venerdì 13 marzo 2020




FUOCO PALLIDO
Vladimir Nabokov
Adelphi


PRESENTAZIONE 
Nel dicembre del 1961, sei anni dopo la pubblicazione di Lolita, Nabokov termina Fuoco pallido, prodigio di invenzione e, per alcuni, summa della sua opera: romanzo audace e segreto, che risulta anche più sconcertante quanto alla forma, poiché è costituito da un magistrale poema di 999 versi con relativo commento.
Al centro del poema il sessantunenne John Shade, celebre poeta nonché professore al Wordsmith College di una immaginaria cittadina americana della Costa orientale. In quest’opera i ricordi di una vita si mescolano a interrogativi metafisici sull’«abisso immondo, intollerabile» della morte, divenuti sempre più pressanti dopo il suicidio della giovane figlia. Eppure il poema si chiude su un’ironica quanto serena dichiarazione di fede in un vago aldilà di cui l’arte, con la sua armonia, rappresenta una tacita promessa.
Shade ignora che la morte, beffarda, è di nuovo in agguato.
Al centro del commento, invece, lo snob, egocentrico, bizzarro, importuno Charles Kinbote, visiting professor nella medesima università, nonché amico ed estimatore di Shade. Le sue note - ora pettegole, ora accademiche, ora nostalgiche - vorrebbero condurre il lettore a una corretta interpretazione del poema ricostruendo le affascinanti avventure del suo presunto ispiratore, vale a dire Kinbote stesso, esule di alto lignaggio da Zembla, regno immerso nelle brume di un’esotica Europa. Ma quelle note finiscono per suonare come un’esilarante parodia di due mondi contrapposti, l’aristocratica Zembla precipitata nella Rivoluzione Estremista e la borghese, prosaica, benpensante America che ha accolto il fuggitivo in pericolo.
Mirabile mimesi della realtà, Fuoco pallido ci guida così alla ricostruzione di uno scenario complesso attraverso tortuosi e frammentari percorsi che aprono interrogativi sempre nuovi: Kinbote è un re in esilio, un pedante profugo di terre lontane, o un soggetto psichiatrico afflitto da monomania? E il poema stesso è autentico, o non piuttosto una parodia, o magari un plagio?
Plurimi sono i livelli di realtà che si intersecano nel libro, i falsipiani che moltiplicano le prospettive dell’intreccio rendendolo vertiginoso: Fuoco pallido si avvia sereno come una pastorale, esplode in commedia festosa, si inerpica fino al culmine dolente di un’elegia, prende il largo sotto le sembianze di racconto avventuroso, ma la sua nota dominante resta quella tragica della solitudine.
Fuoco pallido, scritto in inglese tra il 1960 e il 1961, apparve nel 1962.

A Véra
Ciò mi ricorda il comico resoconto, che egli fece al signor Langton, della miserevole condizione di un giovane gentiluomo di buona famiglia. «Signore, l’ultima volta che sentii parlare di lui, correva per la città sparando ai gatti». E poi, in una sorta di benevola fantasticheria, si ricordò del suo gatto prediletto e disse: «Ma a Hodge non sparerà: no, no, a Hodge non sparerà».
James Boswell, Vita di Samuel Johnson

PREFAZIONE
Fuoco pallido, poema in distici eroici di novecentonovantanove versi, suddivisi in quattro canti, fu composto da John Francis Shade (nato il 5 luglio 1898 e morto il 21 luglio 1959) durante gli ultimi venti giorni di vita, nella sua abitazione di New Wye, Appalachia, USA. Il manoscritto, quasi per intero una Bella Copia dalla quale è stato fedelmente tratto il presente testo a stampa, consiste di ottanta schede di formato medio; su ognuna di esse Shade aveva riservato la prima riga in alto, color rosa, alle intestazioni (numero del canto, data), e le quattordici righe azzurre al testo del poema, scritto con penna a punta fine e una grafia minuta, ordinata, straordinariamente leggibile, saltando una riga per indicare un doppio spazio e usando una scheda intonsa per ogni nuovo canto.
Il breve (166 versi) Canto Primo, con tutti quegli uccelli e pareli dilettevoli, occupa tredici schede. Il Canto Secondo, il vostro preferito, e quello sconvolgente tour de force che è il Canto Terzo sono di lunghezza identica (334 versi) e riempiono ventisette schede ciascuno. Il Canto Quarto torna alla lunghezza del Primo e occupa anch’esso tredici schede di cui le ultime quattro, utilizzate il giorno della morte, contengono una Minuta Corretta anziché una Bella Copia.
Uomo metodico, John Shade era solito trascrivere la porzione giornaliera di versi completati a mezzanotte, ma anche quando li ricopiava di nuovo più tardi, come ho il sospetto che abbia fatto talvolta, non segnava sul cartellino la data delle modifiche definitive, bensì quella della Minuta Corretta o della prima Bella Copia. In altre parole, conservava la data della creazione vera e propria e non quella del secondo o terzo ripensamento. Davanti al mio alloggio attuale c’è un parco di divertimenti molto rumoroso.
Di conseguenza, disponiamo del calendario completo del suo lavoro. Iniziò il Canto Primo alle ore piccole del 2 luglio e lo terminò il 4 luglio. Cominciò il Canto Secondo il giorno del suo compleanno e lo concluse l‘11 luglio. Il Canto Terzo richiese un’altra settimana. Il Canto Quarto ebbe inizio il 19 luglio e, come già indicato, l’ultimo terzo del testo (versi 949-999) consiste di una Minuta Corretta. La minuta si presenta molto tormentata, pullulante di cancellature devastanti e di aggiunte catastrofiche, e non segue le righe della scheda con la stessa scrupolosità della Bella Copia. Ma, una volta che ci si tuffi sotto la sua superficie confusa, obbligandosi ad aprire gli occhi nelle limpide profondità, si scopre una precisione mirabile. Nessun verso lacunoso, nessuna interpretazione incerta. Questo fatto da solo basterebbe a dimostrare che le accuse mosse (il 24 luglio 1959) in una intervista apparsa su un giornale e rilasciata da uno dei sedicenti estimatori di Shade - il quale affermava, senza avere visto il manoscritto del poema, che esso «consisteva di minute incoerenti, nessuna delle quali fornisce un testo preciso» -
sono una malignità inventata da coloro che vorrebbero non già e non tanto lamentare la condizione in cui l’opera di un grande poeta è stata interrotta dalla morte, quanto denigrare la competenza, forse addirittura l’onestà, dell’attuale curatore e commentatore.
Un’altra dichiarazione pubblica del Prof. Hurley e della sua conventicola si riferisce a una questione strutturale. Cito dalla medesima intervista: «Nessuno può sapere quale lunghezza dovesse avere il poema nelle intenzioni di John Shade, ma non è improbabile che quanto ci ha lasciato rappresenti soltanto una piccola parte del componimento che egli vedeva in un cristallo, indistintamente». Altra sciocchezza! A parte l’evidenza intrinseca che squillante risuona per tutto il Canto Quarto, esiste la dichiarazione di Sybil Shade (in un documento datato 25 luglio 1959) secondo cui il marito «non si propose mai di andare oltre quattro parti». Per lui, il Canto Terzo era il penultimo, e io stesso gliel’ho sentito dire durante una passeggiata al tramonto, allorché, quasi pensasse ad alta voce, riesaminava il lavoro della giornata gesticolando con perdonabile autoapprovazione, mentre il suo discreto compagno si sforzava invano di adeguare il ritmo dell’andatura tipica di chi ha gambe lunghe al passo strascicato, tutto scatti, del vecchio poeta scarmigliato. No, arrivo persino ad affermare (mentre le nostre ombre ancora camminano, senza di noi) che un solo verso del poema rimaneva da scrivere (vale a dire il verso 1000), e sarebbe stato identico al verso 1, a completamento della struttura simmetrica: identiche le due parti centrali, compatte e ampie, onde formare, insieme con i due fianchi più brevi, due ali gemelle di cinquecento versi ciascuna, e accidenti a quella musica. Conoscendo la mentalità combinatoria di Shade e il suo acuto senso dell’equilibrio armonico non riesco a figurarmi che egli intendesse deformare le facce del suo cristallo ritoccandone la prevedibile crescita. E, se ciò non bastasse - ma basta, eccome! -, mi sono trovato nella drammatica circostanza di ascoltare la voce stessa del mio povero amico mentre dichiarava, la sera del 21 luglio, la fine, o pressoché la fine, delle sue fatiche.
Il gruppo di ottanta schede era tenuto assieme da un elastico che ora rimetto religiosamente al suo posto, dopo averne esaminato il prezioso contenuto per l’ultima volta. Un altro mucchietto più scarno, di una dozzina di schede, tenute assieme da una graffetta e inserite nella medesima busta del lotto principale, contiene ulteriori distici che seguono il loro breve, e a volte impiastricciato corso, fra una confusione di prime stesure. Di regola, Shade distruggeva le minute nell’attimo stesso in cui non gli servivano più: ricordo bene di averlo visto dalla mia veranda, in una tersa mattina, bruciarne una bella pila nel fuoco pallido dell’inceneritore, dinanzi al quale egli stava immobile, la testa china, simile a una prefica silente tra le nere farfalle portate dal vento di quell’autodafé casalingo. Ma conservò quelle dodici schede grazie alle inusitate espressioni felici che rilucevano tra le scorie delle minute utilizzate.
Forse, aveva un vago proposito di sostituire qualche passaggio della Bella Copia con alcuni incantevoli scarti del suo archivio; o forse, e più probabilmente, una predilezione inconfessata per questa o quella immagine, che l’architettura del poema consigliava di eliminare, o che Mrs S. non gradiva, lo avevano indotto a rimandare la distruzione fino al momento in cui la definitività marmorea di un dattiloscritto immacolato ne avrebbe confermato il pregio o avrebbe reso pesante e impura anche la più deliziosa delle varianti. E forse, permettetemi di aggiungere in tutta modestia, si riprometteva di chiedere il mio parere dopo avermi letto il poema, come so che aveva intenzione di fare.
Nelle mie note, il lettore troverà le varianti eliminate. La loro collocazione è indicata, o per lo meno suggerita, dalla stesura dei versi definitivi nelle loro immediate vicinanze. In un certo senso, molte di esse sono superiori, sotto il profilo artistico e storico, ad alcuni tra i passi migliori del testo finale.
Adesso devo spiegare come è successo che sia stato io il curatore di Fuoco pallido.
Subito dopo la morte del mio caro amico, persuasi la vedova sconvolta a prevenire e a vanificare la bramosia commerciale e gli intrighi accademici che inevitabilmente avrebbero turbinato attorno al manoscritto del marito (manoscritto che avevo provveduto a mettere al sicuro prim’ancora che il corpo avesse raggiunto la tomba) firmando un accordo nel quale si dichiarava che egli aveva consegnato il manoscritto a me; che io ne avrei curato la pubblicazione immediata, completa di mio commento presso un editore di mia scelta; che tutti i proventi, salvo la percentuale di spettanza dell’editore, sarebbero andati a lei; e che il giorno stesso della pubblicazione il manoscritto sarebbe stato consegnato alla Biblioteca del Congresso, per esservi custodito in perpetuo. Sfido qualunque critico serio a dimostrare che il contratto non era equo. Ciò nonostante, è stato definito (dall’ex legale di Shade)
«un’assurda farragine di malvagità», mentre qualcun altro (il suo ex agente letterario) si domandava, con un ghigno, se la firma tremolante di Mrs Shade non fosse per caso stata apposta «intingendo la penna in un tipo speciale di inchiostro rosso». Cuori simili, menti di tal fatta non sarebbero in grado di capire come l’attaccamento a un capolavoro possa essere assolutamente irresistibile, soprattutto quando è il rovescio della trama a estasiare lo spettatore nonché unico ispiratore, il cui passato ivi s’avvolge e intreccia con il destino dell’autore ignaro.
Come ho accennato, mi pare, nell’ultima nota al poema, l’esplosione di quella bomba di profondità che fu la morte di Shade fece saltare tali segreti e mandò in superficie tanti pesci morti, che fui costretto a partire da New Wye subito dopo l’ultimo colloquio che ebbi con l’assassino in carcere. Dovetti rimandare la stesura del commento fino a quando non riuscii a trovare un nuovo posto, più tranquillo, dove vivere in incognito; ma era necessario sistemare immediatamente le questioni pratiche relative al poema. Presi un aereo e andai a New York, feci fotografare il manoscritto, raggiunsi un accordo con un editore di Shade, ed ero sul punto di concludere quando, per puro caso, nel bel mezzo di un tramonto grandioso (eravamo seduti in una cella tutta noce e vetro, cinquanta piani sopra le processioni di scarabei) il mio interlocutore disse: «Sarà lieto di sapere, Dr Kinbote, che il Professor Tal dei Tali [uno dei membri del comitato Shade] ha acconsentito a prestare la sua consulenza per la pubblicazione del materiale.
Ora, «lieto» è un termine molto soggettivo. Un proverbio zemblano, dei più stupidi, dice: «Il guanto perduto è lieto». All’istante richiusi il fermaglio della borsa e mi recai da un altro editore.
Immaginate un gigante tenero e goffo; immaginate un personaggio storico la cui conoscenza del denaro si limiti agli astratti miliardi di un debito nazionale; immaginate un principe in esilio ignaro della Golconda celata nei suoi gemelli da polso, Questo per dire - si tratta di una iperbole, ovviamente - che sono la persona meno dotata al mondo di senso pratico. Tra un individuo del genere e una vecchia volpe dell’editoria i primi contatti sono disinvolti e camerateschi in modo commovente, con prese in giro bonarie e affabilità d’ogni genere.
Non ho motivo di supporre che in futuro possa mai accadere qualcosa tale da impedire che un simile rapporto iniziale con il buon vecchio Frank, mio attuale editore, permanga immutato.
Frank mi ha comunicato di avere ricevuto, sane e salve, le bozze in colonna che mi erano state inviate qui e mi ha chiesto di segnalare nella Prefazione e lo farò ben volentieri - che l’unico responsabile di eventuali errori nel commento sono io. Inserirlo.
Un correttore di bozze di professione ha collazionato accuratamente il testo a stampa del poema e la fotocopia del manoscritto, riscontrando alcuni refusi insignificanti che mi erano sfuggiti; e questo è tutto, quanto a collaborazione esterna. Superfluo dire come avessi sperato che Sybil Shade mi fornisse dati biografici in quantità; purtroppo, se n’è andata da New Wye ancor prima di me e ora abita con alcuni parenti nel Quebec. Naturalmente, avremmo potuto avere uno scambio di corrispondenza molto fruttuoso, ma gli Shadeiani non hanno mollato la presa.
Si misero in marcia alla volta del Canada in branchi, per piombare addosso alla povera signora non appena io persi contatto con lei e con i suoi sbalzi d’umore. Invece di rispondere a una lettera inviatale dalla mia spelonca di Cedarn un mese prima, in cui elencavo alcuni dei miei quesiti più angosciosi - per esempio, il vero nome di «Jim Coates», ecc. -, lei mi inviò all’improvviso un fulmineo telegramma nel quale mi sollecitava ad associare nella cura del poema del marito il Prof. H. e il Prof. C. A che punto ciò mi sorprese e mi addolorò! Com’era naturale, la cosa precluse qualsiasi collaborazione con la fuorviata vedova del mio amico.
E fu davvero un amico carissimo! Il calendario dice che la nostra conoscenza è durata soltanto pochi mesi, ma esistono amicizie che sviluppano la propria durata interiore, i propri eoni di tempo trasparente, immuni dal vocio maligno e mutevole. Non dimenticherò mai l’esultanza che mi pervase quando venni a sapere, come accennato in una nota successiva, che la casa suburbana (presa in affitto, per mio uso, dal giudice Goldsworth, il quale trascorreva in Inghilterra l’anno sabbatico) dove mi trasferii il 5 febbraio 1959 si trovava accanto a quella dell’eminente poeta americano i cui versi avevo cercato di tradurre in zemblano vent’anni prima! A parte quell’affascinante vicinanza, lo château goldsworthiano aveva, come non avrei tardato a scoprire, ben pochi elementi a suo favore. L’impianto di riscaldamento era una farsa, regolato da valvole di tiraggio a livello del pavimento, da dove le esalazioni tiepide di una caldaia tutta gemiti e vibrazioni, sistemata nel seminterrato, si trasmettevano alle stanze, flebili come l’ultimo respiro d’un moribondo. Otturai le aperture del piano superiore per potenziare il flusso d’aria nel soggiorno, ma il clima di quella stanza si dimostrò irrimediabilmente compromesso dall’assenza di una qualsivoglia barriera fra la medesima e le regioni artiche, eccetto una porta d’ingresso tutta fessure, e comunque senza l’ombra di un vestibolo - o perché la casa era stata costruita in piena estate da un ingenuo colono che non immaginava quali inverni gli avrebbe riservato New Wye, oppure perché una signorilità all’antica esigeva che il visitatore inatteso, apparso nel vano della porta spalancata, potesse rendersi conto fin dalla soglia che in salotto non stava succedendo niente di sconveniente.
Anche a Zembla, febbraio e marzo (gli ultimi due dei quattro mesi «dal naso bianco», come noi li chiamiamo) erano piuttosto inclementi, ma là perfino la stanza di un contadino offriva un tutto compatto di calore uniforme, invece di un reticolo di spifferi micidiali. Vero è che, come accade in genere a tutti i nuovi arrivati, mi fu detto che avevo scelto l’inverno peggiore da anni - e questo alla stessa latitudine di Palermo. Una delle prime mattine dopo il mio arrivo, mi stavo preparando per andare al college sulla potente automobile rossa che avevo appena acquistato, quando mi accorsi che Mr e Mrs Shade, di cui non avevo ancora fatto ufficialmente la conoscenza (in seguito avrei saputo che supponevano volessi essere lasciato in pace), sul loro scivoloso vialetto d’accesso erano in difficoltà con la vecchia Packard che emetteva gemiti agonici e non riusciva a districare una martirizzata ruota posteriore da un concavo inferno di ghiaccio. John Shade si dava maldestramente da fare con un secchio dal quale, con gesto da seminatore, attingeva manciate di sabbia bruna che spargeva sulla vitrea superficie azzurrina. Indossava stivali da neve, il bavero di vigogna era alzato e nel sole la massa di capelli grigi appariva coperta di brina. Sapevo che alcuni mesi prima era stato malato; pensai di offrire ai miei vicini un passaggio fino all’università sulla mia potente automobile e mi affrettai alla loro volta.
Una stradina, che girava attorno alla modesta altura sulla quale sorgeva la dimora che avevo preso in affitto, separava quest’ultima dal vialetto del mio vicino, e mi accingevo ad attraversarla quando misi un piede in fallo e caddi a sedere sulla neve inaspettatamente dura. La caduta agì da reagente chimico sulla berlina degli Shade, che si mosse immediatamente e quasi m’investì immettendosi sulla stradina, con John al volante, una smorfia di tensione sul viso, e Sybil che gli parlava con foga. Non sono certo che l’uno o l’altra mi abbiano visto.
Tuttavia, alcuni giorni dopo, il 16 febbraio per l’esattezza, fui presentato al vecchio poeta all’ora di pranzo, al club della facoltà. «Finalmente presentate credenziali» ho annotato, con una certa ironia nella mia agenda. Fui invitato, insieme con altri quattro o cinque eminenti professori, al suo tavolo solito, sotto un ingrandimento fotografico del Wordsmith College quale appariva, stordito e squallido, in una giornata particolarmente deprimente dell’estate del 1903. Il poeta mi consigliò in tono laconico di
«assaggiare il maiale», il che mi divertì: sono vegetariano di rigida osservanza, e preferisco prepararmi i pasti da me. Spiegai ai rubicondi commensali che consumare qualcosa manipolato da un mio simile mi era altrettanto ripugnante che mangiare una qualunque creatura, compresa, soggiunsi abbassando la voce, la polposa studentessa con la coda di cavallo che ci aveva serviti e leccava la matita.
Inoltre, avevo già finito la frutta che avevo portato con me nella borsa e quindi mi sarei accontentato, dissi, di una bottiglia di buona birra del college.
Quel mio comportamento franco e spontaneo mise tutti a proprio agio. Mi furono rivolte le consuete domande: se uno con le mie convinzioni trovasse accettabili i lunch all’uovo e i frullati a base di latte.
Shade disse che egli era l’esatto opposto: doveva compiere un vero e proprio sforzo su se stesso per mangiare un po’ di verdura. Per lui, cominciare una insalata era come bagnarsi in mare durante una giornata gelida, e doveva sempre chiamare a raccolta le proprie forze prima di attaccare la fortezza di una mela. Non ero ancora abituato alle canzonature e alle frecciatine alquanto sfibranti che si scambiano gli intellettuali americani del genere provincial-accademico e, pertanto, mi astenni dal dire a John Shade, davanti a tutti quei vecchi maschi sogghignanti, quanto ammirassi la sua opera, per tema che una conversazione profonda sulla letteratura degenerasse a livello di pura e semplice facezia. Gli chiesi, invece, informazioni su un mio nuovo studente che frequentava anche il suo corso, un ragazzo ombroso, delicato, alquanto splendido; scuotendo risolutamente il ciuffo canuto, il vecchio poeta rispose che da molto tempo aveva smesso di tenere a mente visi e nomi degli studenti e che l’unica persona che riuscisse a richiamare alla memoria, tra quelle che seguivano il suo insegnamento di poesia, era una iscritta ai corsi liberi, una signora con le stampelle. «Andiamo, andiamo,» disse il Professor Hurley «vuoi darci a intendere, John, che non conservi un ritratto mentale o viscerale di quello schianto di bionda in calzamaglia nera che bazzica il corso di letteratura?» Shade, irradiando un sorriso con tutte le sue rughe, batté bonario la mano sul polso di Hurley per farlo smettere. Un altro tormentatore chiese se era vero che avevo fatto sistemare due tavoli da ping-pong nel seminterrato.
Chiesi, era vietato? No, disse, ma perché due? «É vietato?» ribattei, e tutti risero.
Nonostante un cuore instabile (si veda il verso 736), un lieve claudicare, e uno strano contorcimento nell’andatura, Shade aveva una sfrenata predilezione per le lunghe passeggiate, ma la neve lo infastidiva e d’inverno preferiva che la moglie lo andasse a prendere con l’automobile al termine delle lezioni.
Alcuni giorni dopo, mentre stavo per uscire dal Parthenocissus Hall, o Main Hall (adesso, ahimè, Shade Hall), lo vidi fuori dall’edificio, in attesa di Mrs Shade. Mi fermai accanto a lui per un attimo, sui gradini del porticato a colonne, per infilarmi i guanti, dito dopo dito, lo sguardo volto altrove, come in attesa di passare in rivista un reggimento. «Un lavoro meticoloso» commentò il poeta. Guardò l’orologio da polso. Un fiocco di neve vi si poggiò sopra. «Cristallo al cristallo», disse Shade. Mi offrii di accompagnarlo a casa con la mia potente Kramler.
«Le mogli, Mr Shade, sono smemorate». Drizzò la testa ispida per guardare l’orologio della biblioteca.
Due ragazzi fulgidi, in tenute invernali vivacemente colorate, attraversarono, ridendo e scivolando, il desolato spiazzo erboso ricoperto di neve. Shade gettò un’altra occhiata all’orologio da polso, poi, con un’alzata di spalle, accettò la mia offerta.
