venerdì 13 marzo 2020


LABBRA CONTRO LABBRA
Estratto da "Bellezza russa e altri racconti"
Fëdor Dostoevskij


[...] Le sue inclinazioni erano rigorosamente liriche, le descrizioni della natura e delle emozioni gli venivano con sorprendente facilità, ma gli erano invece molto ostici i dettagli quotidiani come, per esempio, aprire o chiudere le porte o scambiare strette di mano se in una stanza c'erano numerosi personaggi e una o due persone dovevano salutarne molte altre.[...]


LABBRA CONTRO LABBRA
I violini piangevano ancora, eseguendo quello che sembrava un inno alla passione e all'amore, ma già Irina e un profondamente commosso Dolinin si stavano avviando velocemente verso l'uscita. Erano attratti dalla notte primaverile, dal mistero che si era eretto fra loro. I loro cuori battevano all'unisono.
«Dammi lo scontrino del guardaroba» fece Dolinin (cancellato).
«Ti prego, lasciami prendere il tuo cappello e mantello» (cancellato).
«Ti prego,» fece Dolinin «lasciami prendere le tue cose» («e le mie» inserito fra «tue» e «cose»).
Dolinin si avvicinò al guardaroba e dopo aver mostrato il suo piccolo scontrino (corretto in «i due piccoli scontrini»)…
Qui Il'ja Borisovic Tal' divenne pensieroso. Appariva goffo gingillarsi lì, al guardaroba. C'era appena stato uno slancio di sentimenti ispirati, un'improvvisa vampata d'amore fra il solitario, attempato Dolinin e la sconosciuta con la quale aveva diviso per caso il palco, una ragazza in nero, dopo di che avevano deciso di fuggire dal teatro, lontano, lontano dai décolleté e dalle divise militari. Da qualche parte, più in là, oltre il teatro, l'autore immaginava vagamente il Parco Kupeceski o il Parco Zarskij, robinie in fiore, precipizi, una notte stellata. L'autore era oltremodo impaziente di tuffarsi con il suo eroe e la sua eroina in quella notte stellata. Bisognava, però, cercare i soprabiti, e questo interferiva con l'incantesimo. Il'ja Borisovic rilesse quello che aveva scritto, gonfiò le guance, fissò il fermacarte di cristallo, e infine decise di sacrificare l'incantesimo al realismo. Il compito si rivelò tutt'altro che facile. Le sue inclinazioni erano rigorosamente liriche, le descrizioni della natura e delle emozioni gli venivano con sorprendente facilità, ma gli erano invece molto ostici i dettagli quotidiani come, per esempio, aprire o chiudere le porte o scambiare strette di mano se in una stanza c'erano numerosi personaggi e una o due persone dovevano salutarne molte altre. Inoltre Il'ja Borisovic lottava costantemente con i pronomi, come nel caso di «lei», che aveva un modo dispettoso di riferirsi, nella medesima frase, non solo alla protagonista ma anche a sua madre e a sua sorella, cosicché per evitare di ripetere un nome proprio si trovava costretto a scrivere «quella signora» o «la sua interlocutrice» benché di colloqui non ci fosse nemmeno l'ombra. Scrivere per lui significava una lotta impari contro oggetti indispensabili; i beni di lusso sembravano molto più docili, ma di quando in quando perfino loro si ribellavano, si inceppavano, ostacolavano la libertà di movimento – e ora che aveva laboriosamente messo fine al trambusto del guardaroba ed era in procinto di donare al suo protagonista un elegante bastone, Il'ja Borisovic si dilettava con innocente candore del luccichio del massiccio pomello, senza prevedere, ahimè!, quali pretese avrebbe avanzato quell'articolo di valore, con quanta molesta insistenza avrebbe chiesto di essere menzionato quando Dolinin si fosse risolto a portare in braccio Irina attraverso un ruscello primaverile, avvertendo sotto le sue mani le curve sinuose di quel giovane, agile corpo.
Dolinin era semplicemente «attempato»; Il'ja Borisovic stava per compiere cinquantacinque anni. Dolinin era «di una ricchezza enorme», senza precisazioni sulla provenienza dei suoi introiti; Il'ja Borisovic dirigeva una ditta specializzata nell'installazione di sale da bagno (ditta che quell'anno, fra l'altro, era stata incaricata di rivestire con piastrelle smaltate le pareti cavernose di alcune stazioni della metropolitana) ed era piuttosto benestante.
