peggio. Piú represso. Piú disperato. Piú doloroso. In realtà la giovinezza è inaccessibile. Nessuno riesce a entrarci. Nella vera giovinezza. Nella vera infanzia. Non è cosí? Crede che io debba spazzolare il mio cappotto? – domandò lui. – Lei parla a voce molto bassa, mi pare. Noi qui ci troviamo in una regione paludosa, Lei deve sapere. Se fosse estate saremmo già affondati. Ma il terreno che nella buona stagione può essere mortale, che ci trascinerebbe sul fondo ora è gelato». Raggiungemmo il mucchio di fieno e ci sedemmo sull’asse di legno sul quale lui era stato accoccolato ieri. Disse: «Per natura forse io sono un tipo che si potrebbe definire ideale». Non appena si fu ripreso ci alzammo e rifacemmo all’indietro un pezzo della stessa strada dalla quale eravamo venuti, ma poi curvammo per arrivare piú in fretta alla locanda. «Appena saremo tornati alla locanda Lei potrà scegliersi qualcosa. Qualsiasi cosa. Un oggetto. Oggi voglio farle un regalo. Scelga qualcosa in camera mia. Sa, Lei non mi aggredisce. Tutti gli altri mi aggrediscono».
«Che cosa dice di me la gente? – domandò lui. – Mi chiamano l’idiota? Che cosa dice la gente?» Voleva una risposta. «Io la irrito, ecco cos’è. La mia testa ha sempre irritato la gente. Ora in questo mio stato patologico vengono anche alla luce delle caratteristiche che prima erano latenti. Che nonerano ancora arrivate fino al cervello. È vero: con una simile malattia non si può nascondere nulla. Nulla. Vede, io sono un uomo fatto cosí, non sono malvagio! È perché porto le ghette che la gente mi trova tanto ridicolo. E perché secondo loro il mio bastone lo porto per bellezza. Questo è diabolico. E poi: da un lato non vorrei esser solo, d’altro latotutti mi ripugnano. Perché tutto mi ripugna. È dall’esterno che l’avversione e l’impossibilità s’avventano contro di loro e contro di me, che entrano nel profondo di me stesso. Non ho rapporti con loro? No. Sedermi assieme a loro? No. Con l’ingegnere? Con lo scuoiatore? Con la moglie dell’oste? Col parroco? Con uno di loro? No. Un tempo era possibile. Ora io sono lontano. Ora mi sento lontanissimo da loro. Ma continuo sempre a fare dei tentativi. Per non soccombere. O invece proprio perché voglio soccombere». Disse che lui era un naturalista mancato. «Ma io sono profondamente incapace, profondissimamente incapace». Il lato eccezionale di molte persone è solo una punta di sagacità. «Ma io non sono nessuno».
Da molti giorni ormai non ci sono clienti alla locanda. Solo il pittore e io. Durante i pasti c’è un silenzio di tomba. «La nostra tomba», aveva detto il pittore nel corso della giornata di oggi. Alzò il bastone contro qualcosa che io non vedevo ripetendo: «La nostra tomba», poi fece il giro della locanda e scomparve nelle tenebre tra le ombre degli alberi. Era la prima volta che per qualche ragione voleva star solo. Colsi l’occasione per ritirarmi in camera mia. Prima considerai la possibilità di scrivere ai miei una lettera in cui li avrei messi a parte di tutto: del mio incarico, del luogo dove mi trovavo, della mia esperienza col pittore. Vari dettagli si ricostruivano nella mia mente. Ma poi, dopo aver scritto tre o quattro frasi, gettai il foglio di carta nella stufa. E mi misi a leggere il mio James e bevvi un bicchiere di birra che m’ero andato a prendere di sotto. «Il medico è il soccorritore dell’umanità», mi venne in mente questo detto che aveva fatto nascere in me i conflitti piú insensati. Soccorritore dell’umanità... pensai io. «Soccorrere» e «umanità», come sono distanti queste parole. Non so immaginare di riuscire ad aiutare qualcuno. Quando sarò medico... medico? Io medico? Tutto quanto mi dà la sensazione d’essermi appena svegliato da un sogno e d’essere costretto a sapermela cavare con questo camice bianco che ho addosso; non so perché. Questo soccorritore dell’umanità mi attraversò il cervello e per la prima volta in tanto tempo mi fece venire il mal di testa. Tutto mi è incomprensibile. Cosí, assorto in questi pensieri, non mi era neanche possibile andare avanti col mio Henry James. Chiusi il libro e m’infilai la giacca, aggiunsi un altro grosso ciocco sul fuoco e lasciai la locanda dirigendomi verso il paese. Non ci misi piú di un quarto d’ora per arrivare al cimitero dove credevo d’incontrare lo scuoiatore. Non so cos’avrei dato per parlare con lui, per fargli raccontare una delle sue storie. Ma non era al cimitero. Qualche donna del paese stava portando mazzi di fiori di carta nella cappella. L’orologio del campanile suonò con gran strepito e nello stesso istante un grosso pezzo di ghiaccio mi cadde davanti ai piedi. Mi fermai spaventato, ancora un passo... Mi venne in mente che un giorno, circa quindici anni fa, un enorme ghiacciolo era passato al volo accanto a me sfiorandomi una manica e che con il solo spostamento d’aria mi aveva fatto cadere in terra. Dopo quell’episodio rimasi cosí scosso che non riuscii a dormire per intere notti e continuai a fare la pipí a letto per molte settimane. Deluso perché non avevo trovato lo scuoiatore, mi misi a passeggiare in su e in giú lungo le tombe dei bambini. Ma ben presto questo mio camminare mi parve stupido, non riuscivo piú a sopportarlo e corsi verso la prima osteria che trovai nella piazza del paese. Mi misi a sedere in un angolo dal quale potevo osservare bene i giovani contadini che giocavano a carte nell’angolo opposto al mio, bevvi qualche bicchiere di birra e mi alzai soltanto quand’ero ormai piuttosto brillo. Un paio di volte caddi nel fosso, mi rimisi in piedi, ridevo come uno sciocco e ci misi un’eternità ad arrivare alla locanda.
Nella sala l’ingegnere stava dicendo che la costruzione della centrale elettrica era il piú grosso progetto di quel tipo che fosse mai stato realizzato. Già ora ogni giorno arrivano esperti da tutto il mondo per farsi un’idea della costruzione. «Ma può il nostro Stato permettersi un simile progetto?» domandò il pittore. «Oh, sí, – disse l’ingegnere, – lo Stato è ricco. Magari investisse sempre il suo denaro in progetti cosí grandi, utili e ammirati dal mondo intero! Lo Stato invece sperpera gran parte del suo denaro. Ogni anno son miliardi che spariscono senza lasciar traccia. Certo si sa bene dove si dovrebbe andare a cercare quel denaro e cioè nelle ville dei ministri, nelle fabbriche dei ministri o nelle imprese statali tutte gestite cosí male che è assurdo investirci del denaro. Tutte queste imprese vanno avanti in grave perdita e per venir risanate hanno bisogno del pubblico denaro. Ma gran parte del denaro pubblico se ne va in spese di rappresentanza», disse l’ingegnere. E il pittore disse: «In nessun altro paese i ministri hanno a loro disposizione venti automobili come da noi, dove andrebbero a finire tutti quei paesi?» «Andrebbero dove siamo andati a finire noi», disse lo scuoiatore. «Sí, – disse il pittore, – noi abbiamo fatto bancarotta». «Bancarotta», disse lo scuoiatore.
