sabato 28 marzo 2020

DISSIPATIO H.G.
Guido Morselli

RECENSIONE
Quello che per ogni altro sarebbe l’oceano della negazione, un orrore totale, io ci galleggio sopra in una barchetta di carta.”
Dissipatio H.G. è la dissipazione del genere umano, espressione usata dal filosofo neoplatonico Giamblico. E dissipazione, è sempre Morselli a scriverlo, non da intendersi in senso morale ma letterale; l’umanità si è dissolta.
Siamo a Crisopoli, traslitterazione della città di Zurigo, quando, la notte di un 2 giugno, il protagonista decide di suicidarsi. Con non certo nascosti richiami platonici il luogo scelto per uccidersi è una grotta. Teatro di un non gesto in realtà perché il suicidio non riesce. Ma, alla fine di una lunghissima notte, l’alter ego letterario dello stesso Morselli, esce dalla grotta per scoprire che tutto il genere umano è sparito. A ricordare l’esistenza dell’umanità solo gli oggetti. Per il resto animali e natura sono rimaste le uniche entità. Questa, chiamiamola così, la coreografia che fa da quinta ad un impetuoso, drammatico quanto tagliente viaggio tra filosofia, religione, etica e denuncia. In cui la scomparsa arriva alla sua apoteosi, compiuta o incompiuta che sia: sparizione dell’umanità, mancato suicidio del singolo.


Dissipatio H.G.

I
 Relitti fonico-visivi mi tengono compagnia, e sono ciò che di più diretto mi rimanga di ‘loro’. Puramente verbali, due (da notiziari della radio, suppongo): fallito dirottamento e riuscito stupro di una ragazza in un aereo dell’Olympic Airways; e quest’altro in inglese, forse dall’inattendibile Voice of Europe: A favorite Polish joke goes, we feign to work, the State feigns to pay us. E due immagini: una bottiglia, con corona reale sullo sfondo, e la scritta in rosso: Seagram’s Canadian Whisky. Il quadratino bianco del campo di tennis dietro l’Hôtel Bellevue, nell’oculare del mio binocolo. La memoria involontaria non ha altro, e questi ricordi vi fluttuano insistenti e vaghi. Relitti inconsistenti, e ormai reliquie. Da quella notte un mezzo mese è trascorso, e potrei dire altrettanto bene un mezzo secolo. Un lungo panico, in principio. E poi, ma tramontata subito, incredulità, e poi di nuovo paura. Adesso l’adattamento. Rassegnazione? Direi proprio accettazione. Con intervalli di proterva ilarità, e di feroce sollievo. Esco dalla sede del giornale. Ci lavoravo da giovane, e ci sono tornato, l’ho girato tutto, per una conferma. La conferma c’è stata: ho negli occhi il gesto assurdo delle linotypes, i cui bracci scheletrici continuano, chissà come, a sollevarsi e a abbassarsi. Allorché ‘loro’ sono scomparsi (alle due del mattino), il lavoro era a quel punto, in tipografia i linotypisti che componevano, le rotative non ancora in moto; la redazione, su, che ripassava gli ultimi servizi. I flashes d’agenzia rimasti in tronco sulle telescriventi (e non mi sono curato di leggerli, ho visto che erano interrotti: i messaggi cessati all’altro capo del telex; qui, tutto era regolare). Nel suo stallo privilegiato, l’I.B.M. con le spie rosse accese. Del resto, i locali del giornale sono illuminati; nell’ufficio della segretaria di redazione, che era sempre la signorina Manàss, un piccolo ventilatore seguita a ronzare sul tavolo. Lei, stava scrivendo, la penna è di traverso al foglio, come caduta dalla sua mano. Ma la poltrona non è ribaltata. Anzi, non è scostata dalla scrivania. Come ha fatto la signorina Manàss a involarsene? Il mio giornale, debitamente laico, ha la sua sede (l’aveva) di fronte al vescovato luterano. Ai miei tempi era vescovo il dottor Burg, un ometto che conoscevo solo di vista, ma che incontrandomi si dava la pena di salutarmi per primo. Il vescovato, un edificio in barocchetto austriaco, oggi è vuoto. In una nicchia all’ angolo dell’edificio vedo una maniglia, con la scritta in cortesi caratteri gotici: «Per emergenze, chiamare a qualunque ora». Tiro la maniglia, una campanella invisibile fende l’aria afosa col suo squillo domenicale. Torno a suonare. Il vescovo sarà in visita pastorale, o in vacanza; o evaso anche lui con i suoi accoliti e i suoi fedeli, come gli altri, come tutti. Come i tutori dell’ordine costituito. Più in là, riconosco il posto di polizia di Via del Teatro. Entro: giro i locali ai due piani, dal corpo di guardia al centralino telefonico. Non vedo nessuno. Sull’angolo del Nuovo Dazio, un ombrello da donna aperto e capovolto, per terra, e una borsetta. Un taxi è al marciapiede, davanti a un villino. Raccolgo la borsetta, c’è un libretto d’assegni, un remontoir autentico, d’epoca, fermo alle 2, e con la dedica incisa «To Meggy Weiss Lo Surdo, Happy hours». La graziosa Meggy rientra tardi, da una serata con amici (o l’amico): sta per varcare il cancello quando qualcosa avviene che la obbliga a ripartire d’un tratto, lasciando i beni terreni che ha con sé, nella sua borsetta. Lo stesso appello urgente, indifferibile, prepotente ma imparziale, ha udito il modesto guidatore del taxi. Anche lui obbedisce lasciando ciò che ha di più prezioso, la sua auto. Io non amo Crisopoli, anzi non la posso soffrire. In lei ho scorto il mio antitipo, l’affermazione trionfale di tutto ciò che io rifiuto, l’ho eletta a centro della mia detestazione del mondo; un caput-mundi al negativo. La mia «fuga saeculi» è stata, già allora, fuga da questa precisa localizzazione del ‘secolo’. Pure, il fatto che ho sotto gli occhi mi riesce implausibile e tetro. Crisopoli è vuota. Ordinata, tranquilla, nelle strade, nelle piazze, sui quais come in centro, quale doveva essere quella notte, alle 2; ma vuota. Quanti erano? quattrocentomila, quattrocentoventimila. Comunque, erano. Vengo in cerca di qualche migliaio di scomparsi. Gli abitanti della mia valle, e qui trovo il mega-esodo, la diserzione in massa. Un evento (inimmaginabile) anche qui ha sorpreso la gente nel sonno: la sospensione notturna della vita collettiva semplicemente si è prolungata, indefinitamente prolungata. Perché, se io seguito a figurarmeli fuggiti, in realtà loro non sono fuggiti, come la gente di Pompei. Né sono stati ridotti in cenere, come quelli di Hiroshima. Se ne sono andati in un’altra maniera. Rapiti. Estratti, fatti uscire dalle loro case e sedi diverse. Dai loro corpi, forse. No. Dai loro corpi, parrebbe di no. Di corpi, sotto la pioggerella di giugno, non c’è traccia a Crisopoli. Rimane ciò che pur essendo corporeo, non era organico. Il minuto lordume delle vie, i biglietti usati del cinema, le scatole vuote di sigarette; rimangono le insegne al neon (e sono accese), i getti d’acqua delle fontane, le auto, in fila sotto i palazzi, nei viali del parco. La Città d’Oro è intatta. Gli evasi (o le forze che li hanno costretti a evadere) non si sono portati via nulla. Non hanno subìto violenze i tavolini fuori del Café Odeon, né la sua facciata Jugendstil. I cristalli, dietro i quali un millennio fa si sono seduti Trotzky, con sua moglie, e Lenin. Rimane anche quello che è organico e vivente, ma non umano. La geometria dei tulipani davanti all’Hôtel Esplanade, e le acacie che si piegano al peso dei loro fiori. Il famoso gelsomino, o gimnospermo, che gronda dalla centralissima villa del barone Aaron. I corvi sul frontone del Teatro Nazionale, i gatti, a frotte, sulle gradinate del Crédit Financier e della Diskonto. I gatti si inseguono ai piedi dei monumenti della finanza Mitteleuropea, anzi Continentale. Ci fanno l’amore, strillando perversamente. Non ci sono solo i gatti. Davanti ai cancelli della formidabile Unione Bancaria, ai miei tempi qualcuno diceva che fossero di metallo prezioso, ho notato macchie di guano, e pensavo che si trattasse di piccioni. Era una gallina. Beccuzzava in un mucchio di foglie