Dolinin viveva in Russia – Russia meridionale probabilmente – e aveva incontrato Irina molto prima della rivoluzione. Il'ja Borisovic abitava a Berlino dove era emigrato con la moglie e il figlio nel 1920. La sua produzione letteraria, benché iniziata molto tempo addietro, non era voluminosa: il necrologio di un commerciante locale, famoso per le sue vedute politiche liberali, che era uscito sul «Corriere di Char'kov» (1910), due poesie in prosa, ibid. (agosto 1914 e marzo 1917), e un libro costituito da quel medesimo necrologio più le due poesie in prosa – un volumetto grazioso varato nel bel mezzo della furibonda guerra civile. Infine, giunto a Berlino, Il'ja Borisovic scrisse un piccolo saggio, Viaggiatori di mare e di terra, che uscì su un umile quotidiano émigré pubblicato a Chicago; ma presto quel giornale svanì come fumo, mentre altri periodici non restituivano i manoscritti e non discutevano mai i rifiuti. Seguirono due anni di silenzio creativo: la malattia e la morte di sua moglie, Ylnflazionzeit, mille iniziative d'affari. Suo figlio terminò il liceo a Berlino e s'iscrisse all'Università di Friburgo. E adesso, nel 1925, avviandosi all'età senile, questa persona prospera e, tutto sommato, molto sola, fu soggetta a un tale attacco di prurito letterario, provò una tale bramosia – no, non di notorietà, ma semplicemente di un certo qual amichevole calore e di attenzione da parte dei lettori – che si risolse a cedere, a scrivere un romanzo e farlo pubblicare a sue spese.
Già quando il protagonista, Dolinin, triste e stanco del mondo, udiva gli squilli di tromba di una nuova vita e (dopo quella sosta quasi fatale al guardaroba) scortava la sua giovane compagna fuori, nella notte di aprile, il romanzo aveva trovato il suo titolo: Labbra contro labbra. Dolinin fece traslocare Irina nel suo appartamento, ma non era ancora successo nulla in senso amatorio, perché lui desiderava che lei venisse nel suo letto spontaneamente, esclamando:
«Prendimi, prendi la mia purezza, prendi il mio tormento. La tua solitudine è la mia solitudine, e, per breve o lungo che sia il tuo amore, sono pronta a tutto perché intorno a noi la primavera ci chiama all'umanità e al bene, perché il cielo e il firmamento irradiano bellezza divina, e perché ti amo».
«Un brano forte» osservò Eufratskij. «Firmamento» presumo «è un gioco su terra firma, vero? Molto forte».
«E non è noioso?» domandò Il'ja Borisovic Tal', lanciando uno sguardo al di sopra degli occhiali con la montatura di corno. «Eh? Me lo dica francamente».
«Immagino che la sverginerà» rifletté Eufratskij.
«Mimo, citatel', mimo! (sbagli, lettore, sbagli!)» rispose Il'ja Borisovic (travisando Turgenev). Sorrise con una certa sufficienza, riassettò con un colpetto il manoscritto, accavallò le sue grasse cosce, sistemandosi in modo più confortevole, e continuò la lettura.
Lesse il suo romanzo a Eufratskij man mano che lo scriveva. Eufratskij, piombato su di lui tempo addietro durante un concerto di beneficenza, era un giornalista émigré «con un nome», o, piuttosto, con una dozzina di pseudonimi. Fino a quel giorno le conoscenze di Il'ja Borisovic provenivano dagli ambienti industriali tedeschi; ora invece egli presenziava a incontri émigré, conferenze, spettacoli di dilettanti, e aveva imparato a riconoscere alcuni dei confratelli dediti alle belle lettere. Con Eufratskij era in rapporti particolarmente cordiali e apprezzava il suo parere in quanto veniva da un maestro di stile, anche se lo stile di Eufratskij apparteneva a quel genere di moda che noi tutti conosciamo. Il'ja Borisovic lo invitava spesso; sorseggiando cognac, discorrevano di letteratura russa, o, più precisamente era Il'ja Borisovic a parlarne, mentre l'ospite collezionava con avidità dettagli comici con cui divertire in seguito i vecchi amici. In effetti, i gusti di Il'ja Borisovic erano piuttosto grossolani. Naturalmente attribuiva a Puskin il giusto merito, ma lo conosceva soprattutto attraverso due o tre opere liriche e lo considerava, in genere, «di una serenità olimpica e incapace di commuovere il lettore». La sua conoscenza della poesia recente si limitava al ricordo di due poemi, entrambi politicamente orientati, Il mare di Vejnberg (1830-1908) e i famosi versi di Skitalec (Stepan Petrov, nato nel 1868) in cui «penzolava» (dalla forca) faceva rima con «s'immischiava» (in una congiura rivoluzionaria). Piaceva a Il'ja Borisovic prendere in giro, in modo blando, i «decadenti»? Sì, gli piaceva proprio, però non bisogna dimenticare che ammetteva francamente di non comprendere la poesia. In cambio amava discutere di narrativa russa: stimava Lugovoj (una mediocrità regionale del primo Novecento), apprezzava Korolenko, e riteneva che Arcybasev traviasse i giovani lettori. In quanto ai romanzi dei moderni scrittori émigré, usava dire, allargando le mani nel tipico gesto russo di impotenza, «Noioso, noioso!», il che mandava Eufratskij in trance, una specie di trance estatica.