Volli sapere se non gli dispiaceva che lo accompagnassi facendo il tragitto più lungo, con una sosta al Community Center, dove desideravo comperare biscotti con glassa al cioccolato e un po’ di caviale. Mi disse che per lui andava bene. Dall’interno del supermercato, attraverso una vetrata trasparente vidi il mio vecchietto schizzare in un negozio di liquori.
Quando ritornai all’automobile con i miei acquisti era di nuovo al suo posto, intento a leggere un rotocalco dozzinale che non avrei mai immaginato un poeta si sarebbe degnato di toccare. Un rutto soddisfatto mi rivelò che aveva una fiaschetta di brandy nascosta da qualche parte sotto i suoi caldi indumenti. Come girammo sul vialetto d’accesso di casa sua, vedemmo Sybil che fermava la macchina proprio davanti alla porta d’ingresso. Scesi con cortese sollecitudine. Disse: «Dato che mio marito non ritiene di fare le presentazioni, facciamole da soli. Lei è il Dr Kinbote, vero? Sono Sybil Shade». Si rivolse quindi al marito dicendogli che avrebbe potuto aspettarla nel suo studio ancora un minuto: aveva suonato il clacson e chiamato, era salita fin su, ecc.
Mi girai per andarmene, poiché non intendevo assistere a una scenata coniugale, ma lei mi richiamò:
«Venga a bere qualcosa con noi,» disse «o meglio con me, perché a John è proibito toccare alcolici».
Spiegai che non potevo trattenermi a lungo perché dopo poco a casa mia ci sarebbe stato un piccolo seminario, seguito da un po’ di tennis da tavolo, con due incantevoli gemelli assolutamente identici, e un altro ragazzo.
Da quel giorno cominciai a frequentare sempre più spesso il mio celebre vicino. La vista da una delle mie finestre mi offriva uno spettacolo di prim’ordine, soprattutto quando ero in attesa di qualche ospite che tardava. Dal secondo piano della mia abitazione la finestra del soggiorno degli Shade fu chiaramente visibile fintanto che i rami degli alberi decidui fra le due case rimasero spogli, e quasi ogni sera vedevo il piede del poeta, calzato di una pantofola, oscillare lentamente. Se ne poteva dedurre che egli sedesse su una poltrona bassa, a leggere un libro, ma non mi riuscì mai di scorgere nient’altro che il piede e l’ombra che saliva e scendeva al ritmo segreto dell’immedesimazione mentale, nel circoscritto alone di luce della lampada. Invariabilmente, a una data ora, la pantofola di marocchino marrone cadeva dal piede rivestito d’un calzino di lana, che continuava a dondolare, ma a un ritmo un poco più lento. Si capiva che l’ora di andare a letto si approssimava, con tutti i suoi terrori; che, dopo qualche istante, l’alluce con un colpetto avrebbe importunato la pantofola, per scomparire poi con essa dal mio dorato campo visivo percorso dalla delicata curva nera di un ramo. E a volte Sybil Shade passava veloce, oscillando le braccia come chi si stia precipitando fuori da una stanza in preda a un accesso d’ira per ritornare dopo un poco, con passo più lento, avendo, per così dire, perdonato al marito l’amicizia con un eccentrico vicino; ma l’enigma del suo comportamento fu del tutto chiarito una sera: composi il loro numero di telefono mentre osservavo la finestra e magicamente la indussi a compiere i medesimi movimenti affrettati e del tutto innocenti che mi avevano sconcertato.
Ahimè, presto la mia tranquillità di spirito sarebbe andata in frantumi. Il torbido veleno dell’invidia cominciò a schizzarmi addosso non appena quegli accademici provinciali si resero conto che John Shade apprezzava la mia compagnia più di qualunque altra. Non ci è sfuggito il suo ridacchiare, cara Mrs C. mentre aiutavo il vecchio poeta stanco a cercare le galosce al termine di quella tediosa festa informale che lei aveva dato a casa. Un giorno entrai nella segreteria di Letteratura inglese in cerca di una rivista con la fotografia del Palazzo reale di Onhava, che volevo mostrare al mio amico, e per caso sentii un giovane insegnante, con una giacca di velluto verde, che misericordiosamente chiamerò Gerald Emerald, Geraldo Smeraldo, rispondere con noncuranza a una domanda della segretaria: «Credo che Mr Shade se ne sia già andato con il Grande Castoro».
Naturalmente sono molto alto, e la mia barba castana è piuttosto notevole quanto a colore e consistenza. Era evidente che quello stupido soprannome si riferiva a me, ma non valeva la pena di rilevarlo e dopo aver preso tranquillamente la rivista da un tavolo ingombro di opuscoli, nell’uscire mi limitai a sciogliere il nodo del cravattino di Gerald Emerald con un abile gesto delle dita, mentre gli passavo accanto. Vi fu anche la mattina in cui il Dr Netocka, Direttore del dipartimento di cui facevo parte mi chiese con voce solenne di sedermi, poi chiuse la porta e, riguadagnata la sua sedia girevole, a occhi bassi e con mesto cipiglio mi esortò a «essere più cauto». In che senso, cauto? Un ragazzo si era lamentato con il proprio tutor. Lamentato di che buon Dio? Che io avevo criticato un corso di letteratura che egli frequentava («una rassegna ridicola di opere ridicole, fatta da una ridicola mediocrità»).
Ridendo di vero e proprio sollievo, abbracciai il buon Netochka, promettendogli che non avrei mai più fatto il cattivo. Approfitto di questa occasione per salutarlo. Si è sempre comportato con tale squisita gentilezza nei miei confronti che a volte mi chiedo se non sospettasse ciò che Shade sospettava e che soltanto tre persone (due membri del Consiglio di amministrazione e il Rettore dell’università) sapevano con certezza. .
Oh, ci furono molti incidenti del genere. In una parodia messa in scena da un gruppo di studenti del corso di teatro venivo descritto come un misogino pomposo dall’accento tedesco, che citava in continuazione Housman e rosicchiava carote crude; e una settimana prima della morte di Shade, una certa feroce signora, al cui circolo avevo rifiutato di parlare della «Hally Valley», (come costei si espresse, confondendo la Dimora di Odino con il titolo di un poema epico finlandese), mi disse nel bel mezzo di un negozio di alimentari: «Lei è una persona molto sgradevole, e non riesco a capire come facciano John e Sybil a sopportarla», ed esasperata dal mio sorriso educato aggiunse: «Inoltre, lei è pazzo».
Ma lasciamo perdere la tabulazione delle scempiaggini. Checché si pensasse, checché si dicesse, io ero pienamente ricompensato dall’amicizia di John.
Un’amicizia ancora più preziosa perché la sua nota tenera veniva intenzionalmente nascosta, specie quando non eravamo soli, sotto una rudezza generata da quella che si può definire dignità del cuore.
Tutto il suo essere non era che una maschera. L’aspetto fisico di John Shade corrispondeva così poco alle armonie assiepate in lui, che si era inclini a rimuoverlo come un travestimento grossolano o una moda passeggera; infatti, come le mode dell’Età romantica interpretavano sottilmente la mascolinità di un poeta denudandone il collo attraente, potandone il profilo e lasciando che un laghetto di montagna si riflettesse nel suo sguardo dal taglio ovale, così i bardi d’oggigiorno, grazie forse a migliori opportunità di invecchiare, assomigliano a gorilla o ad avvoltoi.
Il viso del mio sublime vicino possedeva qualcosa che l’occhio avrebbe potuto gradire, se fosse stato soltanto leonino o soltanto irochese; ma, per sfortuna, la combinazione delle due cose ricordava semplicemente la faccia di un grasso beone hogarthiano di sesso indefinito. Il corpo deforme, quel ciuffo grigio e folto di capelli, le unghie gialle, le dita massicce e tozze, le borse sotto gli occhi velati erano intelligibili solo considerandoli come i materiali di scarto eliminati dal suo io intrinseco, ad opera di quelle medesime tensioni perfezionistiche che purificavano e cesellavano i suoi versi. Egli era l’obliterazione di se stesso.
C’è una sua fotografia che prediligo. In quell’istantanea a colori scattata dall’amico di un tempo in una sfolgorante mattina di primavera, Shade è appoggiato a un robusto bastone da passeggio che era appartenuto a sua zia Maud (si veda il verso 86). Io indosso una giacca a vento bianca acquistata in un negozio locale di articoli sportivi e un paio di calzoni casual lilla, ricordo di Cannes. Ho la mano sinistra a metà alzata, non per battere sulla spalla di Shade, come potrebbe sembrare, ma per togliermi gli occhiali da sole, ai quali, tuttavia, la suddetta mano non giunse mai in quella vita, la vita della fotografia; e il volume della biblioteca che tengo sotto il braccio destro è un trattato su certi esercizi ginnici zemblani ai quali speravo di riuscire a interessare il mio giovane inquilino che aveva scattato la fotografia. Una settimana dopo avrebbe tradito la mia fiducia approfittando sordidamente di un mio viaggio a Washington, da dove ritornai per scoprire che aveva intrattenuto una prostituta di Exton dal crine fiammeggiante, la quale aveva lasciato residui di capelli e lezzo in tutte e tre le stanze da bagno.
Naturalmente ci separammo subito e dalla finestra, attraverso uno spiraglio delle tende, vidi l’abietto Bob fermo in una posa piuttosto patetica, con i capelli a spazzola, la valigia malandata e gli sci che gli avevo regalato, mentre attendeva un compagno di studi che, sulla sua auto, l’avrebbe condotto via per sempre. Posso perdonare tutto, ma non il tradimento.
Con John Shade non si è mai parlato delle mie traversie personali. La nostra intima amicizia si collocava su quel livello più elevato, squisitamente intellettuale, in cui ci si può ritemprare dai turbamenti emotivi, non già condividerli. L’ammirazione che provavo per lui aveva su di me gli stessi effetti di una cura alpina: provavo un immenso senso di stupore ogniqualvolta lo guardavo, soprattutto in presenza d’altri, gente inferiore. Quello stupore era accresciuto dalla consapevolezza che essi non provavano ciò che io provavo, non vedevano ciò che io vedevo, davano Shade per scontato invece di impregnare ogni nervo, per così dire, del fascino della sua presenza. É proprio lui, mi dicevo, ecco la sua testa che contiene un cervello di marca diversa dalle gelatine sintetiche conservate nei crani che gli stanno attorno. Sta guardando il lago in lontananza dalla terrazza (della casa del Prof. C., in quella sera di marzo).
Io guardo lui. Sono testimone di un fenomeno fisiologico unico: John Shade mentre percepisce e trasforma il mondo, mentre lo porta dentro di sé e lo scompone, mentre ne ricombina gli elementi nel corso del processo stesso di accantonamento, onde produrre, in un momento ancora indefinito, un miracolo organico, una fusione di immagine e musica, un verso. E provai il medesimo brivido di quando, adolescente, una volta ebbi modo di osservare un prestidigitatore che aveva appena concluso una esibizione fantastica e sedeva ora di fronte a me, al tavolino da tè nel castello di mio zio, gustando tranquillo un gelato alla crema. Fissavo le gote incipriate, all’occhiello il fiore magico che aveva cambiato tante volte colore e adesso aveva assunto stabilmente l’aspetto di un garofano bianco, e soprattutto quelle meravigliose dita che parevano fluide, e che, se egli l’avesse voluto, bastava rigirassero il cucchiaino per dissolverlo in un raggio di sole, o gettassero il piattino in aria per trasformarlo in una colomba.
Il poema di Shade è, invero, quella repentina fioritura di magia: il mio amico dai capelli grigi, il mio vecchio e amato prestidigitatore ha messo un mucchietto di schede nel cappello, e oplà, ne ha estratto un poema.
E a quel poema dobbiamo ora volgerci. Spero che la mia Prefazione non sia stata troppo sommaria.
Note ulteriori, organizzate come un commento progressivo, certamente soddisferanno finanche il lettore più avido. Benché le note, seguendo la consuetudine corrente, siano in appendice al poema, raccomando al lettore di leggerle per prime, poi di studiare il poema con il loro sussidio, rileggendole, naturalmente, a mano a mano che si procede nel testo, e infine, dopo avere terminato il poema, di rileggerle una terza volta per farsi un quadro completo. In casi simili, per eliminare il fastidio di dover sfogliare avanti e indietro le pagine, trovo molto pratico ritagliare le note e unirle con una graffetta al testo del poema, ovvero, cosa ancora più semplice, acquistare due copie dell’opera da sistemare una accanto all’altra su un tavolo comodo, non come questo coso piccolo e traballante sul quale se ne sta ora assisa, in equilibrio instabile, la mia macchina per scrivere, in questo atroce motel, con la giostra dentro e fuori la mia testa, a chilometri di distanza da New Wye. Mi sia consentito dichiarare che senza queste note il testo di Shade semplicemente non possiede alcuna umana realtà, perché la realtà umana di un poema siffatto (troppo ombroso e reticente per essere un’opera autobiografica), con l’omissione di molti versi vigorosi che egli ha avventatamente scartato, deve basarsi per intero sulla realtà del suo autore, del suo ambiente, dei suoi affetti e così via, realtà che soltanto le mie note possono fornire. É
probabile,che il mio caro poeta non avrebbe condiviso quest’affermazione, ma, nel bene come nel male, è il commentatore ad avere l’ultima parola.
19 ottobre 1959, Cedarn, Utana
Charles Kinbote
FUOCO PALLIDO. POEMA IN QUATTRO CANTI
CANTO PRIMO
Ero l’ombra del beccofrusone ucciso dall’azzurro ingannevole nel vetro; ero la macchia di cinerea lanugine - e vivevo volavo nel cielo riflesso.
E anche da dentro, sì, mi sdoppiavo, e con me il lume e una mela sul piatto: scostando le tende della notte, lasciai che il buio specchio sospendesse il mobilio sopra l’erba, e quale fu l’incanto quando una nevicata coprì la fugace visione del mio prato tanto che sedia e letto stavano esattamente sulla neve là fuori, in quella contrada di cristallo.
Ricomincia a scendere la neve: fiocco su fiocco lento informe tremulo e opaco, di un bianco sporco e spento contro il biancore pallido del giorno, contro i larici astratti nella luce neutrale.
E poi l’azzurro duplice e graduale quando la notte fonde chi guarda alla veduta, e nel mattino i diamanti di gelo mostrano meraviglia: Quali zampe speronate hanno varcato da sinistra a destra la pagina bianca della strada?
Leggendo da sinistra a destra il codice d’inverno: un puntino, una freccia rivolta all’indietro; ripeto: puntino, freccia all’indietro. . Orme di fagiano!
Venustà dal collare, sublimato gallo di prateria che trovi la tua Cina proprio qui, dietro la casa.
Che fosse in Sherlock Holmes il tizio che calzava scarpe all’incontrario perché le impronte venissero a ritroso?
Ogni colore mi donava gioia, perfino il grigio.
Tali erano i miei occhi che scattavano, alla lettera, fotografie. Quando lo consentivo, o con un brivido silente l’ordinavo, qualsiasi cosa indugiasse nel mio campo visivo scene d’interni, foglie di noce americano, gli stiletti aguzzi di un ghiacciato stillicidio mi si stampava sul retro delle palpebre, dove indugiava per un’ora o due, e intanto altro non dovevo fare che socchiudere gli occhi per ricreare foglie, scene d’interni, o trofei di grondaie.
Non capisco come potessi distinguere dal lago la nostra veranda sul davanti, quando per la Lake Road andavo alla volta della scuola, mentre ora, pur senza nuovi alberi frapposti, neppure riesco a intravedere il tetto. Forse un capriccio dello spazio ha creato una piega oppure un solco per spostare la fragile veduta, la struttura lignea della casa tra Goldsworth e Wordsmith sul riquadro erboso.
Là il mio preferito era un giovane noce dal copioso fogliame già scuro e dall’esile nero tronco contorto. Il sole del tramonto accendeva di bronzo la sua nera corteccia, mentre intorno, ghirlande sfatte, cadevano le ombre delle foglie.
Ora è robusto, scabro; è stato bravo.
Farfalle bianche trascolorano in lavanda nel solcarne l’ombra dove lieve sembra oscillare l’altalena fantasma di mia figlia piccina.
La casa invece è sempre uguale. Un’ala solamente è stata restaurata. C’è un solario.
E una finestra panoramica tra sedie ricercate.
Graffette immense di tivù ora brillano al posto dell’impettita banderuola ove spesso l’ingenua merla si posava, come garza lieve, ripetendo tutti i programmi uditi; e nel sintonizzarsi passava dal cip-cip al nitido pio pio pi; poi gracchiava: qui vieni, vieni qui, qui; e agitava la coda verso l’alto o con garbo indulgeva a un soffice su e giù e all’istante (pio pi) tornava sul suo trespolo - la nuova tivù.
Ero in fasce quando i miei morirono.
Ornitologi entrambi. Così spesso ho cercato di evocarli che oggi mi ritrovo con mille genitori.
Mestamente si sciolgono nelle loro virtù e dileguano, ma vi sono parole, lette o udite per caso, come
«cuore malato» che rimandano a lui, mentre «tumore al pancreas» sempre dice di lei.
Cultore del preterito: chi colleziona nidi freddi.
Qui c’era la mia camera, ora stanza degli ospiti.
Qui, confinato dalla fantesca canadese, ascoltavo il brusio che veniva da basso e pregavo perché tutti fossero felici, zii, zie, la fantesca con la nipote Adele che aveva visto il Papa, la gente dentro i libri, e Iddio in persona.
Mi ha cresciuto zia Maud, cara e bizzarra, poetessa e pittrice con il gusto per gli oggetti realistici intrecciati a viluppi grotteschi e immagini di morte.
Visse fino a che non vagì la piccola nipote.
Intatta è rimasta la sua stanza. Futili cose ricreano una natura morta nel suo stile: il fermacarte di vetro soffiato racchiude una laguna, il libro di poesie spalancato sull’indice (Palude, Plenilunio, Primo quarto, Princìpi di Morale), la chitarra in un canto, un teschio; e dallo «Star» locale un ritaglio fissato alla porta con puntine: Red Sox batte gli Yarcks per 5 a 4 su battuta di Chatman.
Il mio Dio morì giovane. La teolatria mi appariva umiliante, con premesse infondate. Un uomo libero non sa che farsene di un Dio; ma ero libero, io?
Come sentivo incollata addosso la natura, e quanto amava il mio infantile palato il sapore a metà tra pesce e miele dell’impasto dorato!
Il primo libro con le illustrazioni fu la dipinta pergamena che racchiude la gabbia: la luna con gli anelli color malva, il sole sanguigna arancia, Iride con la sua gemella, e quel fenomeno raro, l’iridula -
quando, mirabile e strana, in un cielo lucente su una cresta montana una piccola nuvola d’opale, di forma ovale, riflette l’arcobaleno dopo un temporale messo in scena in una valle lontana -, giacché è raffinata la gabbia che ci è stata destinata!
E c’è il muro dei suoni: la parete notturna innalzata in autunno da un trilione di grilli.
Impenetrabile! A mezzacosta su per la collina sostavo, ostaggio di una frenesia di trilli.
Ecco la luce del Dr Sutton. Ecco l’Orsa Maggiore.
Mille anni fa cinque minuti equivalevano a mille e rotti grammi di sabbia sottile.
Guarda fisso le stelle. Il tempo infinito del passato e l’infinito tempo del futuro: richiudono sopra di te le ali immense, e già è la fine.
La persona volgare, rozza oserei dire, è più felice: la Via Lattea, la vede solo quando fa acqua. Allora come ora camminavo a mio rischio: sferzato dal fuscello, inciampavo nel ceppo. Asmatico, grasso, claudicante, non ho mai rilanciato una palla, roteato la mazza.
Ero l’ombra del beccofrusone ucciso da lontananze ingannevoli nel vetro.
Dotato di cervello e cinque sensi (uno senza l’eguale), per il resto ero un misero scherzo di natura.
Nei miei sogni notturni giocavo coi compagni, ma niente in realtà invidiavo - tranne forse il prodigio di una lemniscata che gomme di bicicletta lasciano con destrezza disinvolta sulla sabbia bagnata.
Un filo di dolore sottile, che la morte giocosa allentava e tirava con asprezza, ma onnipresente, mi correva dentro. Un giorno, appena compiuti undici anni, prono sul pavimento guardavo un giocattolo a molla - una carriola spinta da un ragazzo di latta - che, evitando le gambe di una sedia, finiva sotto il letto, e all’improvviso nella mia testa irruppe il sole.
E poi la notte buia. Quel buio era sublime.
Come se fossi stato suddiviso tra spazio e tempo un piede sulla cima di un monte, una mano sotto i ciottoli di una riva ansimante, un orecchio in Italia, e un occhio in Spagna, nelle caverne il sangue, tra le stelle il cervello.
Nel mio Triassico un sordo pulsare; e nel Pleistocene Superiore macchie ottiche verdi, la mia Età della Pietra percorsa da un brivido glaciale, e tutti i domani nel mio osso cubitale.
Nell’inverno, sempre di pomeriggio, affondavo in quel fugace mancamento.
Scomparve, poi. Ne svaporò il ricordo.
Migliorò la salute. Appresi anche a nuotare.
Ma come il ragazzino che una servetta costringe a dissetare con la lingua innocente la sua sete abietta, venni corrotto, atterrito, allettato; il vecchio dottor Colt mi dichiarò guarito disturbi della crescita, diceva -, ma intanto lo stupore permane, e resta la vergogna.
CANTO SECONDO
Vi fu un tempo nella mia folle giovinezza in cui per qualche ragione mi convinsi che la verità sulla vita oltre la morte fosse nota a ogni creatura umana: soltanto io non ne sapevo niente, congiuravano insieme, libri e persone, per nascondermi il vero.
E venne il giorno in cui presi a dubitare: l’uomo era sano nella mente? Come poteva vivere ignorando quale alba, morte, cupa sorte riservava l’oltretomba alla coscienza?
Venne infine la notte che trascorsi insonne quando decisi di esplorare e oppormi all’abisso immondo, intollerabile, dedicando la mia vita contorta a questo solo scopo. Oggi ho sessantun anni.
Beccofrusoni beccano le bacche. Canta una cicala.
Le piccole forbici che ho in mano sono una sintesi abbagliante di sole e stelle.
Me ne sto alla finestra a tagliarmi le unghie rendendomi conto vagamente di certe elusive somiglianze: il pollice - il figlio del nostro droghiere; l’indice - il segaligno, tetro astronomo e collega Starover Blue; il medio - un prete spilungone, antica conoscenza; il quarto, piuttosto femminile - un ßirt passato; e il mignolo piccino, alla sua gonna aggrappato.
E faccio smorfie tagliando via sottili strisce che zia Maud chiamava «sciarpapelle».
Maud Shade toccava gli ottant’anni quando una calma repentina calò sulla sua vita. Vedemmo la paralisi assalire e contrarre, con la vampa rabbiosa, il nobile profilo. La portammo alla celebre casa di cura di Pinedale. Laggiù, nella veranda soleggiata, se ne stava a guardare una mosca posarsi dapprima sulla veste, e poi sul polso.
La sua mente svaniva in una caligine crescente.
Ancora le riusciva di parlare. Una pausa, la ricerca disperata di ciò che sulle prime pareva un suono adatto, ma impostori, da cellule contigue, rimpiazzavano le parole opportune, e il suo sguardo sillabava una supplica mentre invano tentava di scendere a patti con i mostri nel cervello.