L’ingegnere, dopo aver ordinato un litro di vino per tutti a proprie spese, disse: «Questa centrale fornirà corrente elettrica a tutti i paesi d’Europa. Un profano non riesce neanche a immaginare una costruzione come questa centrale elettrica. Io stesso la conosco solo a grandi linee e sono informato soltanto su alcune parti del tutto. Ciascuno ha un suo ristrettissimo campo d’azione. Ma la vera arte è stata il lavoro degli scienziati che hanno progettato la centrale. Io sono solo incaricato dell’esecuzione e di nient’altro che dell’esecuzione di una sua piccola parte. Se si pensa che un metro cubo costa quanto un intero villaggio e non si tratta di un piccolo villaggio, si può immaginare quanto debba venir investito in quell’impresa. Ma neanche cosí non si riesce a farsene un’idea». Il pittore disse: «Ma il paesaggio ne sarà deturpato. Piú centrali di questo tipo verranno costruite – e io non discuto che siano necessarie, che siano di enorme utilità, che siano quanto di meglio si possa costruire da queste parti, questo non voglio neanche metterlo in discussione – ma piú centrali verranno costruite e meno resterà della bellezza di questo paese. Ora questa vallata è già di per sé talmente brutta da non poter essere deturpata ulteriormente perché è sempre stata deturpata per natura, una bruttezza in piú o in meno qui non si nota, ma nelle regioni belle – e il nostro paese consiste quasi esclusivamente di regioni belle – nelle regioni che sono belle la costruzione di centrali elettriche compie le peggiori devastazioni. Già metà del paese è deturpato dalla costruzione di centrali. Dove c’erano prati fioriti, stupendi campi coltivati e boschi bellissimi, ora non si vede altro che blocchi di cemento. Ben presto l’intero paese sarà ricoperto di centrali elettriche e in un futuro abbastanza prossimo non si potrà piú trovare un posto dove non si sia irritati dagli impianti di una centrale elettrica o perlomeno da giganteschi pali del telegrafo». «Già», disse lo scuoiatore, «questo è vero». «Anche i grandi fiumi vengono deturpati, – disse il pittore, – poiché proprio nei punti dov’è piú bello il loro corso e nelle regioni piú belle, vengono interrotti per la costruzione di dighe e centrali. Non è che non mi piaccia la nuova architettura, al contrario, ma una centrale elettrica è sempre una brutta costruzione. Di queste costruzioni ce n’è già migliaia nel nostro paese». L’ingegnere dice: «Perché non si dovrebbe sfruttare l’energia che abbiamo a disposizione? In tutti i paesi si costruisce il piú gran numero possibile di centrali elettriche. L’elettricità è la cosa piú preziosa che ci sia». E poi le centrali non sono cosí brutte come dice il pittore. Poiché vengono costruite nel modo piú semplice possibile, spesso si integrano nel paesaggio come se ci fossero sempre state. «In molti posti hanno creato laghi artificiali che sono un gran beneficio per il paesaggio, – dice l’ingegnere. – Villaggi bruttissimi scompaiono sott’acqua da un giorno all’altro, regioni paludose, terra inutile e incolta». Il pittore dice: «Ma succede spesso che si rompano gli argini delle dighe e allora i flutti si rovesciano su tranquille e fertili pianure e periscono centinaia di persone, come si continua a leggere sui giornali». «Sí, – disse l’ingegnere, – questo è vero». «E la gente non sa perché debba arrivare al punto di esporsi a un pericolo cosí permanente. Poiché contro la rottura degli argini si è davvero impotenti, caro ingegnere, non è vero?» «Sí, si è impotenti, ma la rottura degli argini è un evento rarissimo. E poi dipende quasi sempre da fenomeni naturali che sono al di fuori della facoltà di previsione umana». «Già, vede! – dice il pittore. – Vede!» L’ingegnere dice: «La rottura degli argini di una diga è un evento cosí raro e le perdite umane che comporta cosí insignificanti da poter essere considerato un fatto trascurabile...» «Un fatto trascurabile? – dice il pittore, – si tratta di un fatto trascurabile?» «Sí, – dice l’ingegnere, – è proprio un fatto trascurabile. Basta pensare agli enormi vantaggi delle centrali elettriche». «Ah, agli enormi vantaggi delle centrali elettriche! E lei non pensa che un morto o centomila morti siano la stessa cosa?» «E perché mai?» E poi l’ingegnere dice: «Il pericolo che degli uomini restino uccisi si corre dappertutto. Ed è anche vero che dappertutto ci sono uomini che restano uccisi. È una minoranza quella che muore a causa delle centrali elettriche. Operai, sí. Ma dappertutto ci sono operai che muoiono, in tutti i cantieri. Se il nostro paese non avesse le centrali che ha costruito – comunque siano andate le cose – sarebbe un paese povero». Cosí invece nonostante tutti i suoi inconvenienti è un paese che può sempre dire di se stesso di essere ricco. «Quante piú centrali verranno costruite, tanto piú felice sarà il nostro paese». Su questo punto tutti erano d’accordo. Solo il pittore taceva limitandosi a dire: «Già, le centrali».
«L’ingegnere è stato nella valle stretta, – disse il pittore, – se avessi saputo che andava nella valle stretta ci sarei andato con lui. Mi avrebbe accompagnato con la sua automobile fino a J. Dieci anni fa sono stato nella valle stretta per l’ultima volta. Lei deve sapere che laggiú la cascata è come un tuono. Dunque l’ingegnere nella valle stretta era mezzo congelato. Se me lo avesse domandato gli avrei detto comeci si deve vestire quando si va nella valle stretta!» «È proprio un’avventura andare nella valle stretta!» gli ho detto io e lui ha replicato: «Ma i cinghiali!» «I cinghiali? – domando io, – i cinghiali? Lei non avrà mica creduto alla favola deicinghiali?» «Alla favola?» domanda lui. «Sí, alla favola!» È proprio una favola quella dei cinghiali. Lo scuoiatore a tutti quelli che vanno nella valle stretta racconta che là ci sono dei cinghiali che assalgono gli uomini, sa! Quella dei cinghiali è una favola bella e buona! «Una favola!» dico io e l’ingegnere dice: «Io li ho sentiti!» «Che cosa ha sentito? I cinghiali?» domando io. «Sí, i cinghiali». «I cinghiali? Lei laggiú non ha mai sentito un cinghiale, – dissi io, – quando lei sentiva i cinghiali nella valle stretta, – dissi io, – perché nella valle stretta non ci sono cinghiali. Macché cinghiali!» dissi io in tono perentorio e l’ingegnere: «E Lei dunque crede che lo scuoiatore mi abbia ingannato?» «Sí, lo scuoiatore L’ha ingannata, – dico io, – lo scuoiatore inganna tutti quelli che vanno nella valle stretta». «Eppure erano cinghiali!» disse l’ingegnere e non si lasciò convincere da me. «E allora si vede che erano cinghiali, – dico io. – Solo un cretino non sa distinguere i cinghiali dai cervi e dalle volpi. Quelli erano cervi e volpi». «No, cinghiali», disse l’ingegnere. Allora mi voltai e me ne andai. «Sa, – disse il pittore, – in questa regione non ci sono cinghiali. Da secoli. Non qui in alta montagna, solo in pianura dove – a dir la verità – imperversano in modo incredibile, divorano salme, sfondano porte e sorprendono la gente a letto. Ma qui non ci sono cinghiali». «Il berretto di pelo, – dissi all’ingegnere, – Lei avrebbe dovuto mettersi in testa il berretto di pelo e avvolgersi i piedi dentro a un panno di loden». Sí, ecco che cosa avrebbe dovuto fare, lo ammetteva. Ma alla favola dei cinghiali lui ci credeva. Passammo accanto allo stagno. Il pittore disse: «Qui le persone scompaiono senza mai piú tornare alla superficie; non si trovano piú. Potrei elencarLe diversi casi di persone già scomparse qui. L’ultima persona scomparsa è stata la servetta del macellaio. Senza lasciar traccia. La sera prima era ancora stata vista nel suo letto. All’alba era scomparsa. Scomparsa per sempre. Che questo sia possibile, – disse il pittore, – dimostra che c’è qualcosa di sinistro, non è vero? Non è forse una cosa sinistra quando scompare una persona? Senza lasciar traccia? Senza lasciare null’altro che un armadio pieno di vestiti, un paio di scarpe e un libro di preghiere? E che nemmeno dopo dieci anni non si è saputo nulla di lei?»