«Un autore deve avere sentimento» Il'ja Borisovic era solito ripetere «e compassione, deve essere sensibile e leale. Sarò pure un moscerino, una nullità, ma ho un mio credo. Che anche una sola parola dei miei scritti possa fecondare l'anima di un lettore». Intanto Eufratskij lo fissava con occhi da rettile, pregustando con tenerezza straziante il resoconto mimico dell'indomani, accompagnato dalle grasse risate di A e dallo squittio ventriloquo di Z.
Finalmente venne il giorno in cui la prima stesura del romanzo si potè dire terminata. All'invito dell'amico ad andare a sedersi in un caffè, Il'ja Borisovic rispose con tono grave e misterioso: «Impossibile. Sto perfezionando le mie enunciazioni».
Il perfezionamento consisteva nel lanciare un attacco contro l'aggettivo molodaja, «giovane» (genere femminile), che ricorreva troppo di frequente, sostituendolo qua e là con «molto giovane», junaja, da lui pronunciato con un raddoppiamento provinciale della consonante, come se si scrivesse junnaja.
Il giorno seguente. Crepuscolo. Un caffè sul Kurfurstendamm. Divanetto di velluto rosso. Due signori. A un osservatore casuale sembrerebbero uomini d'affari. Uno di aspetto distinto, quasi maestoso, ha l'aria del non fumatore e un'espressione di fiducia e gentilezza sul viso paffuto; l'altro è magro, con sopracciglia ispide e due pieghe schizzinose che dalle narici triangolari arrivano fino agli angoli, volti all'ingiù, della bocca dalla quale pende obliqua una sigaretta non ancora accesa. La voce pacata del primo:
«La fine l'ho scritta di getto. Lui muore. Sì, muore».
Silenzio. Il divanetto rosso è piacevolmente morbido. Al di là della vetrata un tram traslucido passa fluttuando come un pesce dai colori vivaci in un acquario.
Eufratskij fece scattare l'accendino, buttò fuori il fumo dalle narici e disse: «Mi dica, Il'ja Borisovic, perché non farlo uscire a puntate su una rivista letteraria prima di pubblicarlo in volume?».
«Ma sa, non ho agganci in quel giro. Pubblicano sempre gli stessi».
«Sciocchezze. Ho un piccolo piano. Mi ci lasci pensare su».
«Sarei felice…» mormorò Tal' con aria sognante.
Alcuni giorni dopo, nell'ufficio di I.B. Tal', in ditta. Ecco che si svela il piccolo piano.
«Spedisca la sua cosa» (Eufratskij ammiccò abbassando la voce) «ad "Arion"».
«"Arion"? Che cos'è?» fece I.B., tamburellando nervosamente sul manoscritto.
«Niente di terrificante. È la migliore rivista émigré. Non la conosce? Ahi-ahi-ahi! Il primo numero è uscito questa primavera, il secondo è in programma per l'autunno. Lei dovrebbe seguire la letteratura un po' più da vicino, Il'ja Borisovic!».
«Ma come si fa a mettersi in contatto? Lo spedisco semplicemente per posta?».
«Esatto. Al direttore in persona. Esce a Parigi. E ora non mi dica che non ha mai sentito parlare di Galatov».
Con aria colpevole Il'ja Borisovic alzò la spalla robusta. Con una smorfia ironica sul viso, Eufratskij spiegò: uno scrittore, Galatov, un maestro, una nuova forma di romanzo, una struttura complessa, il Joyce russo.
«Djoys» ripeté umilmente Il'ja Borisovic.
«Per prima cosa lo faccia battere a macchina» continuò Eufratskij. «E per amor di Dio si familiarizzi con la rivista».
Lui si familiarizzò. In una delle librerie émigré russe gli porsero un paffuto volumetto rosa. Lo acquistò, pensando, per così dire, ad alta voce: «Iniziativa giovane. Bisogna incoraggiarla».
«É già finita, l'iniziativa giovane» commentò il libraio. «Ne è uscito un solo numero».
