domenica 29 marzo 2020

IL PROFESSORE DI DESIDERIO Philip Roth

IL PROFESSORE DI DESIDERIO
Philip Roth

Recensione https://desiderioefilosofia.com/2009/11/26/il-professore-di-desiderio/

Che non è Roland Barthes. Al quale però è stato dedicato un libro proprio con questo titolo[1], il che non stupisce. Nel secondo romanzo del ciclo kepeshiano di Roth, ecco Il professore di desiderio. Il protagonista vive in pieno il desiderare, facendone molte caleidoscopiche esperienze, passando dal desiderio del corpo e dal suo appagamento, al desiderio dell’altro e del suo piacere – del piacere di essere amato e rispettato dall’altro e di amare e rispettarlo -, fino alla riemersione della dimensione più avara di sentimenti e spietata del desiderio puro, il desiderio di desiderare. Nel corso del romanzo, Kepesh apprende che il problema dell’identificazione personale è un problema patetico, non logico.
Roth scrive nel ’77, è appena alla spalle la vicenda della Rivoluzione sessuale occidentale, la comparsa della pillola anticoncezionale ha cambiato sostanzialmente i rapporti tra i ragazzi. Solo otto anni lo separano da The Portnoy’s Complaint [2], il romanzo che gli aveva dato fama e ricchezza, una fortuna commerciale dovuta anche in parte al fatto che, si è detto, si trattava “del libro più zozzo mai stampato fino allora da un editore rispettabile”.
Anche il personaggio David Kepesh è un intellettuale di origine ebraica, “libertino tra gli eruditi, erudito tra i libertini”, professore di letteratura in un college della East Coast. Professore, appunto, di desiderio: nel senso che il suo corso nel romanzo di Roth si chiama proprio così, indagando la presenza del desiderio e della passione in letteratura, da Flaubert a Colette (che scriveva, ricorda Kepesh, di “quei piaceri che con leggerezza si definiscono fisici”).
Il libro trasuda citazioni letterarie: la professione di Kepesh offre a Roth il destro per nominare almeno nel romanzo la maggioranza dei propri autori di riferimento: Sofocle, Dostoevskij, Shakespeare, James Joyce, Maupassant, Mark Twain, Gogol, Henry James, Thomas Mann, Hemingway, Checov, Jean Genet, Kundera, Melville, John Updike, Henry Miller ed i due autori che Roth sente più vicini, Franz Kafka e Saul Bellow … Ci sono praticamente tutte le stelle del firmamento letterario personale dello scrittore di Newark. E tutti hanno scritto del desiderio. 
Per Kepesh  la sua dimensione è centrale, al punto da divenire il perno della vita. Anche se le prime ragazze con cui esce lo supplicano di essere “carino”, David non vuole tenere a freno il proprio desiderio, per un motivo che gli appare evidente: “dal momento che è un desiderio, non dev’essere sminuito o disprezzato”[3]. Al desiderio, lacanianamente, non si può rinunziare. E così, anche il complimento più diretto ad una ragazza (“Hai un culo eccezionale”) suona per lui come la verità, l’unica da dire e a cui credere: “non ti sto prendendo in giro. Ti sto prendendo sul serio come nessuno ti ha mai preso sul serio in vita tua. Hai un culo che è un capolavoro”[4].
D’altra parte, tentazione è la prima parola del romanzo[5] e David, studente al college di Syracuse, fa proprio il detto di Lord Byron, “studious by day, dissolute by night”, collocandolo accanto ad un altro detto di Macauley,”un libertino fra gli eruditi, un erudito fra i libertini”; spiegando anche che le profonde risonanze suscitategli dalla parola sedurre non gli venivano certo dalle riviste porno o dai rotocalchi, ma “dalla tormentata lettura dell’Aut-Aut di Kierkegaard”[6].