Io rimango a sedere in sala perché la gente mi riscalda. Lassú in camera mia fa freddo, il fuoco s’è spento e non ho voglia di riaccendere la stufa. Io poi non riesco a dormire al caldo. È un’ottima piccola stufa quella che ho in camera mia. Fa presto ad arroventarsi, ma ridiventa anche subito di ghiaccio. E la camera è sempre come la stufa. Giú in sala mi unisco ai giocatori che bevono grappa e giocano a watten. Mi siedo con loro quando ho la certezza che il pittore non scenderà piú. Non gli piacerebbe vedermi giocare con loro. O invece devo dirglielo? Perché non glielo dico? Non devo mica lasciarmi dominare da lui. Qualche volta però resta seduto anche lui e rivolge all’ingegnere una domanda qualsiasi riguardante la costruzione della centrale, oppure chiede allo scuoiatore di raccontare qualche particolare di una delle sue storie di guerra. «È accaduto a Poltawa?» domanda lui, per mettere alla prova lo scuoiatore. Se la risposta è: «No, a Odessa» e se – come il pittore racconta – anche qualche settimana prima lo scuoiatore aveva detto: «A Odessa» a proposito di quella certa storia e di quel certo contesto, allora lui sa che la storia è vera. Sono domande a tranello quelle del pittore. Se lo scuoiatore avesse detto: «Sí, a Poltawa», quella sarebbe stata la prova che la storia che lui aveva raccontato non era vera. Oppure il pittore dice: «Non è forse vero che quella ragazza è rimasta fedele a quell’uomo fino all’ultimo?» Spesso devo andare in cucina a prendere lo scaldabirra per il pittore. Ma lui lo tiene cosí a lungo nel suo bicchiere che la birra diventa imbevibile, allora lui dice: «Ma questa birra è imbevibile!» e la spinge via. Ha l’abitudine di ordinare un bicchiere di birra e di non berne neanche un sorso. Appena se ne va, l’ingegnere oppure lo scuoiatore o chiunque gli fosse seduto vicino, si beve la sua birra. Qualche volta si porta dietro il suo Pascal anche durante le passeggiate e tutt’a un tratto lo tira fuori da una tasca, apre una pagina e dice: «Ecco un grande pensiero!» fa finta di leggere un brano, mi guarda e mette in tasca il libro. «Blaise Pascal, nato nel 1623, è il piú grande di tutti!» dice allora. Mi capita di fare le due prima di andare a letto. Gli ultimi a rimaner lí seduti siamo l’ingegnere e lo scuoiatore, la moglie dell’oste e io. Le carte continuano a passare dal tavolo alle nostre mani. La moglie dell’oste segna i punti. Al muro ticchetta l’orologio. Fuori il mondo si sta contraendo per il freddo. «Fino a sei mesi fa ho avuto un cane, un cane lupo», dice la moglie dell’oste, dopo aver guardato fuori dalla finestra. E non aver visto altro che paura. La luce è fioca e gli occhi incominciano a dolere quando ci si avvicina all’una di notte; io poi, lassú in camera mia mi sento talmente solo senza sapere perché. Per ore intere non riesco a scaldarmi per il troppo freddo.
«Sto davanti a un albero, – dico io, – ma non so che cosa sia un albero. Che cos’è mai? E c’è anche un uomo lí davanti e non so che cosa sia. Io non so nulla. A volte è nuvolo; altre volte fa freddo, poi il cielo ridiventa cupo. Lo sa?» «Io? – dice lo scuoiatore, – perché proprio io?» «E lei guarda su dov’è nero, quelle sono nuvole, non è vero? E poi lei arriva in una casa ben riscaldata. Là dentro stanno di nuovo sedute delle persone. E anche al cimitero ce ne sono. Lo sa Lei che cos’è?» «No, son persone», dice lui. «Sí, persone». E a un tratto fa freddo, mi sento gelare, ho fretta di tornare a casa, il pittore ci aspetta. Gli ho promesso di far presto a tornare a casa, mi aveva pregato di andargli a comprare dei lacci per le scarpe in paese. Sono di nuovo uscito e mi sono fermato sulla piazza del paese. Già, cosí stanno le cose. E poi subito: «I lacci per le scarpe». Poi faccio anche un salto al cimitero per domandare qualcosa allo scuoiatore. Quando arrivo lassú non riesco piú a ricordare che cosa volessi domandargli. Lui si trova esattamente nel punto in cui qualche minuto prima l’avevo visto nella mia mente, si potrebbe anche dire, dove l’avevo visto in sogno. È vestito come l’avevo immaginato. Lui esce fuori dalla tomba e io metto in tasca i lacci per le scarpe del pittore. «Volevo domandarLe qualcosa, ma ora non ricordo piú che cosa, – dico io. – Me ne sono dimenticato». «Domandare qualcosa a me?» dice lui e ridiscende nella tomba. Vedo soltanto la sua testa, faccio un passo avanti e vedo la sua schiena. «Una tomba», dico io. Lui dice: «Come, una tomba?» «Quella è una tomba, no, che altro può essere? Una tomba profonda». «Una tomba, sí, – disse lui. – Perché?» «Sa, perché? Com’è profonda una tomba come questa!» dico io. Gli uomini – per qualche tempo – se ne vanno in giro per il mondo che a loro sembra un posto dove si possa andare in giro – ma chi l’ha detto? e poi cascano in una tomba come questa. A chi sarà venuta l’idea di far andare in giro gli uomini per il mondo – o per quello che si chiama mondo – per poi far sí che vengano sepolti in una tomba, nella loro tomba? «Questo è un vecchio albero». E dopo un certo tempo io dico la stessa cosa a proposito di un uomo senza sapere che sto dicendo la stessa cosa, dico: «Quello lí ormai è vecchio, non è vero?» «Sí, – dice lo scuoiatore, – quello lí ormai è vecchio!» e poi: «Come si sta in canonica? Fa freddo?» «Sí, – dice lui, – molto freddo». «Che c’è di nuovo in città? Molta gente, vero?» «Sí, molta gente», dice lui. «E come sarà il tempo domani? Si può sperare?» «Sperare? Sí, – dice lui, – sperare sí». «E perché questa fossa si deve già scavare oggi visto che il funerale si fa dopodomani?» «Perché? Il funerale si fa dopodomani, – dice lui. – Dopodomani pomeriggio». «Sí, dopodomani pomeriggio». «Deve far freddo là sotto», dico io. E lui dice: «Freddo. Sí, deve far freddo là sotto». Che ne sappiamo? Gli domando se prende la mia stessa strada. Sí, prende la mia stessa strada. Che cosa avrà mai dentro al suo zaino, penso io. Prendiamo la scorciatoia per andare in paese. Se avessi delle scarpe piú robuste! Lo scuoiatore dice: «Qui durante la guerra non sono mai mancati i criminali. Ma anche dopo la guerra, quand’ero già tornato a casa. Spaccavano la testa alla gente per una bicicletta o per un tozzo di pane. E pensi un po’: i francesi hanno fatto uscire i detenuti dalle carceri e quelli hanno inondato l’intero paese e in ogni luogo si commettevano omicidi per una coperta o per un cavallo. E poi anche vendette personali! – disse lo scuoiatore. – Il pittore non Le ha mai raccontato nulla di tutto questo? Lui durante la guerra e nel periodo del dopoguerra si trovava a Weng con sua sorella. A quel tempo i contadini non si sono comportati bene con lui. Il pittore in certi periodi era costretto a dormire nella soffitta della locanda perché tutte le camere erano occupate dai soldati». Tra l’altro avevano arrestato l’oste, lo avevano messo al muro e volevano fucilarlo: «Non si sa perché. Ma all’ultimo momento non lo hanno fucilato». «La fabbrica di cellulosa durante gli anni di guerra produceva soltanto armi». Gli aerei che avevano cercato di bombardarla erano andati a sfracellarsi contro le vette delle montagne oppure non riuscendo a veder nulla, ogni volta erano stati costretti a tornare indietro. Come reduce aveva dovuto nascondersi per intere settimane dentro alle baite per il fieno. «Ho dormito per giorni interi nei campi di grano. Il grano di quella stagione era alto. Mangiavo rape novelle e grano, – disse lui, – nella valle regnava un gran silenzio». Di tanto in tanto si udiva ancora qualche sparo. Nessun treno. Niente. I ponti erano crollati. Blocchi di rocce fatte saltare erano caduti sui binari del treno. Avevano messo delle guardie davanti alle case. Il giorno in cui le ritirarono, lui venne fuori dal campo di grano e andò in paese. Si procurò un vecchio paio di pantaloni e una vecchia giacca, si tolse l’uniforme e s’infilò quel vecchio paio di pantaloni e quella vecchia giacca. Poi si presentò in municipio dove erano grati a chiunque si presentasse. Avevano bisogno di un becchino. «Trovai subito il lavoro che faceva per me».