«Lei non è informato» rispose Il'ja Borisovic con un sorriso. «Io so per certo che il prossimo numero uscirà in autunno».
Tornato a casa, prese un tagliacarte d'avorio e tagliò con cura le pagine della rivista. Dentro trovò un incomprensibile brano in prosa di Galatov, due o tre novelle di autori che conosceva vagamente, versi fumosi, e un articolo assai competente, firmato «Tigris», sui problemi dell'industria tedesca.
«Ma non lo accetteranno mai» rifletté Il'ja Borisovic con angoscia. «Sono tutti della stessa cricca».
Tuttavia tra le inserzioni economiche di un giornale in lingua russa individuò una certa signora Lubanskij («stenografa e dattilografa»), la convocò nel suo appartamento e prese a dettare con enorme emozione, con l'anima in tumulto, alzando la voce – e sbirciando ogni tanto la signora per controllare come reagiva al romanzo. La matita continuava a volteggiare mentre lei si piegava sul suo blocchetto di fogli – era una donna mora, minuta, con un esantema sulla fronte – e Il'ja Borisovic passeggiava per lo studio descrivendo cerchi concentrici che si restringevano attorno a lei ogni qualvolta si approssimava qualche brano spettacolare. Verso la fine del primo capitolo la stanza vibrava tutta per gli urli che egli lanciava.
«E il suo intero preterito gli sembrò un orrendo errore» tuonò Il'ja Borisovic, aggiungendo poi, con la normale voce da ufficio: «Mi batta questo per domani, cinque esemplari, margini larghi, l'aspetterò qui alla stessa ora».
Quella notte, a letto, si mise a escogitare ciò che avrebbe scritto a Galatov come accompagnamento al romanzo («…in attesa del Suo severo giudizio… miei pezzi sono apparsi sia in Russia sia in America…»), e il mattino seguente – tale è l'affascinante compiacenza del destino – Il'ja Borisovic ricevette da Parigi questa lettera:
«Egregio Boris Grigor'evic,
«Apprendo da un comune amico che Lei ha terminato una nuova opera. Al comitato editoriale di "Arion" interesserebbe prenderne visione, poiché ci piacerebbe avere qualcosa di "fresco" per il prossimo numero.
Che strano! Solo l'altro giorno mi sono tornate in mente le Sue eleganti miniature sul "Corriere di Char'kov"!».
«Mi ricordano, mi vogliono» fece Il'ja Borisovic sbigottito. Dopo di che telefonò a Eufratskij e, buttandosi all'indietro nella poltrona, tutto di traverso – con la goffaggine del trionfo – e appoggiando sulla scrivania la mano che reggeva la cornetta mentre con l'altra descriveva un ampio gesto nell'aria, tutto raggiante disse con voce strascicata: «Pe-erò, vecchio mio, pe-erò» – e all'improvviso vari oggetti lucenti che stavano sulla scrivania si misero a tremare e a sdoppiarsi e a dissolversi in un umido miraggio. Sbatté le palpebre, ogni cosa tornò al suo posto, e la voce languida di Eufratskij rispose: «Suvvia! Solidarietà fra scrittori… Un banalissimo favore…».
Le cinque pile di pagine dattiloscritte diventavano sempre più alte. Dolinin, che fra una cosa e un'altra non aveva ancora posseduto la sua bella compagna, scoprì per caso che era infatuata di un altro, un giovane pittore. Talvolta I.B. dettava nel suo ufficio, e allora le dattilografe tedesche nelle altre stanze, sentendo quei ruggiti lontani, si chiedevano chi mai avesse fatto infuriare il capo, solitamente di indole gentile. Dolinin ebbe una conversazione a cuore aperto con Irina, lei gli disse che non l'avrebbe mai lasciato perché stimava troppo la sua anima bella e solitaria ma che, ahimè, il suo corpo apparteneva a un altro, e Dolinin silenziosamente si inchinò. Infine venne il giorno in cui egli fece un testamento a favore di lei, poi venne quello in cui lui si sparò (con una Mauser), e infine quello in cui Il'ja Borisovic, con un sorriso beato, chiese alla signora Lubanskij, che gli aveva portato l'ultima parte del dattiloscritto, quanto le doveva, e tentò di strapagarla.
