venerdì 6 marzo 2020


GELO
Thomas Bernhard

PARTE SECONDA

Dodicesimo giorno

 Al mattino presto mi sorprese comunicandomi che la bozza al suo piede era scomparsa. «Non si vede assolutamente piú nulla, – disse lui, – è scomparsa per riapparire un giorno da qualche altra parte. Vedrà». Poiché si era fermato nel vano della porta della mia camera, lo pregai di entrare. «Se non gliene importa che un vecchio appesti la sua camera», disse lui. Traversò la mia camera sino a raggiungere la finestra e guardò fuori. «Lei ha la stessa vista che ho io: le tenebre! – disse lui. – Questo non la rende malinconico? In tutti questi giorni? I tipi come Lei per anni interi, per interi decenni si muovono ai margini della melanconia. Improvvisamente ci cascano dentro. A testa prima». Si sedette sul mio letto. «I giuristi creano confusione nella Storia umana, – disse lui. – Il giurista è uno strumento del diavolo. In generale è un diabolico idiota che conta sulla stupidità di quelli che sono ancora molto piú stupidi di lui e i suoi conti tornano sempre». Ricominciò a frugare nelle sue tasche. «È la giurisprudenza che genera i crimini, questa è la verità. Senza la giurisprudenza non ci sarebbero i crimini. Questo fatto le è familiare? È tanto reale quanto incomprensibile». Puntò il bastone contro la mia giacca che avevo buttato sopra la spalliera della seggiola, la infilzò e la sollevò in alto. «La giovinezza è un ornamento, – disse lui, – un ornamento sempre piú bello e in tutti i casi e sempre è portatrice di freschezza». A quel punto lasciò in pace la mia giacca. «La giovinezza non ha ideali. Non ha ancora quelle fantasie masochistiche che sopraggiungono solo piú tardi. E piú tardi – a dire la verità – questo avviene in modo mortale». Tuttavia lui riusciva ancora a immaginare che cosa fosse essere giovani. «Col passar del tempo si riesce a immaginarlo sempre meglio, – disse. – 
Quando non c’è piú tanta spavalderia e tutto non è piú cosí confuso, quando non ci sono piú tanti ripensamenti. E tutto è cosí netto come le ombre che confinano con la luce dentro di loro, duro, taciturno». Molti errori li aveva fatti solo perché era giovane. «La giovinezza è un errore. L’errore della vecchiaia è invece quello di vedere gli errori della giovinezza. Può succedere che una persona giovane nel bel mezzo della sua giovinezza smetta di essere giovane», disse lui e poi: «Lei crede in Cristo?», quesito che, a considerare il modo in cui lo poneva lui, equivaleva a domandare: «Lei crede che domani farà ancora piú freddo?» Aveva in mente, disse lui, di fare una passeggiata fin giú alla stazione. «Prima voleva andare sul versante nord. Poi all’edicola. Poi al caffè. Mi lasci riflettere: non potremmo fare una visita in canonica? All’ospizio? No, questo non va. In tutti i casi Lei viene con me, non è vero?»  
 Oggi è stato a lungo ad ascoltarmi mentre gli raccontavo di casa mia. Il fatto che spesso io faccia gite in montagna con gli amici, gite al lago, in varie città, e anche che a Natale io legga sempre qualche passo della Bibbia davanti a tutti, a mio padre, a mia madre, ai miei fratelli, pareva rattristarlo. Che nel nostro giardino ci siano degli alberi che avevamo piantato noi, armadi nei quali conserviamo preziosi ricordi, candele e vestiti di quando eravamo bambini, pigne di abeti di un inverno freddo e per tutti ugualmente familiare e felice. Che continuiamo a scriverci delle lettere preoccupandoci gli uni degli altri. Che conosciamo delle case sempre aperte per noi. E anche dei boschi, delle spiagge, dei pendii lungo i quali si scende in slitta, tutti per noi. Letti pronti per noi in camere riscaldate, libri. Che amiamo la musica che ci tiene uniti per ore quando è già buio. E come i temporali all’improvviso devastino tutto quel che era stato pensato e costruito per l’eternità e che era amato da tutti. Lui rimase ad ascoltar ogni cosa senza mai interrompermi neanche una volta, mi seguí anche su e giú per quelle tante strade sbagliate che io avevo percorso e nelle quali si parlava molto di sicurezza e di convivenza e molto di solitudine, di mancanza di autocoscienza, di fiducia, di ribellioni e di distinzioni, di improvvisi arresti di sviluppo e di regressioni, di paure e di rimproveri, di amore e di tormento, di finzione e di naturalezza, dove salivano le nuvole e una fitta nevicata oscurava la campagna e la città, dove le persone si rinnovavano a vicenda, dove gli affanni si alternavano a giorni di euforia e i fiumi seguivano il loro corso, dove lentamente si disimparava a vivere e si ritrovava ciò che era già perduto, dove all’improvviso si alternavano calma ed eccitazione e si richiedeva ora la modestia ora la brutalità – tutto ciò che non voleva rassegnarsi, dove gli uomini passavano l’uno accanto all’altro senza riconoscersi in se stessi, e cadevano nel mutismo e nelle tipiche espressioni del lutto, dove si stava inutilmente svegli per notti e si sprecavano nel sonno mille giorni importanti. Tutto questo lo rattristava profondamente, ma non gli causava nessuna amarezza. «Sto ascoltando», disse lui dopo quelle ore mattutine nelle quali io continuavo a dire a me e a lui, che era cosí taciturno: ecco com’è stato! «Sto ascoltando il racconto della mia propria vita. Mi rendo conto e so che è stato questo e nulla di diverso. L’ho chiaramente davanti agli occhi! Lei mi sta mostrando la mia vita nella Sua vita anche se è stata diversa dalla mia». E dopo un po’: «Naturalmente tutto si vede sempre sotto presupposti sbagliati».  