fradice, e ammetto che la sua vista ha avuto un effetto traumatizzante. Una gallina. Non mi avrebbero colpito così i cavalli dell’Apocalisse che caracollassero su quegli asfalti. E ora, la via del ritorno. Premevo con furia spaurita l’acceleratore, io non esperto alla guida. Su quaranta chilometri di pianura, le auto fuori strada non sono più di una decina. Mi fermo nel punto dove, venendo, avevo visto un torpedone schiacciato contro il calcestruzzo di una trincea. La macchina è contorta, con i vetri e i sedili a pezzi, ma non c’è segno di danni ai suoi occupanti. E l’idea assurda mi si affaccia: di occupanti, là dentro, non ce n’era più uno, nemmeno il conducente, quando la macchina si è infranta. ‘Prima’, erano gli incidenti d’auto che toglievano la vita: in quel momento, fu il togliersi della vita (il suo sottrarsi, svanire) a produrre l’incidente. La vittima è la macchina, solo essa. Più avanti, in un prato, un furgone delle Poste con le ruote all’aria, e dagli sportelli sono caduti dei sacchi: «Valori raccomandati». Di fianco al posto di guida, un fucile; un gendarme scortava il furgone. Scomparso, anche lui, ma i valori raccomandati sparsi fra l’erba non corrono alcun pericolo. Sullo stesso prato sta ritta e ferma una locomotiva elettrica, uscita dal binario della ferrovia che corre parallela alla strada. Il resto del treno è sulle rotaie. Mi è venuto in mente che, quand’ero ragazzo, i contadini di quelle parti chiamavano i vagoni della ferrovia «le vacche grige». Adesso le vacche grige pascolano tranquille, i kilowatt, come gli HP, rientrano nella natura. Bradi. Poi la pianura finisce, i monti mi si rinserrano intorno. Svolta dopo svolta salgo per il regno delle querce e dei faggi e dei castagni dalle vaste cupole, finché mi accoglie la stirpe longilinea, le cui cime si perdono fra la nebbia. L’unica, e del resto la vera, mia famiglia, li salutavo in altri ritorni; e per un attimo mi invade, come a ogni ritorno, un piacere che è dei polmoni e del sangue, un sentimento organico. La patria: le case di legno nero, le imposte rosse incorniciate di bianco, e l’aria della sera che si ravviva e si profuma. Ma la mia valle, che risalgo, è deserta, le case non hanno luci. Posso spegnere anche le luci dell’auto, non incontrerò nessuno, nessuno dovrà farsi da parte. Non vedrò un viso, non udrò una voce. E mi sembra ingiusto e cattivo. In città ero spettatore, qui io devo vivere. Dove sono andati. Perché sono andati. Io ho fatto, in passato, gli elogi di questi montanari: che non conoscevano l’emigrazione, come quelli di valli vicine, e mostravano una devozione tenace al loro paese, un attaccamento quasi biologico, in epoche in cui la montagna non era un impianto industriale, né la neve una preziosa materia prima. Quando si è aperta la miniera turistica non sono stati loro a sfruttarla, ma i residenti della pianura venuti qui a costruire alberghi, villini e ferrovie, e ora funivie e skilifts. Loro, i nativi, si tengono al margine, e riservano agli ospiti un compatimento ironico che si accentua d’inverno, verso gli idolatri dello slalom. Scrivevo: passano faticando con le bestie e le gerle sotto i lampioni del Victoria e del Bellevue, lungo le piscine e i minigolf, e hanno negli occhi il tedio e la rassegnazione che gli abitanti dei «pagi» nel secolo di Costantino sentivano verso le basiliche della nuova religione. Adesso gli elogi mi paiono ben immeritati. Anche loro hanno disertato. Non riesco a pensare a una costrizione innaturale. Hanno ceduto anche loro, come i cittadini di Crisopoli, a una follia collettiva, da cui loro, però, erano in grado di immunizzarsi. O a un comando, a cui però dovevano disubbidire. Sono stati complici; non c’era forza, autorità, che li potesse obbligare. Mi concedo una stenta speranza, che i miei ‘pastori’, almeno quelli, si lascino vedere. Frederica