In preda all'estasi rilesse Labbra contro labbra e ne consegnò una copia a Eufratskij per eventuali correzioni (una discreta opera di revisione era già stata compiuta dalla signora Lubanskij nei punti in cui le omissioni accidentali avevano alterato i suoi appunti stenografici). Il contributo di Eufratskij si limitò all'inserzione in una delle prime righe di una virgola impulsiva, vergata con una matita rossa. Il'ja Borisovic trascrisse religiosamente quella virgola nell'esemplare destinato ad «Arion», firmò il romanzo con uno pseudonimo coniato su «Anna» (il nome della sua defunta moglie), suddivise accuratamente i capitoli con eleganti fermagli, aggiunse una lunga lettera, inserì il tutto in un'enorme, solida busta, la pesò, andò lui stesso alla posta, e spedì il romanzo per raccomandata.
Con la ricevuta al sicuro nel portafoglio, Il'ja Borisovic si preparò a settimane e settimane di attesa trepidante. La risposta di Galatov giunse, invece – con sollecitudine sorprendente –, il quinto giorno.
«Caro Il'ja Grigor'evic,
«La redazione è veramente entusiasta del materiale da Lei inviato. Raramente abbiamo avuto occasione di leggere pagine che recavano così nitida l'impronta di un'"anima umana". Il Suo romanzo commuove il lettore con l'espressione singolare del volto che ci mostra, per parafrasare Baratynskij, cantore delle rupi finlandesi. Spira "amarezza e tenerezza". Alcune descrizioni, come per esempio quella del teatro, proprio all'inizio, possono competere con immagini analoghe nelle opere dei nostri autori classici e, in un certo senso, prendere su di essi il sopravvento. Affermo ciò nella piena consapevolezza della "responsabilità" che una simile dichiarazione comporta. Il suo romanzo sarebbe stato un autentico ornamento per la nostra rivista».
Non appena Il'ja Borisovic riacquistò la padronanza di sé, andò a piedi fino al Tiergarten – invece di farsi portare in ufficio – e rimase seduto su una panchina, tracciando degli archi sulla terra bruna, pensando a sua moglie e immaginando come avrebbe gioito insieme a lui. Un po' più tardi andò a trovare Eufratskij. Questi stava a letto e fumava. Analizzarono insieme ogni parola della lettera. Quando giunsero all'ultima, Il'ja Borisovic alzò mite gli occhi e chiese: «Mi dica, perché pensa che abbia messo "sarebbe stato" e non "sarà"? Forse non capisce che sono felicissimo di dare loro il mio romanzo? O è semplicemente un artificio stilistico?».
«Temo che la ragione sia un'altra» rispose Eufratskij. «Senza dubbio lo nascondono per puro orgoglio. Fatto sta che la rivista sta chiudendo bottega – sì, l'ho appena scoperto. Come sa, il pubblico émigré consuma ogni genere di porcherie, mentre "Arion" si rivolge al lettore raffinato. Ed ecco cosa capita».
«Anch'io ho sentito delle voci,» disse Il'ja Borisovic preoccupatissimo «ma pensavo fosse una calunnia dei concorrenti, oppure mera ottusità. Possibile che non sia destinato a uscire un secondo numero? É spaventoso!».
«Non hanno mezzi. La rivista è un'impresa disinteressata, idealistica. Purtroppo pubblicazioni del genere periscono».
«Ma come, come è possibile!» gridò Il'ja Borisovic, allargando le mani nel tipico gesto russo di disappunto. «Non avevano accettato la mia cosa, non la volevano stampare?».
«Sì, peccato» rispose Eufratskij con calma. «A proposito, mi dica…». E cambiò argomento.
Quella notte Il'ja Borisovic meditò seriamente, consultò il suo intimo, e il mattino dopo telefonò all'amico per porgli alcune domande di natura economica. Eufratskij rispondeva con tono svogliato ma con grande precisione. Il'ja Borisovic ponderò ancora e l'indomani fece a Eufratskij una proposta da trasmettere ad «Arion». La proposta fu accolta, e Il'ja Borisovic trasferì a Parigi una certa somma di denaro. Ricevette in risposta espressioni di profonda gratitudine e la notizia che il prossimo numero di «Arion» sarebbe uscito entro un mese. Nel postscriptum veniva avanzata una cortese richiesta: «Ci consenta di scrivere "un romanzo di Il'ja Annenskij", e non, come suggerisce Lei, "I. Annenskij", altrimenti si potrebbe ingenerare confusione con "l'ultimo cigno di Carskoe Selo", come lo definisce Gumilév».
Il'ja Borisovic rispose:
«Sì, certo, era solo perché non sapevo che ci fosse già un autore che scriveva sotto quel nome. Sono lietissimo che il mio lavoro venga stampato. Abbiate la gentilezza, per favore, di inviarmi cinque esemplari della vostra rivista appena esce».