 Tentai di fare una descrizione della mia camera a casa mia. Mi costrinsi, passo per passo, a vedere ogni cosa nella mia camera, spostandomi avanti e indietro lungo le pareti, a stare attento anche ai rumori che in determinate ore del giorno filtravano o penetravano dall’esterno. Cominciai dalla porta con il buco profondo della sua serratura nel quale si entrava come in una grotta stalagmitica, tornai indietro, uscii fuori, lungo le scanalature arrivai su fino all’angolo dove si raccoglie sempre molta polvere che diventa umida, secca e infine forma una massa solida, resa piú densa dalle secrezioni delle mosche. Poi continuai lungo il soffitto, all’improvviso ridiscesi sul pavimento, sul tappeto, passando per i disegni ornamentali della tappezzeria, elementi di finestra d’una torre araba, petali di fiori, parti di una scala, vedute di un tempio e del mare immobile nella calura. Attraverso il buco della serratura io entro nell’armadio, mezzo tramortito per via del puzzo dei vestiti estivi stipati al suo interno, cercando una via di uscita nel buio e nello stordimento, ne vengo fuori e salgo sul davanzale della finestra che guarda il giardino. Poi il quadro con la bella città autunnale dipinta in violenti toni bruni. Il paesaggio di montagna dal quale dei gitanti stanno ritornando in una valle con un fiume. Lungo la cornice dorata, passavo da un cuore intagliato a un altro. Il ritratto del nonno, quello della nonna. La lettera del fratello che nasconde un terzo di una scena di caccia in cui è raffigurato un cacciatore che suona la cornamusa e invita alla danza un gran numero di piccole figure. L’incisione con un vecchio castello nel Flachgau. Poi il tavolo e il letto e la poltrona, i listelli del pavimento, le crepe nei muri. E metto tutto in rapporto con tutto. L’incisione per esempio col castello, il castello con il lago, il lago con il mare che sta dietro, il mare con gli uomini e i loro vestiti con una sera d’estate, con l’aria sul fiume sopra il quale la nostra barca scivola ancora a mezzanotte passata da un pezzo. Oppure il ritratto del nonno con una stanza in una birreria, con un suicida, con un pescatore che pesca un luccio nel canneto. Dissi: «Da qualsiasi oggetto, da tutto si può arrivare a tutto. Non è forse questa la dimostrazione di tutto?» Ma il pittore non mi rispose. All’improvviso mi accorsi che non mi stava assolutamente ascoltando, che ciò che io avevo pensato ed espresso in parole non lo interessava assolutamente, poiché disse: «È un grosso inconveniente che io sia costretto a consumare i pasti in sala da pranzo. Che la moglie dell’oste non mi serva i pasti in camera mia. Potrebbe servirmeli in camera. Farmeli portar su da un ragazzo. Per me è un supplizio star seduto in sala da pranzo. Ma è anche vero che io cerco ciò che mi irrita. Le esalazioni, – disse lui, – mi fanno venire la nausea. Le esalazioni degli operai mi hanno sempre fatto venire la nausea. E mi hanno sempre attratto. Sí, questo è vero. Se arrivo prima di loro, il pranzo non è pronto, se arrivo dopo, non resta piú nulla. Come se tutti quando mangiano avessero proboscidi o tentacoli, – disse lui. – Le locande giú nella valle guadagnano ancora di piú, fanno guadagni enormi. Quassú arriva quel che laggiú è indesiderato. Quelli che laggiú sono indebitati fino al collo, quelli che laggiú non possono piú farsi vedere. Per un qualsiasi motivo. Giú nella valle cucinano dentro a enormi pentole. Tutti cucinano usando i grassi e gli olii piú scadenti. Ma non la moglie dell’oste! Benché anche lei faccia i suoi intrugli usando delle porcherie e – come già Le ho detto – cucini la carne di cane e di cavallo. Ho sempre odiato i luoghi dove si ammassa la gente».  
 «Di mattina, ero intento a lucidarmi le scarpe – qui non sanno lucidarle bene e bisogna sempre rilustrarsele da sé con un panno – ho visto come la moglie dell’oste picchiava la figlia maggiore. Tutt’a un tratto ho sentito che la stava malmenando. Deve aver colpito in testa la figlia con un oggetto contundente, perché guardando giú nella valle guadagnano ancora di che correva con la testa sanguinante. È caduta in terra sotto al castagno. Si teneva la testa con entrambe le mani. Probabilmente ha passato metà della notte giú dai ferrovieri. Ho scoperto le tracce di sangue sulla neve, quando piú tardi sono sceso giú, fuori dalla locanda, perché non sopportavo piú di stare in camera mia. Brandelli di parole battevano contro la finestra. Erano già per strada diretti verso la posta, ma io ho assistito a tutto. L’intera scena era sordida. Probabilmente la ragazza aveva passato la notte insieme al figlio del casellante. “Puttana!” sento dire, “puttana!” La moglie dell’oste probabilmente credeva che io fossi già andato via, ché altrimenti non si sarebbe lasciata andare in quel modo, in quel modo cosí terribile. Per il dolore la ragazza s’era curvata sotto il castagno. Non ha ancora quattordici anni. Lei dovrebbe averlo notato, il figlio del casellante, un giovane alto. Lavora nella fabbrica di cellulosa. Viene alla locanda soltanto quando la moglie dell’oste non c’è. Ora sono giorni che non lo vedo. Una sera, quella in cui lo scuoiatore cantava insieme all’ingegnere, lui era qui: robusto, bruno. Lei lo ha certamente visto. A mezzogiorno si sentí dire che la ragazza se n’era andata via, ch’era partita. Che aveva preso il treno col suo amante. La faccenda mi ha fatto una impressione terribile, soprattutto l’incapacità di difendersi della ragazza. La moglie dell’oste la batteva con l’attizzatoio. Con l’attizzatoio, sa. Si lanciava su di lei come un esperto macellaio».  