e Giovanni. Ripartivano fra me e le loro vacche e capre una sollecitudine vigilante, non tenera, forse affettuosa. Li ritroverò lassù ad aspettarmi, imbronciati, sulla porta? Sono giorni e giorni che non li vedo. Ieri mi è toccato aprire la stalla, mettere in libertà gli animali affamati. Widmad è senza vita. Le bandiere in fila sulla terrazza del Kursaal fanno festa, stupidamente, solo a me. E i gerani che gremiscono la palazzina del Municipio, e il semaforo che occhieggia all’imbocco di Piazza del Mercato. L’asfalto bagnato riecheggia i lumi, le facciate gessose dei grandi alberghi, solo per me. Blocco l’auto in mezzo alla strada; non darà noia a nessuno. Il tacere del motore mi lascia più solo, io che odiavo quel rumore. Mi incammino verso casa. Cinquanta minuti di salita, nel silenzio che sino a qualche giorno fa mi esaltava, di un viottolo fra i larici e gli abeti. Avanzo con pena. Sono stanco. Tendo l’orecchio, mi guardo intorno. Ho paura. II Un cane mi ha tenuto dietro, uno spaniel, con quell’odore muschioso che hanno sotto la pioggia i cani di lusso, e si trascinava dietro, desolato, il guinzaglio. Probabilmente famelico, come gli animali di Frederica e Giovanni; dopo poco l’ho perso di vista. La stazione della funivia, l’Hôtel Zemmi. Rileggo per la millesima volta i cartellini di legno, rossi, gialli, verdi, che indirizzano alle varie escursioni, nel punto in cui la stradetta si suddivide in varii sentieri. Prendo per il più erto, il mio: quello che da quattro anni m’introduce al mio privilegio, vivere fuori e sopra, vivere solo. Ma adesso ho paura. A distanza di giorni, ripenso a quella paura. Non è stata, dapprima, un collasso di nervi ma un riflessivo orrore, in cui confluivano, consentivano, le mie facoltà di critica, quelle che, normalmente, alla paura si oppongono. O il mio senso comune, violentato. Una paura raziocinante, che riepilogava con nera lucidità la situazione, era adeguata alla situazione. Più tardi, è venuto il panico. Ci ripenso, e mi giustifico. L’inspiegabile non è l’ignoto, e non è il misterioso, dai quali siamo attratti (forse perché hanno il merito di risiedere a debita distanza da noi). È una cosa diversa, che disorganizza, quando assume una certa estensione e stabilità, i nostri schemi vitali. Io mi sarei adattato al meraviglioso. All’assurdo ho risposto fisiologicamente; non potendo negarlo, lo sentivo come una aggressione, nella sua imponenza e immediatezza, e mi rifugiavo nell’immobilità. Cedevo a un atavismo. Sotto la minaccia, una bestia inerme si comporta così, si immobilizza. Quella sera, la notte, l’indomani, sono stati di inerzia assoluta, per me. Niente conati di fuga, il trauma che era rimasto compresso si manifestava in paralisi. Chiuso nelle mie quattro camere, porte e finestre sbarrate (ho avuto a un certo momento l’idea di barricarmi), ho atteso che mi si raggiungesse e colpisse. Mi si finisse, visto che il mio turno non poteva tardare. Ero condannato anch’io, fuori di quelle pareti aleggiava un fluido di morte, io c’ero sommerso come in una campana in fondo al mare. Sarebbe entrato, per osmosi, attraverso i muri. Angoscia chiara e cosciente, non frenetica, che mi lasciava presentissimo a me stesso. In qualche momento trattenendo il respiro, senza sintomi di allucinazione, freddamente ascoltavo se sentissi il fruscio di esseri bestiali enormi (i sauri antichissimi, i lucertoloni del Cretaceo) in agguato intorno alla casa. Qualche cosa facevo, il cedimento psichico non mi bloccava materialmente: il secondo giorno mi sono messo alla macchina da scrivere, pensavo di copiare appunti per la revisione, che l’editore aspetta dall’anno scorso, di un mio lavoro. (Avrei dovuto a quel mio libro, in maniera decisamente grottesca, la liberazione dall’incubo, il terzo giorno). Me ne sono stato seduto alla macchina un pomeriggio, senza