Divenne scuoiatore una settimana dopo quando nel bosco di larici scoprirono duecento cavalli morti che già da molti giorni emanavano un odore terribile che evidentemente non si sapeva da dove venisse, il vento doveva certo soffiare dalla parte opposta, ché altrimenti non si sarebbe potuto sopportare quell’odore. «Ho dovuto lavorare giorno e notte. Separare i cavalli morti dagli uomini morti. Ai cavalli abbiamo semplicemente dato fuoco. È stato un fuoco enorme, – disse lo scuoiatore. – I soldati li abbiamo sepolti a mucchi. Un centinaio di giovani arrivati a cavallo da chissà dove. Non si sa da dove né si sa chi li abbia ammazzati. Si presume le mitragliatrici francesi... Sí, è quel che si presume». Quando mi congedai da lui sulla piazza del paese, disse: «Tutto puzzava di cadavere!» E io andai all’ufficio postale.
Decimo giorno
Oggi per la prima volta ho sognato Strauch; dopo quel sogno, anzi già durante quel sogno, mi venne in mente che da molto tempo avevo completamente smesso di sognare, io almeno negli ultimi tempi non riesco a ricordare nessun sogno, ma questa mia osservazione si basa certo su un errore, su uno di quegli «errori che distolgono dal pensiero della morte», poiché «l’uomo nonsognatore» non esiste e le notti sono sogni, null’altro che sogni, che però non si possono vedere, benché si possano ugualmente percepire, anche se questa percezione avviene senza che vi partecipi la coscienza; io dunque per la prima volta ho sognato Strauch. Mi trovavo in una clinica di una grande città in un edificio composto da tutte le cliniche che avevo viste e visitate nel corso della mia vita, occupavo già la posizione di medico, ero – come mi dicevano da tutte la parti mentre attraversavo quella grande clinica – un «medico stimato», anzi, un «medico famoso», un «luminare» dicevano da tutte le parti, udivo la parola «luminare» giungermi da ogni lato, da tutte le direzioni, tutto rimbombava per effetto e di fronte alla parola «luminare» cui s’alternava l’espressione «luminare della medicina», il mio era un tormentoso attraversareil-concetto-di-luminare, correvo, ma non riuscivo a correre poiché «un luminare non attraversa le stanze di corsa», pensavo io, non mi dominavo, ma ero dominato; passavo attraverso enormi stanze piene di malati nelle quali mi aspettavano schiere di pazienti che s’inchinavano al mio passaggio, avevano un modo talmente curioso di premere la testa completamente contro il pavimento che io non riuscivo a vedere i loro volti, vedevo solo le loro lunghe schiene magre carnose o adipose, vedevo queste schiene e la parte anteriore dei piedi di queste persone, ero stranamente capace di chiamarli tutti per nome, ne chiamai alcuni e fu penoso quando questi pochi chiamati da me si fecero avanti staccandosi dalla massa dei pazienti e mi raccontarono la storia della loro malattia, comunicandola in realtà solo attraverso una serie di orribili espressioni dei volti; mi seguiva un corteo di medici, tra i quali l’assistente e molte persone che sono indubbiamente dei luminari, che mi avevano interrogato agli esami, che mi avrebbero interrogato ad altri esami, mi seguivano intruppati formando un corteo di medici spaventosamente congestionato e, come se fossero stati condannati «all’anonimato medico», tutti reagivano a ogni mio cenno, a tutto ciò che io sembravo voler esprimere. Dissi: «Esistono naturalmente delle costellazioni che proibiscono la vita» (riesco a ricordare esattamente questa frase); a questa frase reagirono nel modo seguente: negando che quelli tra i pazienti che parevano ribellarsi a quella mia frase avessero la capacità di ragionare; li fecero semplicemente star zitti; quei pazienti che non si lasciavano zittire vennero da loro allontanati, resi invisibili, ridotti senza volto ai miei occhi; su questo fatto il corteo dei medici scoppiò in una risata agghiacciante. Io dissi: «La vita proibisce alcune vite!» al che loro minacciarono severe punizioni ai pazienti che avessero osato ribattere alla mia frase; i medici stessi ridevano sempre più forte; quando quelle risate divennero intollerabili fuggii in un’altra stanza, mi trovai in una stanza tutta piastrellata di bianco, simile all’interno di un mattatoio, in una stanza completamente vuota, in cui il corteo dei medici mi lasciò entrare completamente solo. Io però avevo la sensazione che il corteo dei medici fosse dietro alla porta che si era richiusa alle mie spalle. All’improvviso nel centro della stanza vidi un tavolo operatorio che inizialmente era vuoto; all’improvviso vidi Strauch legato con delle cinghie al tavolo operatorio. All’improvviso davanti a me – a portata di mano – si librava nell’aria un armamentario di strumenti chirurgici. Strauch giaceva immobile legato al tavolo operatorio che continuava a muoversi descrivendo dei semicerchi. La cosa spaventosa era che questo tavolo operatorio si muoveva in continuazione; appena mi avvicinavo si muoveva e io mi resi conto che su questo tavolo non sarei riuscito a lavorare. «No!» urlai. Il corteo dei medici che stavano fuori dalla porta con aria minacciosa scoppiò invece in una risata. Gridavano: «Operi! Operi pure!» e ridevano. In mezzo alle risate del corteo dei medici continuavo a udire l’assistente che diceva: «Su avanti, tagli! Che cosa aspetta? Su avanti, tagli! Lei deve tagliare! Incominci! Non vede che deve tagliare? Lei verso mio fratello è debitore di tutto». Allora incominciai a operare; non so di quale operazione si trattasse, eseguii simultaneamente tutta una serie di operazioni; un’operazione a milzareni-polmoni-cuore-testa; e tutto questo su un tavolo operatorio che continuava a muoversi, a muoversi per giunta in modo irregolare. A un tratto mi accorsi di aver compiuto delle operazioni precise. Quel corpo non era nemmeno più riconoscibile come corpo. Sembrava un pezzo di carne che io avessi tagliato a pezzi in modo rigoroso e impeccabile ma completamente folle e che ora ricucivo in modo impeccabile ma come se fossi impazzito. Durante queste operazioni eseguite ciascuna secondo i metodi più rigorosi fui sopraffatto dalle risate del corteo dei medici che aspettavano fuori dalla porta e che – a quanto pare – seguivano ogni taglio con scrosci di risate e rigurgiti della loro saccenteria di specialisti. Infine parve loro che l’operazione fosse terminata e riuscita, mentre io personalmente ero convinto di non aver fatto altro che squarciare e tagliare, squarciare e ricucire in modo del tutto sbagliato. Entrarono numerosi in sala operatoria gridando che avevo compiuto un’impresa magnifica, la più grande impresa che si potesse compiere nel campo medicochirurgico, esultavano e mi portavano in trionfo e tutti volevano stringermi la mano, baciarmi la mano, una spaventosa esplosione di giubilo; mentre, sollevato da loro, guardavo in giù dall’alto del soffitto della sala operatoria, vidi un mucchio di carne completamente mutilata che pareva muoversi per effetto di impulsi elettrici, contrarsi convulsamente, un mucchio di carne fatta completamente a pezzi che buttava fiotti di sangue, buttava sangue ininterrottamente, enormi quantità di sangue, e piano piano sommergeva nel sangue tutto, il corteo dei medici, tutto; anche le grida dell’assistente, quelle terribili frasi che stavano annegando nel mostruoso flusso di sangue del fratello: «Non temere, l’operazione è riuscita! Sono tuo fratello, tuo fratello! Non temere, l’operazione è riuscita...» Quando mi svegliai dovetti aprire la finestra e sporger fuori la testa. Avevo la sensazione di star per soffocare. Fuori però c’era la luna, e le stelle mi parvero ancore di salvezza. In quel sogno tutti gli appartenenti al corteo dei medici – che in parte conoscevo, ma che non conoscevo affatto come poi risultò – avevano voci infantili. Bisogna immaginarseli questi medici – uomini tra i diciannove e i settant’anni, con certi pancioni e certe teste rotonde e tumefatte da professori in medicina – che gridavano e ridevano come dei bambini di tre o quattro anni, come dei tredicenni o dei quattordicenni!