Nel romanzo seguiamo la storia di Kepesh da quando è ragazzino, poi attraverso le avventure erotiche in un aggrovigliato ménage à trois con due ragazze svedesi – Elisabeth e Birgitte – nella Londra degli anni Sessanta [7] . Poi ancora attraverso uno sciagurato matrimonio con una femme fatale, l’amour-passion per la bella e dannata Helen, avventuriera internazionale con una passionaccia per l’Estremo Oriente e le sue droghe. Infine, solo apparentemente infine, estratto dalle macerie del divorzio con Helen, si concede la calma esplosiva di un tranquillo ed in superficie soddisfacente rapporto con una bella bionda dagli occhi verdi che lo ama e che riama tranquillamente. Ahi. La quale infatti non sa che tutta la sua grazia, le candele di cui adorna il loro cottage estivo, la sua gentilezza nei confronti dell’anziano padre di lui in visita con un vecchio amico al figlio nella bellissima ultima parte del libro, la sua cultura (anche lei insegna in un college), la sua fedeltà, niente varranno contro i fantasmi (eros, trasgressione, eccessi) che assediano Kepesh, e finiranno per dividerli. Nonostante Rousseau, l’amore coniugale nulla potrebbe dunque contro l’amour-passion, rappresentato nel romanzo dalla prima Helen e dal suo tardivo ritorno. Il che accade quando alla torrida frenesia del rapporto subentra una pacata affezione fisica coniugale. Quando si smarrisce la miscela di tenerezza e ferocia propria degli amanti agli inizi della relazione. Quando «non soccombiamo più al desiderio, e neppure ci tocchiamo dappertutto palpandoci e impastandoci e manipolandoci con quella folle insaziabilità così aliena da quel che altrimenti siamo. È vero, non c’è più in me quel po’ di bruto, non c’è più in lei quel po’ di sgualdrina, né l’uno né l’altra siamo più il pazzo smanioso, la bambina depravata, l’implacabile stupratore, l’inerme impalata. I denti, che una volta erano lame e tenaglie, denti di gattini e cagnolini pronti a infliggere dolore, sono di nuovo solamente denti, e le lingue sono lingue, e le membra membra. Ed è, come tutti sappiamo, così che dev’essere»[8].
Non si può rinunciare al desiderio, ma non si deve soccombere al desiderio. E tuttavia accade. D’ altra parte, come ha scritto recensendo il volume Irene Bignardi, quando uno racconta così la sua nuova romantica love story («Come David Kepesh è finito su una sedia a dondolo in una veranda sulle Catskills Mountains a guardare compiaciuto un’ astemia insegnante venticinquenne… che si aggira carponi per il giardino con una tuta che sembra presa a prestito da Tom Sawyer…») si capisce che la poveretta ha le ore (sentimentalmente) contate. Questa moglie “normale” si chiama Claire, come l’attrice Claire Bloom, a cui il romanzo è dedicato e che all’epoca del libro era la compagna di Roth (poi sua moglie e poi sanguinosamente divorziata da lui, autrice di una biografia in cui racconta gli anni di legame con Philip senza risparmiare particolari). Un intreccio di autobiografia e di dati personali, di sincerità brutale e di ossessioni vere che risulta affascinante, ma anche molto fastidioso per diversi eminenti critici letterari (Michiko Kakutani, Gail Caldwell), profondamente urticante in particolare (sempre secondo Bignardi), se si cade nella suspension of disbelief, nella sospensione dell’incredulità narrativa, per un lettore di sesso femminile, che sente e riconosce nell’esperienza spiattellata da Roth non una fantasia, ma una perturbante esperienza.
Roth, di solito, è scrittore che non piace al pubblico femminile. Troppo sessuata la sua penna, troppo diretti i suoi coinvolgimenti: l’accusa di molte donne è quella di “troppismo”. Ma altre donne apprezzano invece proprio questa sincerità nell’esporre senza pudori il  lato maschile della fissazione narcisistica, l’ossessione nevrotica ripetitiva per il sesso dei suoi personaggi.
Così urticante e così forte può risultare l’antipatia di un personaggio difficilmente difendibile, che ci si può addirittura chiedere quale sia la ragione di arrivare fino in fondo alla lettura di un libro come Il fantasma. Una risposta sicura, secondo Bignardi, è: la scrittura. Una scrittura densa, spiritosa, ricca, trascinante, capace di inanellare letteratura e irritanti manie, franchezza imbarazzante e squarci di tenerezza. Roth ci elegge a suoi voyeur. E se mai volessimo rifiutarci all’uomo, cediamo comunque allo scrittore – conclude la Bignardi. Alla quale si accomunano i giudizi lusinghieri di David Lodge e di Mark Shechner.