toccarla. Il ticchettio dei tasti mi avrebbe sconvolto. O era come un superstizioso dovere, non rompere il silenzio. In cucina, per riscaldarmi il caffè, in punta di piedi. Fuori, sul selciato, la pioggia batteva sonoramente, ma io non dovevo fare rumore. Dovevo, come gli Altri, essere morto. Le mie funzioni, normali: mangiavo con fame, persino voracemente, mentre l’orrore non s’interrompeva, perché non c’erano intervalli e io rabbrividivo mangiando, al ritmo della mia masticazione. Dormivo e, curioso a dirsi, senza sogni. Fumavo qualche pipa, bevevo cognac nella solita misura. Urinavo più del solito; la paura, è noto, mette a prova l’emuntorio. Anche quando la paura diventa necessità e si connatura con l’individuo, come stava capitando a me. Sono stati, prima della crisi risolutiva, due giorni, non di più e non completi. In quanto a esperienza, un saggio di eternità. Eppure, l’Inspiegabile si è inaugurato per opera mia. Per lo meno, gli eventi hanno coinciso (all’inizio) con un evento strettamente privato e mio; coincidenza, oso pensarlo, non casuale. La notte favolosa fra il I e il 2 giugno. Quella notte, era deciso, io mi sarei ammazzato. Perché. Per il prevalere del negativo sul positivo. Nel mio bilancio. Una prevalenza del 70 per cento. Motivazione banale, comune? Non ne sono certo. Quanto alla precisione contabile, devo dire che la mia vita psichica è povera. Anche nel senso della semplicità, della elementarità. Si presta alla ragioneria: le frustrazioni inconsce e i pathos viscerali, i mali oscuri che connoterebbero l’uomo moderno, io, devo confessarlo, non me li trovo. Un mio collega mi accusò di «critica riduttiva». Andavo ripetendo («toutes choses sont déjà dites, mais comme personne n’écoute il faut toujours recommencer») che il monologo interiore, tipo esemplare della letteratura d’oggi, nel quale si esalano i mali inconsci e i patemi viscerali, fra ispezioni capillari dell’io e pseudoscontri col non-io, conferma che siamo fermi allo psicologismo del subsentire e del subpensare, che era già artificioso (e noioso) un secolo fa. Ma se qualcuno si occupasse del mio individuo caso, non cadrebbe certo nello psicologismo. Dovrebbe essere riduttivo, per forza. Avevo deciso di uccidermi, anzitutto perché ero vittima di una mafia. E dalla mafia non c’è scampo, lo sapevo. Cominciò con una malattia. Corporale, non mentale, vera, non immaginaria; cronicheggiante. Una di quelle malattie, però, che lasciano vivere e, curate con un po’ d’umanità, guariscono. In concreto, stavo guarendo. Il medico, a Crisopoli, che avrebbe dovuto curarmi, mi mandò invece da uno specialista, e lo specialista da un radiologo, il quale chiese uno specialista 2°, e costui chiese un radiologo 2°, il quale prescrisse alcuni controlli (oh, solo 11, dalla Wassermann alla V.S.), in una clinica, sempre a Crisopoli; dopo l’ultimo dei quali controlli mi fu consigliata una serie di esami biologici, in esito ai quali uno specialista (3°) rese necessario il radiologo omologo (3°). E così successivamente, a coppie, anzi a terne (specialista, radiologo, clinica con laboratorio d’analisi, breve soggiorno), in progressione esponenziale, sino a poche settimane or sono, per un totale, in 2 anni e 8 mesi, di 12 specialisti, 12 radiologi, 33 cicli di controlli e 27 serie di esami biologici vari. Cose note a milioni di vittime, con le quali io ero caduto nel racket della «diagnosi precoce». Il fenomeno, per essere parte del Sistema (in senso marcusiano), viene accolto con benevolenza dalla sociologia, ossia ignorato o non denunciato, ma ha le caratteristiche precise della estorsione mafiosa. La malattia di partenza non è grave, ma può diventarlo, ovviamente, sicché occorre «seguirla», occorrono interventi medici frequenti per accertare «in sede diagnostica», si osservi, eventuali degenerazioni. Ma – si