 E giú al cantiere mi ricordai del periodo in cui attraversavo il grande ponte con la tuta azzurra da operaio. L’aria era fresca e non s’erano ancora destati i rumori. Laggiú il mattino – passando sopra le montagne – entrava nelle case dove le persone si salutavano per l’intera giornata. Finivano in fretta di bere il loro caffè e spesso finivano anche di mangiare per la strada il pane che gli era stato imburrato dalla moglie oppure non mangiavano nulla e ricominciavano il lavoro in cantiere a stomaco vuoto. Il primo colpo di pala fece sparire in un baleno la mia sensazione di malessere. Con i miei vent’anni ero piú robusto degli altri e in realtà non ero mai stanco. Una grossa macchina per mescolare il cemento e una scavatrice con la scritta «Costruzioni Zwettler S.p.A.» ci sovrastavano, noi che eravamo dentro alla buca. Quelle erano fredde giornate d’autunno, ma ben presto ci eravamo tolti tutto fuorché i pantaloni. E a mezzogiorno – prendendocela comoda – attraversavamo la strada e entravamo nel giardino della locanda. Mi venne in mente che allora, per un periodo di tempo, non avevo affatto pensato di cambiare la mia vita. Mi pareva naturale continuarla a quel modo. Avevo sempre sentito parlare di questo tipo di uomini nella mia famiglia, uomini che avevano incominciato con le costruzioni in superficie e avevano finito lavorando nei fossi delle strade. Non erano poi gli uomini peggiori. Per intere settimane mi sentii cosí bene facendo quel lavoro che dimenticai gli studi. Superai ugualmente l’esame. Come in sogno. Non so perché. Certo ebbi fortuna. Il mondo che non lavorava nei cantieri mi parve folle e compativo gli uomini che non stavano in piedi in una buca. Le sere non si trascinavano tanto in lungo, io ero pronto per andare a letto, trovavo ragionevole buttarmi nel letto, non tiravo neanche fuori la mia tuta da lavoro, la lasciavo nello zaino e mi addormentavo subito profondamente fino alle quattro e mezzo del mattino. Le sere entravano con l’odore del fiume attraversando le siepi dei giardini della locanda. Là dentro bevevo birra assieme a due o tre persone, spesso anche quattro o cinque bicchieri e le parole che scambiavo erano poche ma buone. Con nessuno piú tardi sono riuscito a parlare cosí bene come con gli operai del cantiere. Non dicevano da dove venissero né quali fossero i loro progetti. Probabilmente non avevano progetti. Quali progetti avrebbero potuto avere? Avevo forse dei progetti io? È vero che ogni tanto veniva fatto il nome di qualche giovane donna, che ora ha un bambino e non c’è nessuno che l’aiuti, oppure il nome di un fratello, di tanto in tanto si nominava un luogo in cui delle persone si svegliano e poi si riaddormentano, gettavo uno sguardo su cucine e atrii, su garage e pozzi neri, su case cantoniere.  
 Poi ho fatto anche l’autista saltuario per una ditta siderurgica e tutto era ancora piú silenzioso. E quando eravamo in due o in tre sul grande ponte sopra il fiume grande e largo a guardar giú nell’acqua, io non sognavo né paesi né continenti. Le barche scendevano verso il Mar Nero attraverso le Porte di Ferro, attraverso capitali, e io ero felice. Mi ero però irrimediabilmente rovinato ficcandomi in testa una cosa di cui ero convinto solo a metà, ritirai il mio stipendio e quando venne ottobre mi rimisi a sedere nel mio banco di scuola. In realtà ero piú infelice, ma a lungo andare l’infelicità non mi sarebbe stata risparmiata neanche al cantiere. Chissà? Oggi dissi al pittore che anch’io ero sempre stato attratto dalla vita molto semplice. Dai luoghi dove non si vede altro che ganci andar su e giú sopra il fosso nel quale si è costretti a stare in piedi. Dove si vedono solo mucchi di terra che vengono buttati su. Da chi? Mah, questo non lo si sa. Laggiú al cantiere della centrale elettrica alle nove del mattino se ne stanno in ozio e si accendono sigarette, bevono una bottiglia di birra e mostrano con le dita quanti giorni mancano ancora alle ferie. Ma cosa farsene? Partire? Visto che si ha il denaro per andar via! Ma dove andare? E non costerà poi troppa fatica? Restano lí e la sera semplicemente si fermano piú a lungo a giocare a carte, visto che non saranno costretti ad alzarsi, vanno al cinema e scrivono una lettera – che avrebbe già dovuto esser scritta da un anno – al fratello, alla sorella, alla madre. Stanno in equilibrio sopra fiumi in piena, sono acrobazie, acrobazie tra la vita e la morte, quelle in cui si esibiscono quando debbono conficcare in terra il pilastro di un ponte. Dalle sei e mezzo fino alle quattro e mezza. Nove ore, perché hanno un’ora per mangiare e per distendersi. A volte si chiamano gridando ad alta voce da un posto all’altro, come se si trattasse di una cosa importantissima e non solo di una corda che dev’essere tirata. Ma quelle che gridano sono voci consunte. La gru si muove una volta in qua e una volta in là e le sue fauci appese alla loro fune di ferro divorano la terra in profondità. E poi risputa i suoi grossi bocconi tra gli uomini. La perforatrice pneumatica che forse ancora vent’anni fa avrebbe fatto impazzire almeno qualcuno di loro, ora non fa piú impazzire nessuno. I camion arrivano dalla stazione, fanno qualche apparizione e poi spariscono, vengono vicinissimi al baratro per poter essere riempiti dagli uomini. Costoro continuano a stringere sempre di piú la stessa corda intorno al proprio collo. La maggior parte di loro non ha mai fatto altro che caricare e scaricare, stare in piedi nell’acqua con stivali di gomma e conficcar pali nel terreno. Che loro ci hanno l’abitudine, ecco la giustificazione di quelli che non son mai stati costretti a star nell’acqua con gli stivali di gomma né a conficcar pali nel terreno; non appena giunge l’ordine da riva ecco abbassarsi fulminei i martelli. Si può andare in giro per i mucchi di terra, chiamare a rapporto l’uno o l’altro e interrogarlo senza dire una parola, senza che lui debba dire una parola. Quando si dà loro un’occhiata bisogna stare attenti a non esser visti, ché altrimenti si è sospettati di preoccuparsi solo ora di una cosa della quale – a dire la verità – sarebbe stato opportuno preoccuparsi continuamente. Che cosa è che s’infilano quegli uomini quando s’infilano quelle giacche blu che – quando spunta il sole – son stese dappertutto, appese ai rami o in cima al manico delle pale? Spesso in tutta la valle non si sente altro che martellare e perforare. Poi fan di nuovo saltare un grosso blocco della montagna dentro alla quale stanno costruendo la centrale elettrica e l’aria compressa schiaffeggia le pareti di roccia.  