Nell’eleggerci a suoi voyeurs, però, Roth (qui come in altre mille pagine della sua opera) ci sta dicendo molto di più. Innanzitutto, il sesso – pur riempiendo le sue storie e le pagine dei suoi libri – per lui non è un’ossessione: l’autore Philip Roth mantiene comunque un distacco estetico dalla sua materia. Non è tanto interessato alla sessualità in sé, quanto all’enorme potere di cui quella fa parte, vale a dire la dimensione del ”non-socializzato”, dell’incivile, quella zona o funzione della psiche in cui risiede la capacità di resistere e di rinnovarsi [9].
Inoltre, Roth è disponibile a svelare tutta la problematicità del proprio Ego di scrittore e di intellettuale e tutta la fragilità dei suoi personaggi. È stato loro rimproverato un eccesso di narcisismo, così come al loro autore. Ma è piuttosto il contrario. Le storie narrate da Roth non parlano di Narcisi, i suoi protagonisti ne dimostrano anzi l’impossibilità. Nessun Zuckerman, nessun Kepesh, nessun Mickey Sabbath si acquieta nel proprio ritratto, nessuno si specchia e si riconosce. Tutti, piuttosto, cercano nell’Altro la conferma della propria stessa esistenza, altrimenti e comunque sempre a rischio. Anche in Roth, l’autologia è intrinsecamente eterologia [10]: ogni protagonista, per quanto appaia solo o si consegni deliberatamente alla solitudine, non riesce mai ad essere davvero solo. Come Narciso, mai solo, anche a dispetto di ciò che ci si ostina a vedere nel suo mitologema.
L’opera di Philip Roth potrebbe anzi esser letta alla luce della parabola del narciso assoluto e la si apprezzerà, intrinsecamente, in quanto autologia mancata, cioè etero-logia – come del resto pensa Nancy del racconto stesso di Ovidio.
D’altra parte, la narrativa di Roth è imbastita di doppi: i suoi personaggi sono quasi sempre lontani da sé, sono giochi, sono impersonificazioni di un sé mai compiaciuto. L’animale umano è infatti innanzitutto ingannatore ed ingannato, senza che ciò implichi un giudizio moralistico. Piuttosto, l’inganno deriva da quel destino irrevocabile che è l’errore, “errore, mancata denuncia di un reato, falsità, fantasia, ignoranza, contraffazione e malizia” [11]. Per quanta maestria si applichi alle proprie storie, non c’è inganno però che possa tener testa alla sorpresa del vivere. La vita è molto più complessa delle nostre trame, ed anche quando ci si avventura per le strade della menzogna attraverso costruzioni complicate, si rischia sempre la smentita dai fatti [12].
Le avventure del desiderio, lungo i contorti sentieri dell’erotismo, sono i mezzi attraverso i quali il Sé si divide e si moltiplica [13]. Lo scrittore Philip Roth ne è consapevole almeno quanto alcuni dei suoi personaggi. Anche quando il gioco degli eteronimi si complica per la compresenza, nella stesso storia, di tre Philip Roth (come nel caso di Operazione Shylock), almeno uno dei tre ha consapevolezza della necessità ed al contempo dell’insidia del multiple self,classico ingrediente “facile” della narrativa universale. Per esempio, quando Philip Roth III, diciamo così, si rivolge al personaggio Philip Roth (P. Roth II), invitandolo ad un “rapporto creativo”, a lavorare in tandem come parti della stessa personalità, il personaggio Philip Roth risponde secco: «Senti, io ho già più personalità di quante me ne servano. La tua è di troppo»[14].