domanda il soggetto (passivo) – a che scopo, visto che le «eventuali degenerazioni», ove mai si verifichino, sono incurabili, e incurate? Ogni tre mesi mi costringete all’attesa del verdetto: «c’è o non c’è». A che scopo, visto che se «c’è», è l’agonia lenta e sicura, consapevole, e senza rimedio? Lo scopo, patet: non tanto i miliardi, a centinaia, quanto il potere. L’asservimento di folle di uomini e donne a una classe. O clan, o corporazione. Non penso più a drammatizzare, ora; ma ho idea che lo sfruttamento capitalistico, padrone su lavoratore, sia un ameno giuoco da società, a paragone qualitativo con quest’altra sudditanza coatta. Inevitabile: a escludere la fuga funziona il più vischioso, e il più feroce, dei ricatti. Così questa industria fonda su una base ferrea. Non è esposta a cali di congiuntura. È rigidamente solidale al proprio interno. Non subisce concorrenze dall’esterno. Niente crisi, per lei. Per noi, per me, sì: nel mio caso una crisi che dovrei chiamare schifo. Coinvolgente me stesso. Ci sono state mattine che, nel mentre mi facevo la barba, cercavo di non vedermi nello specchio. Quando uno scavalca il balcone o si butta sotto il treno, c’è un meccanismo psichico motore, si capisce; che però, da solo, non basta. Dev’esserci un innesco: diceva il vecchio Durkheim, che non era privo di acume. Se ripenso storicamente il mio caso, trovo, l’autunno scorso, l’apparire a qualche centinaio di passi dal mio buon ritiro (quota 1395 sul livello d. m.) di paletti, picchetti, teodoliti. Mi è venuta la febbre. Letteralmente. Inchiesta affannosa, consultazioni con gli amici informati, a Crisopoli. Io le ho messo nome: Crisopoli, la Città-d’Oro, ma è, oltretutto, il centro operativo del Paese, dove si prendono le decisioni; in ispecie le decisioni obbrobriose. Notizie di morte. Un’infame «Euro-Autoroute», società «anonima» notoriamente intestata a due grossissimi imprenditori locali, progettava l’arteria continentale Le Havre-Atene. Nel suo tratto transmontano l’«arteria» avrebbe «interessato» la zona di Widmad Lewrosen. Si prevedevano: un imponente traforo sboccante nell’alta valle, diverse «opere d’arte» fra cui un «ardito viadotto» in cemento armato sul torrente Zemmi (il mio Zemmi), nonché raccordi e rampe d’accesso. E un motel. Per dirla con Durkheim, ecco l’innesco. Che non fu a azione immediata. Passò l’inverno, spuntò la primavera, che quassù è tardiva, e squisita. Per me, con quei picchetti rossi e bianchi sotto il naso, luttuosa. La mia decisione è maturata, con compiaciuto e un po’ comico indugio nella scelta dei dettagli, ma coscienziosa e tranquilla. Andarmene, dunque, senza lasciare traccia. Questo mi è parso essenziale. La gente, se se ne fosse poi occupata, doveva concludere a una definitiva irreperibilità. Meglio, a un misterioso annichilamento, un dissolvimento nel nulla. Il bravo Giovanni, il mio vicino e custode, o pastore: il marito della mia domestica Frederica, mi ha suggerito il luogo, senza volerlo. Lui sapeva di una certa caverna, quassù sui contrafforti del Karessa, scoperta da lui e percorsa da specologi (o speleologi; non so di preciso come si chiamino), in successive esplorazioni. Quanto alla data che avevo fissata, fra il I e il 2 giugno, c’era una ragione specifica. Sono nato un 2 giugno a mezzogiorno, volevo evitare di compiere quarant’anni. È un passaggio, quello ai quaranta, che dalla maturità degrada all’anzianità; io volevo andarmene 39enne, sia pure anagraficamente. A mezzanotte e trenta, senza avere toccato cibo, sono partito rasentando in punta di piedi la casa dei miei ‘pastori’. Giovanni era lì, sulla porta. «Cosa fai a quest’ora?». Veniva dalla stalla. Una capra si era slegata, dava noia alle altre bestie, facevano rumore. «Bisognerà che lei mi aiuti a costruire una tettoia per le capre. Capre con vacche non vanno d’accordo».