 Oggi hanno portato su in slitta dalla valle stretta due che erano precipitati. Due sconosciuti che volevano trascorrere il fine settimana in una baita lassú all’alpeggio. Ma non avevano nemmeno raggiunto il ghiacciaio ed erano precipitati. Come per miracolo erano riusciti a passare tutta la notte al caldo sotto ai rami di un abete divelto, praticamente illesi. Malgrado ciò il giorno seguente erano talmente indeboliti che solo il piú giovane dei due è stato capace di trascinarsi carponi fino al fondo valle – si tratta di due ore di strada – per chiedere soccorso. Quando gli uomini che – a quanto pare – inizialmente si erano rifiutati di venire in aiuto a quello rimasto lassú e che aveva la gamba ferita e che anche solo per questa ragione non riusciva a camminare, decisero alla fine di andarci lo stesso, trovarono lo studente svenuto, per metà sdraiato in un ruscello. Solo la circostanza che i soccorritori fossero arrivati poco dopo che lo studente era precipitato nel ruscello gli ha salvato la vita. È un miracolo anche il fatto che gli studenti se la siano cavata rimanendo praticamente illesi dopo essere caduti giú per un dirupo che aveva già ucciso molte persone.  
 L’ingegnere che aveva assistito al trasporto dei due studenti tirati fuori dalla valle stretta, racconta che la gente del luogo li aveva coperti d’insulti poiché non finivano mai di avere a che fare con degli alpinisti che – ignari dei pericoli e per giunta anche male equipaggiati – precipitano oppure si perdono e creano continua agitazione. Bisognerebbe lasciarli lassú, dicono loro. Come si può pretendere che i loro uomini mettano a repentaglio la propria vita per dei «fanfaroni che vengono dalla città»? Pretendere che vadano su con ogni intemperia, che magari si prendano anche un congelamento, che finiscano in mezzo alla tormenta, che restino travolti dalle frane? Poiché chi abita in città non sa nulla di quanto sia terribile una bufera che infuria all’improvviso in alta montagna. Della violenza con cui la bufera sradica gli alberi, sferza nel volto interi massicci montuosi tanto da farli tremare. Non sa nulla delle slavine. Nulla del gelo. Nulla delle tenebre che all’improvviso tolgono di mezzo tutto ciò che potrebbe offrire un appiglio.  
 «Ogni anno qualche centinaio di persone vengono trovate morte da qualche parte nei crepacci, – disse l’ingegnere. – La valle stretta è pericolosa, se non si sa esattamente dove è permesso e dove non è permesso mettere i piedi». Ancora oggi nella valle stretta ci sono persone con le membra sfracellate che è impossibile tirar fuori perché sono irraggiungibili. «Non si sa proprio che cosa attiri verso le montagne gli abitanti delle città, in modo cosí sconsiderato». I due studenti vennero alloggiati in una locanda vicino alla stazione ferroviaria. Furono messi in letti caldi e dovettero sorbirsi un mucchio di rimproveri. L’ingegnere aveva dato disposizione che fossero loro addebitate tutte le spese che avevano causato. «A quanto pare volevano suicidarsi, – disse lui, – lassú in alto in quella baita».  
 Anche a Schwarzach la sappiamo lunga a proposito di tragedie che capitano ai turisti, di fratture ossee semplici e complicate che degenerano persino in fenomeni di paralisi cerebrale, senza contare i casi in cui arriviamo troppo tardi sotto alla cascata oppure dall’altra parte, vicino alla casa del tracciatore di sentieri, dove li hanno semplicemente messi lí sdraiati, coperti con un telo da vela oppure anche solo con della carta da pacchi oppure con dei rami secchi e poi aspettano che l’assistente rilasci loro un certificato di morte. Quelle non sono altro che esibizioni di prodezza da parte della gente di città ed è solo per far nuovamente colpo per un anno intero sui loro dubbi amici e conoscenti e per apparire una volta ancora sui giornali, è solo per questo che costoro salgono sui duemila o sui tremila metri. Che cosa è poi questo alpinismo? Che differenza c’è se mi trovo a un’altezza di trecento metri oppure di tremila metri? La differenza sta nel fatto che è piú pericolosa la seconda impresa della prima, la prima non è davvero una prova di grande abilità mentre l’altra – a quanto pare – è una prova di grande abilità. Spesso m’è capitato di vedere come i giovani perdano le forze solo perché all’improvviso si trovano circondati dalle tenebre. E a chi serve che noi continuiamo a star lí con la cassetta dei medicinali quando il parroco se n’è già andato via?  