Ma qual è la lezione del Professore? Che il desiderio ci desidera oltre il nostro bisogno di quiete e serenità. Che anche quando troviamo convincente e umano il telos espresso nel finale del romanzo dal vecchio amico del padre, quel Mr. Barbatnik sopravvissuto all’olocausto che alla domanda: da giovane, cosa avrebbe voluto diventare nella vita?, risponde pacatamente: “Un essere umano”, non ci acquietiamo. Continua Barbatnik, “una persona capace di conoscere e comprendere la vita, e ciò che è reale, senza crogiolarmi nelle menzogne. È sempre stata questa la mia ambizione, fin da bambino. All’inizio ero come tutti gli altri, un bravo ragazzino che andava alle elementari della scuola ebraica. Ma con le mie sole forze a sedici anni mi sono liberato  di tutta quella roba. Mio padre mi avrebbe ucciso, ma io non volevo assolutamente essere un fanatico. Credere in ciò che non esiste, no, non faceva per me”[15].
Ma l’orizzonte dell’anziano ebreo sopravvissuto all’Olocausto non è lo stesso del giovane Kepesh. Anche allora, quando la vita del Professore è iscritta nei limiti rassicuranti di una felicità domestica, questa si scopre finita: «Non posso dirtelo, non stasera, ma nel giro di un anno la mia passione sarà spenta. Si sta già spegnendo e temo di non poter far nulla per salvarla. E che tu non possa far nulla. Sono intimamente legato – legato a te come a nessun altro! – eppure non riuscirò neanche a sollevare una mano per toccarti… a meno di non ricordare prima a me stesso che devo farlo. Per questa carne sui cui sono innestato e riportato a una qualche padronanza sulla mia vita, sarò privo di desiderio»[16].
Privo di desiderio. E per questo più felice? E perciò meno prigioniero della naturalità e quindi più libero? Meno discosto da sé, più ricompattato e risolto? Non sembra affatto. È una illusione: perché il desiderio non ha oggetto, transita di significante in significante.
È come se Kepesh “facesse due passi avanti ed uno indietro. La sua accettazione dei limiti della felicità personale in un mondo infelice deriva nei toni solo parzialmente dalla dignità e dal pathos di un ‘racconto checkoviano sulla comune afflizione umana’”[17]. Al fondo, non c’è immunizzazione, personale o civile, che tenga: «Il mio desiderio per Miss Claire Ovington – insegnante di scuola privata di Manhattan, altezza un metro e settantacinque, peso sessantadue chili, capelli biondi, occhi grigioverdi, carattere gentile, affettuoso e leale – è misteriosamente scomparso»[18].
Davvero il desiderio per la bella e un pochino algida Miss Claire è scomparso? O piuttosto non siamo di fronte ad una rappresentazione di quel “rapporto” tra amore e desiderio da Nancy messo giustamente in questione? «Le figure chiaramente rivali – che non vuol dire opposte – dell’amore e del desiderio si chiamano fedeltà e fulmine (quello del colpo). Per più di un aspetto, l’una esclude l’altra»[19]. Ma, aggiunge Nancy, possono coesistere, restando comunque eterogenee tra loro. Entrambe sono figure dell’infinito in atto, cioè di quel che chiamiamo eternità. Il desiderio, quindi, non rinasce dopo che la fedeltà ha preso per un periodo il sopravvento. Il desiderio – il fulmine – non si è mai spento, ha coabitato senza folgorare il desiderante insieme all’amore-fedeltà. Ed al termine del romanzo, il fulmine lampeggia di nuovo, lasciando intuire come in David non sia mai tramontata la dinamica del desiderio, quella spinta in grado di orientare le pulsioni al cambiamento ed insieme alla ricorrenza che è incisa nelle sue carni, in quegli anni Settanta nei quali adesso lo lasciamo, per ritrovarlo molti anni dopo, alle prese con gli stessi fantasmi.

[1]  Steven Ungar, Roland Barthes: the Professor of Desire, University of Nebraska Press, 1983.