Nell’ospizio dei poveri.
«Un giorno voglio portarla con me all’ospizio dei poveri. Forse non è male che una persona come Lei, ancora inesperta, ho ragione vero? – disse lui, – una volta dia uno sguardo a uno dei più angoscianti spettacoli della miseria umana, al luogo dove si riunisce l’impotenza dei vecchi ridotti ormai soltanto a biascicare qualche parola tra sé e sé. Non credo che questo spettacolo La spaventerà al punto che io poi debba prendermi il capo tra le mani e dirmi: Ah, no, questo non avresti dovuto farlo, portar lì dentro quella persona, metterla a confronto con l’idrocefalo, con la faccia dell’alcolizzato, con la gamba gonfia del fumatore, con lo stupido cattolicesimo dei pensionanti. La vecchiaia è soltanto uno stato di maggior voracità, – disse il pittore, – i vecchi sono in pensione presso i diavoli, le vecchie succhiano poppe celesti! E tutto senza legittima difesa! Questo odore, – disse il pittore, – quando Lei entra nell’ospizio dei poveri non sa se son mele marce oppure seni avvizziti di una droghiera. La cosa migliore sarebbe non respirare, non respirare di fronte a tutto ciò che ancora si prenderà la libertà di capitarci sotto al naso! Ma subito si ha il petto pieno di marciume. A un tratto Lei non riesce più a inspirare, non riesce più a espirare la sporcizia, la vecchiaia, il tanfo di tutta quella mostruosa inutilità, quel malinconico opprimente odore di pus. Sisì, – disse il pittore, – La porterò con me. La condurrò in quel luogo. Lei farà il Suo inchino davanti alla madre superiora. Lei le racconterà qualche piccola storia. La piccola storia della Sua vita e anche a Lei verrà sciorinata qualche storia. Lei sarà straziato! I vecchi sono gli spogliatori di salme dei giovani. La vecchiaia è tutto uno spogliar salme. La vecchiaia divora i giovani finché non è sazia, – disse lui. – Un giorno ecco che arrivo all’ospizio dei poveri e mi metto a sedere, – disse il pittore, – mi portano del pane e del latte e vogliono anche farmi bere un grappino, ma io dico che non voglio la grappa, no, no, niente grappa, dico io, la grappa assolutamente no, e mi difendo, ma loro mi riempiono ugualmente il bicchiere, io allora non la bevo, dico no, non la bevo e la superiora riversa la grappa nella bottiglia, io so che vuole del denaro, tutti qui vogliono del denaro, l’intero villaggio vuole del denaro da me, tutti quanti, tutti vogliono qualcosa, tutti mi prendono per scemo, per uno scemo integrale poiché io li ho fatti tutti ingrassare con consigli proposte istruzioni assistenza sussidi, col denaro, sì anche col denaro, ho scialacquato molto denaro, scialacquato denaro per buttarlo in questo lurido buco... dunque io arrivo lì, – dice il pittore, – rifiuto la grappa e sto ad ascoltare quelle loro richieste da accattoni, li ascolto mentre mi dicono che dovrei dar loro un appoggio, un “piccolissimo appoggio”, che il “Signore” (quale Signore?) me ne renderà “gran merito”, e io sto a sentire tutto questo e guardo la superiora e sento come lei con i piedi preme il pedale della macchina da cucire, lei lavora con la macchina da cucire, fa scorrere sotto l’ago stringendosela contro il seno una logora camicia da uomo, poi anche una giacca, io allora la guardo in faccia, in quella faccia larga e turgida, guardo quelle mani gonfie, quelle sue grandi unghie sporche, guardo sotto alla sua cuffia, sotto alla sua candida cuffia e penso: Ah, è dunque questa la sera all’ospizio dei poveri, una sera che è sempre la stessa sera, che da cent’anni, da cinquecent’anni è sempre la stessa sera che da tutti insieme viene trascorsa cucendo sorseggiando e mangiando, da tutti insieme pregando mentendo e dormendo, da tutti insieme viene resa maleodorante; questa è la sera, penso io, che nessuno si dà pensiero di cambiare e alla quale nessuno pensa, questa è la sera in cui tutto ciò che è ripugnante viene rifiutato dal mondo. Lei deve sapere, – disse il pittore, – che mentre me ne sto seduto lì per un’ora e mi dichiaro pronto a dare un sussidio in denaro a un vecchio, un bottaio dai capelli bianchi che porta dei pantaloni di cuoio e una giacca alla Hubertus, una camicia di lino e un berretto di pelo in testa, mentre io mi dichiaro pronto a comprare dalla superiora il calendario di San Severino, uno di quei disgustosi prodotti dell’ottusità clericale, a un certo punto noto che c’è un uomo disteso sulla panca accanto al muro, completamente immobile, deve sapere, col calendario di San Severino sul petto; quell’uomo è disteso dietro alla madre superiora e io penso: quell’uomo è senz’altro morto, effettivamente, quest’uomo è senz’altro morto, dico a me stesso, mi domando, quest’uomo dev’esser senz’altro morto, questo è l’aspetto di un uomo morto, vecchio e morto, e penso: come mai non l’ho visto per tutto quel tempo, non ho visto quell’uomo morto che sta lì lungo e disteso con delle gambe rigide e secche come se fossero state conficcate nelle fauci dell’eternità. Ma è impossibile che un uomo morto stia lì sdraiato! Non qui! Non ora! Al buio per tutto quel tempo io non avevo notato quell’uomo, anche perché la superiora aveva attirato su di sé tutta la mia attenzione con le sue chiacchiere sul calendario di San Severino. “I proventi del nostro calendario di San Severino saranno devoluti ai poveri delCongo...” È un discorso che sto ascoltando già da un’ora, penso io, e voglio balzar su, andare dal morto, ma in quel momento vedo che l’uomo si sta muovendo, improvvisamente si sta muovendo sulla panca e si sta tirando su fino al mento il calendario di San Severino posato sul ventre per poterlo leggere. Sì, quell’uomo dunque non è morto! Eppure, penso io, continua sempre a sembrarmi morto, i morti hanno quell’aspetto lì, quest’uomo è un morto! Vedo come muove le braccia, come sfoglia il suo calendario di San Severino, come sfoglia avidamente le pagine del suo calendario, ma il suo corpo è completamente immobile, di nuovo penso: già, un morto! Ma poi odo un respiro, il primo respiro di quel “morto”. Sono spaventato, soprattutto spaventato di me stesso per il fatto di non averlo notato per tutto quel tempo. La superiora non aveva detto una sola parola sul fatto che in camera sua ci fosse un altro uomo. Al buio non ero riuscito a vederlo. Tutt’a