 Oppure che li portiamo all’ospedale, che io stia lí seduto accanto a un ragazzo o a una ragazza che ancora non sa che non potrà muoversi mai piú, che le sue membra resteranno rigide fino all’ultimo giorno della sua vita o che io tenga loro una mano e che nell’ambulanza gli dica qualcosa che è una bugia bell’e buona? Magari dico anche: «Tutto tornerà a posto!» Oppure: «Passerà!» frasi che solo quando sto per addormentarmi mi sembrano terribili. Allora odo una voce ostile e cento, mille volte piú forte della mia dirmi: «No, No!» Amputare le gambe a un giovane che di mestiere fa l’autista di camion, che cosa tremenda! Oppure a una che porta i giornali o a uno studente che voleva partire per l’India! Quando loro si buttano giú come pazzi sugli sci e vanno a sbattere contro un tronco d’albero, simili disgrazie capitano tutti i giorni. Quasi tutte le stanze d’ospedale son piene di turisti infortunati. Bisogna dire che se la son voluta, sí, che sarebbe bastato non andare lassú! Ma qualcosa li attira verso l’alto, li spinge ad arrampicarsi su per le pareti di roccia; intere scolaresche son rimaste congelate assieme ai loro maestri. I congelamenti sono all’ordine del giorno. Se si domanda loro come abbiano fatto a congelarsi la gamba che siamo costretti ad amputare, dicono che a farli arrampicare lassú era stata una scommessa oppure che l’hanno fatto soltanto per potersene poi vantare; lassú poi era capitata la disgrazia, spesso ancora un bel po’ sotto alla cima. Una volta abbiamo avuto in ospedale un ragazzotto che aveva resistito per quattro giorni in un burrone nel quale c’erano anche tre camosci morti. Solo molte settimane dopo che l’avevano portato giú lui si è ammalato e a poco a poco ha perduto la memoria.  












Tredicesimo giorno 





 «Basta sentir pronunciare un certo nome e subito ci si ritrae. Ci viene presentato un uomo e subito vien chiusa la pratica che lo riguarda. Quest’uomo in seguito potrà dire ciò che vuole, non riuscirà piú a tornar su dalla botola in cui lo abbiamo fatto precipitare, non potrà piú uscirne. Tutto ciò che quest’uomo poi ci mostrerà di sé verrà da noi sentito come lo sfacciato volersimettere-in-mostra di uno che è indesiderato, di uno che per noi è semplicemente un’apparizione disgustosa. Cosí, – disse il pittore, – quando mi fu presentato l’ingegnere ho subito provato dell’avversione per lui e attraverso un trabocchetto l’ho fatto cascar giú nella botola. Solo a udire il suo nome la prima volta mi è quasi venuta la nausea. Alle immagini suscitate dal suo nome nella mia mente ho istantaneamente fatto corrispondere una terribile immagine della sua persona. E quando mi trovai a faccia a faccia con lui non rimasi deluso. Non si rimane mai delusi quando, dopo che si è digerito e risputato un nome, appare la persona che gli corrisponde». Quando si vedono le persone prima di conoscere il loro nome, allora è il nome che, a sentirlo pronunciare, gli si adatta sempre. «Della maggior parte delle persone, sa, in realtà non occorre sapere nulla all’infuori del nome». Nel nome è contenuto tutto ciò che bisogna sapere. Spesso sono i nomi che ci invogliano a istaurare un rapporto con una persona. «L’uomo che corrisponde a un dato nome, non smentisce mai questo nome. Esistono dei nomi che, a sentirli pronunciare ci risultano piú stomachevoli della cosa piú disgustosa che si possa immaginare. Succede cosí, quando qualcuno pronuncia davanti a noi il nome di un suo amico che non abbiamo ancora conosciuto. Non Le è mai capitato di fare questa osservazione? Sono i nomi che dànno forma alle persone».  
 Sto completamente dimenticando lo scopo per il quale mi trovo qui. Che devo fare le mie osservazioni. Mi ritorna in mente, magari nel bosco di larici, all’improvviso, quando noto qualcosa di strano nel pittore, per la strada, in sala da pranzo, quando tutt’a un tratto lui si beve una bella sorsata del suo bicchiere di latte come un uomo sano, cosa di cui però si pente subito dopo. Mi ritorna in mente quando sono andato completamente fuori strada in certi ragionamenti – ragionamenti ispirati dal pittore – quando sono lontanissimo da me stesso, sopra montagne di immagini estranee. Che non sto scoprendo nulla all’infuori di ciò che vedo, questo lo so. E a una cosa simile ho anche accennato nella lettera che oggi ho scritto all’assistente. E che qui è tutto cosí cupo, sempre cupo, è cupo anche nelle giornate limpide. Quanta pena mi causa a volte una sola parola pronunciata da me. Una parola che mi viene detta. Anche questo è possibile. Attraverso da solo il villaggio e mi aggrappo alle opinioni della gente, ecco cos’è. E al Cielo che non confina con nulla, che dunque non è nulla. Cosí mi trovo all’Inferno e in realtà son costretto al silenzio. Il pittore dice che tutto è incomprensibile, perché è umano, e che il mondo è disumano, dunque tutto è comprensibile e tutto è tristezza infinita. Tristezzainfinita, lo dice come se fosse una parola sola. Lui dice tristezzainfinita e il modo in cui lo dice dovrebbe toccare il cuore a ogni essere umano. La bellezza è un pericolo a sé cosí come le tenebre sono «l’indipendenza delle passioni». Oppure vado verso il fienile e m’immagino che lui stia seduto lí e che mi annienti solo con uno sguardo. E allora penso al mio incarico. Veramente mi ci vorrebbe uno schema, qualcosa come una tabella sulla quale, come si conviene in una simile faccenda, io possa ordinare tutto, sulla quale ogni sera io possa spostare verso il basso i numeri che si trovano molto in alto e verso l’alto quelli che si trovano molto in basso, di modo che ciò che è in cima vada a finire sul fondo e viceversa. Ma forse quelle sono solo manifestazioni apparenti, tutte solo manifestazioni apparenti che non si lasciano ordinare. Perché non vi può essere un ordine? Mi riferisco alle mie osservazioni sul pittore. Lo sto forse osservando? Non lo sto forse solo guardando? Lo sto forse osservando mentre lo guardo? Lo sto forse guardando mentre lo osservo? E dopo che cosa succederà?  