[2]   Riporto la scheda di presentazione del libro sul sito dell’editore italiano, Il lamento di Portnoy, Einaudi: “Travolto da desideri che ripugnano alla sua coscienza e da una coscienza che ripugna ai suoi desideri, Alex Portnoy ripercorre con l’analista, in un monologo-fiume, la propria vita. A partire dalla famiglia ebraica: il padre, un assicuratore sempre vissuto in funzione della propria stitichezza e la madre, “che radar, quella donna! Mi controllava le addizioni in cerca di errori; i calzini alla ricerca di buchi; le unghie, il collo, ogni piega o grinza del mio corpo alla ricerca di sporcizia”. Quel che ad Alex però interessa più di tutto è il sesso. E dopo un’adolescenza trascorsa chiuso a chiave nel bagno, “a spremersi il pisello nella tazza del gabinetto”, Alex vive una storia dietro l’ altra, sempre con ragazze non ebree, quasi che penetrando loro potesse anche penetrarne l’ambiente sociale: “come se scopando volessi scoprire l’America. Conquistare l’America”. Fino alla storia di sesso travolgente e sfrenato con la “Scimmia” e all’epilogo, come ultima spiaggia, in Israele, dove Alex, totalmente incredulo, si accorge di come lì sia tutto ebraico. “Questa è la mia vita, la mia unica vita, e la sto vivendo da protagonista di una barzelletta ebraica”. Dal libro è stato tratto un film, ormai molti anni fa, con Karen Black nel ruolo della Scimmia.
[3]  Philip Roth, Il professore di desiderio, Einaudi, Torino 2009, pag. 21.  Il romanzo, con diversa traduzione era stato già pubblicato in italiano da Bompiani.
[4]  Ibidem.
[5]  “La tentazione viene a me per la prima volta nelle sgar­gianti vesti di Herbie Bratasky, intrattenitore, direttore d’orchestra, cantante sentimentale, comico e maestro di cerimonie nell’albergo dei miei genitori in una località tu­ristica montana”. Philip Roth (1977), Il professore di desiderio, cit., pag.
[6]  Ivi, pag. 16.
[7]  “È vero, vero, vero, vero, vero. La passione è smodata, inesauribile e, nella mia esperienza, particolarmente appagante”, si confida il giovane David. “Ripensando a Birgitta, mi sembra, col senno di poi, che fra le altre cose ci aiutassimo, all’età di ventidue anni, a trasformarci in qualcosa di lievemente corrotto, ciascuno lo schiavo e lo schiavista dell’altro, ciascuno il piromane e l’incendiato”. Philip Roth, Il professore di desiderio, cit., pag. 55. Una versione post-sessantottina del classico mènage composito, nel quale per il maschio “c’è il meraviglioso e insondabile amore di Elisabeth e c’è il meraviglioso e insondabile ardimento di Birgitta, e io posso avere quello che preferisco. Ecco, questo sì che è insondabile! La fornace oppure il focolare! Ah, dev’essere questo quel che si intende con le possibilità della giovinezza”. Ivi, pag. 43.
[8]  Philip Roth, Il professore di desiderio, cit., pag. 179.
[9]  Cfr. Ross Posnock, Philip Roth’s Rude Truth. The Art of Immanurity, Princeton University Press, Princeton and Oxford 2008, pag. 18.
[10]  Jean-Luc Nancy (…), Il pensiero sottratto, Bollati Boringhieri, Torino 2003, pag. 68.
[11]  Philip Roth (1993), Operazione Shylock, Einaudi, Torino 1998, pag. 217.
[12]  Si potrebbe compendiare così la trama di Deception (1990, Inganno, Einaudi, Torino 2006), diario di due adulteri che gestiscono le proprie vite con apparente fermezza, fin quando la malattia fa irruzione nella loro vita.
[13]  Cfr. Josh Cohen, Roth’s doubles, in: The Cambridge Companion to Philip Roth, a cura di Timothy Parrish, Cambridge University Press, Cambridge 2007, pag. 82 e segg.
[14] Philip Roth (1993), Operazione Shylock, cit., pag. 208. In questo romanzo, Roth (I) scrive di sé II), insidiato da un terzo Philip Roth impostore, che si fa passare appunto per Philip Roth.
[15] Philip Roth, Il professore di desiderio, cit., pag. 229.
[16] Ivi, pag. 232.
[17]  Hermione Lee, Mentors, Doubles and Literary Influences in the Search for Self, in: Philip Roth, a cura di Harold Bloom, Chelsea House Publishers, Broomall 2003, pag. 67.
[18]  Philip Roth, Il professore di desiderio, cit., pag. 233.
[19]  Jean-Luc Nancy (2000), Il «c’è» del rapporto sessuale, SE, Milano 2002, pag. 48.
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