(Aveva in mente una vecchia cugina e due o tre conoscenti d'affari. Suo figlio non sapeva leggere il russo).
Iniziò allora quel periodo della sua vita definito dagli spiritosi con l'espressione «a proposito». In una libreria russa, o a una riunione degli Amici delle Arti in Esilio o semplicemente su un marciapiede di Berlino Ovest, ti abbordava amabilmente («Ehi, come va?») una persona che conoscevi appena, un signore distinto e simpatico con occhiali dalla montatura di corno e bastone da passeggio, il quale attaccava casualmente discorso su questo e quello, per poi passare impercettibilmente da questo e quello alla letteratura, e infine sbottare all'improvviso:
«A proposito, ecco quel che mi scrive Galatov. Sì – Galatov, il Djoys russo».
Tu prendevi la lettera e davi un'occhiata:
«… La redazione è veramente entusiasta … i nostri autori classici… ornamento per la nostra rivista».
«Ha sbagliato il mio patronimico» aggiungeva Il'ja Borisovic con un risolino benevolo. «Sa come sono distratti gli scrittori! La rivista uscirà in settembre, potrà leggere il mio lavoretto». E rimettendo la lettera nel portafoglio ti salutava e se ne andava rapidamente con aria preoccupata.
I letterati falliti, i giornalisti da strapazzo, gli inviati speciali di quotidiani dimenticati lo deridevano con voluttà selvaggia. Simili urli di dileggio li lanciano i teppisti quando torturano un gatto; una simile scintilla arde nell'occhio di soggetti non più giovani e sessualmente sfortunati quando raccontano una storiella particolarmente sconcia. Naturalmente lo sbeffeggiavano dietro le spalle, ma con la massima disinvoltura, noncuranti della splendida acustica dei luoghi in cui si facevano pettegolezzi. Dato, però, che era sordo al mondo come un gallo cedrone durante il corteggiamento, probabilmente non coglieva neanche una parola di tutto questo. Era allegro, faceva passeggiare il suo bastone con atteggiamento nuovo, «romanzesco», cominciò a scrivere a suo figlio in russo, con traduzione tedesca interlineare di gran parte delle parole. In ufficio già si sapeva che I.B. Tal' era non solo un'eccellente persona, ma anche uno Schrifisteller, e alcuni dei suoi amici d'affari gli confidavano i loro segreti amatori da usare come eventuali temi narrativi. Intorno a lui, avvertendo un certo tiepido zefiro, cominciò a radunarsi, passando sia dall'ingresso principale sia dalla porta di servizio, la variopinta mendicità dell'emigrazione. I personaggi pubblici si rivolgevano a lui con rispetto. Era innegabile: Il'ja Borisovic era davvero circondato dalla stima e dalla fama. Non passava una sola festa, nell'ambiente dei russi colti, senza che fosse fatto il suo nome. Come si menzionava, con quale genere di risatina soffocata, ha poca importanza: la cosa in sé, non il modo, è importante, suggerisce la vera saggezza.
A fine mese Il'ja Borisovic dovette lasciare la città per un noioso viaggio d'affari e così perse gli annunci sui giornali di lingua russa riguardanti l'imminente pubblicazione di «Arion 2». Quando tornò a Berlino, lo aspettava sul tavolo del corridoio un grosso pacco di forma cubica. Senza togliersi il soprabito lo aprì all'istante. Tomi color rosa, paffuti e freschi. E in copertina, a caratteri purpurei, arion. Sei esemplari.
Il'ja Borisovic tentò di aprirne uno; il libro emise dei crepitìi deliziosi ma rifiutò di aprirsi. Cieco, neonato! Ritentò e vide di sfuggita versi altrui, altrui. Spostò la massa di fogli non tagliati da destra a sinistra e il suo occhio cadde sull'indice. Il suo sguardo scorse rapidamente nomi e titoli, ma lui non c'era, lui non c'era! Il volume tentò di chiudersi, lui lo contrastò e riuscì ad arrivare in fondo all'elenco. Nulla! Dio mio, com'era possibile? Non poteva essere! Il suo nome, per caso, doveva essere stato tralasciato nell'indice, sono cose che capitano, sì, capitano! Ora stava nello studio e, impugnando il suo bianco coltello, penetrò la carne spessa e lamellare del libro. Prima, naturalmente, c'era Galatov, poi delle poesie, poi due novelle, poi altre poesie, di nuovo prosa, e più avanti ancora solo trivialità: rassegne, recensioni, eccetera. Il'ja Borisovic fu sopraffatto, di colpo, da un senso di stanchezza e di futilità. Be', niente da fare. Forse avevano troppo materiale. Lo stamperanno nel prossimo numero. Sì, questo è certo! Però, un'altra attesa… E sia, aspetterò. E intanto continuava a far passare meccanicamente le morbide pagine fra indice e pollice. Carta fine. Bene, almeno un aiuto l'ho dato. Uno non può pretendere di essere stampato al posto di un Galatov o di… E qui, improvvisamente, balzarono fuori e cominciarono a piroettare, a saltellare, con una mano sul fianco, in una danza russa, quelle care, commoventi parole: «… il suo giovane seno, appena sbocciato … i violini piangevano ancora … i due piccoli scontrini … la notte di primavera li accolse con un carez-» e, sul retro, inevitabile come il proseguimento dei binari dopo una galleria: «zevole, passionale vento di passione…».