 Piuttosto imbarazzato starò seduto di fronte all’assistente senza sapere che cosa dirgli. Lui s’immagina che io dopo un certo tempo verrò a Schwarzach e che gli farò un resoconto dettagliato di tutto quel che ho osservato: guardi, cosí stanno le cose! È cosí che ha detto! Queste e non altre sono le osservazioni che ho fatto! Impossibile sbagliarsi! Dirò che la tristezza è come non l’avevo immaginata ma che è proprio cosí! Lei questo lo capisce? No. Io certo non sarò capace di dire due o tre parole che abbiano un nesso tra loro. Benché la chiarezza ci sia. Eccome! Tutto allora è silenzio, non avviene nulla di ciò che dovrebbe avvenire. E come apparirà diversa ogni cosa quando cercherò di capire rileggendo quel che ho messo sulla carta. Tutto diverso. Poiché ciò che ho messo sulla carta non corrisponde al vero. Ciò che si mette sulla carta non corrisponde mai al vero. Non ha diritto di accampare alcuna pretesa. Neanche quella della precisione benché a quel modo tutto resti fissato, in ottima fede e nella convinzione di saper qualcosa su una faccenda chiarissima. Per ben che vada si tratterà di qualcosa di meno impreciso. Ma pur sempre di qualcosa di impreciso. E di diverso. E perciò di qualcosa di falso.  
 Aprii la porta della sua camera e lo vidi sprofondato nei suoi giornali. Quel che vedevo – poiché lui stava seduto dietro al suo letto davanti a un quadro di cui non ero ancora riuscito a decifrare il paesaggio: un quadro bruno con grandi macchie nere che potevano essere case ma anche alberi – era solo il giornale, ma dietro al giornale c’era lui. Senza posare il giornale quando io entrai – non sporse nemmeno la testa – mi fece accomodare sulla poltrona che si trovava proprio dove stavo in piedi io. «Sto leggendo un articolo interessante sul palazzo dell’imperatore di Persia, – disse lui. – Sa, quella gente deve avere una tale quantità di soldi che è difficile immaginarsela. Ho anche letto una relazione sull’incontro tra il ministro degli esteri francese e quello russo. Quella è una faccenda piú che singolare. Ma Lei s’interessa di politica?» «Sí», dissi io, la risposta piú naturale per un giovane. «Io a dir la verità ho perso ogni interesse per gli intrighi della politica. Ma c’è stato un periodo, e non è passato molto tempo da allora, quando ero assetato di ogni notizia politica. La politica è l’unica cosa interessante di tutta la Storia umana. Conferisce a tutto un contenuto spirituale. Naturalmente! Ora mi sono ritirato, come Lei sa, e ormai seguo tutto soltanto occasionalmente. Ma la relazione sulla conferenza dei ministri degli esteri Lei deve leggerla. E, se ne avesse voglia, e io Glie lo consiglio visto che Lei è ancora tanto giovane e in realtà ha ancora tutto da imparare, anche l’articolo sul palazzo dell’imperatore di Persia. Lei la conosce, vero, la storia del Trono del Pavone?» «Sí, – dissi io. – Qui viene trattata brevemente». I giornali sono il piú grande miracolo di questo mondo, sanno tutto e solo grazie a essi il mondo e l’universo esistono davvero, l’idea di tutte le cose viene tenuta in vita. «Lei non è ancora venuto a prendersi l’ultimo numero. Vuol prenderselo ora?» Nella stanza era quasi buio e l’aria quasi irrespirabile. Decisi di andarmene subito. «Naturalmente bisogna sapere come leggerli i giornali, – disse il pittore. – Non bisogna divorarli e nemmeno prenderli troppo sul serio, ma sempre come un miracolo». Fino a quel momento non lo avevo ancora visto. «Che un foglio cosí piccolo possa informarci sul mondo intero, – disse lui, – e ci permetta di partecipare a tutto, senza bisogno, se si vuole, di fare un passo, magari stando sdraiati a letto! Un miracolo! – disse lui. – Il sudiciume che si rimprovera ai giornali non è altro che il sudiciume degli uomini, non è il sudiciume dei giornali, capisce! I giornali fanno bene a rispecchiare l’uomo cosí com’è, cioè ripugnante». Qualche volta, e ciò vuol dire sempre e dappertutto, dalla lettura dei giornali emerge anche «la bellezza e la grandezza degli uomini». «Come ho già detto, la lettura dei giornali è un’arte che a esserne maestri, forse è la piú bella di tutte le arti, lo sa?» In quell’istante posò il foglio sulle ginocchia, ma io continuavo a non vederlo perché all’improvviso s’era fatto completamente buio.  