un tratto, dopo un’ora, vidi il corpo, la testa, forse le gambe, perché effettivamente, non so grazie a che cosa, s’era fatto appena un poco, impercettibilmente, più chiaro, ma quanto bastava per poter vedere l’uomo, forse solo perché i miei occhi s’erano improvvisamente abituati al buio (gli occhi non vedono per molto tempo, deve sapere, gli occhi non vedono, ma improvvisamente riescono a vedere). Improvvisamente i miei occhi videro l’uomo, i miei occhi videro il morto. Stava lì disteso come un pezzo di legno. Ed ecco che il pezzo di legno si mise a respirare, il pezzo di legno respirava e sfogliava il suo calendario. A quel punto dissi alla superiora: “Laggiù è disteso qualcuno! “ Ma lei non reagì affatto alla mia osservazione. Riattaccò una manica che prima aveva staccata. “Laggiù è disteso un uomo!” dissi più distintamente. Lei rispose senza guardarmi in faccia: “Un uomo, sì”. Era terribile il modo in cui lo diceva. Volevo dire: ”Èlì steso come un bambino!” e invece dissi: “Quell’uomo dietro a Lei è lì steso come un cane! Che cosa ci fa qui?” Un uomo simile non può sentire, pensai subito, e di conseguenza posso parlare liberamente con la madre superiora. “Sta leggendo il calendario di San Severino”, dissi io, “benché sia notte, quasi notte”. “Sì”, disse la superiora, “legge il calendario di San Severino”. Allora mi venne da ridere! Scoppiai in una risata soprattutto perché mi venne in mente che avevo scambiato quell’uomo per un morto, l’avevo scambiato per un morto per tutto quel tempo, e dissi anche: “Avevo scambiato quell’uomo per un morto”. Per il gran ridere fui costretto ad alzarmi. Fui costretto a passeggiare in su e in giù. “Per un morto!” esclamai, “per un morto!” Poi improvvisamente mi spaventai, capisce, guardai quel volto che giaceva lì nelle tenebre come sullo specchio d’acqua di un torbido stagno. “Quell’uomo sta leggendo al buio”, dissi io. La superiora disse: “Lui sa tutto, sa tutto quel che c’è scritto nel calendario. Ha imparato tutto a memoria”, disse lei. Non si spostò di un millimetro e continuò a pedalare sulla macchina da cucire. “Ha paura se non sta in camera mia!” disse lei, “urla e getta lo scompiglio in tutta la casa. Se lo lascio star qui tutto è tranquillo e sta tranquillo anche lui. Non ci vorrà più molto perché finalmente si tolga di mezzo”. “Perché finalmente si tolga di mezzo”, aveva detto lei. Voleva che io pagassi anche qualche metro di flanella per fare una camicia al vecchio, ma io le dissi che ci avrei pensato. La consideravo una sfacciataggine quella d’importunarmi ulteriormente con la richiesta di qualche metro di flanella. Poi senza mai muoversi dalla macchina da cucire, deve sapere, mi raccontò la sua infanzia. Son storie che ascolto sempre volentieri. Suo padre era finito sotto al trattore, deve sapere, suo fratello, aiutante nelle battute di caccia, s’era tirato una pallottola in testa per il tedio di vivere. La quotidianità. Lei è il tipo dell’idropica chiacchierona, – disse il pittore. – Ma devo ancora raccontarLe la cosa più importante: ero dunque seduto lì e stavo per congedarmi, quando un rumore tremendo mi fece improvvisamente sobbalzare... Il vecchio era caduto dalla panca, ed era morto. La superiora gli chiuse gli occhi e mi pregò di aiutarla a ridistenderlo sulla panca. Lo feci tremando. Ora io sto respirando l’aria del morto, pensai e mi congedai. Lungo tutta la via del ritorno ebbi questa sensazione: i miei polmoni sono pieni dell’aria del morto. Non mi ero sbagliato, per tutto quel tempo non mi ero sbagliato: quell’uomo era morto, durante tutto quel tempo era già morto. Forse quei suoi movimenti che io avevo visto li aveva solo aggiunti la mia immaginazione, lui era morto sin dall’inizio, nient’altro che morto, mentre la superiora rammendava la sua giacca, la sua camicia, poiché erano la sua giacca e la sua camicia quelle che lei faceva scorrere avanti e indietro sotto l’ago con un’espressione furente in volto, con un’espressione spaventosamente furente in volto. E lui era già morto da molto tempo quando io entrai nella stanza. Questo si può affermarlo con certezza». Il pittore fece un passo indietro e col suo bastone disegnò qualcosa nella neve. Ben presto m’accorsi che si trattava di una piantina della stanza della superiora nell’ospizio. «Ecco la panca dov’era disteso il morto che non avevo visto per un’ora intera, ecco la macchina da cucire, ecco dove stava seduta la superiora, ecco, perché Lei lo sappia, dov’era situato l’armadio, ecco il letto della superiora, ecco il suo comodino da notte; qui vede, mi ero seduto io; là ero entrato dalla porta e avevo salutato la madre superiora. Le ero andato incontro e lei aveva subito cercato di interessarmi al sussidio e al calendario. Sapeva che avrei finito col dare un sussidio e col comprare il calendario, ma tutto questo glielo feci sospirare per un bel po’ di tempo. Credevo di essere solo in camera con lei, com’ero sempre stato solo con lei in camera sua, e chi mai avrebbe potuto immaginare che nella camera della superiora ci fosse un’altra persona, tuttavia m’aveva preso una strana sensazione, una sensazione che non so descrivere. Ed ecco che nella stanza si fece più chiaro, improvvisamente vidi i contorni segaligni del vecchio. Avevo anche detto: “come un cane” alla superiora. Lei aveva persino ripetuto “come un cane”. Il fatto che l’uomo fosse completamente sordo mi fece scoppiare in quella risata. Qui, vede» e disegnò un cerchio fra la panca e la macchina da cucire, «in questo punto giaceva il morto quando lo raccogliemmo da terra. L’intera storia è più che straordinaria e io non l’ho affatto raccontata bene, non l’ho assolutamente raccontata bene; ma Le ho riferito l’accaduto, se anche in questo modo incompleto, solo perché ci dà un’immagine dell’inspiegabile irresponsabilità del mondo. Uno dei prossimi giorni, – disse il pittore, – andremo all’ospizio. Un giovane deve vedere che cosa significhi soffrire, soffrire e morire, che cosa significhi imputridire quando si è ancora vivi». Tornammo a casa rapidamente. All’improvviso il pittore scappò via. A velocità incredibile per un vecchio. Io gli gridai dietro: «Aspetti!» Ma lui non udì. Sparì dalla mia vista in una delle tante conche.