«Che stupido a non aver indovinato subito!» escalmò Il'ja Borisovic.
Era intitolato Prologo di un romanzo e firmato «A. Il'in». Alla fine, tra parentesi, c'era «continua». Un pezzetto esiguo, solo tre pagine e mezzo, ma che bel pezzetto! Un'ouverture. Elegante. «Il'in» è meglio di «Annenskij». Poteva esserci un qui prò quo anche se avessero messo «Il'ja Annenski». Ma perché Prologo e non semplicemente «Labbra contro labbra. Capitolo primo»? Oh, non ha alcuna importanza.
Rilesse il brano tre volte. Poi mise da parte la rivista e camminò su e giù per lo studio fischiettando con noncuranza come se non fosse accaduto nulla: sì, sì, c'è un volume là, un volume qualunque – che importanza ha? Dopo di che piombò su detto volume e si rilesse otto volte di fila. Infine consultò l'indice, trovò «A. Il'in, p. 205», cercò p. 205, e, gustando ogni parola, rilesse il suo Prologo un'altra volta. Continuò a giocare così per parecchio tempo.
La rivista sostituì la lettera. Il'ja Borisovic portava sempre un esemplare di «Arion» sotto il braccio, e quando si imbatteva in qualsiasi persona di sua conoscenza apriva il volume alla pagina che ormai si presentava abitualmente. «Arion» fu recensito sui giornali. La prima di queste recensioni non menzionava affatto Il'in. La seconda diceva: «Il Prologo di un romanzo del signor Il'in deve essere per forza uno scherzo di qualche genere». La terza constatò semplicemente che Il'in e un altro comparivano sulla rivista per la prima volta. Infine un quarto recensore (di un simpatico, modesto, piccolo periodico che usciva da qualche parte in Polonia) scrisse quanto segue: «Il brano di Il'in seduce per la sua sincerità. L'autore descrive la nascita dell'amore su uno sfondo musicale. Fra le indubbie qualità del brano bisogna menzionare l'eccellente stile narrativo». Incominciò una nuova èra (dopo il periodo dell'«a proposito» e quello del libro-sotto-il-braccio): Il'ja Borisovic che tirava fuori dal portafoglio quella recensione.
Era felice. Comprò altre sei copie. Era felice. Il silenzio si giustificava facilmente con l'inerzia, la denigrazione con l'ostilità. Era felice. «Continua». Poi, una domenica, arrivò una telefonata di Eufratskij:
«Indovini» disse «chi vuole parlarle? Galatov! Sì, è a Berlino per un paio di giorni. Glielo passo».
Risuonò una voce mai udita prima. Una voce scintillante, energica, pastosa, inebriante. Fissarono un appuntamento.
«Allora domani alle cinque a casa mia» disse Il'ja Borisovic. «Peccato che non possa venire stasera!».
«Mi dispiace molto,» rispose la voce scintillante «ma vede, degli amici mi trascinano a vedere La pantera nera – una commedia orrenda –, però è da tanto che non vedo la cara Elena Dmitrievna».
Elena Dmitrievna Garina, un'avvenente attrice già di una certa età, era arrivata da Riga per recitare parti di primo piano nel repertorio in lingua russa di un teatro berlinese. Lo spettacolo iniziava alle otto e mezzo. Dopo una cena solitaria, Il'ja Borisovic improvvisamente guardò l'orologio, fece un sorriso sornione, e partì in tassì per il teatro.