Quale istante del lento declino sceglie la resurrezione? Quale giorno e stagione? Chi sorveglia il cronometro? Chi riavvolge il nastro?
Alcuni sono meno fortunati, o tutti riescono a sottrarsi?
Un sillogismo: sono gli altri a morire; ma io non sono un altro; quindi non morirò.
Lo spazio è uno sciame dentro gli occhi; e il tempo un canto nelle orecchie. Sono rinchiuso in questo alveare. Pure, se in precedenza questa vita ce la fossimo mai immaginata, quale folle, ineffabile, stravagante, mirabile nonsense ci sarebbe sembrata
Perché unirsi alle risa volgari? Perché mai disdegnare un aldilà che non si può accertare: le delizie del Turco, le presagite lire, i conversari con Socrate e con Proust nei viali di cipressi, il serafino che dispiega sei ali di fenicottero rosate, e gli inferi fiamminghi irti di attrezzi e porcospini?
Non è troppo sfrenato il sogno che sogniamo: il guaio sta nel fatto che ignoriamo come renderlo abbastanza improbabile; il massimo che sappiamo escogitare è un fantasma di domestiche apparenze.
Come sono ridicoli gli sforzi di tradurre nel linguaggio privato un comune destino!
Anziché poesie di sublime concisione, note sconnesse, i versi meschini dell’Insonnia.
La vita è un messaggio scarabocchiato al buio.
Anonimo.
Notato sulla corteccia di un pino, il giorno della morte di lei, rientrando a casa un involucro vuoto di smeraldo, tozzo, con occhi di rana, abbarbicato al fusto; e il suo pendant, una formica di resina impregnata.
Quell’inglese di Nizza, linguista felice e soddisfatto: je nourris les pauvres cigales - con ciò intendendo che dava da mangiare ai poveri seu gulls!
La Fontaine s’ingannava: è la mandibola che muore, il canto vive.
Ecco dunque che mi taglio le unghie, e rifletto, e ascolto i tuoi passi di sopra; va tutto bene, cara.
Sybil, amavo la tua grazia dai tempi del liceo, e tuttavia m’innamorai di te solo l’ultimo anno quando con la scuola andammo alle cascate di New Wye. Seduti sull’erba umida pranzammo.
Il professore di geologia analizzò con noi la cateratta. Il suo fragore e il polverio iridato rendevano romantico quel parco un po’ scontato.
Nella foschia d’aprile mi sdraiai proprio dietro la tua schiena snella guardando il capo piccolo e armonioso chino da un lato. Premevi il palmo sulla terra, con le dita a raggiera tra zolle d’erba, un sasso, e un trilium stella. Una corta falange seguitava a contrarsi. Poi ti voltasti e mi offristi un dito di tè metallico e lucente.
Non è cambiato il tuo profilo. I denti luccicanti che mordicchiano il labbro riflessivo; gli occhi ombreggiati dalle lunghe ciglia; lo zigomo orlato da lanugine di pesca; la massa setosa dei capelli bruni ravviati con cura sulla nuca; il collo disadorno, e il taglio persiano di naso e sopracciglio, hai mantenuto tutto e nella quiete notturna possiamo udire la cascata.
Vieni, lasciati adorare, accarezzare, mia Vanessa bruna, di cremisi striata, mia benedetta Ammirabile farfalla. Come hai potuto, nel crepuscolo della via dei Lillà, consentire al goffo, isterico John Shade di singhiozzarti sul viso, sull’orecchio e la spalla?
Fa quarant’anni che siamo sposati. Almeno quattromila volte le nostre nuche hanno sgualcito il tuo cuscino. E quattrocentomila volte la pendola con i rauchi rintocchi di Westminster ha scandito le nostre ore insieme. Con quanti altri almanacchi-dono orneremo la porta in cucina?
Ti amo quando, ritta in mezzo al prato, scruti qualcosa tra i rami di una pianta: «Se n’è andato. Così piccino. Potrebbe ritornare», (espresso in un bisbiglio più tenero di un bacio).
Ti amo quando mi chiami ad ammirare la scia rosa di un jet sul fuoco del tramonto.
Ti amo quando canticchi a bocca chiusa facendo la valigia o la sacca ridicola per l’auto, con la cerniera che corre tutt’intorno. E ancor più ti amo quando con cenno pensoso della testa saluti il suo fantasma e tieni il suo primo giocattolo sul palmo, o guardi una sua cartolina trovata fra le pagine di un libro.
Lei poteva essere te, me, o un incrocio bizzarro: scelse me la natura per strappare e straziare il tuo cuore e il mio. Dapprima dicevamo sorridendo: «Le ragazzine sono tutte in carne», «Jim McVey (l’oculista di famiglia) rimedierà a quel lieve strabismo in un baleno». E più in là: «Vedrai, si farà tanto graziosa»; e cercando di lenire il crescente tormento: «É un’età delicata».
«Dovrebbe andare a equitazione» dicevi (ma evitavamo di guardarci in faccia). «Giocare a badminton o a tennis. Meno amidi, più frutta! Non sarà una bellezza, ma è graziosa».
Inutile, inutile purtroppo. Vincere premi in storia e in francese, certo, era divertente; e alle festicciole il gioco, certo, era pesante, una fanciulla timida poteva essere esclusa; ma siamo giusti: nella recita a scuola, per Natale, mentre gli altri bambini calcavano la scena (che anche lei aveva contribuito a pitturare) nei panni di elfi e fate, la mia dolce bambina faceva Madre Tempo, curva donnina con secchia e scopa, io intanto, alla toilette, da idiota singhiozzavo.
Un altro inverno venne raschiato via- spalato.
La Bianca Dentaria infestò a maggio i nostri boschi.
L’estate fu falciata, e bruciato l’autunno.
Ahimè, il giovane cigno dallo squallido aspetto non si mutò nell’anatra dei boschi. E tu: «Ma questo è un pregiudizio! Se è innocente, dovresti rallegrarti. Perché mai insistere sul fisico? É lei che vuole essere così.
Quante vergini hanno scritto libri eccellenti.
Fare all’amore non è tutto. Un bell’aspetto non è poi tanto necessario!». E tuttavia chiamava il vecchio Pan da ogni colle dipinto, e sempre rispondevano i dèmoni della nostra pietà: con labbra altrui non avrebbe spartito il rossetto del suo fumo; il telefono che squillava ininterrotto prima di un ballo al Sorosa Hall era muto per lei; mai veniva per lei, con stridio fragoroso di gomme sulla ghiaia, lo spasimante con la sciarpa bianca, emergendo dalla lacca del buio sul fronte del cancello; a un ballo non era mai andata, in un sogno di tulle e gelsomino.
Ma andò in Francia, scovammo uno château.
E tornò in lacrime, con nuove sconfitte, rinnovate tristezze. Quando ogni strada del college menava alla partita, lei sui gradini della biblioteca leggeva o sferruzzava a maglia; per lo più sola, o con quella delicata, amabile compagna che si è fatta suora; una o due volte si vide con un ragazzo coreano del mio corso.
Aveva strane fantasie, strane paure, e strana era la forza del carattere - come quando passò tre notti intere indagando su certi suoni e luci in un vecchio granaio. Pronunciava invertite le parole: il, li, arco per ocra. «Eruppe» per «eppure».
E ti chiamava catididat didattica.
Quasi mai sorrideva, e quando lo faceva era solo un segno di dolore. Criticava feroce ogni nostro progetto, e con lo sguardo vuoto, seduta sul suo letto disfatto, stendeva i piedi gonfi, grattandosi la testa con unghie maculate di psoriasi, e gemeva, mormorando monotona parole spaventose.
Era il mio amore: difficile, scontrosa. . ma pur sempre il mio amore. Ricordi quelle sere quasi quiete -
si giocava a mahjong, o lei provava le tue pellicce che un poco la rendevano attraente; e sorridevano gli specchi, clementi si facevano le luci, lievi le ombre.
L’aiutavo talvolta con un testo latino o lei leggeva in camera da letto, vicino alla mia tana fluorescente, mentre tu, dentro il tuo studio, mi eri non una, ma due volte lontana e io di tanto in tanto vi udivo da lì: «Mamma, cos’è grim pen?». «Cos’è cosa?»
«Grim Pen, sì».
Pausa, poi, guardingo, il tuo commento. «Di’ mamma, che cos’è ctonio?». Questo pure si chiarì, e soggiungevi: «Ti andrebbe un mandarino?»
«No. Sì. E che vuol dire sempiterno?»
Esitavi. E allora con vigore urlavo la risposta dalla mia scrivania, dietro la porta chiusa.
Non contano i testi che leggeva (qualche fasulla poesia moderna definita al corso di Letteratura, un documento «engagé e avvincente» - a nessuno importava quale senso ciò avesse); il fatto è che quelle tre stanze, allora collegate con te, lei e me formano ora un trittico o un dramma in tre atti in cui per sempre vivono gli eventi lì ritratti.
Cullò costante, credo, una folle, minima speranza.
Avevo finito da non molto il mio libro su Pope.
Jane Dean, la dattilografa, un giorno le propose di presentarle Pete, suo cugino. Sulla macchina nuova, con il fidanzato, avrebbero raggiunto un bar stile hawaiano, qualche chilometro più in là.
Alle otto e quindici minuti presero su il ragazzo.
Il nevischio spalmava vitrea glassa sulle strade.
Finalmente arrivarono - ma a un tratto Pete Dean, mano alla fronte, esclamò di aver dimenticato che un suo amico sarebbe finito in gattabuia se lui non si fosse fatto vivo, e così via.
Lei disse che si rendeva conto.
Quando lui se ne andò i ragazzi indugiarono davanti alle luci azzurre dell’ingresso.
Le pozzanghere lucevano di striature al neon; si sentiva de trop, disse con un sorriso, preferiva rientrare. Gli amici la scortarono alla fermata d’autobus, e là si salutarono; ma lei, invece di tornarsene a casa, scese a Lochanhead.
Scrutavi il polso: «Sono le otto e un quarto.
[E il tempo qui si biforcò]. Accendo». Lo schermo mutò il suo cieco brodo in uno sfarfallio simile al vero, e zampillò la musica.
Lui le diede un’occhiata e a Jane, così benintenzionata, sparò un raggio mortale.
Una mano maschile dalla Florida al Maine tracciò frecce falcate di eoliche guerre.
Dicesti che più tardi, sull’ottavo canale, un quartetto noioso di critici e scrittori, avrebbe dibattuto la Questione Poesia.
Una ninfa, piroettando sotto bianchi petali rotanti in un rito invernale, si inginocchiò in un bosco ai piedi di un altare che esibiva svariati oggetti da toilette.
Salii di sopra a leggere le bozze e udii il vento che rotolava bilie sopra il tetto.
E vedi, il cieco mendico danzare, lo storpio cantare, ha il timbro inconfondibile e volgare del suo assurdo tempo. Poi dal soggiorno venne il tuo richiamo, mio tenero Mimus polyglottus.
Feci in tempo a captare un accenno di fama bevendo insieme una tazza di tè: il mio nome citarono due volte, come sempre appena dietro (giusto un melmoso passo) quello di Frost.
«Davvero non ti spiace?
Prenderò l’aereo di Exton, perché sai, se entro mezzanotte non torno con la grana. .».
Poi seguì un documentario, viaggi: lo speaker ci guidò attraverso la nebbia di una notte di marzo, dove fari lontani via via si ingrandivano come una stella in espansione, correndo incontro al mare verde, indaco e fulvo che avevamo veduto nel millenovecentotrentatré, nove mesi prima che venisse alla luce.
Adesso era tutto sale-pepe, e a stento richiamava la prima, lunga passeggiata, l’implacabile luce, lo stormo delle vele (una celeste tra le bianche strideva stranamente con il mare, poi due rosse), l’uomo con il blazer sdrucito che sbriciolava pane la folla troppo chiassosa dei gabbiani, e solitario un piccione bruno che avanzava oscillante tra la ressa.
«Che cos’era, il telefono?». Ascoltasti alla porta.
Niente. Dal pavimento raccogliesti il programma.
Ancora fari nella nebbia. Inutile sfregare con la mano il finestrino, senza la maschera sfilavano soltanto bianchi steccati e pali catarifrangenti.
«Siamo certi che si comporti bene?» domandasti.
«Tecnicamente l’appuntamento è al buio. Bene, proviamo con l’anteprima di Rimorso?»
E lasciammo, tranquilli, che il film famoso dispiegasse il suo incantato padiglione; il volto celebre scorreva incantevole e vacuo labbra dischiuse, occhi rilucenti, il grano di bellezza, bizzarro gallicismo, sulla gota, e la forma morbida disciolta nel prisma del desiderio collettivo.
«Credo», lei disse «che scenderò qui». «Ma è soltanto Lochanhead».
«Sì, va benissimo qui». Stringendo la maniglia aguzzò gli occhi verso gli alberi spettrali. L’autobus ripartì.
Sopra la Giungla un tuono. «No, questo no!»
Pat Pink, nostro ospite (chiacchiere antinucleari).
Suonarono le undici. Sospiravi. «Bene, non ci resta, temo, niente di interessante». Giocavi alla roulette con i canali: il pannello ruotò con uno scatto.
Spot decapitati. Facce guizzanti. Una bocca aperta nel bel mezzo di un canto fu cancellata.
Un imbecille ornato di basette era sul punto di usare la pistola, ma tu risultasti più veloce.
Un amabile negro sollevò la sua tromba. Altro scatto.
Il rubino al tuo dito - arbitro della vita e della legge.
Oh, spegni! E mentre la vita schioccando si spezzava vedemmo una capocchia luminosa affievolirsi e spegnersi nel buio sconfinato.
Dal capanno sul lago uscì un guardiano, Padre Tempo, tutto grigio e ricurvo, uscì con il suo cane irrequieto e andò lungo i canneti della riva. Arrivò tardi.
Sbadigliasti discreta ritirando il tuo piatto.
Udimmo il vento. Il vento che impetuoso gettava rametti contro i vetri. Il telefono suona? Non direi.
Ti aiutai con i piatti. La pendola divorava instancabile antiche rocce e giovani radici.
«Mezzanotte» dicesti. Cos’è mai, per i giovani?
E all’improvviso un bagliore festoso fu scagliato tra i cedri, rivelando qua e là chiazze di neve, e un auto di pattuglia frenò stridendo sulla nostra strada dissestata. Ciak! Nuova ripresa!
Si pensò a un tentativo di attraversare il lago a Lochan Neck dove pattinatori infervorati passavano da Exe a Wye nei giorni di gelo eccezionale.
Altri s’immaginarono che avesse smarrito la strada svoltando da Bridgeroad verso sinistra; e per alcuni lei si tolse quella povera, giovane vita. Io so. Tu sai.
Era una notte di disgelo, con raffiche di vento, nell’aria molta eccitazione. La nera primavera stava appena dietro l’angolo, rabbrividendo nell’umida luce delle stelle, sull’umido terreno.
Il lago era adagiato nella nebbia, il ghiaccio per metà sommerso.
Una forma indistinta dal folto delle canne scese nell’ingorda palude crepitante, e sprofondò.
CANTO TERZO
L’if per noi se, l’albero senza vita! Il tuo gran Forse, Rabelais: the grand potate cioè peut-être.
La S.P.E., Scuola (S) laica di Preparazione (P) all’Eternità (E), da noi detta anche Se - il grande se - mi chiamò per un trimestre, dovevo parlare della morte («far lezione sul Verme», come scrisse il Rettore magnifico McAber).
Tu e io e lei, allora alta così, traslocammo da New Wye a Yewshade, in uno Stato diverso, più montano.
Io amo le montagne, se imponenti. Dal cancello della casa malandata che prendemmo in affitto si vedeva una forma innevata, tanto bella e remota che riuscivi soltanto a emettere un sospiro, quasi potessi così farla più tua.
La Se era un larvario e una violetta: una tomba dentro la primavera in boccio della dea Ragione.
Eppure le sfuggiva il nocciolo dell’intera questione, quanto più preme al cultore del passato; giacché giorno per giorno noi moriamo; l’oblio cresce rigoglioso non su tibie spolpate ma sulla vita turgida di sangue, e i felici giorni andati sono già mucchi rivoltanti di nomi accartocciati, numeri di telefono gualciti, pratiche muffite. Sono pronto a rinascere fiore o mosca pasciuta, ma mai saprò dimenticare.
E farò a meno dell’eternità se essa dovesse ignorare la tenerezza, la malinconia della vita mortale; la passione e lo strazio; le luci rosso-viola dell’aereo che oltre Espero scompare, il tuo gesto sgomento quando rimani senza sigarette; come sorridi ai cani; la scia di bava argento delle chiocciole sopra il lastricato; il mio ottimo inchiostro, questi versi e la scheda, la striscia di elastico sottile che, se tolta, si annoda sempre nella & commerciale tutto ritrovano nel Cielo i morti appena morti, accantonato nelle roccaforti lungo il corso degli anni. Invece la Scuola presumeva saggio non richiedere troppo al paradiso: e se poi non c’è nessuno a dire salve a quel nuovo venuto, niente accoglienza, né indottrinamento? E se tu, perso ogni orientamento, fossi gettato in un vuoto senza fine, denudato lo spirito, completamente solo, la missione incompiuta, il tuo strazio ignorato, il corpo che già comincia a imputridire, e più non puoi mostrarlo sotto il frac, la tua vedova, al buio, sul giaciglio disfatto, macchia sfocata nel tuo cervello liquefatto!
Pur snobbando gli dèi, D maiuscolo incluso la Se prendeva in prestito frammenti marginali da mistiche visioni; e offriva informazioni (gli occhiali d’ambra per l’eclissi della vita) su come non perdere la testa se fantasmi ci si desta: scivolare furtivi, preferire sordi accenti insinuanti e andare in folle, entrare in corpi solidi e uscirne senza sforzo, lasciare che altri ci circolino dentro.
Come, senza fiato, riconoscere nello spazio atro una sfera minuscola di diaspro, l’Incantevole Terra.
Come restare in senno dentro spazi a spirale.
Le precauzioni da prendere nel caso di una reincarnazione un po’ anormale: che fare se ci si scopre all’improvviso nella pelle di un vulnerabile rospetto piombato nel bel mezzo di un corso trafficato o di un cucciolo d’orso sotto un pino in fiamme, o di un libresco acaro in un chierico rinato.
Tempo significa sequenza, e sequenza mutare: quindi l’assenza del tempo deve per forza scompigliare la tabella di marcia degli affetti.
Al vedovo un consiglio. Due volte si è sposato: incontrerà le mogli; entrambe amate, innamorate, gelose una dell’altra. Tempo vuol dire crescere, e crescere nulla vuol dire nel regno dell’Elisio.
Vezzeggiando un bambino immutabile si affligge la moglie dai capelli di lino sull’orlo di uno stagno, che nel ricordo è colmo di un cielo irreale come un sogno. E anche lei bionda, ma con un tocco color bronzo nell’ombra, piedi per aria, ginocchia serrate, su una balaustra di pietra siede l’altra e alza umido lo sguardo verso l’azzurra impenetrabile foschia.
Da dove cominciare? Chi per prima baciare? Quale giocattolo porgere al piccino? Sa quel grave ragazzino dello scontro frontale che in un’atroce notte di marzo uccise con il figlio la madre?
E lei, il secondo amore, nudo il collo del piede nella nera ballerina, perché indossa gli orecchini presi dal portagioie dell’altra?
E perché mai distoglie lo sguardo così giovane e fiero?
Perché, si sa dai sogni, è davvero difficile parlare ai nostri cari morti! Che non tengono conto di timori, scrupoli, vergogna - l’orrenda sensazione che loro ormai siano cambiati.
Il compagno di scuola ucciso in una guerra lontana non si stupisce nel vederci alla sua porta, e con un misto di vivacità e cupezza addita le pozze dentro il suo seminterrato.
Ma chi può insegnare i pensieri di cui fare l’appello quando il mattino ci sorprende a marciare verso un muro, soggetti alla regia di politici balordi, babbuini con indosso l’uniforme?
Penseremo a cose note solo a noi - imperi di componimenti in versi, Indie di calcolo numerico; ascolteremo i galli che cantano lontano, notando sullo scabro muro grigio un’insolita felce, e mentre con una corda ci legheranno le regali mani, scherniremo i subalterni, derideremo allegramente gli imbecilli coscienziosi, nei loro occhi sputeremo, così, giusto per divertimento.
E non si può aiutare l’esiliato, il vecchio che muore in un motel, mentre il ventilatore a pale incombe rumoroso nella torrida notte della prateria e dall’esterno raggiungono il suo letto frantumi di luce colorata, mani scure che offrono gemme dal passato; e la morte sopravviene presto.
Soffoca il vecchio e intanto rievoca in due lingue le nebulose che si stanno dilatando nei polmoni.
Uno strappo, una crepa, altro non puoi prevedere.
Forse è le grand néant che troveremo; forse di nuovo ci leveremo a spirale dalla gemma del tubero.
Come osservasti l’ultima volta che passammo davanti all’Istituto: «Non potrei proprio dire che differenza c’è tra un posto simile e l’Inferno».
Udivamo gli addetti al crematorio sghignazzare sbuffando con disprezzo perché secondo Grabermann l’Alambicco era di detrimento alla nascita di spettri.
Noi tutti evitavamo ogni commento sulle altrui fedi.
Il grande Starover Blue riesaminava il ruolo dei pianeti quali approdi dell’anima.
Il fato delle bestie veniva con cura soppesato.
Discettava un cinese con i suoi antenati intorno alle regole del tè: quanto indietro nel tempo Riducevo in brandelli le fantasie di Poe, e affrontavo ricordi dell’infanzia, bizzarri iridescenti luccichii fuori della portata degli adulti.
Frequentava quei corsi, con un giovane prete, un vecchio comunista. Così la Se faceva concorrenza a Chiese come a linee di partito.
Negli anni seguenti cominciò il declino: prese piede il buddhismo. Una medium portò 640 di contrabbando diafane gelatine e un mandolino levitante.
Fra’ Karamazov, bofonchiando il suo inetto tutto è consentito, avanzò furtivo nelle classi; e per saziare la voglia di pesce dentro i lombi una scuola freudiana andò dritta alla tomba.
Quell’insulsa avventura mi giovò un poco.
Imparai cosa ignorare indagando l’abisso della morte. E quando perdemmo la piccina sapevo che niente vi sarebbe stato: né un sedicente spirito avrebbe suonato la tastiera di legno 650 battendo, un colpo dietro l’altro, il suo vezzeggiativo; né un fantasma si sarebbe cortesemente alzato per accoglierci nel buio del giardino, accanto al noce.
«Cos’è quel buffo cigolio - non senti?»
«É, mia cara, l’imposta delle scale».
«Se non dormi, accendiamo la luce. Detesto questo vento! Se giocassimo a scacchi?» «Come vuoi».
«Sono sicura che non è l’imposta. Ecco - di nuovo».
«É un viticcio che va tastando il vetro».
«Che cos’è scivolato dal tetto con quel tonfo?»
«É il vecchio inverno che ruzzola nel fango».
«E ora cosa muovo? Il cavallo è inchiodato».
Chi mai cavalca nella notte e nel vento?
É il tormento del poeta. Lo scatenato vento di marzo. É il padre con il figlio amato.
Poi vennero minuti, ore, giorni interi, in cui lei era assente dai nostri pensieri, talmente lesto corre il bruco velloso della vita.
Quindi il viaggio in Italia. Stravaccati al sole su una spiaggia bianca con altri abbronzati o rosei americani. Il volo, infine, verso casa.