Undicesimo giorno
Alla gente come la moglie dell’oste certi concetti come riverenza e venerazione sono sconosciuti. Lei va in chiesa perché non vuole essere diversa dagli altri. Ché altrimenti – in mezzo a tanta gente che s’è messa in testa che in chiesa bisogna andarci – soccomberebbe. Annegare tra gente di campagna è un modo di annegare miserevole. Loro stanno tranquillamente a guardare la vittima che si dibatte e le onde che si richiudono sopra di lei, come se fosse la cosa piú naturale del mondo: lasciano semplicemente che soccomba un cattivo, un uomo che non è uno di loro. Uno che da loro non s’è mai lasciato dir nulla, che non s’è lasciato convincere da loro. Una persona che sin dall’inizio gli è parsa un’estranea e perciò indegna di partecipare alla loro vita: «La moglie dell’oste è un’estranea», disse il pittore. È sempre stata un’estranea per tutti, poiché suo padre veniva da un’altra regione, da un’altra valle, da una zona vicina al Tirolo. Loro una persona come la moglie dell’oste la considerano un insetto nocivo. Veri contadini. E i veri contadini qui sono ancora la maggioranza benché il loro numero sia ormai enormemente ridotto. Benché il proletariato sia ormai riuscito a far valere certi diritti che solo tre o quattro anni prima sarebbe stato impossibile raggiungere. Il proletariato: null’altro che detriti alluvionali depositati lí nel corso dei decenni, per venir inghiottiti dalla fabbrica di cellulosa, dalla ferrovia e ora anche dalla centrale elettrica. «Ancora si fanno le processioni per il Corpus Domini, – disse il pittore, – e le processioni per la Resurrezione di Cristo, ma per quanto tempo ancora? Il cattolicesimo non conta piú niente. Almeno qui. Il comunismo avanza a grandi passi. Tra un paio d’anni qui ci sarà soltanto il comunismo. E l’esser contadino allora non sarà che un sogno. Che non conduce piú a niente». Disse: «La moglie dell’oste però va in chiesa perché dipende sempre ancora dai contadini. E va alle riunioni dei comunisti perché è costretta ad andare anche lí». Senza di lei la locanda avrebbe certamente già cambiato padrone, poiché «suo marito è un ubriacone che spenderebbe nel bere piú di quanto non guadagni, se non ci pensasse lei a farlo rigar dritto con le sue sfuriate». Sempre ubriaco conduceva la vita di un rospo «perennemente malaticcio e sbavante che di tanto in tanto è libero di dimenarsi selvaggiamente». Spesso giaceva in giardino a braccia larghe, bocca aperta e occhi stravolti, come se fosse morto, mentre era solo gonfio di grappa e di birra. Spesso ordinava una carrozza per tornare a casa invece di farsi la strada a piedi. Poiché lui sa che è lei a tenere insieme tutto, che tutto dipende da lei e che è in suo potere tagliare in modo brutale e spietato il filo al quale lui è sospeso, lui non la manda piú via. Al contrario, lei può permettersi di tutto. È lui caso mai a temere che lei lo mandi al diavolo. Ma la locanda appartiene a lui, questo le impedisce di mettere in atto la piú brutale delle sue intenzioni: metterlo alla porta una volta per sempre. Molto abilmente, poiché non è stupido, lui si è sempre rifiutato di mettere la proprietà a nome di lei, cosa che lei spesso gli aveva chiesto con insistenza, lui s’era rifiutato di rinunciare con un atto notarile in favore di lei persino a una sola parte della proprietà, quella che si componeva di un terreno, di una conca e della locanda. Cosí probabilmente lei lo avrà tra i piedi per sempre. «Spesso dal versante nord della valle – dove andava a ubriacarsi lasciando i conti da pagare – lo riportavano trascinandolo a peso da questa parte», disse il pittore. Ogni tre settimane lei faceva un giro per andare a pagare a tutti gli osti i debiti del marito. Implorava gli osti, cioè la concorrenza, di non dargli piú nulla d’ora in avanti. Ma quelli di lei se n’erano sempre infischiati. Certamente ogni oste è contento se col tempo riesce ad ammazzarne un altro. Loro addirittura lo incoraggiavano. E quando uscirà di prigione le cose riprenderanno lo stesso andazzo. Spesso, quando lei andava a pagare i debiti di lui, sentiva dire di altre donne che avevano mangiato e bevuto con lui e che «anche per il resto s’erano dimostrate d’animo generoso»; ma ci era abituata e lei poi è una che sa rifarsi dei danni subiti. Lei è la figlia di un tracciatore di sentieri il quale morendo non aveva lasciato altro che i debiti del proprio funerale. A quattordici anni era andata a lavorare in una cascina come servetta di stalla. Era sempre stata una gran lavoratrice ed era proprio per questo che a suo tempo aveva fatto drizzar gli orecchi all’oste e l’aveva deciso a portarsela con sé alla locanda.
Il pittore Strauch appartiene al tipo di persone che rendono liquida ogni cosa. Tutto ciò che toccano si scioglie. Il carattere fortissimo. «Non mi possono vedere, perché non c’è nulla che possano vedere», aveva detto e poi: «I principî che mettono in moto i millenni». E anche: «Ogni attività ne presuppone un’altra, ogni genere un altro genere, ogni senso un altro senso, il buon senso, il non senso e viceversa o simultaneamente». La prima colazione per lui «è una cerimonia troppo complicata. Ogni volta che prendo in mano un cucchiaio mi salta agli occhi quanto sia ridicola. Quanto sia insensata. Il cubetto di zucchero poi è un attentato alla mia persona. Il pane. Il latte. Una catastrofe. Cosí il giorno inizia con subdola dolcezza». È tutto rannicchiato sulla sedia, troppo bassa per lui. Eppure mi sovrasta ugualmente. Mi guarda dall’alto in basso, il suo sguardo mi trafigge. «Lasciare che dentro di noi si sviluppi l’ingratitudine, – disse. – Rivolgere l’attenzione a una cosa solo quando si è sicuri che si tratta di una cosa terribile. I fatti si accumulano uno sopra l’altro, dunque anche ciò che è terribile, e anche troppo presto si diventa come il monello che cerca di tirare verso di sé il piano del tavolo, gesto per cui si prenderà una botta in testa dall’alto». La ragione è talmente grande che «non può che naufragare» continuamente. Queste due immagini che ho di me stesso, che corrono una accanto all’altra come due cani che demoliscono tutto abbaiando. «Distruzione volontaria per amore di una possibile maggior semplicità di visione». Lui sussurra e ascolta come questi sussurri fan vibrare le pareti di roccia. «Esiste un impegno verso la profondità del proprio abisso», dice lui. Si è tutto concentrato su se stesso e solo con la brutalità – semplicemente alzandosi – uno riesce a farlo ritornare in sé e a farlo uscire da se stesso. Con una affermazione del tipo: «Ma qui dentro è terribile!» È dominato da se stesso come da un torto subito per tutta la vita, da un meccanismo interno di disintegrazione.
«Esistono quasi soltanto situazioni incresciose, – dice lui, – ma non si possono eliminare. L’opposizione, l’opposizione generale, una caratteristica della giovinezza, incomincia a venir meno. Le forze scemano. Tutto si concentra sul riuscire a ingannare il tempo di cui si dispone... Questo non ha nulla a che fare con i livelli di intelligenza. In genere la gente con un livello basso d’intelligenza se la sa cavar meglio coll’ambiente in cui vive. Pian piano ci si accorge: il mondo e l’ambiente esterno sono situazioni incresciose, sono situazioni catastrofiche. Tutto sommato i cretini che non s’accorgono di questo sono una rarità. I nostri simili? Qualifiche professionali, null’altro. Che ore sono? Le quattro e mezzo? Prendere un po’ d’aria prima di andare a letto, anche questo è un errore madornale. Una osservazione saggia: “il viso grasso e tondo della moglie dell’oste che rimbalza come una palla contro l’ingegnere”. Già, l’ingegnere, – dice lui. – Sa, il gelo deturpa tutti gli uomini. Il gelo e le donne uccidono gli uomini. All’alba sta seduto sopra i suoi progetti e non diventa pazzo. Tutti ora se ne stanno con le mani in mano. Tutti questi uomini che se ne stanno con le mani in mano ora debbono essere pagati: l’arrivo improvviso del gelo costa centinaia di migliaia di scellini! E il tempo non migliora! Per quanto mi riguarda io ho una predilezione per i giorni invernali freddi e pungenti».