 Oggi mi ha raccontato come una volta avesse tentato per mesi e mesi di dipingere una mano. Poi, dopo quattro mesi aveva dato il quadro alle fiamme. «Non era un brutto quadro. Ma la mano non mi era riuscita. Del resto dopo di allora dipinsi in modo completamente diverso». A differenza di altri pittori che sentono il bisogno di lavorare in stanze luminose, lui riusciva a dipingere solo in stanze completamente buie. «Dev’essere buio, allora riesco a dipingere. Solo nel buio totale. Non deve entrare neanche un raggio di luce. Ma ora non dipingo piú». Prima di iniziare a dipingere un quadro per giorni e giorni andava a zonzo per la città, da un caffè all’altro, da un quartiere all’altro, spesso viaggiava per ore intere sulla ferrovia urbana oppure in tram, sugli autobus, da un capolinea all’altro, faceva lunghe camminate con indosso soltanto la camicia e un paio di pantaloni, si mescolava agli operai e alla gente del mercato, di tanto in tanto da qualche parte mangiava del pane con un pezzo di carne, si rimetteva a sedere in qualche caffè, ricominciava le sue peregrinazioni, lungo le interminabili grige cinte dei depositi di rottami, attraverso viadotti, parchi di giochi per bambini, dentro a latterie e a giardini pubblici. «Spesso mi riposavo in qualche toilette, – disse lui, – e lí mi cambiavo d’abito. Mi cambiavo tre quattro volte al giorno, nella mia cartella mi portavo sempre dietro tre completi diversi per potermi cambiare in qualsiasi momento. Trascorrevo interi pomeriggi seduto qua e là alla stazione a guardare la gente, i treni. Per me le stazioni, in particolare le stazioni vecchie e brutte sono sempre state una grande avventura sin da quand’ero bambino». Poi prendeva l’ascensore e saliva nel suo studio da pittore, direttamente nelle tenebre. Prima d’iniziare staccava il campanello della porta di casa, chiudeva a chiave tutto ciò che si poteva chiudere a chiave, si levava tutto fuorché la camicia. «Il quadro si dipingeva da sé grazie alla mia arte», disse lui. Per giorni interi non andava piú a letto, se ne stava solo pigramente seduto nelle sue grandi poltrone. Non sapeva mai se fuori fosse giorno o notte, già da tempo non ricordava piú la data del mese. Né se fosse autunno o primavera, estate o inverno. Quando il suo quadro gli pareva terminato apriva le tende in modo cosí brusco che la luce lo abbagliava e lui non riusciva a veder nulla. «Solo gradualmente mi accorgevo che non ne era venuto fuori nulla di buono, – disse lui. – Che di nuovo non era altro che il tentativo di far qualcosa che mi aveva trattato a pesci in faccia, che non valeva nulla, nulla, nulla, nulla!» Allora spingeva quei quadri dietro una parete da dove certi suoi amici – «amici?» – di tanto in tanto ne tiravano fuori uno a caso, per portarlo a un mercante d’arte, per farlo fotografare, per farlo recensire da un critico. «I miei quadri hanno sempre ottenuto buone critiche, salvo che da me stesso, – disse lui. – In fondo nessuno ha senso critico e al giorno d’oggi la gente che si occupa d’arte manca di senso critico piú che in qualsiasi altra epoca. Forse mi irritava la mancanza di senso critico dei critici ed è forse questa la ragione per cui non sono diventato un buon pittore?»  
 «Lo sa, – disse il pittore, – questo vomitar bile dell’arte, questi rapporti carnali tra artisti, questo schifo ispirato dall’arte e dall’artista, sa, tutto questo mi ha sempre disgustato; quelle nubi minacciose del piú basso istinto di conservazione e poi l’invidia. L’invidia tiene uniti gli artisti, l’invidia, null’altro che l’invidia, tutti sono invidiosi di tutti e di ogni cosa. Ne ho già parlato una volta, vorrei dirle: gli artisti sono i figli e le figlie della ripugnanza, della spudoratezza suprema, sono i figli prediletti e le figlie predilette della lussuria, gli artisti, i pittori, gli scrittori, i musicisti, sono i volontari della masturbazione sul globo terrestre, sono i disgustosi centri di convulsioni, le sue periferie ulcerose, i suoi processi infettivi purulenti. Vorrei dire: gli artisti, sono i grandi emetici dei nostri tempi, sono già sempre stati i grandi, i piú grandi emetici... Gli artisti non sono forse l’armata devastatrice della ridicolaggine e del fecciume? Legato al pensiero degli artisti scopro sempre il lato infernale della mancanza di scrupoli morali... Ma io non voglio piú avere alcun pensiero da artista, non voglio piú nessuno di quei pensieri contro natura, non voglio piú aver nulla a che fare con gli artisti né con l’arte, già, neanche con l’arte, con questo celebre bambino nato morto, il piú celebre dei bambini nati morti... Capisce: voglio evitare questo cattivo odore. Evitare questo puzzo, continuo a dirmi e nell’intimo ho sempre pensato: devi evitare, evitare questa inutile menzogna che disgrega e che dilania tutto, evitare questo sfacciato prebendaggio». Disse: «Gli artisti sono i gemelli monovulari dell’ipocrisia, i gemelli monovulari dell’abiezione, i gemelli monovulari dello sfruttamento piú protetto di tutti i tempi. Gli artisti, come li ho conosciuti io, – disse lui, – sono tutti dei noiosi e dei millantatori, nient’altro che dei noiosi e dei millantatori, niente...»  