E là scoprire che quel pugno di saggi, L’indomito ippocampo, era «acclamato universalmente», (trecento copie vendute in un anno).
Riaprì la facoltà, sui pendii collinari, lungo i tornanti in lontananza, scorrevano costanti i fari delle auto restituite in massa al sogno dell’istruzione superiore. E tu continuavi a volgere in francese Marvell e Donne.
L’anno fu alquanto procelloso: l’uragano Lolita imperversò dalla Florida al Maine.
Marzo fu sfavillante. Uno scià si sposò. Russi tetri spiavano. Lang fece il tuo ritratto. E una notte morii.
Il Crashaw Club mi pagò per discettare sul Senso Che Ha per Noi la Poesia.
Pronunciai il mio sermone, noioso, ancorché breve.
Mentre con una certa fretta me ne andavo per evitare il «chi ha domande?» in coda, uno di quei tipi stizzosi, sempre presenti alle conferenze solo per mostrarsi dissenzienti, si alzò e mi puntò contro la sua pipa.
E allora accadde - la trance, l’attacco o uno dei miei soliti deliqui. Un dottore sedeva per caso in prima fila. Gli caddi ai piedi opportunamente. Il mio cuore, pare, si fermò, molti istanti trascorsero prima che tornasse a pulsare arrancando verso una meta più definitiva. E ora chiedo la massima attenzione.
Non so dire come lo capii - ma ero certo che il confine era stato varcato. Le cose amate erano perdute, ma nessuna aorta poteva riferire il mio rimpianto.
Un sole di gomma fu squassato, e tramontò; e un nulla nero-sangue si mise a far girare un sistema di cellule intrecciate con cellule intrecciate con cellule intrecciate dentro un unico stelo. E
spaventosamente nitida, sullo sfondo di tenebra, una candida fonte zampillò.
Mi accorsi, certo, che non era fatta di atomi terreni; che dietro le quinte il senso non era il nostro senso. Nella vita la mente di ogni uomo rapida riconosce gli inganni che appronta la natura, così sotto i suoi occhi la canna si fa uccello, il rametto nodoso un corto bruco, e la testa del cobra si muta in falena gigante, le ali ripiegate con perfidia.
Ma ciò che la mia candida fonte sostituiva percettibilmente, poteva essere colto, lo sentivo, solo da chi avesse dimorato nel mondo straniero dove io ero soltanto un forestiero.
E di lì a poco la vidi svanire: benché ancora incosciente, ritornai sulla terra.
La storia suscitò l’ilarità del mio dottore.
Non credeva davvero che nello stato in cui mi aveva trovato si potesse «soffrire di allucinazioni o comunque sognare. Più tardi, forse, ma non mentre il collasso è in corso.
No, Mr Shade».
Ma, dottore, ero morto!
Sorrise: «Non proprio, solo la metà di un’ombra».
Obiettai, tuttavia. Nella mente continuavo a rivivere ogni cosa. Di nuovo un passo giù dalla pedana, una calda e strana sensazione, quel tizio ritto in piedi e io che a terra stramazzavo non già per via di un importuno con la pipa puntata, ma, quasi con certezza, perché il tempo era venuto che andando a sbattere girasse fuori asse un floscio dirigibile, quel vecchio cuore instabile.
Sapeva di verità la mia visione. Aveva il tono, il quid, la bizzarria della sua specifica realtà. Era.
Mentre il tempo scorreva, la sua costante verticale risplendeva in trionfo.
Spesso turbato dal bagliore accecante del mondo circostante, mi volgevo all’interno di me, e là, sullo sfondo dell’anima, c’era lei, ritta, Old Faithful, La Vecchia Fedele! La sua presenza soleva confortarmi meravigliosamente. Finché un giorno incappai in ciò che parve una rivelazione identica.
Una rivista pubblicava la storia della signora Zi. . il cui cuore era tornato a battere grazie al pronto massaggio del chirurgo.
Parlava al giornalista di un «Paese oltre il Velo» e il resoconto includeva qualche cenno sugli angeli, luccichio di finestre colorate, musica sommessa, una scelta di inni, la voce di sua madre, ma alla fine accennava a un remoto paesaggio, un frutteto immerso nella bruma - e cito: «Oltre il frutteto, avvolta in una sorta di foschia intravidi un’alta fonte bianca - e mi svegliai».
Se su un’isola ignota Capitan Schmidt vede un nuovo animale e lo cattura e di lì a poco se ne torna a casa con la pelle, l’isola non per questo entra nel mito.
La nostra fonte era un cartello indicatore, un segnale oggettivo e durevole nel buio, saldo al pari di un osso, solido come un dente, quasi triviale nella sua grossolana verità.
L’articolo era firmato da Jim Coates. E a Jim scrissi all’istante. Mi diede l’indirizzo. Per parlarle guidai per quattrocento e più chilometri ad ovest.
Arrivai. Venni accolto da fusa appassionate. Vidi la chioma azzurra, le lentiggini sul dorso delle mani, quell’aria rapita da orchidea: ero finito in una trappola.
«Chi mai perderebbe l’occasione d’incontrare un poeta così insigne?» Molto carino da parte mia venire. Io disperatamente tentavo le domande. Ma vennero ignorate: «Un’altra volta, forse». Li aveva il giornalista i vecchi scarabocchi. Davvero, meglio non insistere Continuava a offrirmi il suo plum-cake come se assurdamente fossi in visita a un vicino.
«Non posso credere» disse «che sia lei! Adoro la sua poesia nella “Blue Review! Quella sul Mon Blon.
Mia nipote ha scalato il Matterhorn. L’altro pezzo non l’ho proprio capito. Il senso, intendo. Perché il suono, certo. . Ma sono così ottusa!»
Lo era, infatti. Avrei potuto insistere.
Farle dire di più su quella bianca fonte che entrambi «oltre il velo» avevamo veduto ma se (pensai) avessi accennato a quel dettaglio, l’avrebbe colto al volo come segno di affinità insensate, un legame sacrale che univa lei e me misticamente, e in un baleno le nostre due anime sarebbero state una coppia tremante di fratello e sorella sull’orlo di un affettuoso incesto. «Bene,» dissi «credo che si stia facendo tardi. .»
Passai anche da Coates.
Temeva di aver smarrito quelle note.
Dal suo schedario tirò fuori il pezzo: «É preciso. Lo stile di lei non l’ho cambiato. C’è soltanto un refuso - non già che conti molto: monte, non fonte. Il tocco maestoso».
La Vita Eterna basata su un refuso!
Rimuginavo guidando verso casa: capire l’antifona, smetterla d’indagare sull’abisso?
Ma d’un tratto intuii che era questo l’essenziale, il tema in contrappunto; solo questo: non il testo, ma la sua tessitura; non il sogno, ma la coincidenza capovolta, non il vano nonsenso, ma una rete di senso.
Sì! Mi bastava poter trovare nella vita un qualche nesso o pseudonesso, una sorta di correlato disegno dentro al gioco, un plesso di artistica maestria, e qualcosa del piacere già provato da coloro che vi avevano giocato.
Non contava chi fossero costoro. Né suoni, né furtive luci venivano dalla loro enigmatica dimora, eppure erano lì, remoti e muti, intenti a giocare con i mondi, scambiando i pedoni con fauni d ebano e unicorni eburnei; accendendo qui una lunga vita, estinguendone là una più breve; eliminando un re nei Balcani; facendo sì che un frammento di ghiaccio precipitasse dalle ali di un aereo e uccidesse sul colpo un contadino; nascondendomi chiavi, occhiali o pipa. Collegando questi eventi e oggetti con eventi lontani, con oggetti svaniti. Facendo di possibilità e incidenti altrettanti ornamenti.
Imbacuccato, irruppi in casa: Sybil, senti, sono proprio convinto. . «Chiudi la porta, caro.
Il viaggio è stato buono?» Splendido - ma soprattutto torno convinto di poter trovare, brancolando una sorta. . di. . «Sì, caro?» Vaga speranza.
CANTO QUARTO
Ora spierò la bellezza come ancora nessuno l’ha spiata. Griderò come nessuno ha mai gridato. Oserò quel che nessuno ha osato. Farò ciò che nessuno prima ha fatto.
E quanto a questa macchina mirabile: sono perplesso sulla differenza tra due modi di comporre: quello, diciamo A, che solo nella mente del poeta ha luogo, un collaudo di parole in azione, mentre lui passa il sapone su una gamba per la terza volta, e il modo B, tanto più decoroso, quando il poeta nel suo studio siede con la penna in mano.
Con il metodo B la mano corrobora il pensiero, la battaglia astratta si combatte in concreto.
La penna, immobile a mezz’aria, cala in picchiata, elide un tramonto già cassato, ripristina una stella, e così guida materialmente l’espressione dal dedalo d’inchiostro verso l’incerta, diurna visione.

Ma il metodo A, quale agonia! Il cervello presto si chiude in una ferrea calotta di dolore.
Una musa in tuta sovrintende al trapano che mola e che mai sforzo di volontà potrà fermare, mentre l’automa rimuove ciò che ha aggiunto or ora o svelto s’incammina verso l’emporio all’angolo per comprare il giornale che ha letto poco prima.
Perché è così? Forse perché in questo tipo di lavoro manca la pausa della penna a mezz’aria, e devi usare tre mani simultaneamente per scegliere la rima necessaria, e tenere sott’occhio il verso completato avendo in mente le prove precedenti?
O senza scrivania si va più a fondo nel puntellare falsità e issare un poetico mondo?
Giacché vengono quegl’istanti misteriosi in cui, troppo esausto per cassare, abbandono la penna; e prendo a deambulare, finché a una muta ingiunzione la parola flautata viene a posarsi in mano.
Prediligo il mattino; e quanto alla stagione, il mezzo dell’estate. Una volta per caso mi sorpresi al risveglio mentre di me l’altra metà restava addormentata. Mi strappai così al sonno e raggiunsi veloce quel me stesso sul prato dove un’alba topazio si versava in coppe di trifoglio e Shade, senza una scarpa, in pigiama vegliava.
Mi accorsi così che anche quella metà dormiva sodo; risero entrambi e io in salvo mi risvegliai nel letto mentre il giorno rompeva il guscio d’uovo, frullio di pettirossi; una scarpa abbandonata sulla rorida zolla ingemmata. Gli Shade, due Ombre che imprimono la mia segreta impronta, congenito mistero.
Miracoli, miraggi, un mattino nel mezzo dell’estate.
Magari il mio biografo sarà troppo compassato o pochissimo informato per attestare che Shade facendo il bagno si radeva, quindi ecco qui: «Aveva fissato una sorta di aggeggio tutto-cardini-e-viti, un supporto metallico di traverso alla vasca per piazzare lo specchio giusto davanti al viso e con l’alluce far scendere acqua calda, lì stava assiso come un re, e come Marat si dissanguava».
Quanto più peso, tanto meno al sicuro è la mia pelle, qua e là assottigliata in modo assurdo, come intorno alla bocca: lo spazio tra il suo angolo e la smorfia che faccio è un invito al perfido taglietto.
Così la pappagorgia: un giorno farò crescere ben bene l’onor del mento che in me è così connaturato.
Il mio pomo d’Adamo è un fico d’India conclamato: parlerò, ora, del male, di inconsolabili dolori, come nessuno ha fatto prima. Nel mio caso si stima che nove ripassate del pennello non siano sufficienti.
E dieci. Tasto tra panna-e-fragola il pasticcio cruento e scopro che l’ispida toppa resta immutato cimento.
Ho i miei dubbi sul tizio degli spot che con un braccio solo e una sola passata di rasoio sgombra un liscio sentiero nella carne, dall’orecchio al mento quindi si tasta la pelle con sincero sentimento.
Rientro nella categoria dei bimani esigenti.
Come un efebo discreto che in calzamaglia assiste la sua partner nella danza acrobatica, la mia sinistra aiuta, sorregge, cambia posizione.
Parlerò ora. . Meglio di ogni sapone è la sensazione su cui contano i poeti, quando la vampa ghiaccia dell’ispirazione, l’immagine improvvisa, l’immediata espressione trasmettono un triplice fremito alla pelle che drizza i corti peli tutt’assieme come nel disegno animato le basette giganti dalla Crema Nostrana sollevate, per poi essere falciate.
Parlerò ora del male come nessuno ha fatto prima. Detesto cose tipo il jazz; l’idiota in polpe bianche che tortura un toro dal manto nero raggiato di scarlatto; il bric-à-brac astrattista; l’arte primitivista con maschere e folclore; la musica nei supermercati; le piscine; la scuola progressista; seccatori, bruti, filistei con coscienza di classe, Freud, Marx, pseudopensatori, poeti tronfi, pescecani e impostori.
E mentre la gillette scricchiola e raspa in viaggio per le contrade della guancia passano macchine sulla strada maestra, su per l’erto pendio della mascella i camion avanzano a fatica, e ora silenziosa entra in bacino una nave di linea, e ora ecco occhiali da sole a spasso per Beirut, e ora dissodo i campi della Vecchia Zembla dove cresce la mia grigia stoppia e schiavi fanno fieno tra naso e bocca.
La vita dell’uomo come commentario all’astruso poema non finito. Nota per ulteriore uso.
Vestendomi in questa o quella stanza, verseggio e vago per la casa, in mano un pettine o un calzante per scarpa pronto a mutarsi nel cucchiaio con cui mangio l’uovo. Dopo pranzo tu siedi al volante, mi porti in biblioteca. Cena alle sei e trenta. E quella mia musa stravagante, abile nel cambiare pelle, mi segue dappertutto, in biblioteca, in macchina, in cattedra finanche.
E anche tu sei presente, amore mio, tu sempre, immancabilmente, sotto le parole sopra le sillabe, a esaltare il ritmo della vita.
Nei giorni andati assiduo percepivo il fruscio di un abito di donna. Ho spesso colto il suono e il senso del tuo pensiero accanto al mio.
In te tutto è giovinezza, e tu, al solo citarle, rendi nuove vecchie cose inventate per te.
Il Golfo oscuro fu il mio primo libro (in versi liberi); poi Scritti di routine notturna; e La coppa di Ebe, ultimo carro di quel deludente carnevale, giacché adesso chiamo tutto Poesie, senza sentirmi imbarazzato.
(Ma a questa cosa trasparente è necessario si dia un nome che stilli dalla luna. Soccorrimi Volere!
Fuoco Pallido sia).
Cantando a bocca chiusa un’armonia sommessa e prolungata, il giorno è trascorso dolcemente.
Il cervello è drenato e un bruno amento e il nome che volevo citare e non citai seccano sul cemento.
Forse il mio amore sensuale per la consonne d’appui, pazza figlia di Eco, è radicato nel sentimento che la vita sia un bizzarro progetto con dovizia rimato.
Io sento di capire l’esistenza, o almeno una minuscola parte della mia, solo attraverso l’arte che professo intesa come voluttà combinatoria; e se il mio universo personale ammette la scansione, altrettanto faranno i versi di galassie divine, su metro giambico, questa almeno è l’impressione.
Sono piuttosto certo che sopravviveremo e che la mia diletta è viva in qualche luogo, così come ragionevolmente credo che domani, ventidue luglio del Cinquantanove, mi sveglierò alle sei, e la giornata con ogni probabilità sarà eccellente; così, lasciate che regoli la sveglia e sbadigliando riponga le mie Poesie sullo scaffale.
Ma non è ancora l’ora di dormire. Il sole sfiora lassù gli ultimi vetri, dal vecchio Dr Sutton.
Dev’essere sugli ottanta, oramai. O sono ottantadue?
La sua età era il doppio della mia l’anno che ti sposai.
Dove sei tu? In giardino. Vedo appena un lembo della tua ombra accanto al noce. Click, clank, da qualche parte giocano con i ferri di cavallo.
(Che, come ubriachi, si appoggiano a un lampione).
Una Vanessa bruna con la fascia vermiglia rotea nel sole che declina, si posa sulla sabbia, e mostra la punta inchiostro blu delle ali maculate di bianco.
E nell’ombra che fluida dilaga, nella luce che a poco a poco si ritira un uomo, che ignora la farfalla il giardiniere, credo, di un vicino -, passa spingendo una carriola vuota lungo il sentiero.
COMMENTO
Versi 1-4: Ero l’ombra del beccofrusone ucciso ecc.
L’immagine di questi versi iniziali è chiaramente quella di un uccello tramortito in pieno volo dall’urto violento contro la superficie esterna del vetro di una finestra in cui il cielo si specchia creando, pur con una sfumatura di colore più intensa e il trascorrere più lento di una nuvola, l’illusione di spazio ininterrotto. E vediamo con gli occhi della mente John Shade nella primissima adolescenza, un giovinetto privo di attrattive fisiche, ma per il resto stupendamente sviluppato, che subisce il primo shock escatologico della sua vita quando, con dita incredule, solleva dal terreno erboso quel corpicino compatto, ovoidale, e fissa le strisce color ceralacca che ornano le ali grigio-brune e le penne caudali aggraziate, dalle punte di un giallo brillante, come di vernice fresca. Quando, nel suo ultimo anno di vita, ebbi la fortuna di avere Shade come vicino di casa tra le idilliache colline di New Wye (si veda la Prefazione), notai spesso quella particolare specie d’uccelli nutrirsi, garruli e spensierati, delle bacche di ginepro velate di pruina azzurrognola che crescevano all’angolo della sua casa.
La mia conoscenza degli aves da giardino si era sempre limitata alle specie dell’Europa settentrionale, ma un giovane giardiniere di New Wye, a cui mi interessavo, mi aiutò a distinguere l’aspetto e i divertenti richiami di un certo numero di piccoli esseri dall’aria tropicale, a me sconosciuti; e naturalmente, dalla cima di ogni albero si dipartiva una linea tratteggiata in direzione del manuale di ornitologia aperto sul mio scrittoio, verso il quale mi lanciavo al galoppo dal prato, in preda a frenesia nomenclatoria. Quanto arduo mi fu associare il nome «pettirosso» all’impostore suburbano, al volatile volgare dallo sciatto piumaggio rosso spento e dall’appetito stomachevole che rivela nutrendosi di lunghi, tristi e inerti vermi!
Per inciso, è curioso come un uccello dal ciuffo erettile che in zemblano si chiama sampel (coda di seta), assai somigliante a un beccofrusone quanto forma e sfumatura di colore, sia stato preso a modello di una delle tre creature araldiche (le altre due sono rispettivamente una renna del suo colore naturale e un tritone azzurro, orocrinito) presenti nello stemma del re di Zembla, Charles il Beneamato (nato nel 1915), delle cui gloriose traversie ebbi a parlare spesso con il mio amico.
Il poema fu iniziato esattamente a metà dell’anno, qualche minuto dopo la mezzanotte del 10 luglio, mentre io giocavo una partita a scacchi con un giovane iraniano iscritto ai nostri corsi estivi; e non ho dubbio alcuno che il nostro poeta avrebbe capito la tentazione del suo glossatore di rilevare la coincidenza di quella data con un certo avvenimento fatale - la partenza dell’aspirante regicida, Gradus, da Zembla. In realtà, Gradus partì da Onhava, sull’aereo per Copenaghen, il 5 luglio.
Verso 12: quella contrada di cristallo
Forse un’allusione a Zembla, la mia amata patria.
Segue, nella minuta incoerente e semicancellata che non sono affatto certo di avere decifrato correttamente: Ah, devo ricordarmi di accennare alcunché di ciò che un amico mi disse di un re.
Ahimè! Avrebbe detto ben di più se una anti-Karlista che allignava tra le mura stesse della sua casa non avesse controllato ogni verso di cui egli la rendeva partecipe! Più e più volte lo rimproverai in modo bonario: «Dovresti davvero promettere che farai uso di tutto quel meraviglioso materiale, vecchio, grigio, cattivaccio di un poeta». E ridacchiavamo, come due ragazzi. Poi, però, conclusa la passeggiata serale ispiratrice, dovevamo separarci, e la notte arcigna alzava il ponte levatoio tra la sua fortezza inespugnabile e la mia umile dimora.
Il regno di quel sovrano (1936-1958) sarà ricordato, per lo meno da alcuni storici perspicaci, come un regno di pace e di eleganza. Grazie a un sistema flessibile di alleanze assennate, Marte non ne deturpò mai le cronache. All’interno, fino al momento in cui non vi si insinuarono corruzione, tradimento ed Estremismo, la Dimora del popolo (il Parlamento) lavorò in perfetta armonia con il Consiglio reale. Armonia, sì, era questa la parola d’ordine del regno. Fiorirono le arti gentili e le scienze pure.
Si permetteva che prosperassero tecnologia, fisica applicata, chimica industriale e simili; a Onhava un piccolo grattacielo di vetro color oltremare continuava a crescere senza sosta. Il clima pareva in via di miglioramento. Il regime fiscale era diventato anch’esso una bellezza: i poveri diventavano un po’ più ricchi, e i ricchi un po’ più poveri (secondo quella che un giorno, forse, diventerà nota come la Legge di Kinbote). L’assistenza medica si stava diffondendo fino ai confini dello Stato: infatti, durante il giro del paese che il monarca compiva ogni anno, in autunno, quando il sorbo piega i rami sotto il peso dei frutti corallini, e le pozzanghere tintinnano di mica, era sempre più raro il caso che quel sovrano cordiale ed eloquente fosse interrotto dal sibilante spasmo inspiratorio della pertosse tra la folla di scolaretti. Il paracadutismo era diventata uno sport popolare. In una parola, tutti erano soddisfatti, perfino i sobillatori politici, paghi di seminare malanimo al soldo di un altrettanto pago Sosed (il gigantesco vicino di Zembla). Ma non dilunghiamoci oltre su questo argomento tedioso.
Per tornare al re: prendiamo, per esempio, la questione della cultura personale. Accade forse spesso che i re si dedichino a specifiche ricerche? I re che si interessano di conchigliologia si contano sulle dita di una mano mutilata. L’ultimo monarca di Zembla, influenzato in parte dallo zio Conmal, grande traduttore di Shakespeare, aveva preso a coltivare con passione lo studio della letteratura, nonostante soffrisse di frequenti emicranie. A quarant’anni, poco prima che il suo trono fosse rovesciato, aveva raggiunto un tale livello di erudizione da arrischiarsi a seguire il rauco invito rivoltogli dallo zio venerando sul letto di morte: «Insegna, Karlikl». Naturalmente sarebbe stato sconveniente che un monarca si presentasse dietro un leggio universitario abbigliato con la toga del sapere per spiegare a una rosea gioventù come Finnegans Wake non sia che una ramificazione mostruosa delle «transazioni incoerenti» di Angus MacDiarmid e della Lingo-Grande di Southey («Caro Stumparumper», ecc.), o per esporre le varianti zemblane, raccolte nel 1789 da Hodinski, del Kongs-shugg-szo (Lo specchio del re), capolavoro anonimo del XII secolo.
Egli dovette quindi insegnare sotto falso nome e pesantemente truccato, con parrucca e basette finte.
Gli zemblani hanno tutti il medesimo aspetto: barba castana, guance rubizze, occhi azzurri; e io, che non mi rado da un anno, assomiglio al mio re travestito (si veda anche la nota al verso 894).