Il modo in cui mette in rapporto la locanda con un villaggio alpino della Carinzia e con una ballerina, apparsa una sola volta all’opera, che lui definisce «un talento naturale ma molto pericolosa», è un fatto rivelatore. Mette in rapporto con Napoleone III un verduraio che un giorno gli aveva dato un colpo in testa scambiandolo per un ladro di pomodori. Mi pare che mentre sta ancora parlando del taglialegna che ha visto morire, lui stia già pensando alla grande tragedia dei quattrocento montanari colti di sorpresa e uccisi da una tempesta improvvisa. E poi sempre a se stesso. Un colpo di vento lo aveva gettato contro un muro, in quel momento – a quanto pare – gli era venuto in mente un celebre acrobata. «Faceva quattro giravolte per aria lanciandosi da un cavallo all’altro a velocità spaventosa». Quando dice «Londra» gli appaiono certe piazze nella periferia di Budapest. Parti del basso Danubio lui riesce a farle confluire senza alcuna difficoltà nell’alto Reno. Scambia un delta con l’altro. «In realtà è il mio senso dei colori, – dice lui. – Ma anche certe mescolanze di odori hanno il loro peso». Riesco benissimo a immaginare come lui – trentenne – attraversasse piazze affollate infischiandosene della sua capitale morta e malata di megalomania. Infischiandosene tanto del provinciale e del dilettantesco quanto dell’«enorme» o dell’impalpabile. Il suo disprezzo per la città non è frutto di ignoranza, lui stesso viene da una grande città. Da molte miglia di distanza vede ritornare dentro di sé un pensiero perduto da lungo tempo. «Il delitto ha sapore di miele», era una sensazione che provava spesso. Con la bocca parla dei mezzi di produzione nella fabbricazione della carta e con le mani si fruga nelle tasche della giacca. Le sue immagini si muovono davanti a lui piú veloci di quanto lo voglia il suo corpo. «Tutti i tram hanno i loro capolinea nel mio cervello», dice lui, e trasforma un immenso sistema di spunti e di significati in una fabbrica di pensieri in cui lui cerca di mettere ordine: il caos mostruoso della Storia. «Da decenni io soffro di un eccesso di attenzione, Lei sa che cosa significa questo?» Se parla di una tragedia, il suo volto si mostra insensibile a questa tragedia. Quando è stato? «Ho inventato la notazione musicale della mia paura», dice. Delle tre persone che lui è simultaneamente, non sa quale si trovi qua o là, quando e dove. Stare all’erta non deve necessariamente significare volere qualcosa di male. Di tutto s’impossessa morbosamente l’orrore, e «all’uomo innocuo spettano anche tutte le incombenze che sono dell’uomo distruttivo, non è forse cosí?»
Aveva preso il sentiero infossato nel bosco. Sulle prime riusciva soltanto a farsi strada a fatica nella neve fonda, «ricorrendo a tutte le mie forze in dissesto». «I rami mi balzavano in faccia come bestie feroci, sa! Ma poi mi ero persino messo a correre come prima della malattia. Quasi non riuscivo piú a raggiungere uno stato di quiete. La mia testa mi aveva completamente in suo potere, sa!» Le tenebre lo avevano costretto a prendere il sentiero infossato. «Avrei potuto benissimo andar dritto, arrivare al mucchio di fieno e poi continuare ad andare avanti. Invece no, ho preso il sentiero infossato nel bosco. Quel sentiero inizia esattamente là dove ieri ho visto spuntare quelli che stavano andando in chiesa. Erano persone di un tipo che non avevo ancora mai incontrato, venivano, come mi sembra, dal versante nord della valle, gente di un’epoca antica di millenni, uomini alti che incedono come se non facessero che passare accanto alle cose. Come se passassero accanto a un mondo che a loro sembra troppo corrotto e meschino. Passavano accanto a una posterità contro la quale un tempo erano già stati messi in guardia. Mi fecero pensare a dei cervi, tanto erano giganteschi e regali quando mi apparvero davanti. Fuggii nel sentiero infossato perché pensavo: cosí mi verranno altre idee. Volevo far prendere a tutto un’altra direzione, a tutto ciò che era stato cosí triste durante l’intera giornata, come gli squarci della mia infanzia in cui era meglio non entrare perché era impossibile uscirne». E invece rimase deluso. Una nevicata improvvisa lo sorprese a metà del sentiero infossato. Allora si sedette sopra un ceppo, «su un piccolo ceppo completamente marcio sul quale riuscivo appena a trovar posto», per aspettare la fine della nevicata. «Ma come si fa ad aspettare la fine della nevicata? A che pro’?» Convintosi di colpo di quanto fosse insensato stare ad aspettare la fine della nevicata, aveva ripercorso all’indietro – carponi – tutto il sentiero. «A quattro zampe come un animale selvatico che se ne sta sempre rintanato al buio, nelle tenebre». Era riuscito a tornar fuori dal sentiero relativamente in fretta. «Sin da bambino mi aveva sempre spaventato il pensiero dei sentieri infossati nei boschi, – disse lui. – Mentre stavo seduto sul ceppo ebbi la sensazione di addormentarmi, di affondare». Nel provare quella sensazione si sentiva bene. Quella sensazione lo dominava e lui la assecondava in modo da esaltarla. «Voluttà, – disse lui. – Come quando finalmente ci si addormenta dopo una enorme fatica, cosí come scompaiono ai nostri occhi, le grandi città che si è costretti ad attraversare di corsa, come gli artigli delle belve si ritraggono nelle loro gabbie». Come uno che stia per addormentarsi e cerchi una posizione comoda, in modo del tutto animalesco, lui s’era messo in una posizione comoda. Allora di colpo gli entrò in testa quanto fosse assurdo aspettare la fine della nevicata. E se la diede a gambe, prima a rapidi balzi, poi lentamente, affondando sempre di piú, spazzando la neve col petto. «Sarebbe stata la mia tomba», disse.
Credeva d’aver dimenticato la sua giacca in sala ed era sceso giú ancora una volta. Lo vidi scendere, ma per una qualche ragione non riuscii a domandargli perché fosse apparso di nuovo dopo essersi già congedato per la notte. Avrei ben potuto domandare: «Ha bisogno di qualcosa? Che cosa sta cercando?» A quel punto lui era già arrivato in fondo alle scale. «La mia giacca dev’essere appesa in sala», disse. Io andai in sala a cercare la sua giacca, ma non la trovai. Domandai alla moglie dell’oste e ad altre persone, ma nessuno sapeva niente della sua giacca. Il pittore stava ancora nel vano della porta e mi osservava. Avevo la sensazione che mi esortasse a cercare la sua giacca in questo e in quel luogo; che mi schiacciasse sul pavimento, che mi sollevasse in alto tra la stufa e la parete, fino al grosso trave da cui si vede l’intera sala. Non vedevo la sua giacca. La sala era piena da scoppiare. Ora un paio d’altre persone s’erano messe a cercare anche loro. Vidi una moltitudine di volti nuovi. Sembrava che si fossero riunite tutte le maestranze del cantiere della centrale: migliaia! Era come se nuotassi sulla superficie di un mare di nebbia. Mi pareva che alcuni mi guardassero come da dietro una siepe di sterpi secchi. Come nella giungla. Perlustrai le pareti, ma non riuscii a trovare la giacca. Volli essere scrupoloso e cercai ancora una volta sul pavimento. La giacca poteva essere caduta. Anche la moglie dell’oste si chinò. «No, qui non ci sono giacche», disse lei. Feci ancora un controllo fra le molte tute da lavoro appese alle pareti. Nessuna traccia della giacca del pittore. Quando fui di nuovo in corridoio dove credevo si trovasse il pittore, lui era scomparso. Che sia salito in camera sua? pensai. Ma no: non può essere andato su tanto in fretta. «Signor Strauch!» chiamai. Nessuna risposta. Allora vidi che la porta di casa era solo accostata. Il pittore stava seduto là fuori sulla panca. «Ignoro il freddo», disse e si strinse ancora di piú nella giacca che ora all’improvviso aveva addosso. «Dove ho trovato la giacca?» L’aveva appesa alla porta di casa quando era tornato dalla passeggiata e se l’era dimenticata. «Lei non ha mica passato tutto questo tempo a cercare la mia giacca?» Senza pensare si appende o si appoggia qualcosa da qualche parte, la si dimentica e per questo ci si riduce in uno stato terribile. «Sto meditando su cosa succederà quando un giorno tutto sarà nero, – disse lui. – Quando non ci saranno piú colori all’infuori del nero». Poi mi spiegò molte delle stelle che lassú in alto nel cielo formavano un firmamento meraviglioso, come non lo si vedeva da tempo.
Dodicesimo giorno