Il «teatro» era, in verità, un'ampia sala destinata più alle conferenze che alle commedie. Lo spettacolo non era ancora incominciato. Un cartellone fatto in casa raffigurava la Garina reclinata sulla pelle di una pantera uccisa dal suo amante, che più tardi avrebbe ucciso anche lei. La parlata russa crepitava nel freddo vestibolo. Il'ja Borisovic lasciò nelle mani di una vecchia vestita di nero il bastone, la bombetta e il soprabito, pagò ricevendo in cambio un gettone numerato, che infilò nel taschino del gilet, e si guardò intorno sfregandosi le mani lentamente. Vicino a lui c'era un gruppo di tre persone: un giovane giornalista che Il'ja Borisovic conosceva appena, la moglie di quest'ultimo (una signora spigolosa con un occhialino) e uno sconosciuto, con un abito vistoso, dalla carnagione pallida, barbetta nera, begli occhi ovini e una catenella d'oro che gli cingeva il polso peloso.
«Ma perché, perché,» gli diceva la signora vivacemente, «perché l'avete stampato? Sa, vero, che…».
«Ma lasci stare quel poveretto» rispose il suo interlocutore con una cangiante voce baritonale. «D'accordo, è di una mediocrità senza speranza, ma evidentemente c'erano delle ragioni…».
Aggiunse qualche cosa sottovoce e la signora, facendo scattare l'occhialino, replicò indignata: «Scusi tanto, ma secondo me, se lo stampate solo perché vi finanzia…».
«Doucement, doucement. Non diffonda i nostri segreti editoriali».
Qui Il'ja Borisovic incontrò lo sguardo del giovane giornalista, il marito della signora spigolosa, e questi rimase di stucco per qualche istante, poi emise un gemito facendo un movimento brusco e cominciò a spingere via la moglie con tutto il corpo, ma lei continuava a parlare a voce altissima: «Non mi interessa quel miserabile Il'in, mi interessano le questioni di principio…».
«Qualche volta bisogna sacrificare i princìpi» disse con molta calma il bellimbusto dalla voce opalescente.
Ma Il'ja Borisovic non ascoltava più. Vedeva le cose attraverso una cortina di nebbia, e, trovandosi in uno stato di estrema angoscia, senza essere ancora pienamente consapevole della mostruosità dell'accaduto, ma d'istinto cercando di ritrarsi al più presto da un che di ignobile, vergognoso, odioso, intollerabile, si mosse dapprima verso un luogo indistinto dove si vendevano posti a sedere, del pari indistinti, poi bruscamente tornò indietro, per poco non si scontrò con Eufratskij che si stava precipitando verso lui, e puntò sul guardaroba.
Vecchia in nero. Numero 79. Laggiù. Aveva una fretta disperata, un braccio era già proteso all'indietro per entrare nella manica restante del soprabito, ma a quel punto Eufratskij lo raggiunse, accompagnato dall'altro, quell'altro…
«Le presento il nostro direttore,» disse Eufratskij mentre Galatov, roteando gli occhi e cercando di impedire a Il'ja Borisovic di riprendersi, agguantava la manica fingendo di aiutarlo e intanto diceva in fretta: «Innokentij Borisovic, come sta? Felicissimo di conoscerla. Un'occasione gradita. Mi permetta di aiutarla».
«Per l'amor di Dio mi lasci in pace» borbottò Il'ja Borisovic, lottando con il soprabito e con Galatov. «Vada via. Una cosa ripugnante. Non posso. Ripugnante».
«Un ovvio malinteso» replicò velocissimo Galatov.
«Mi lasci in pace!» gridò Il'ja Borisovic, liberandosi con uno strattone, quindi afferrò la bombetta che stava sul banco e uscì mentre ancora cercava di indossare il soprabito.
Mormorava cose incoerenti mentre avanzava a passo spedito lungo il marciapiede; poi allargò le mani: aveva dimenticato il bastone!
Continuò a camminare automaticamente, ma di lì a poco incespicò, e allora si fermò di colpo, come se il meccanismo a molla si fosse scaricato.
Sarebbe tornato a prenderlo una volta iniziato lo spettacolo. Bisognava aspettare qualche minuto.
Le macchine passavano veloci, i tram scampanellavano, la notte era limpida, secca, agghindata di luci. Si incamminò lentamente verso il teatro. Considerò che era vecchio e solo, che le sue gioie erano poche, e che i vecchi devono pagarle, le gioie. Considerò che forse ancora quella sera stessa, ma in ogni caso l'indomani, Galatov sarebbe arrivato con spiegazioni, esortazioni, giustificazioni. Sapeva di dover perdonare tutto, altrimenti il «Continua» non si sarebbe mai avverato. Si disse anche che avrebbe avuto un pieno riconoscimento dopo morto, e ricordò, racimolò in un esiguo mucchietto, tutte le briciole di elogi ricevuti negli ultimi tempi, e camminò avanti e indietro lentamente, e dopo un po' andò a riprendersi il bastone.