Nei periodi in cui insegnava, Charles Xavier si era imposto la regola di dormire in un pied-à-terre che aveva preso in affitto, come era abitudine dei cittadini eruditi, in Coriolanus Lane; un monolocale delizioso, con riscaldamento centralizzato, completo di bagno e cucinotto. Con piacere nostalgico tornano alla memoria la moquette grigia e le pareti grigio-perla (una delle quali si fregiava di una copia solitaria dello Chandelier, et casserole émalliée di Picasso), uno scaffale stipato di tomi di poesia dalla rilegatura in vitello, e un divano letto dall’aspetto virgineo sotto la coltre di pelliccia a imitazione panda.
Com’erano lontani da quella serena semplicità il palazzo e l’odiosa Camera di consiglio con i suoi problemi irrisolvibili e i consiglieri impauriti!
Verso 17: E poi .. graduale; verso 29: grigio
Per una straordinaria coincidenza (intrinseca, forse, alla natura contrappuntistica dell’arte di Shade) pare che qui il nostro poeta nomini (gradual, grigio, gray) un uomo che avrebbe visto per un solo e fatale istante tre settimane più tardi, ma della cui esistenza in quel momento (2 luglio) non poteva essere a conoscenza. Jakob Gradus si faceva chiamare in vari modi: Jack Degree o Jacques de Grey, o James de Gray, oltre a figurare negli schedari della polizia come Ravus, Ravenstone e d’Argius. Egli nutriva un affetto morboso per la maledetta Russia del periodo sovietico e sosteneva che la vera origine del suo nome era da ricercarsi nel termine russo per uva, vinograd, che con l’apposizione di un suffisso latino diventava Vinogradus. Il padre, Martin Gradus, era stato pastore protestante a Riga; ma, eccezion fatta per lui e per uno zio materno (Roman Tselovalnikov, ufficiale di polizia nonché membro part-time del partito socialrivoluzionario), pare che l’intero clan familiare si occupasse del commercio di liquori. Alla morte di Martin Gradus, avvenuta nel 1920, la vedova si trasferì a Strasburgo dove di lì a poco subì la stessa sorte. Un altro Gradus, un mercante alsaziano che, strano a dirsi, non aveva nessun legame di parentela con il nostro assassino, ma per anni aveva intrattenuto stretti e amichevoli rapporti d’affari con i di lui congiunti, lo adottò e lo crebbe insieme con i propri figli. Pare che a un certo punto il giovane Gradus andasse a Zurigo per studiare farmacologia; in un periodo successivo sembra che viaggiasse tra vigneti brumosi in qualità di assaggiatore itinerante.
Successivamente lo troviamo impegnato in attività sovversive di modesta portata - stampa libelli stizzosi, fa da corriere per oscuri gruppi sindacali, organizza scioperi all’interno di vetrerie, e simili. In un periodo non meglio definito degli anni Quaranta arriva a Zembla come rappresentante di commercio di bevande alcoliche (brandy), e quivi sposa la figlia di un oste. Si lega al partito Estremista fin dai suoi primi, ignobili contorcimenti e, allo scoppio della rivoluzione, le modeste doti organizzative del nostro sono messe variamente a frutto in diversi uffici. Parte alla volta dell’Europa occidentale, avendo in mente uno scopo sordido e in tasca una pistola carica, esattamente lo stesso giorno in cui un poeta innocente in un paese altrettanto innocente dà inizio al Canto Secondo di Fuoco pallido.
Accompagneremo Gradus con il pensiero nel suo viaggio dalla remota e indi68 stinta Zembla alla verde Appalachia, lo accompagneremo costantemente, lungo l’intero poema, mentre procede sulla strada del ritmo, scavalca una rima slitta all’angolo di un enjambement, respira con la cesura, penzola da un verso all’altro come di ramo in ramo, giù giù fino a piè di pagina, si rimpiatta fra due parole per riapparire sulla linea d’orizzonte di un nuovo canto continua l’implacabile marcia di avvicinamento a ritmo giambico, attraversa strade, monta con la valigia sulla scala mobile del pentametro, ne scende, sale su un nuovo convoglio mentale, entra nell’atrio di un albergo, spegne l’abatjour e, nell’istante in cui Shade cancella una parola, si addormenta, mentre il poeta depone la penna per la notte.
Verso 27: Sherlock Holmes
Detective privato dal naso aquilino, allampanato, alquanto gradevole, personaggio principale di vari racconti di Conan Doyle. Al momento, non ho modo di verificare a quale racconto il nostro poeta si riferisca; ho il sospetto che egli abbia semplicemente inventato il Caso delle impronte a Ritroso.
Verso 35: stiletti aguzzi di un ghiacciato stillicidio
Con quanta insistenza il nostro poeta evoca immagini invernali all’inizio di un poema che egli cominciò a comporre in una profumata notte d’estate! É semplice indovinare il meccanismo delle associazioni (il vetro evoca il cristallo e il cristallo il ghiaccio) , pur rimanendone incognita la leva. La troppa modestia vieta di supporre che la circostanza dell’incontro tra il poeta e il suo futuro commentatore in un giorno d’inverno abbia qui influito sul dato stagionale.
Si suggerisce al lettore di soffermarsi sull’ultima parola dell’incantevole verso qui commentato. La definizione che ne dà il mio dizionario è la seguente: «successione di gocce che cadono dai cornicioni; grondatura; sgocciolio da volte di grotte». Ricordo di essermi imbattuto per la prima volta in questo termine leggendo una poesia di Thomas Hardy. La luminosa gelata ha eternato la luminosa grondatura.
É bene notare anche il misterioso cenno-sprazzo presente nell’espressione «stiletti aguzzi» e l’ombra inquietante del regicidio che aleggia nel verso.
Versi 39-40: socchiudere gli occhi, ecc.
Questi versi compaiono nella minuta con una variante:
. . e verso casa si affrettano i miei ladri, il sole con il ghiaccio rubato, la luna con le foglie Non si può evitare il richiamo a quel passo del Timone d’Atene (atto IV, scena III) in cui il misantropo parla ai tre predoni. Non potendo disporre di una biblioteca nel desolato cottage di tronchi in cui vivo come Timone nella sua caverna, sono costretto, per poter citare rapidamente, a ritradurre il passo nella madrelingua, traendolo da una versione zemblana in versi del Timone con la speranza che essa non si discosti troppo dal testo originale, o per lo meno ne rispecchi fedelmente lo spirito: Il sole è ladra: blandisce il mare, e lo deruba. La luna è ladro: ruba al sole la sua argentea luce.
Ladro è il mare: esso scioglie la luna.
Verso 41: come potessi distinguere
A fine maggio ero in grado di distinguere a grandi linee alcune delle mie immagini nella forma che il suo genio avrebbe potuto conferire loro; a metà giugno mi sentii alfine certo che egli avrebbe ricreato in un poema la Zembla abbagliante che mi infiammava la mente. Lo mesmerizzai, lo permeai della mia visione, riversai su di lui, con la generosità incontrollata di un ubriaco, tutto ciò che ero incapace di mettere in versi. Per certo, non sarebbe facile scoprire nella storia della poesia un caso analogo: due uomini, diversi per origine, educazione, associazione di idee, intonazione spirituale e modo di pensare, l’uno studioso cosmopolita, l’altro, poeta schivo e appartato, che stringono un patto segreto di tal genere. Alfine seppi che era maturo per la mia Zembla, saturo al punto giusto, scoppiettante di rime appropriate, pronte a zampillare a un battito di ciglia. Non perdevo occasione di spronarlo a vincere la sua indolenza abituale e cominciare a scrivere.
Nella mia agendina tascabile compaiono alcune annotazioni del tipo: «Suggeritogli metro eroico»;
«ripetuto racconto di fuga»; «offerto uso di stanza tranquilla a casa mia»; «esaminata possibilità di registrare su nastro mia voce per sua utilità»; e, infine, alla data del 3 luglio: «poema incominciato!».
Pur comprendendo fin troppo chiaramente, ahimè!, che il risultato, nella sua stesura finale così pallida e diafana, non può ritenersi un’eco diretta del mio racconto (del quale, peraltro, queste mie note riportano soltanto alcuni frammenti, e soprattutto nel Canto Primo), non esiste dubbio alcuno che il bagliore crepuscolare della vicenda narrata è stato l’agente catalizzatore nel processo stesso di protratta effervescenza creativa che ha consentito a Shade di produrre un poema di 1000 versi in tre settimane.
Inoltre, è presente una sintomatica somiglianza, un’aria di famiglia, nella coloritura sia del poema sia della storia. Ho riletto, non senza piacere, i miei commenti ai suoi versi, e in molti casi mi sono scoperto a mutuare una specie di luminosità opalescente dall’ardente astro del mio poeta, e a scimmiottare inconsapevolmente lo stile in prosa dei suoi saggi critici. Ma la vedova, e i di lui colleghi possono smettere di preoccuparsi e godere appieno il frutto di qualsivoglia consiglio ebbero a dare al mio benevolo poeta: ma sì, la stesura finale del poema è soltanto opera sua.
Se escludiamo, e ritengo sia giusto farlo, tre accenni fortuiti alla regalità e lo «Zembla» d’après Pope, possiamo concludere che la stesura finale di Fuoco pallido è stata deliberatamente e drasticamente prosciugata di ogni traccia del materiale da me fornito; tuttavia, è anche possibile riscontrare che, nonostante il controllo esercitato sul mio poeta da un censore domestico e Dio solo sa da chi altri, egli ha dato asilo al reale fuggiasco nei sotterranei delle varianti che ha conservato; infatti, nella minuta, ben tredici versi superbamente musicali, serbano l’impronta specifica del mio tema, un minuscolo ma autentico astro-fantasma delle mie conversazioni su Zembla e sul suo re sventurato.
Versi 47-48: la struttura lignea della casa tra Goldsworth e Wordsmith Il primo nome si riferisce alla casa di Dulwich Road che presi in affitto da Hugh Warren Goldsworth, un’autorità del Diritto romano e giudice insigne. Non ebbi mai il piacere di incontrarlo, ma imparai a conoscerne la calligrafia quasi quanto quella di Shade. Il secondo nome si riferisce, naturalmente, alla Wordsmith University. Suggerendo in apparenza una posizione a metà strada fra i due luoghi il nostro poeta non intende tanto fare una precisazione spaziale, quanto uno scambio sillabico arguto evocativo dei due maestri del distico eroico, in mezzo ai quali, dentro una nicchia frondosa, egli dà rifugio alla propria musa. In realtà, «la struttura lignea della casa . . sul riquadro erboso» si trovava a otto chilometri circa di distanza dalla Wordsmith University, in direzione ovest, e a soli cinquanta metri circa dalle finestre di casa mia, sul lato volto a est. Nella Prefazione a quest’opera ho avuto modo di accennare alle comodità della mia abitazione. L’incantevole e incantevolmente svagata signora che me la procurò senza che la vedessi prima, era senza dubbio animata dalle migliori intenzioni, soprattutto perché l’edificio riscuoteva l’ammirazione dell’intero vicinato per la sua «spaziosità e signorilità all’antica». In effetti, si trattava di una casa vecchia e tetra, semirivestita di legno, bianca e nera: quel genere di casa che nel mio paese chiamiamo zuodnaggen, con i timpani scolpiti, bow-window pieni di spifferi e una veranda cosiddetta «seminobile» sormontata da un orribile terrazzo. Il giudice Goldsworth aveva moglie e quattro figlie; i ritratti di famiglia mi accolsero nell’ingresso, perseguitandomi poi di stanza in stanza e benché sia convinto che Alphina (9), Betty (10), Candida (12) e Dee (14) si trasformeranno in breve tempo da scolarette orribilmente graziose in giovani signore eleganti e madri eccellenti, devo confessare che quelle loro impertinenti fotografie mi irritarono a un punto tale che alfine le raccolsi a una a una e le buttai tutte dentro un armadio, sotto le forche ordinatamente schierate dei loro indumenti invernali avvolti in sudari di cellophane. Nello studio mi 73 imbattei in una fotografia di grande formato dei genitori, dal sesso invertito: la signora G. assomigliava a Malenkov e il signor G. a una strega boccoluta del genere Medusa; l’ho sostituita con la riproduzione di un prediletto Picasso prima maniera: giovane mortale che conduce un cavallo di nubi temporalesche. Non mi scomodai molto, invece, quanto ai libri di famiglia, sparsi anch’essi un po’ dovunque per tutta la casa: quattro edizioni complete di differenti enciclopedie per bambini, e una, più corposa, per adulti, che si arrampicava di ripiano in ripiano lungo una rampa di scale per culminare con l’esplosione dell’appendice nel solaio. A giudicare dai romanzi che si trovavano nel salottino della signora Goldsworth, i suoi interessi intellettuali erano ampiamente sviluppati, spaziando da Amber allo zen. Il capo di quella alfabetica famiglia possedeva anch’egli una biblioteca, che tuttavia consisteva soprattutto di opere giuridiche e di un mucchio di registri dalle intestazioni vistose. Il profano che avesse cercato di racimolare qualcosa a scopo di apprendimento e di intrattenimento poteva disporre soltanto di un album rilegato in marocchino nel quale il giudice aveva amorevolmente incollato biografie e foto di coloro che aveva mandato in galera o condannato a morte: facce indimenticabili di malviventi imbecilli, ultime sigarette e ultimi sogghigni, le mani assolutamente normali di uno strangolatore, una vedova fai-da-te gli occhi troppo vicini e spietati di un maniaco omicida (piuttosto somigliante, lo confesso, al defunto Jacques d’Argus), un piccolo e vispo parricida di sette anni («Suvvia, figliolo, vogliamo che tu ci dica. .»), e un vecchio pederasta, triste e tozzo, che aveva fatto saltare in aria il tizio che lo ricattava. Ciò che mi sorprese alquanto fu che fosse lui, il mio istruito locatore, a dirigere la casa, e non la «sua signora». Oltre a farmi trovare un inventario dettagliato di tutti quegli oggetti che si radunano attorno a un nuovo affittuario come una torma tumultuante di indigeni minacciosi, si era dato l’incantevole pena di scrivere su foglietti di carta raccomandazioni, spiegazioni, ingiunzioni ed elenchi integrativi. Qualunque cosa toccassi, quel primo giorno di permanenza nella casa, forniva un saggio di Goldsworthiana. Girai la chiave dell’armadietto dei medicinali della seconda stanza da bagno, ed ecco uscire svolazzando un messaggio per informarmi che il raccoglitore di lamette da barba usate era troppo pieno e non si poteva adoperare; aprii il frigorifero, e quello con un latrato mi diffidò dall’introdurre «specialità nazionali il cui odore sia difficile da eliminare»; aprii il cassetto centrale dello scrittoio nello studio, e scoprii un catalogue raisonné del suo misero contenuto che comprendeva una serie di posacenere, un tagliacarte damaschinato (descritto come «un pugnale antico portato dall’Oriente dal padre della signora Goldsworth») e un’agendina tascabile vecchia e mai usata, che se ne stava lì, a maturare, aspettando ottimisticamente che si ripresentassero le dovute corrispondenze calendaristiche. Nella dispensa, su un pannello specificamente adibito allo scopo, tra altre comunicazioni dettagliate relative a istruzioni idrauliche, disquisizioni elettriche, dissertazioni cactacee e così via, trovai anche la dieta del gatto nero in dotazione alla casa: lun., merc., ven.: fegato mar., giov., sab.: pesce dom.: carne macinata (Da me ebbe soltanto latte e sardine; era una creaturina simpatica, ma dopo qualche tempo il suo girovagare cominciò a darmi sui nervi e lo affidai alla signora Finley, la donna delle pulizie). Ma, forse, la comunicazione più ridicola riguardava la manipolazione delle tende delle finestre, che dovevano essere chiuse in modo diverso a seconda dell’ora del giorno affinché il sole non si posasse sulla tappezzeria di divani e poltrone. Per ciascuna delle numerose finestre era fornita la descrizione della posizione del sole, sia giornaliera sia stagionale, e se avessi mai tenuto conto di quella storia, sarei stato impegnato quanto un velista in una regata. Tuttavia, un poscritto suggeriva generosamente che, invece di issare e ammainare le tende, forse avrei preferito spostare avanti e indietro, fuori dalla portata del sole, i mobili più preziosi (due poltrone ricamate e una pesante «console reale»), nel qual caso avrei dovuto usare molta attenzione per non graffiare la modanatura delle pareti. Non mi è possibile, ahimè, riportare qui il programma meticoloso degli spostamenti, ma mi pare di ricordare che avrei dovuto fare l’arrocco lungo prima di coricarmi e l’arrocco corto al mattino, come prima cosa. Che risate fragorose si fece il caro Shade mentre lo accompagnavo in un giro d’ispezione, invitandolo a scovare da sé alcune di quelle uova a sorpresa. Grazie a Dio, la sua ilarità vigorosa dissipò l’atmosfera da damnum infectum nella quale si supponeva dimorassi. A sua volta, mi deliziava con il racconto di aneddoti sullo spirito pungente del giudice e sui suoi vezzi da aula di tribunale: per la maggior parte, si trattava chiaramente di esagerazioni folcloristiche, alcune erano invenzioni palesi, e tutte, comunque, innocue. Non accennò, mai lo fece il mio caro e dolce amico, alle storie ridicole circa le ombre terrorizzanti che la toga del giudice Goldsworth gettava sull’intero mondo della malavita, né su questa o quella belva che giaceva in prigione morendo, sì, morendo dalla raghirst (sete di vendetta) - grossolani luoghi comuni messi in circolazione da gente volgare e crudele, individui per i quali semplicemente non esistono né avventure romantiche, né remote lontananze, né cieli scarlatti foderati di pelli di foca, né dune di un regno favoloso, sull’imbrunire. Ma chiudiamo questo argomento e dedichiamoci alle finestre del nostro poeta. Non desidero affatto stravolgere e bistrattare un inequivocabile apparatus criticus fino al punto di ridurlo alle mostruose sembianze di un romanzo. Oggi mi sarebbe impossibile descrivere l’abitazione di Shade in termini architettonici o in qualunque altro termine che non sia quello della sbirciata e dell’occhiata di sfuggita, o delle possibilità consentite dall’inquadratura delle finestre. Come detto dianzi (si veda la Prefazione), l’arrivo dell’estate portò con sé un problema di ottica: il fogliame invadente e io non avevamo lo stesso punto di vista: quello confondeva un monocolo verde con un otturatore opaco, e il concetto di protezione con quello di ostruzione. Nel frattempo (il 3 luglio, secondo la mia agenda) avevo saputo, non da John, ma da Sybil, che il mio amico aveva cominciato a scrivere un lungo poema. Non lo vedevo da un paio di giorni e mi trovai a recapitargli alcuni opuscoli prelevati dalla sua cassetta per le lettere collocata sulla strada e adiacente a quella dei Goldsworth (che deliberatamente ignoravo, ricolma com’era di dépliant, annunci pubblicitari locali, cataloghi commerciali e altra immondizia del genere), quando m’imbattei in Sybil che un cespuglio aveva nascosto al mio occhio di falco. Con un cappello di paglia in testa e guanti da giardino alle mani, stava accovacciata davanti a un’aiuola, potando o legando qualcosa, e i pantaloni marroni aderenti che indossava mi riportarono alla mente le calzamaglie-mandolino (come scherzosamente le chiamavo) che mia moglie era solita indossare. Mi disse di non disturbare il marito con quella pubblicità e soggiunse che egli aveva «iniziato un poema davvero importante». Sentii il sangue affluirmi al viso e borbottai qualcosa sul fatto che lui non mi aveva ancora mostrato nulla di quel lavoro; lei si raddrizzò, scostò dalla fronte i capelli neri e grigi, mi guardò fisso e disse: «Come sarebbe che non gliene ha mostrato nulla? Lui non mostra mai niente di incompleto; mai, mai. Non ne parlerà neppure con lei finché non sarà assolutamente terminato». Mi era impossibile crederlo, ma presto scoprii, parlando con l’amico stranamente reticente, che egli era stato ben indottrinato dalla moglie. A ogni mio tentativo di farlo parlare ricorrendo a frecciatine benevole del tipo: «Chi vive in una casa di vetro non dovrebbe scrivere poemi», si limitava a sbadigliare e a scuotere il capo, ribattendo che «i forestieri dovrebbero stare alla larga dai vecchi detti». Ciò nonostante, la voglia di sapere quale uso stesse facendo di tutto quel materiale vivo, affascinante, palpitante, scintillante che gli avevo profuso, il desiderio smanioso di vederlo al lavoro (anche se mi era negato il frutto di tale lavoro) si dimostrarono assolutamente tormentosi e incontrollabili, facendo sì che indulgessi a un’orgia di spiate che nessuna considerazione ispirata dall’orgoglio riuscì a frenare. Le finestre, è risaputo, sono state il conforto della letteratura in prima persona di tutti i tempi. Ma il sottoscritto in qualità di osservatore non è mai riuscito a emulare la pura e semplice fortuna dell’origliante Eroe del nostro tempo o di quello onnipresente del Tempo perduto. Tuttavia, di quando in quando mi era concesso qualche residuo di una caccia fortunata. Quando la mia finestra a battenti venne meno alla sua funzione per via dello sviluppo lussureggiante di un olmo, scoprii, all’estremità della veranda, un angolo ricoperto d’edera dal quale potevo godere un’ampia veduta della facciata anteriore della casa del poeta. Se desideravo vederne il lato sud, potevo scendere dietro al garage e, schermato da un liriodendro, guardare, oltre la strada che scendeva sinuosa lungo la collina, diverse preziose finestre illuminate, dato che egli non abbassava mai gli avvolgibili (lei sì). Se agognavo al lato opposto, non dovevo fare altro che risalire la collina fino alla sommità del giardino, dove la mia guardia del corpo di neri ginepri osservava le stelle e i presagi e la chiazza di luce pallida sotto il lampione solitario della strada sottostante. All’inizio della stagione qui rievocata, avevo ormai superato quei timori molto speciali e molto personali di cui si parla altrove, e traevo un certo diletto a proseguire, nell’oscurità, lungo una sporgenza rocciosa e ricoperta d erbacce situata sul lato orientale del mio giardino, la quale terminava in un boschetto di robinie, posto poco più in alto del lato nord della casa del poeta. Una volta, tre decenni or sono, al tempo della mia fanciullezza dolce e terribile, ebbi l’occasione di vedere un uomo nell’atto di entrare in contatto con Dio. Girovagando, mi ero inoltrato nella cosiddetta Corte delle rose, sul retro della Cappella ducale di Onhava, mia città natale, durante un intervallo delle prove di canto religioso corale. Mentre mi guardavo attorno trasognato, sollevando alternativamente i polpacci nudi per rinfrescarli contro la liscia superficie di una colonna, mi giungevano all’orecchio le dolci voci lontane che si intrecciavano alla rattenuta gaiezza dei fanciulli, cui un occasionale risentimento, un’irritazione gelosa nei confronti di qualche ragazzo in particolare, mi impediva di unirmi. Un rumore di passi veloci mi indusse a sollevare lo sguardo imbronciato dal mosaico settile della corte - realistici petali di rosa intagliati nel rodstein e grandi spine, quasi palpabili, di marmo verde. Tra quelle rose e quelle spine avanzò un’ombra scura: un giovane ministro del culto, alto, pallido, dal naso lungo e dai capelli scuri che avevo già visto nei paraggi un paio di volte, uscì a grandi passi dalla sagrestia e, senza vedermi, si fermò al centro della corte. Un disgusto colpevole gli contorceva le labbra sottili. Portava gli occhiali. Le mani serrate a pugno parevano stringere le sbarre invisibili di una prigione. Ma non c’è limite alla grazia che l’uomo può ricevere. D’improvviso il suo aspetto mutò, divenne estatico e reverenziale. Mai prima d’allora avevo visto una simile vampa di beatitudine, ma ero destinato a percepire qualcosa di quello splendore, di quella energia spirituale e di quella visione divina ora, in un’altra terra, riflessi sul volto angoloso e insignificante del vecchio John Shade. Con quanta gioia mi resi conto che le veglie di guardia durate per tutta la primavera mi avevano preparato a osservarlo intento al suo prodigioso compito in piena estate! Conoscevo ormai alla perfezione l’ora e il luogo migliori dai quali seguire le isoipse della sua ispirazione. Il mio binocolo andava cercandolo da lontano e lo metteva a fuoco nei vari luoghi del suo travaglio: di notte, nel bagliore violetto dello studio al piano superiore della casa, dove uno specchio gentile rifletteva a mio beneficio le spalle ingobbite e la matita con cui si frugava di continuo nell’orecchio (ispezionando di quando in quando la punta di grafite e, perfino, assaggiandola); di mattina, rimpiattato tra le ombre infrante dello studio al pianterreno, dove un calice luminoso di liquore si spostava silenziosamente dal classificatore al leggio, e dal leggio allo scaffale dei libri, per ivi nascondersi, se necessario, dietro il busto di Dante; nelle giornate più calde, tra i rampicanti di un piccolo portico simile a un pergolato, attraverso le cui ghirlande riuscivo a intravedere un lembo di tela cerata, il gomito che egli vi teneva appoggiato, il pugno grassoccio da cherubino che puntellava la tempia, increspandola. Situazioni contingenti di prospettiva e di illuminazione, l’interferenza di rami o del fogliame degli alberi di solito mi impedivano di distinguere chiaramente il viso; forse la natura ha sistemato le cose in quel modo onde proteggere il mistero della creazione da un eventuale predatore; ma, a volte, quando il poeta passeggiava avanti e indietro sul prato, o si sedeva per un attimo sulla panchina in fondo al giardino, o si soffermava sotto il prediletto noce americano, riuscivo a scorgere le espressioni di interesse appassionato, estasi e venerazione con cui seguiva le immagini che si andavano formulando nella sua mente, e sapevo che, per quanto il mio agnostico amico lo negasse, in quel momento Nostro Signore era con lui. Certe sere in cui la casa, sui tre lati che potevo sorvegliare dai miei tre punti propizi, appariva buia molto prima dell’ora in cui i suoi abitanti erano soliti coricarsi, proprio quell’oscurità mi rivelava che essi erano in casa. L’automobile era posteggiata vicino al garage, ma non potevo credere che fossero usciti a piedi, perché in quel caso avrebbero lasciato accesa la luce della veranda. Riflessioni e deduzioni tratte in un secondo tempo mi hanno persuaso che la sera in cui si fece impellente il bisogno di sapere e decisi di verificare la situazione era l‘11 di luglio, data in cui Shade terminò il Canto Secondo. Era una notte afosa, nera, e minacciava burrasca. Furtivo, attraversai il folto di arbusti e mi portai sul retro della loro casa. A prima vista mi parve che anche quel quarto lato fosse buio, in tal caso la questione era risolta, ed ebbi il tempo di avvertire una curiosa sensazione di sollievo prima di notare un debole riquadro di luce sotto la finestra di un salottino sul retro nel quale non ero mai entrato. Era spalancata.
Una lampada a stelo con un paralume di carta similpergamena illuminava la parte inferiore della stanza dove vidi Sybil e John, lei seduta all’amazzone sul bordo del divano, dandomi la schiena, e lui su di un pouf vicino al divano nell’atto, a quanto pareva, di raccogliere lentamente dal piano di seduta e impilare carte da gioco residue di un solitario. Sybil ora si rattrappiva tremante, ora si soffiava il naso; il viso di John era tutto chiazzato e umido. Non sapendo allora esattamente che tipo di carta da scrivere usasse il mio amico, non potei fare a meno di chiedermi che cosa diamine ci fosse di tanto drammatico, nell’esito di una partita a carte, da provocare il pianto. Nell’atto di protendermi per vedere meglio, affondando fino alle ginocchia in una siepe di bosso orribilmente elastica, spostai il sonoro coperchio di una pattumiera. Naturalmente, era possibile credere che fosse stata opera del vento, e Sybil detestava il vento: scese immediatamente di sella, chiuse la finestra con un gran tonfo e abbassò lo stridulo avvolgibile. Tornai strisciando al mio tetro domicilio, oppresso nel cuore e perplesso nella mente. Il cuore rimase oppresso, ma la perplessità si risolse alcuni giorni dopo, molto probabilmente nella ricorrenza di San Swithin, perché sul mio diario tascabile, a quella data, trovo l’annotazione di una prevista «promnad vespert midJ.S.», depennata con una tale irritazione da spezzare la mina a metà del gesto. Dopo avere atteso a lungo che il mio amico mi raggiungesse nel viale, fino a che il rosso del tramonto si tramutò nel grigio cenere dell’imbrunire, mi diressi alla porta d’ingresso di casa sua, esitai, ne valutai l’oscurità e il silenzio e cominciai a fare il giro della casa. Questa volta, dal salottino posteriore non veniva alcun barlume, ma alla viva e prosaica luce della cucina distinsi l’estremità di un tavolo verniciato di bianco a cui Sybil sedeva con un’espressione di tale rapimento sul viso da far supporre che avesse appena inventato una nuova ricetta. La porta di servizio era socchiusa e nell’istante in cui bussando l’aprivo e stavo per uscirmene con una frase gaiamente frivola, mi resi conto che Shade, seduto all’estremità opposta del tavolo, le stava leggendo qualcosa che immaginai essere una parte del poema. Entrambi trasalirono. A Shade sfuggì un’imprecazione impubblicabile e sbatté sul tavolo il mucchio di schede che aveva in mano. In seguito avrebbe attribuito quello scoppio emotivo al fatto di avere scambiato, a causa degli occhiali da lettura che aveva sul naso, un amico gradito per un piazzista importuno; tuttavia devo dire che mi sconvolse, mi sconvolse molto, e sul momento mi rese incline ad attribuire un significato odioso a tutto quanto seguì. «Allora, si sieda» disse Sybil «e prenda un caffè», (i vincitori sono generosi). Accettai, volevo vedere se la recitazione sarebbe proseguita in mia presenza. Non proseguì. «Credevo», dissi al mio amico «che saremmo andati a fare una passeggiata». Si giustificò dicendo che era indisposto, e continuò a pulire il fornello della pipa con ferocia, come se fosse il mio cuore ciò in cui stava scavando. Non soltanto capii allora che Shade leggeva regolarmente a Sybil lunghi brani del poema, ma si fa strada nella mia mente, adesso, anche la certezza che, altrettanto regolarmente, ella gli faceva attenuare o eliminare dalla Bella Copia del poema qualsiasi collegamento con lo splendido tema zemblano che io continuavo a prodigargli e che, non sapendo granché sull’opera in fieri, credevo appassionatamente avrebbe costituito il sontuoso ordito del suo tessuto. Sulla stessa collina boscosa, ma in posizione più elevata, sorgeva, e confido che sorga ancora, la vecchia casa di legno del Dr Sutton; ancora più in alto, proprio in cima, e l’eternità non riuscirà a farla sloggiare, c’è la villa ultramoderna del Prof. C., dalla cui terrazza si può intravedere, verso sud, il maggiore e il più triste dei tre laghi comunicanti, Omega, Ozero e Zero (nomi di origine pellerossa storpiati dai primi colonizzatori così da favorire derivazioni speciose e trite allusioni). Sul lato nord della collina, Dulwich Road si immette sulla strada principale che porta alla Wordsmith University, alla quale dedicherò qui soltanto poche parole, vuoi perché il lettore può ricevere tutte le informazioni che desidera richiedendo per iscritto gli opuscoli all’Ufficio Pubbliche relazioni dell’università, ma soprattutto perché, riservando a Wordsmith un accenno più breve delle note sulle abitazioni di Goldsworth e Shade, desidero rendere noto il fatto che la sua distanza da queste ultime era assai maggiore di quella esistente fra le due abitazioni. Forse è questa la prima volta che il dolore sordo della lontananza è reso mediante un effetto stilistico e che un concetto topografico trova espressione verbale in una serie di frasi dal taglio prospettico. Dopo aver serpeggiato verso est per circa sei chilometri attraverso una zona residenziale superbamente spruzzata e irrigata, con prati variamente livellati e variamente digradanti su entrambi i lati, la strada principale si biforca: un ramo volge a sinistra verso New Wye e relativo campo d’aviazione in attesa; l’altro ramo prosegue fino all’area occupata dall’università. Lì sono le grandi magioni della follia, i dormitori impeccabilmente progettati - manicomi di musica selvaggia -, lo splendido palazzo dell’amministrazione, edifici rivestiti di mattoni, gli archi, le corti quadrangolari dal nitido prato centrale di verde vellutato e crisopazio, Spencer House con il suo laghetto di ninfee, la cappella, la nuova sala conferenze, la biblioteca, l’edificio a guisa di carcere che ospita le nostre aule e i nostri uffici (d’ora in poi sarà chiamato Shade Hall), il famoso viale con tutti gli alberi citati da Shakespeare, un ronzio lontano di voci, un accenno di caligine, la cupola turchese dell’osservatorio, sbuffi e pallidi pennacchi di cirri, e, dietro la cortina di pioppi, il campo da football a gradinate come un anfiteatro romano, deserto nelle giornate estive, con l’eccezione di un bambino dagli occhi sognanti che fa volare in cerchi oziosi un ronzante aeromodellino, trattenuto da un lungo cavo di controllo. Buon Dio, fa qualcosa. 
Verso 49: noce
Noce americano. Il nostro poeta condivideva con i grandi maestri inglesi la nobile inclinazione a trapiantare nei versi gli alberi, la loro linfa e la loro ombra. Molti anni fa, Disa, la nostra regina, consorte del nostro re, che prediligeva la jacaranda e il capelvenere, copiò nel proprio album una quartina dalla Coppa di Ebe, una raccolta di poemetti di John Shade, che non posso astenermi dal citare qui (trascrivo da una lettera che ricevetti il 6 aprile 1959 dalla Francia meridionale): L’ALBERO SACROLa foglia di ginkgo, color oro, quando cade, chicco d’uva moscata somiglia a una farfalla antiquata, dalle ali mal dispiegate. Quando fu costruita la nuova chiesa episcopale di New Wye, i bulldozer risparmiarono un arco di quegli alberi sacri piantati da un geniale architetto di giardini (Repsburg) al termine della cosiddetta Shakespeare Avenue, nel campus universitario. Non so se la cosa abbia importanza, ma il secondo verso contiene un gioco di parole gatto-topo; inoltre, in zemblano «albero» si dice grados. Verso 57: l’altalena fantasma di mia figlia piccina Dopo questo verso, nella minuta Shade ha cancellato con tratto leggero i versi seguenti: Buona è la luce; le lampade hanno il collo slanciato; e ogni porta una chiave. L’architetto moderno è in collusione con gli psicoanalisti: se progetta stanze da letto per i genitori, insiste su porte senza serrature, sì che, nel ricordare, il paziente futuro del futuro stregone troverà, pronta per lui, la Scena del Peccato Originale. Verso 61: Graffette immense di tivù Nel necrologio, per il resto insignificante, e decisamente insulso, si dà il caso che venga citata una poesia manoscritta (ricevuta da Sybil Shade) dicendola «composta dal nostro poeta, pare alla fine di giugno, quindi meno di un mese prima della morte del nostro poeta, trattandosi quindi dell’ultimo brano scritto dal nostro poeta». Eccola: L’ALTALENAIl sole calante che illumina spuntoni di graffette giganti di televisioni sui tetti; l’ombra del pomello che al tramonto sembra una mazza da baseball sulla porta; il cardinale che ama appollaiarsi e far cip cip, cip cip sull’albero, e sotto l’albero la piccola altalena che vuota oscilla: sono queste le cose che mi spezzano il cuore. Lascio decidere al lettore del mio poeta se sia credibile che egli abbia composto questi versi appena pochi giorni prima di ripeterne i temi miniaturizzati in questa parte del poema. Sospetto che si tratti di un tentativo molto precedente (non reca indicazione di data, ma dovrebbe risalire a poco dopo la morte della figlia) che Shade tirò fuori dalle sue vecchie carte per vedere se avrebbe potuto utilizzarlo per Fuoco pallido (il poema che il nostro necrologista non conosce). verso 62: spesso Spesso, quasi ogni notte, e per tutta la primavera del 1959, ho temuto per la mia vita. La solitudine è terreno di caccia di Satana. Non so descrivere l’abisso della mia solitudine e della mia angoscia. Naturalmente c’era il mio famoso vicino, proprio al di là del viale, e a un certo momento ho anche accolto in casa un giovane inquilino dissoluto (che era solito rientrare ben oltre la mezzanotte). Ma voglio insistere su quel duro e gelido nocciolo di solitudine che non è giovevole a un’anima esiliata. É risaputo che gli zemblani sono portati al regicidio: due regine, tre re, e quattordici pretendenti al trono sono morti di morte violenta, strangolati, pugnalati, avvelenati e affogati, nel corso di un solo secolo (1700-1800). Il castello dei Goldsworth diventava particolarmente solitario dopo il momento critico dell’imbrunire, che tanto somiglia al crepuscolo della mente. Fruscii furtivi, il cadere delle foglie della stagione andata, una brezza impercettibile, un cane che faceva il giro delle pattumiere - tutto suonava alle mie orecchie come indizio di un predatore assetato di sangue. Continuavo a spostarmi da una finestra all’altra, la papalina di seta fradicia di sudore, il petto denudato simile a uno stagno in disgelo, e talvolta, armato dello schioppo del giudice, osavo affrontare i terrori della terrazza. Suppongo sia stato allora, in quelle notti che passavano per primaverili, con i suoni della nuova vita dentro gli alberi che parodiavano crudelmente lo scricchiolio della vecchia morte nel mio cervello, suppongo sia stato allora, in quelle orrende notti, che presi l’abitudine di volgermi alle finestre del mio vicino sperando in un barlume di conforto. Cosa non avrei dato perché il poeta avesse un altro infarto, sì che io fossi chiamato a casa loro, tutte le finestre ardenti di luce, nel mezzo della notte, in una grande, calda esplosione di solidarietà, caffè, telefonate, ricette zemblane a base di erbe (operano miracoli!) e Shade che, risorto, piange fra le mie braccia («Su, su, John»). Ma in quelle notti di marzo la loro casa era buia come una bara. Quando poi lo sfinimento fisico e il gelo sepolcrale mi inducevano al fine a salire al piano superiore, al mio solitario letto matrimoniale, giacevo sveglio, trattenendo il fiato, come se soltanto allora, in quei momenti, stessi realmente vivendo le notti perigliose trascorse nel mio paese, dove, in qualsiasi istante un manipolo di esagitati rivoluzionari sarebbe potuto entrare per spingermi poi contro un muro illuminato dalla luna. Il passaggio di un automobile veloce o di un camion cigolante giungeva come una strana combinazione di amicale, vivifica salvezza e di spaventosa ombra mortifera: quell’ombra si sarebbe arrestata davanti alla mia porta? Venivano per me quei fantomatici assassini? Mi avrebbero fucilato immediatamente - oppure avrebbero riportato di nascosto lo studioso narcotizzato a Zembla la Rodnaja Zembla, per affrontare una bottiglia di cristallo abbagliante e una sfilza di giudici esultanti sui loro scranni inquisitori? A volte pensavo che l’autodistruzione fosse la mia unica speranza di raggirare gli assassini che si avvicinavano implacabili, e che erano in me, nei miei timpani, nel battito del mio polso, nel mio cranio piuttosto che su quella ininterrotta strada maestra che si avvolgeva a cappio sopra di me e attorno al mio cuore quando riuscivo finalmente ad appisolarmi, soltanto per farmi mandare il sonno in pezzi dal ritorno di quell’ubriacone, di quell’impossibile, indimenticabile Bob, al letto che era stato di Candida o di Dee. Come accennato nella Prefazione, alla fine lo buttai fuori; dopo di che, e per parecchie notti, né vino, né musica, né preghiera riuscirono a placare le mie paure. D’altra parte, quelle giornate di primavera inoltrata erano così dolci, le mie lezioni gradite a tutti, e non mancavo di presenziare a ogni occasione mondana che mi venisse offerta. Ma dopo la vivace serata, ecco di nuovo l’avvicinarsi insidioso, il subdolo strascichio di passi, quel salire furtivo, e quella pausa, e il crepitio che riprendeva. Il castello dei Goldsworth aveva numerose porte d’ingresso e, per quanto accuratamente le controllassi, come pure facevo con le imposte del pianterreno, la sera prima di coricarmi, il mattino seguente trovavo sempre qualcosa di sbloccato, disserrato, non fermato, socchiuso, qualcosa di maligno e di sospetto. Una notte il gatto nero, che alcuni minuti prima avevo visto ondeggiare verso il seminterrato, dove avevo sistemato la sua lettiera in una cornice attraente, ricomparve d’improvviso sulla soglia della sala da musica, nel bel mezzo della mia insonnia e di un disco di Wagner, con la schiena arcuata e facendo sfoggio di un fiocco di seta bianca attorno al collo che non poteva di certo essersi messo da solo. Telefonai all‘11111 e, pochi minuti dopo, vagliavo con un agente, che gradì moltissimo il mio liquore di ciliegie, chi potesse essere il colpevole, ma chiunque fosse stato a introdursi in casa non aveva lasciato tracce. É così facile per una persona crudele convincere colui che è vittima del suo astuto ingegno di soffrire di manie di persecuzione, o di essere davvero nel mirino di un killer che s’accosta furtivo, o di avere allucinazioni. Allucinazioni! Sapevo fin troppo bene che tra alcuni giovani insegnanti, le cui avances avevo rifiutato, c’era almeno un burlone spietato; lo sapevo fin da quella volta che, rientrando da una riunione studenti-docenti molto simpatica e assai ben riuscita (durante la quale mi ero vivacemente liberato della giacca per mostrare a numerosi allievi interessati alcune divertenti prese praticate dai lottatori zemblani), trovai nella tasca della giacca un brutale biglietto anonimo su cui era scritto: «Soffri di al. . i, sul serio, amico», intendendo evidentemente «allucinazioni», anche se un critico malevolo potrebbe inferire dal numero insufficiente di puntini che il piccolo Mr Anon non conosceva l’ortografia, nonostante insegnasse inglese alle matricole. Sono lieto di segnalare che poco dopo Pasqua le paure scomparvero per non ricomparire mai più. Un altro inquilino occupò la stanza di Alphina, o di Betty: Balthasar, Principe dell’humus, come lo soprannominai, che con la regolarità tipica delle forze naturali si addormentava alle ventuno e alle sei era già intento a piantare eliotropi (Heliotropium turgenevi). É questo un fiore che evoca con un’intensità senza tempo il crepuscolo, e il sedile in giardino, e una casa di legno verniciato in una lontana terra nordica. 
Verso 70: la nuova tivù
A questo verso, nella minuta (in data 3 luglio), seguono alcuni altri versi senza numerazione che forse erano destinati a parti successive del poema. Non sono stati proprio cassati, bensì affiancati a margine da un punto interrogativo e circoscritti da una linea ondeggiante che si sovrappone ad alcune delle lettere: Eventi, strani accadimenti che colpiscono emblematici la mente. Come similitudini che vanno alla deriva, senza un filo, legate al nulla. Al pari di quel nordico monarca la cui evasione disperata dalla prigione riuscì solo in ragione di un pugno di seguaci, quaranta quella notte ne presero il sembiante, minandone la fuga. Non sarebbe mai riuscito a raggiungere la costa occidentale se la mania di impersonare il re fuggiasco non si fosse sparsa fra i suoi segreti sostenitori, scavezzacolli romantici ed eroici. Si vestirono in modo da sembrare il monarca, con maglione e berretto rossi, e saltarono fuori qua e là, disorientando completamente la polizia del governo rivoluzionario. Alcuni di quei mattacchioni erano assai più giovani del re, ma la cosa non aveva importanza dato che i suoi ritratti, nelle baite dei montanari e nei negozietti miopi dei villaggi, ove si potevano acquistare vermi, pampepato e lamette zhiletka, non erano invecchiati dal giorno dell’incoronazione. Un delizioso tocco umoristico si aggiunse alla nota vicenda quando, dalla terrazza dell’Hotel Kronblik la cui seggiovia conduce i turisti al ghiacciaio Kron, si vide un mimo fluttuare festoso verso l’alto, simile a una falena rossa, mentre, a due seggiolini di distanza, lo inseguiva un poliziotto tradito dalla fortuna nonché dal berretto, come in una sequenza al rallentatore. Fa piacere aggiungere che, prima di toccare la piattaforma d’arrivo, il falso re riuscì a fuggire scendendo lungo uno dei piloni di sostegno del cavo di trazione. Verso 71: i miei Con solerzia encomiabile, prima che fosse trascorso un mese dalla morte del poeta, il Professor Hurley compose un Elogio delle opere già pubblicate di John Shade. Uscì su una rivistucola letteraria, della quale non ricordo al momento il titolo, e mi fu mostrato a Chicago, dove mi ero trattenuto per un paio di giorni interrompendo il viaggio in automobile da New Wye a Cedarn, tra quelle desolate montagne autunnali. Un Commento nel quale dovrebbe regnare l’erudizione serena non è il luogo adatto per fare esplodere le pecche ridicole di quell’insignificante necrologio. Ho menzionato la cosa soltanto perché da lì ho potuto racimolare alcune scarne informazioni sui genitori del poeta. Il padre, Samuel Shade, che morì nel 1902 a cinquant’anni d’età, in gioventù aveva studiato medicina ed era vicepresidente di una ditta di strumenti chirurgici a Exton. Tuttavia, la sua grande passione era ciò che il nostro ispirato necrologista definisce «lo studio della tribù pennuta», aggiungendo che «il suo nome è stato dato a un uccello: il Bombycilla Shadez» (che dovrebbe essere shadez, naturalmente). La madre del poeta, née Caroline Lukin, lo aiutava nel suo lavoro, e illustrò mirabilmente il di lui Uccelli del Messico, che ricordo di avere visto in casa del mio amico. Ciò che il nostro necrologista ignora è che Lukin, come pure Locock e Luxon e Lukashevich, derivano tutti da Luke. É uno dei numerosi casi in cui un patronimico ereditario dall’apparenza amorfa, ma vivo e personale, cresce, a volte fino ad assumere forme fantastiche, attorno al comune sassolino di un nome cristiano. I Lukin sono un’antica famiglia dell’Essex. Altri nomi derivano da mestieri: per esempio, Rymer, Scrivener, Limner (il miniatore di pergamene), Botkin (fabbricante di bottekin, un tipo di calzatura di lusso) e migliaia d’altri. Il mio precettore, che era scozzese, chiamava hurley-house qualunque edificio vecchio e diroccato. Ma passiamo ad altro. I lettori di Shade possono ricavare alcuni ulteriori dettagli sugli studi universitari e sugli anni centrali di quella sua vita così singolarmente monotona dall’articolo del professore, che sarebbe stato nel complesso tedioso se certe particolari caratteristiche non l’avessero vivacizzato, ammesso che questo sia il termine adatto. Pertanto, esso contiene un solo cenno al capolavoro del mio amico (capolavoro che, mentre scrivo, giace al sole, sul mio tavolo, in pile ordinate come altrettanti lingotti di favoloso metallo), e lo trascrivo con malsano piacere: «Pare che, proprio alla vigilia della prematura dipartita, il nostro poeta stesse lavorando a un poema autobiografico». Le circostanze di quella morte sono completamente stravolte dal professore, fedele quanto fatale seguace dei signori della stampa quotidiana i quali, forse per ragioni politiche, avevano falsato il movente e le intenzioni dell’accusato senza attenderne il processo che sfortunatamente non si sarebbe tenuto in questo mondo (si veda, alla fine, la mia nota di chiusura). Ma, naturalmente, la caratteristica più sorprendente dell’insignificante necrologio è che esso non contiene nessun accenno alla fulgida amicizia che illuminò gli ultimi mesi di vita di John. Il mio amico non era in grado di ricordare l’aspetto del padre; egualmente il re, il quale non aveva ancora compiuto i tre anni alla morte del padre, non riusciva a rievocare il volto di re Alfin; tuttavia, strano a dirsi, ricordava alla perfezione il piccolo monoplano di cioccolato che egli, bimbetto grassottello, reggeva per caso tra le mani in quell’ultimissima fotografia (Natale 1918) del malinconico aviatore in calzoni da cavallerizzo sulle cui ginocchia egli, con riluttanza, era scomodamente adagiato. Alfin lo Svagato (1873-1918; r. 1900-1918, ma la maggior parte dei dizionari biografici indicano 1900-1919, una svista grossolana dovuta alla coincidenza con il cambiamento di calendario dallo stile giuliano a quello gregoriano) fu così denominato da Amphitheatricus, un non malvagio autore di poesia effimera per giornali progressisti (responsabile, inoltre, di avere ribattezzato Uranograd la mia capitale!). La distrazione di re Alfin non conosceva limitr. Pessimo linguista, poteva fare ricorso soltanto ad alcune frasi in francese e in danese, ma ogniqualvolta doveva tenere un discorso ai suoi sudditi un crocchio di bifolchi zemblani che lo guardavano a bocca aperta in qualche vallata remota dove era stato costretto a un atterraggio d’emergenza - nella mente gli scattava una molla incontrollabile ed egli si sintonizzava su quelle frasi, condite con un po’ di latino per conferire loro un pizzico di colore locale. Quasi tutti gli aneddoti sulle sue innocenti crisi di distrazione sono troppo sciocchi e indecorosi per insudiciare queste pagine; tuttavia uno, che non ritengo particolarmente divertente. suscitò tali sghignazzate da parte di Shade (che mi furono poi riferite, con turpi aggiunte, in sala dei professori) da rendermi propenso a riportarlo qui, in qualità di esempio (e a titolo di rettifica). Un’estate, alla vigilia della prima guerra mondiale, nel corso di una visita assai insolita e lusinghiera che l’imperatore di un grande regno straniero (mi rendo conto quanti pochi siano quelli tra i quali scegliere) stava facendo al nostro piccolo e ruvido paese, mio padre condusse l’ospite, insieme con il giovane interprete zemblano (di cui non specifico il sesso), a fare una gita in campagna su un’automobile fuori serie appena acquistata. Com’era sua abitudine, re Alfin viaggiava senz’ombra di scorta, e questo, oltre alla sua guida vivace, pareva impensierire l’ospite. Sulla via del ritorno, a circa trenta chilometri da Onhava, re Alfin decise di fermarsi per qualche riparazione. Mentre egli armeggiava con il motore, l’imperatore e l’interprete si rifugiarono all’ombra di alcuni pini lungo la strada maestra, e soltanto una volta giunto a Onhava, re Alfin si rese conto a poco a poco, e in seguito a reiterate nonché alquanto frenetiche domande, di essersi lasciato dietro qualcuno («Quale imperatore?» è rimasto l’unico suo mot memorabile). In genere, per quanto riguarda i contributi da me portati (o ciò che ritenevo fossero contributi), più volte raccomandai al mio poeta di metterli comunque per iscritto, ma di non divulgarli in chiacchiere oziose; anche i poeti, tuttavia, sono esseri umani. La distrazione di re Alfin si abbinava bizzarramente alla passione per tutto ciò che era meccanico, soprattutto per gli apparecchi volanti. Nel 1912 riuscì a sollevarsi con un idroplano Fabre a forma d’ombrello e rischiò di annegare nel tratto di mare tra Nitra e Indra; fracassò due Farman, tre apparecchi zemblani, e un adorato Demoiselle Santos Dumont. Nel 1916 il colonnello Peter Gusev, suo fedele «aiutante aeronautico» (che sarebbe diventato un pioniere del lancio con il paracadute e, all’età di settant’anni, uno dei più grandi paracadutisti di tutti i tempi), gli costruì un monoplano davvero speciale, il Blenda IV, che divenne per lui l’ala del fato. In quella mattina di dicembre, serena e non troppo fredda, nella quale gli angeli decisero di prendere nella loro rete la sua anima pura e gentile, re Alfin stava tentando di ripetere in solitaria un rischioso cerchio della morte verticale che il principe Andrej Kachurin, il famoso specialista russo di volo acrobatico nonché eroe della prima guerra mondiale, gli aveva fatto vedere a Gatchina. Qualcosa non funzionò a dovere, e si vide il piccolo Blenda precipitare in picchiata, privo di controllo. Da un biplano Caudron, che si trovava alle spalle del velivolo e a un’altitudine superiore, il colonnello Gusev (allora già duca di Rahl) e la regina stavano scattando numerose istantanee di quella che a tutta prima parve un’evoluzione nobile ed elegante, ma che di lì a poco si tramutò in qualcosa d’altro. All’ultimo momento re Alfin riuscì a raddrizzare l’apparecchio e tornò a essere padrone della gravità, ma l’istante successivo il velivolo centrò in pieno l’impalcatura di un enorme albergo in costruzione nel bel mezzo di una landa costiera, quasi fosse stato messo lì apposta per sbarrargli la strada. La regina Blenda ordinò che quell’edificio incompleto e gravemente sventrato fosse raso al suolo e sostituito da un insulso monumento di granito sormontato da un improbabile modello di velivolo in bronzo. Un giorno Charles Xavier, che aveva all’epoca otto anni, scoprì nel cassetto di un secrétaire le lucide copie degli ingrandimenti fotografici con l’intera sequenza della sciagura. In alcune di quelle atroci immagini si scorgevano le spalle e il casco di cuoio dell’aviatore, stranamente sereno, e nella penultima della serie, immediatamente precedente a quella con l’indistinta macchia bianca dello schianto dirompente, lo si distingueva chiaramente nell’atto di alzare un braccio in segno di trionfo e rassicurazione. Il bambino fece sogni orribili dopo l’episodio, ma la madre non scoprì mai che egli aveva visto quei documenti infernali. Di lei conservava un vago ricordo: un’amazzone alta, solida, robusta, dal viso rubicondo. Un cugino di sangue reale le aveva assicurato che il figlio sarebbe stato al sicuro e felice sotto la tutela dell’ottimo Mr Campbell, il quale aveva insegnato a numerose e obbedienti principessine a conservare le farfalle e ad apprezzare Lord Ronalds Coronach. Egli aveva immolato la propria vita, per così dire, sull’altare portatile di un gran numero di interessi, dallo studio degli acari dei libri alla caccia all’orso, ed era in grado di sciorinare tutto d’un fiato il Machbet nel corso di una escursione; tuttavia, non gl’importava un fico secco della moralità di coloro che erano affidati alle sue cure, preferiva le donzelle ai giovanetti, e non si immischiava nelle complessità dei focolari zemblani. Se ne andò, alla volta di qualche corte esotica, dopo dieci anni di soggiorno, nel 1932, quando il nostro principe, allora diciassettenne, aveva iniziato a dividere il proprio tempo fra l’università e il suo reggimento di appartenenza. Fu il più bel periodo della sua vita. Non sapeva mai decidere che cosa preferisse: se lo studio della poesia, soprattutto inglese, o assistere alle parate, oppure danzare ai balli in maschera con ragazzi-femmina e ragazze-maschio. La regina morì improvvisamente il 21 luglio 1936 a causa di una misteriosa malattia del sangue che già aveva afflitto sua madre e sua nonna. Il giorno precedente la dipartita si era sentita molto meglio, e Charles Xavier era andato a un ballo, che si era concluso all’alba, nel cosiddetto Palazzo ducale di Grindelwod: per quella volta, una faccenda dichiaratamente eterosessuale, alquanto rilassante dopo gli svaghi che l’avevano preceduta. All’incirca alle quattro, con il sole che accendeva le cime degli alberi e il monte Falk, facendolo somigliare a un roseo cono, il re fermò la sua potente automobile davanti a uno dei cancelli del palazzo. L’aria era così fine, la luce così lirica che egli e i tre amici che erano con lui decisero di attraversare a piedi il boschetto di tigli che li separava dal Padiglione dei pavoni nel quale alloggiavano gli ospiti. Sia lui che Otar, un amico platonico, indossavano il frac, ma i cilindri erano andati perduti nel vento della strada. Qualcosa di strano colpì i quattro, fermi sotto i giovani tigli nel composto paesaggio di pendenze e contropendenze fortificate da ombre e contrombre. Otar, un giovane di nobile famiglia, piacevole e istruito, con un naso enorme e radi capelli, era accompagnato dalle sue due amanti, la diciottenne Fifalda (che in seguito avrebbe sposato) e la diciassettenne Fleur (che incontreremo nuovamente in altre due note), figlie della contessa de Fyler, dama di compagnia preferita della regina. Viene spontaneo soffermarsi su quel quadretto, come quando, stando in un punto d’osservazione privilegiato del tempo, sappiamo retrospettivamente che nello spazio di un attimo la nostra vita subirà un cambiamento totale. Dunque, c’è Otar che guarda perplesso le finestre lontane degli appartamenti della regina, e le due ragazze, fianco a fianco, avvolte in luccicanti mantelli, le gambe sottili, i rosei nasetti da gattina, i verdi occhi assonnati, gli orecchini che catturano e rinviano il fulgore del sole. C’era qualche altra persona in giro come sempre a qualsiasi ora, presso quel cancello lungo il quale correva una strada che si immetteva nella superstrada orientale. Una contadina, con una piccola torta da lei stessa preparata - certamente la madre della sentinella che non era ancora giunta a dare il cambio al giovane bruno e non sbarbato, il nattdett (figlio della notte) che stava nella garitta desolata -, sedeva su uno sperone di roccia e guardava con femmineo rapimento la luce delle candele che, simili a lucciole, passavano di finestra in finestra; due operai, immobili con le loro biciclette, fissavano anch’essi quelle strane luci; e un ubriaco dai baffi spioventi si aggirava barcollante dando pacche affettuose ai tronchi dei tigli. Nei momenti in cui la vita pare rallentare, si colgono i particolari più trascurabili. Il re notò che sul telaio delle biciclette c’era qualche schizzo di fango rossastro e che le ruote anteriori di entrambe erano parallele, voltate nella stessa direzione. D’improvviso, da un ripido sentiero tra siepi di lillà - una scorciatoia dagli appartamenti della regina - apparve la contessa correndo e inciampando nell’orlo della lunga e ampia veste trapuntata, mentre contemporaneamente, da un altro lato del palazzo, tutti e sette i consiglieri, nella pompa degli abiti da cerimonia e reggendo a mo’ di plum-cake gli esemplari delle varie insegne regali, scendevano con dignitosa urgenza la scalinata di pietra, ma ella li batté per un soffio e sputò fuori la notizia. L’ubriaco cominciò a cantare una ballata licenziosa su «Karlie-Garlie» e cadde nel fossato a forma di mezzaluna. Non è facile descrivere con chiarezza nelle brevi note di commento a un poema le diverse vie d’accesso a un castello fortificato, e quindi, conscio della difficoltà, avevo preparato per John Shade - era giugno quando gli raccontavo gli avvenimenti cui accenno in alcune glosse - una pianta piuttosto ben disegnata degli appartamenti, terrazze, bastioni e luoghi di ricreazione del palazzo di Onhava. A meno che non sia stato distrutto o rubato, quel disegno, eseguito con inchiostri di vari colori su un grande cartone (settantacinque centimetri per cinquanta) potrebbe ancora essere nel luogo ove lo vidi per l’ultima volta a metà luglio, sopra il grande baule nero, di fronte al vecchio mangano, in una nicchia del corridoietto che conduce alla cosiddetta dispensa della frutta. Se non fosse lì, lo si potrebbe cercare nello studio di Shade al primo piano. Al riguardo ho scritto a Mrs Shade, ma lei non risponde alle mie lettere. Nell’eventualità che esso esista ancora, vorrei supplicarla, sommessamente e con la massima umiltà, la stessa umiltà con cui il più infimo suddito del re potrebbe impetrare la reintegrazione immediata nei propri diritti (il disegno è mio ed è ben visibile la firma «Kinbote» seguita dalla corona del re nero degli scacchi), di spedirlo, ben imballato, con l’indicazione «Non piegare» sull’involucro esterno, e a mezzo raccomandata, al mio editore affinché possa riprodurlo in edizioni future della presente opera. Quali che fossero le energie di Cui disponevo in passato, esse mi hanno abbandonato ultimamente, e cefalee atroci non mi consentono ora lo sforzo mnemonico e visivo che un nuovo disegno della pianta richiederebbe. Il baule nero è collocato sopra un altro, più grande, marrone o brunastro, e mi pare che lì vicino, in quell’angolo buio, ci sia una volpe impagliata, o un coyote. Verso 79: Cultore del preterito A lato di questo verso, sul margine della minuta, ci sono due versi, dei quali solo il primo è decifrabile. Esso recita: La sera è il momento in cui lodare il giorno Sono abbastanza certo che il mio amico stesse cercando di incorporare, a questo punto, qualcosa che egli e Mrs Shade mi avevano sentito citare nei momenti di maggiore spensieratezza, e cioè una quartina incantevole del corrispondente zemblano dell’Édda in poesia, in un’anonima traduzione inglese (di Kirby?): Il saggio, a sera, loda il giorno, la moglie, quand’ella non è più il ghiaccio alle spalle lasciato, la sposa che ha montato, e il cavallo cavalcato. Verso 80: la mia camera Il mio principe voleva bene a Fleur come a una sorella, ma senza romantica ombra di incesto o di complicazioni omosessuali secondarie. Ella aveva un viso pallido, minuto, con zigomi prominenti, occhi luminosi e ricciuti capelli scuri. Si mormorava che dopo essere andato vagando per mesi, munito di una coppetta di porcellana e di una pianella di Cenerentola, lo scultore e poeta ciel bel mondo Arnor avesse trovato in lei ciò che stava cercando, e avesse fatto ricorso ai di lei seni e piedi per il suo Li lith che richiama Adamo; ma non sono certamente un esperto in tali delicate faccende. Otar, il suo amante, diceva che quando le si camminava dietro, ed ella era consapevole che stavate alle sue spalle, l’oscillazione e il gioco di quelle anche snelle aveva qualcosa d’intensamente artistico, qualcosa che veniva insegnato alle ragazze arabe in scuole speciali da speciali mezzani parigini che, dopo, finivano strangolati. Le fragili caviglie, che, diceva Otar, ella accostava assai in quell’andatura aggraziata e ondeggiante, erano i «gioielli prudenti» del poema di Arnor su di una miragarl («fanciulla-miraggio») per la quale «un re dei sogni nei deserti sabbiosi del tempo avrebbe dato trecento cammelli e tre fonti». On ságaren verem tremkin tristàna Verbàlala vod ghevu ut tri phantána (ho indicato gli accenti tonici). Il principe non faceva caso a quelle chiacchiere di cattivo gusto (tutte, probabilmente, orchestrate dalla di lei madre) e la considerava, è bene reiterarlo, semplicemente una sorella, fragrante di profumi e alla moda, con la bocca imbronciata dipinta di rossetto, e un modo maussade, confuso, gallico, di esprimere quel poco che desiderava esprimere;l’imperturbabile villania con la quale trattava la nervosa e garrula contessa lo divertiva. Gli piaceva ballare con lei, e soltanto con lei. Non provava quasi affatto imbarazzo quando ella gli accarezzava la mano o si dedicava silenziosamente, con le labbra socchiuse, alla sua guancia che l’alba esausta del dopoballo aveva già punteggiato di fuliggine. Fleur non sembrava rammaricarsi quando egli l’abbandonava per applicarsi a piaceri più virili; e lo accoglieva ancora, nell’oscurità di un’automobile o nella luce soffusa di un cabaret, con il sorriso pacato e ambiguo di una parente stretta. I quaranta giorni che intercorsero fra la morte della regina Blenda e l’incoronazione furono forse il periodo più penoso della sua vita. Non aveva provato affetto alcuno per la madre, e il rimorso disperato e impotente che sentiva degenerò in un malsano terrore fisico del suo spettro. La contessa, che sembrava essergli sempre vicina sempre frusciante al suo fianco, lo convinse a partecipare a sedute spiritiche con un esperta medium americana, sedute durante le quali lo spirito della regina, facendo muovere lo stesso tipo di planchette che ella aveva usato durante tutta la sua vita per comunicare con Thormodus Torfaeus e con A.R. Wallace, scriveva ora bruscamente in inglese : «Charles prendi prendi prediligi amore fiore fiore fiore». Un anziano psichiatra, corrotto dalla contessa a tal punto che perfino nell’aspetto esteriore somigliava a una pera putrida, assicurava al principe che erano stati proprio i suoi vizi, agendo in modo inconscio, a uccidere la madre, e avrebbero continuato «a ucciderla in lui», se egli non avesse rinunciato alla sodomia. Un intrigo di palazzo è un ragno spettrale nella cui rete resti sempre più perfidamente impigliato ogniqualvolta tenti, con un disperato strattone, di liberarti. Il nostro principe era giovane, inesperto e semidelirante a causa dell’insonnia. Non lottava affatto. La contessa spese un patrimonio per corrompere il kamergrum (valletto di camera) del principe, la sua guardia del corpo, e finanche, quasi per intero, il ciambellano di corte. Ella prese l’abitudine di dormire in una piccola anticamera contigua alla camera da letto da scapolo del principe, un appartamento splendido, spazioso, di forma circolare, alla sommità dell’alta e imponente Torre Sudovest. Un tempo ritiro del padre, l’ambiente era ancora collegato, per mezzo di un piacevole scivolo nella parete, a una piscina rotonda posta nell’atrio sottostante, talché il giovane principe poteva iniziare la giornata, come già usava il defunto sovrano, facendo scorrere un pannello a lato della sua branda da campo e rotolando nel condotto, donde sfrecciava giù direttamente nell’acqua luccicante. Per necessità che non fossero quelle del sonno, Charles Xavier aveva sistemato nel centro del pavimento, coperto da un tappeto persiano, un cosiddetto «patifolia», ossia un enorme cuscino, ovale, lussuosamente ornato di balze e imbottito di piume di cigno, vasto come un letto a tre piazze. E in quell’ampio nido dormiva ora Fleur, raggomitolata nell’avvallamento centrale, sotto un copriletto di autentica pelliccia di panda gigante, inviato sollecitamente dal Tibet per iniziativa di un gruppo di ammiratori asiatici in occasione dell’ascesa al trono. L’anticamera nella quale si era sistemata la contessa aveva la propria scala interna e il proprio bagno, ma comunicava anche con la Galleria Ovest per mezzo di una porta scorrevole. Non so quali consigli o quali ordini Fleur avesse ricevuto dalla madre, ma la piccola creatura si dimostrò una seduttrice scadente. Insisteva, come una pazza tranquilla, nel tentativo di aggiustare una viola d’amore rotta, oppure, seduta in pose dolenti, cercava di mettere a confronto due flauti antichi, entrambi dal suono spento e fievole. Nel frattempo, egli, abbigliato alla turca, stava stravaccato nell’ampia poltrona paterna, le gambe sopra un bracciolo, a scorrere un volume della Historia Zemblica, copiandone dei passi ed estraendo, di quando in quando, dai recessi inferiori della poltrona un paio di antiquati occhialoni da automobilista, un anello con opale nero, una palla di carta da cioccolatini argentata, o la stella di una onorificenza straniera. Faceva caldo nel riverbero del sole al tramonto. Il secondo giorno della loro ridicola coabitazione, ella non indossava null’altro che una specie di giacca di pigiama, senza bottoni e senza maniche; la vista dei quattro arti ignudi e delle tre tane-di-topo (anatomia zemblana) lo irritava e, mentre percorreva a grandi passi la stanza meditando sul discorso dell’incoronazione, Charles Xavier gettava verso di lei, senza guardare nella sua direzione, ora le mutandine, ora l’accappatoio di spugna. A volte, ritornando alla vecchia e comoda poltrona, ve la trovava, intenta a contemplare con aria afflitta la figura di un bogtur (antico guerriero) nel volume di storia. La spingeva fuori della poltrona senza distogliere gli occhi dal bloc-notes, ed ella, stiracchiandosi, si spostava sul sedile presso la finestra, in un polveroso raggio di sole; ma, poco dopo, cercava di rannicchiarglisi vicino, ed egli doveva allontanare con una mano quella massa di riccioli neri che cercava di scavarsi un recesso, mentre con l’altra scriveva oppure staccava a uno a uno i piccoli artigli rosei dalla sua manica o dalla fusciacca.4
Di notte la presenza di Fleur non neutralizzava l’insonnia, ma, se non altro, teneva a bada il robusto fantasma della regina Blenda. Tra lo sfinito e l’insonnolito, egli si trastullava con ghiribizzi meschini come, ad esempio, alzarsi e con una caraffa versare un po’ d’acqua fredda sulla spalla nuda di Fleur, a spegnervi il debole bagliore di un raggio lunare. La contessa russava fragorosamente nella sua tana. Ma, oltre il vestibolo della veglia (e a questo punto egli cominciava a scivolare nel sonno), nella galleria buia e gelida, distesi ovunque sul marmo policromo, ammucchiati l’uno sull’altro in tre o quattro contro la porta chiusa a chiave, alcuni appisolati, altri piagnucolanti, stavano i suoi nuovi paggi, un’intera montagna di fanciulli ricevuti in dono da Troth, e dalla Toscana, e dalla terra di Albano. Al risveglio la trovava in piedi, con un pettine in mano, davanti al suo specchio a bilico - o meglio, davanti allo specchio a bilico di suo nonno -, un trittico di luce senza fondo, uno specchio veramente stupendo, firmato con un diamante dall’artigiano che lo aveva fabbricato, Sudarg di Bokay. Ella ruotava su se stessa davanti allo specchio che, grazie a un segreto gioco di angoli di riflessione, accostava nelle sue profondità una sequenza infinita di nudi, ghirlande di fanciulle in gruppi aggraziati e afflitti i quali svanivano gradualmente nella limpida distanza, o si scindevano in singole ninfe alcune delle quali, ella mormorava, dovevano somigliare alle sue antenate negli anni di gioventù - piccole garlien contadine che si pettinavano i capelli nell’acqua bassa a perdita d’occhio -, e poi la nostalgica sirena di un’antica leggenda, e poi il nulla. La terza notte si udì provenire dalla scala interna uno scalpiccio di passi pesanti e clangore di armi; irruppero nella stanza il Primo consigliere, tre Rappresentanti del popolo, e il comandante delle nuove guardie del corpo. Cosa divertente, erano proprio i Rappresentanti del popolo i più furibondi all’idea di avere per regina la nipote di uno strimpellatore di violino. Quella fu la fine del casto idillio di Charles Xavier e Fleur, che era graziosa, certo non repellente (come alcuni gatti sono meno ripugnanti di altri per il cane bonario al quale è stato ordinato di sopportare gli aspri effluvi di un genere alieno). Le due dame ritornarono nella dépendance del palazzo con le loro bianche valigie e i loro strumenti musicali obsoleti. Seguì un dolce brivido di sollievo - poi la porta scorrevole dell’anticamera si aprì con un tonfo giocondo e l’intero mucchio di putti capitombolò all’interno. Avrebbe dovuto superare una prova ben più drammatica tredici anni dopo con Disa, duchessa di Payn, sposata nel 1949, che gli studiosi del poema di Shade incontreranno a tempo debito; non c’è alcuna fretta. Seguì una serie di fresche estati. La povera Fleur si aggirava ancora nei paraggi, anche se in modo meno evidente. Disa le stette accanto dopo che la vecchia contessa perì nel vestibolo affollato dell’Esposizione di Animali di vetro del 1950, parte della quale fu quasi distrutta dal fuoco, mentre Gradus aiutò i pompieri a sgomberare un’area della piazza per il linciaggio degli incendiari non sindacalizzati, o almeno delle persone (due sconcertati turisti danesi) erroneamente scambiate per quelli. Forse la nostra giovane regina provò una inspiegabile compassione nei confronti della sua pallida dama di compagnia che di quando in quando il re intravedeva intenta a miniare il programma di un concerto nell’obliquo fascio di luce di una finestra ogivale oppure udiva suonare una musica dal timbro metallico nel Padiglione B. Altri riferimenti alla splendida camera da letto dei suoi giorni da scapolo si trovano nella nota al verso 130, descritta come luogo di «lussuosa prigionia» all’inizio della tediosa e inutile Rivoluzione zemblana. Versi 84-85: che aveva visto il Papa Pio X, Giuseppe Melchiorre Sarto, 1835-1914; Papa dal 1903 al 1914. Versi 86-90: zia Maud Maud Shade, 1869-1950, sorella di Samuel Shade. Alla di lei morte, Hazel (nata nel 1934) non era precisamente una «piccola nipote» come suggerirebbe il verso 90. Trovai i suoi dipinti sgradevoli ma interessanti. Zia Maud non aveva affatto un carattere da zitella, e il suo spirito stravagante e sardonico talvolta deve avere sconcertato le distinte dame di New Wye. Versi 91-93: Futili cose, ecc Nella minuta, invece del testo definitivo . . intatta è rimasta la sua stanza. Quelle futili cose per noi fanno rivivere il suo stile: il sarcofago-foglia (un bozzolo di Luna morto e rinsecchito) Riferimento all’Actias luna che il mio dizionario definisce come «una grande farfalla notturna verde pallido, caudata, il cui bruco si nutre delle foglie del noce americano». Sospetto che Shade abbia modificato questo passaggio perché il nome della sua falena risultava disarmonico rispetto a «Plenilunio», due versi dopo. Verso 91: Futili cose Tra di esse c’era un album sul quale, nel corso di anni (1937-1949), zia Maud aveva incollato ritagli di giornale di natura involontariamente ridicola o grottesca. Un giorno, John Shade mi permise di prendere un appunto, trascrivendo il primo e l’ultimo della serie; si richiamavano l’un l’altro assai simpaticamente, pensai. Entrambi provenivano dalla medesima rivista per famiglie, «Life», meritatamente nota per il pudico riserbo quanto a misteri del sesso maschile; si può quindi immaginare la sorpresa e l’eccitazione di quelle famiglie: il primo ritaglio proviene dal numero del 10 maggio 1937, p. 67, e contiene la pubblicità della Chiusura lampo per Pantaloni Artiglio (a proposito, nome alquanto prensile e doloroso); si vede un giovanotto, irraggiante virilità, tra numerose amiche estatiche, e la scritta dice: «Rimarrete sbalorditi nel constatare che la patta dei vostri pantaloni può essere migliorata in modo tanto sensazionale». Il secondo proviene dal numero del 28 marzo 1949, p.126, ed è la pubblicità delle Mutande Foglia di fico Hanes. Un’Eva moderna sbircia adorante, da dietro un albero della conoscenza in vaso, un giovane Adamo voglioso che indossa l’indumento pubblicizzato un paio di mutande piuttosto ordinarie, ma pulite, la cui parte anteriore è vistosamente e fittamente ombreggiata; la scritta dice: «Non c’è niente di meglio di una foglia di fico». Sono certo che esiste uno speciale gruppo sovversivo di pseudocupidi: diavoletti paffuti e glabri che Satana incarica di operare disgustosi malestri in luoghi consacrati. Verso 93: il fermacarte Strano come l’immagine di quegli antiquati orrori ossessionasse il nostro poeta. Ho ritagliato, da un giornale che l’ha ripubblicata di recente, una vecchia poesia di Shade, in cui anche il negozio di souvenirs serba un panorama ammirato dal turista: VEDUTA MONTANAFra la montagna e l’occhio la fata della distanza tende un amoroso velo di crespo azzurro, la trama autentica del cielo. Sfiora una brezza i pini, e io mi unisco al generale applauso. Ma tutti noi sappiamo che non può durare, troppo fragile è la montagna per aspettare anche se riprodotta e soffiata nel vetro dentro di me, come in un fermacarte. Verso 98: su battuta di Chatman É un riferimento al titolo del famoso sonetto di Keats (citato spesso in America) che, per colpa della sbadataggine di un tipografo, è stato comicamente spostato da un altro articolo alla cronaca di un avvenimento sportivo. Versi 100-101: Un uomo libero non sa che farsene di un Dio Quando si considerano gli innumerevoli pensatori e poeti nella storia della creatività umana la cui libertà di pensiero fu accresciuta, anziché arrestata, dalla Fede, è giocoforza dubitare della saggezza di tale facile aforisma. Verso 109: iridula Una nuvoletta iridescente, muderperwelk in zemblano. Credo che il termine «iridula» sia un’invenzione di Shade. Sopra di esso, nella Bella Copia (scheda 9, 4 luglio), ha scritto a matita «barba di penne di pavone». La barba delle penne di pavone è usata come esca per una particolare pesca a mosca detta anche «alder». Così mi dice il proprietario di questo motel, che è un appassionato pescatore. (Si veda anche «strani iridescenti luccichii» dei versi 633-634). Verso 119: Dr Sutton Si tratta della riaggregazione di lettere prese da due nomi, l’uno che inizia con «Sut», l’altro che finisce con «ton». Due eminenti uomini di medicina, da molto tempo ritiratisi dalla professione, abitavano sulla nostra collina. Entrambi erano vecchi amici di Shade; uno aveva una figlia, presidentessa del circolo di Sybil: è il Dr Sutton. Versi 120-121: cinque minuti equivalevano a mille e rotti grammi, ecc. Sul margine sinistro, parallelo ai versi: «Nel Medioevo un’ora corrispondeva a 480 once (1360 grammi) di sabbia fine, ovvero 22560 atomi». Non sono in grado di controllare quest’affermazione o i calcoli fatti dal poeta per quanto riguarda i suddetti cinque minuti, cioè trecento secondi, dato che non vedo come si possa dividere 480 per 300 o viceversa, ma forse è soltanto perché sono stanco. Il giorno (4 luglio) in cui John Shade ha scritto ciò, Gradus il Sicario si accingeva a partire da Zembla per dar corso all’ininterrotta serie delle sue maldestre goffaggini nei due emisferi. Verso 130: non ho mai rilanciato una palla, roteato la mazza A essere sincero, neppure io ho mai primeggiato nel gioco del calcio o del cricket; sono un passabile cavaliere, uno sciatore vigoroso anche se non ortodosso, un buon pattinatore, un lottatore astuto, e un rocciatore appassionato. Nella minuta, il verso 130 è seguito da quattro strofe che Shade scartò preferendo la continuazione che appare sulla Bella Copia (verso 131, ecc.). Quel falso inizio dice: Come bambini che giocando in un castello trovano in un vecchio ripostiglio, stracolmo di balocchi, dietro animali e maschere, una porta scorrevole [quattro parole cancellate con forza), un segreto corridoio. . La similitudine è rimasta sospesa. Presumibilmente il nostro poeta intendeva aggiungerla al racconto della scoperta accidentale di una qualche verità misteriosa durante gli svenimenti della sua adolescenza. Non so dire quanto mi dispiaccia che abbia scartato questi versi. Me ne rammarico non soltanto per la loro intrinseca bellezza, che è notevole, ma anche perché l’immagine in essi racchiusa era stata suggerita da qualcosa che Shade aveva saputo da me. Ho già accennato, nel corso di queste note, alle avventure di Charles Xavier, ultimo re di Zembla, e al vivo interesse che il mio amico manifestava per i molti racconti che gli facevo riguardo a quel re. La scheda sulla quale è conservata la variante porta la data del 4 luglio, ed è la diretta risonanza delle nostre passeggiate serotine lungo i viali profumati di New Wye e Dulwich. «Raccontami qualche altra cosa» mi diceva, battendo la pipa contro il tronco di un faggio per svuotarla, e mentre la nuvola colorata indugiava, e mentre lontano, nella casa illuminata sulla collina, Mrs Shade se ne stava tranquillamente seduta a godersi uno sceneggiato televisivo, io acconsentivo con gioia alla richiesta del mio amico. In parole semplici descrissi la strana situazione nella quale il re venne a trovarsi durante i primi mesi della rivoluzione. Provava la sensazione divertente di essere l’unico pezzo nero in ciò che un solutore di problemi scacchistici potrebbe definire una situazione di rex solus in stallo. I Realisti o, quanto meno, i Dem (Democratici Moderati) avrebbero ancora potuto evitare che lo Stato si trasformasse in una banale tirannide moderna, se fossero riusciti a resistere all’oro della corruzione e alle truppe robotiche che un potente Stato di polizia riversava nella Rivoluzione zemblana, situato com’era in un area propizia, a poche miglia marine di distanza. Nonostante la situazione fosse disperata, il re si rifiutò di abdicare. Prigioniero sdegnoso e cupo, fu rinchiuso nella gabbia del suo palazzo in pietra rosa, da una torretta d’angolo dal quale era possibile distinguere, con l’ausilio di un binocolo, giovani flessuosi che si tuffavano nella piscina di un fiabesco circolo sportivo, e l’ambasciatore inglese che, in antiquati pantaloni di flanella, giocava a tennis con l’allenatore basco su un campo di terra battuta, remoto quanto il paradiso. Come erano serene le montagne, come teneramente apparivano dipinte sulla volta occidentale del cielo! Ogni giorno, in un qualche punto della città brumosa, si verificavano disgustosi scoppi di violenza, arresti ed esecuzioni, ma la vita della grande città continuava a scorrere come sempre, i caffè erano affollati, splendide rappresentazioni andavano in scena al Teatro reale, ed era proprio il palazzo il luogo a maggior concentrazione di tetraggine. Komizars dal volto di pietra e dalle spalle quadrate imponevano una disciplina severa alle truppe in servizio sia all’interno che all’esterno. La prudenza puritana aveva fatto sigillare tutte le cantine e allontanare le servette dall’ala sud. Naturalmente, le dame di compagnia se ne erano andate molto prima, quando il re aveva esiliato la regina nella di lei villa sulla riviera francese. Grazie a Dio, le furono risparmiati quei giorni spaventosi nel palazzo insozzato! Le porte di tutte le stanze erano sorvegliate; la sala dei banchetti aveva tre sentinelle, e altre quattro oziavano nella biblioteca, i cui recessi bui parevano dare ricetto alle ombre del tradimento. Le stanze da letto dei pochi servitori di palazzo rimasti avevano tutte il proprio parassita che beveva rum proibito con un vecchio maggiordomo o si prendeva delle libertà con un giovane paggio. E nell’ampia Sala degli araldi si poteva essere certi di trovare sempre qualche sguaiato burlone che cercava di entrare a forza nella panoplia d’acciaio di vuoti cavalieri. E che fetore di cuoio e capra nelle stanze spaziose, una volta profumate di garofani e lillà! Quell’orribile brigata era costituita di due gruppi principali di individui: coscritti ignoranti e dall’aspetto feroce, ma in realtà piuttosto innocui, originari di Thule, ed Estremisti taciturni e garbatissimi provenienti dalla famosa Vetreria nella quale erano guizzate le prime fiammelle della rivoluzione. Ora si può rivelare (in quanto la persona in questione è al sicuro, a Parigi) che quest’ultimo contingente includeva almeno un realista eroico, camuffato tanto abilmente che al suo confronto erano le fiduciose guardie sue colleghe a sembrare dei mediocri imitatori. In realtà, Odon era uno dei più noti attori zemblani, applaudito al Teatro reale nelle serate in cui nort era in servizio. Per il suo tramite il re manteneva i contatti con numerosi seguaci, giovani nobili, artisti, atleti universitari, giocatori d’azzardo, Paladini della Rosa nera, soci di circoli di scherma, esponenti del bel mondo e avventurieri. Correvano voci d’ogni genere. Si diceva che entro breve tempo il prigioniero sarebbe stato giudicato da un tribunale speciale; ma si diceva anche che sarebbe stato fucilato mentre veniva apparentemente trasferito in un diverso luogo di prigionia. Benché si parlasse ogni giorno di fuga, i piani dei cospiratori avevano pregi più estetici che pratici: una potente barca a motore era stata approntata in una grotta marina nei pressi di Blawick (la Cala azzurra) sul versante occidentale di Zembla, oltre la catena di alti monti che separa la città dal mare; immaginare i riflessi delle tremule acque trasparenti sulle pareti rocciose e sull’imbarcazione era seducente, ma non uno degli ideatori di siffatti piani era in grado di suggerire come avrebbe fatto il sovrano a evadere dal castello e superare sano e salvo le fortificazioni. Un giorno d’agosto, all’inizio del terzo mese della sua lussuosa prigionia nella Torre Sudovest, il re fu accusato di usare lo specchio con impugnatura di uno zerbinotto e i collaborativi raggi del sole per inviare segnali luminosi dall’alto della sua finestra. La vastità del panorama che si godeva da lassù fu accusata, oltre che di propiziare il tradimento, di generare in colui che guardava dall’alto un senso altezzoso di superiorità sui carcerieri alloggiati più in basso. Di conseguenza, una sera il re fu trasferito, branda e gavetta, in uno squallido deposito di mobilia sul medesimo lato del castello, ma al primo piano. Molti anni addietro quello stanzone era stato lo spogliatoio del nonno del re, Thurgus III. Dopo la sua morte (1900), la di lui sfarzosa camera da letto era stata trasformata in una specie di cappella, e la stanza adiacente a essa, previa tosatura dello specchio multiplo a tutt’altezza e del divano di seta verde, si ridusse ben presto a ciò che era ormai da mezzo secolo, un vecchio buco con un baule chiuso a chiave in un angolo e una macchina per cucire antiquata nell’altro. Vi si giungeva da una galleria lastricata di marmo che lo costeggiava sul lato nord per poi piegare bruscamente verso ovest, formando un vestibolo nell’angolo sudovest del palazzo; l’unica finestra si affacciava su una corte interna, dal lato sud. Una volta quella finestra era stata uno stupendo spazio onirico di vetri colorati, con un uccello di fuoco e un abbagliato cacciatore; ma di recente un pallone da calcio aveva mandato in frantumi la fiabesca scena nella foresta e ora il nuovo vetro, di ordinaria fattura, era protetto da sbarre all’esterno. Sulla parete ovest, sopra un armadio a muro imbiancato a calce, era appesa una grande fotografia in una cornice di velluto nero. L’azione fugace e lieve, ma reiterata all’infinito, di quello stesso sole accusato di inviare messaggi dalla torre aveva a poco a poco steso una patina sulla fotografia che ritraeva il romantico profilo e le generose spalle nude di Iris Acht, attrice dimenticata, della quale si diceva che fosse stata per parecchi anni, fino alla morte improvvisa avvenuta nel 1888, l’amante di Thurgus. Sulla parete opposta, quella a est, una porta dall’aspetto frivolo e dello stesso color turchese dell’unica altra porta esistente (che immetteva nella galleria), ma saldamente chiusa con un chiavistello di ferro, un tempo introduceva nella camera da letto del vecchio libertino; adesso aveva perduto il pomello di cristallo e le erano state appese accanto, sulla parete est, due incisioni, qui esiliate nel periodo di decadenza della stanza. Appartenevano a quel genere di dipinti che non sono fatti per essere davvero guardati, che esistono soltanto come idea generica di dipinto per soddisfare le umili esigenze decorative di un corridoio o di una sala d’attesa: la prima era una Fête flamande malandata e lugubre d’après Terniers; l’altra proveniva dalla stanza dei bambini i cui occupanti sonnacchiosi avevano sempre ritenuto che sullo sfondo fossero rappresentate onde spumose, in luogo degli incerti contorni di un malinconico gregge di pecore, quali ora si rivelavano. Il re sospirò e iniziò a svestirsi. Il letto da campo e un comodino da notte erano stati sistemati di fronte alla finestra, nell’angolo a nordest; a est vi era la porta turchese; a nord, quella della galleria; a ovest, la porta dell’armadio a muro; a sud, la finestra. Il cameriere personale del suo ex cameriere personale portò via il blazer nero e i pantaloni bianchi. Il re sedette sulla sponda del letto, in pigiama. L’uomo ritornò con un paio di pantofole di marocchino, le infilò ai piedi indifferenti del suo signore, e se ne andò con le scarpette décolleté di cui il sovrano si era sbarazzato. Lo sguardo distratto del re si fermò sulla finestra semiaperta. Si intravedeva parte della corte fiocamente illuminata nella quale, sotto un pioppo recintato, due soldati giocavano a zecchinetta, seduti su una panca di pietra. La notte estiva era senza stelle, immobile, trafitta in lontananza da lampi silenti. Una falena simile a un pipistrello batteva ciecamente le ali attorno alla lanterna posata sulla panca, finché quello che puntava contro il banco non la abbatté con il berretto. Il re sbadigliò, e i giocatori illuminati dalla luce tremolarono e si dissolsero nel prisma delle lacrime. Lo sguardo annoiato vagò lungo le pareti. La porta che immetteva nella galleria era leggermente dischiusa e si udivano i passi della sentinella avanti e indietro. Sopra l’armadio, Iris Acht drizzò le spalle e volse altrove lo sguardo; un grillo frinì; l’abatjour acceso sul comodino era appena sufficiente a gettare uno sprazzo di luce sulla chiave dorata inserita nella serratura dell’armadio. E d’improvviso quello scintillio sulla chiave fece esplodere una meravigliosa conflagrazione nella mente del prigioniero. Facciamo ora un passo indietro, dalla metà di agosto del 1958 a un certo pomeriggio di maggio, tre decenni addietro, quando egli era un giovinetto tredicenne, bruno e vigoroso, con un anello d’argento all’indice della mano abbronzata dal sole. La madre, la regina Blenda, era da poco partita alla volta di Vienna e di Roma. Egli aveva molti cari compagni di giochi, ma nessuno in grado di competere con Oleg, duca di Rahl. A quei tempi, gli adolescenti delle famiglie d’alto lignaggio indossavano nelle occasioni festive - così numerose durante le nostre lunghe primavere nordiche - maglie senza maniche, corti calzini bianchi, scarpe nere con fibbia, e calzoncini molto attillati, molto corti, chiamati hotinguens. Vorrei poter fornire al lettore figurine e capi di abbigliamento come quelli che si trovano sui cartoni con le bambole da ritagliare, destinati a bambini armati di forbici. Ciò allieterebbe un poco queste lugubri serate che mi stanno distruggendo la mente. Entrambi i giovinetti erano avvenenti e slanciati esemplari della gioventù variaga: a dodici anni, Oleg era il miglior centravanti della Scuola ducale. Quando compariva nei locali della sauna, nudo e lucente tra i vapori, i suoi baldanzosi virilia contrastavano fieramente con la sua leggiadria da fanciulla. Era un vero e proprio faunetto. Quel certo pomeriggio, un copioso acquazzone laccò il fogliame primaverile del giardino reale e, oh!, come si scompigliavano e si dibattevano i lillà di Persia in lussureggiante fioritura dietro i vetri delle finestre grondanti di verde e maculati d’ametista! Avrebbero dovuto giocare dentro il palazzo. Oleg era in ritardo. Sarebbe davvero venuto? Al giovane principe venne in mente di esumare un assortimento di giocattoli preziosi (dono di un monarca straniero, assassinato poco tempo prima) con cui lui e Oleg si erano divertiti in occasione di precedenti festività pasquali, e che erano poi stati lasciati in disparte come succede a quei balocchi speciali e artistici che permettono alla loro bolla di piacere di cedere di colpo tutto il suo sapore, per poi ritirarsi in un museale oblio. In particolare, desiderava ora riscoprire un complicato circo-giocattolo, contenuto in una scatola grande quanto una custodia da croquet. Lo desiderava ardentemente; gli occhi, il cervello, e ciò che nel cervello corrispondeva al polpastrello del pollice ricordavano nitidamente i bruni acrobati ragazzini con le natiche luccicanti di paillettes, un clown malinconico ed elegante con gorgiera, e soprattutto tre elefanti di legno levigato, grandi come dei cuccioli, con gli arti così mobili che potevi far stare il lucido pachiderma dritto su una zampa anteriore, o impennato saldamente in cima a un barilotto bianco cerchiato di rosso. Erano trascorse meno di due settimane dall’ultima visita di Oleg, durante la quale ai due ragazzi era stato permesso, per la prima volta, di condividere il letto, e il fremito della loro cattiva condotta, e l’infuocata attesa di un’altra notte simile si fondevano ora, nel nostro giovane principe, con una sensazione d’imbarazzo che suggeriva di trovare rifugio in giochi più innocenti, confacenti a un’altra età. Il suo precettore inglese, costretto a letto da una distorsione alla caviglia occorsagli durante un picnic nella Foresta di Mandevil, non sapeva dove potesse essere il circo; gli consigliò di cercarlo in un vecchio locale che fungeva da ripostiglio in fondo alla Galleria Ovest. Colà si recò il principe: quel baule nero e polveroso? Si sarebbe detto risolutamente di no. Il rumore della pioggia era più forte qui, data la vicinanza di una lunga grondaia. Perché non cercare nell’armadio a muro? La chiave dorata girò con riluttanza. Sui tre ripiani e nello spazio sottostante era ammassata una congerie di oggetti disparati: una tavolozza con la feccia di molti tramonti; un coppa colma di fiches; un grattaschiena d’avorio; un’edizione in trentaduesimo del Timone d’Atene tradotto in zemblano dallo zio Conmal, fratello della regina; una situla (secchiello per bambino) da spiaggia; un diamante azzurro di sessantacinque carati che da piccolo aveva aggiunto per caso ai ciottoli e alle conchiglie contenute nel secchiello, prendendolo dalle cianfrusaglie del defunto padre; un pezzetto di gesso; e una tavoletta quadrata con un intreccio di figure che doveva servire per qualche gioco da lungo tempo dimenticato. Si accingeva a cercare altrove nell’armadio quando, nel tentativo di spostare un pezzo di velluto nero, un angolo del quale si era inspiegabilmente impigliato dietro il ripiano, qualcosa cedette, il ripiano si spostò, s: rivelò mobile e svelò proprio sotto il bordo posteriore, sulla parete interna dell’armadio, una toppa alla quale risultò adattarsi perfettamente la chiave dorata.