 Nel negozio venni improvvisamente a sapere che era ricominciata la scuola. L’intero buio negozio era pieno di scolari che compravano tutti quaderni libri e matite, e di adulti che sceglievano penne e inchiostro e carta da disegno per i bambini di prima elementare, minacciavano punizioni e raccontavano barzellette, ridevano e gettavano sul banco del negozio interi mucchi di monete. La bimbetta vestita di nero, figlia della proprietaria del negozio non riusciva a tener dietro alla conta delle monete che i bambini probabilmente avevano risparmiato già durante gli ultimi sei mesi. «Ancora una matita!» «Ancora una penna!» «No, blu no, rossa!» Io volevo una matita e mi spinsi avanti, ma poi non mi dispiacque affatto restar tanto a lungo ad aspettare che venisse il mio turno. Come si mescolavano in quella piccola stanza quasi buia l’odore dolciastro dei bambini e quello nauseante degli adulti! Laggiú in fondo c’è uno spioncino dal quale si può guardar fuori sulla neve. Presi la mia matita e tornai fuori all’aperto. Là incontrai lo scuoiatore che trascinava dietro a sé una pelle di mucca. La pelle di mucca glie l’aveva regalata il macellaio, disse lui, la stava portando a casa, l’avrebbe fatta conciare e poi l’avrebbe posata ai piedi del suo letto. «Una pelle di mucca è uno scendiletto particolarmente caldo», disse lui. Di mattina era stato giú al cantiere; aveva un appuntamento con l’ingegnere che gli aveva fatto fare il giro del cantiere. Si erano fermati assieme alla mensa dove avevano mangiato bene. «Là è anche molto piú conveniente che alla locanda». Lui voleva sapere se io non trovassi un po’ strano il pittore. «No, – dissi io, – è un uomo come tanti altri». Forse avevo ragione. A lui il pittore sembrava pazzo. In lui c’è qualcosa che non quadra, da quando è tornato. «Come se a Vienna gli fosse capitata una disgrazia», disse lo scuoiatore. «Sí, – dissi io, – per esser strano è strano». Ieri aveva visto il pittore seduto in chiesa «nel primo banco» che scuoteva la testa. Lo scuoiatore non s’era fatto notare per poter continuare a osservare il pittore. Con rapidi passi il pittore s’era avvicinato all’altare e aveva sollevato il pugno contro l’ostensorio. «Poi è uscito dalla chiesa ed è andato giú allo stagno». Lo scuoiatore disse: «Anche quel che è successo sul sentiero infossato era una follia». Lasciai che se ne andasse con la sua pelle di mucca che disseminava la neve di macchie di sangue di diversa grandezza e andai dal fornaio dove cambiai un biglietto da cento scellini e con esso pagai la birra che avevo bevuto negli ultimi giorni. Fuori incontrai il pittore, indossava il suo camice rosso. «Oggi per una volta ancora voglio farmi paura, – disse lui, – far paura a me stesso e al mondo. Quando indosso questo camice rosso, mi sento come il piú gran buffone di tutti i tempi. E la gente ci crede che io sia il piú gran buffone di tutti i tempi. Venga, affrettiamoci ad andare a cena».  
 La sera lo scuoiatore cantò delle canzoni insieme alla moglie dell’oste dopo che il pittore se ne fu andato via. C’era qualcosa di animalesco nella voce dello scuoiatore:  

 Tra il muso e il buco del culo  l’inferno infila il suo capestro  finché l’incapestrato  grasso e scemo non sia diventato.   e poi cantava:  
 Mattino pomeriggio e sera...  Che ne dice la notte,  la notte nera?  

 Durante la cena il pittore aveva detto improvvisamente: «Ascolti. Ascolti». In mezzo al rumore spaventoso dei mangiatori di salsiccia e dei bevitori di birra disse: «Ascolti i cani». Io non li sentivo. Ma lui non la smetteva e senza che gli altri, l’ingegnere, lo scuoiatore, la moglie dell’oste che stavano seduti al nostro tavolo se ne accorgessero (c’era anche il gendarme), il pittore disse: «Ascolti, i cani! Ascolti soltanto: quel latrato». S’alzò e andò su in camera sua. Quando lo seguii dirigendomi verso l’atrio dove mi fermai, attraverso la porta aperta e semicongelata della locanda udii il lungo ululato dei cani. E li udii abbaiare. L’interminabile ululato e quel loro abbaiare che interrompeva l’ululato come tanti morsi. Davanti a me udivo abbaiare e ululare e dietro di me ridere vomitare e battere di carte sui tavoli. Davanti a me i cani, dietro di me gli avventori della locanda. Oggi non riuscirò ad addormentarmi.  


























Quattordicesimo giorno 





 Evidentemente lui, l’assistente, mi ritiene in tutto e per tutto adatto a sopportare, senza riportarne dei danni, un incarico come quello di osservare il pittore Strauch. Danni! «Come possiamo restar danneggiati nel vedere persone che soffrono», aveva detto. Gli è dunque chiaro che suo fratello soffre. Non come soffre, questo lui non lo sa. Poiché la sofferenza del pittore supera l’immaginazione dell’assistente.Quanto profondamente soffre il pittore? È possibile stabilire quanto profondamente stia soffrendo? E quando è che soffre piú profondamente? L’assistente mi ha mandato qui nella convinzione che io fossi capace di difendermi dalle influenze che mi aggrediscono. Sí, naturalmente è quel che si deve fare, respingere le cosiddette cattive influenze di persone con cui si ha a che fare, con cui si è costretti ad avere a che fare, non permettere che penetrino dentro di noi. Riuscire a liberarsene, per quanto spesso improvvisamente possa risultare difficile. Se si tengono gli occhi aperti, non si può infatti non vedere, non si può non vedere il pericolo e lo si affronta con le armi necessarie. Naturalmente in compagnia del pittore io sono costantemente esposto a cattive influenze. Ma io le riconosco e so perfettamente distinguere dove incominciano le cattive influenze, dove le cattive influenze non sono buone, poiché le cattive influenze possono anche essere buone. Probabilmente questo incontro farà sentire i suoi effetti su di me soltanto molto piú tardi. Non ora. Proprio come certe influenze subite nell’infanzia mostrano solo ora i loro effetti; come le esperienze che si fanno a otto nove anni trasformano all’improvviso il trentenne. Come un colorante si scioglie dentro ad acque profonde che non sono mai state limpide. Non è cosí? Il pittore continua a offrirmi nuovi appigli. Vi è una moltitudine di accessi che conducono a lui, ma poi spesso lo si trova là dove non lo si stava cercando, dove non si sospettava che fosse. «Ho una coscienza severa», dice lui. Che cosa intende nel dir questo? E anche quando dice: «La realtà non conosce l’empatia», e lo dice tra sé e sé, sembrerebbe, senza alcun nesso con quel che ha detto prima e con quel che dirà poi – io non riesco a capire che cosa veramente intenda dire. Le idee migliori gli vengono effettivamente durante le passeggiate. All’aria aperta. Alla locanda o in altri locali si ritira completamente in se stesso e si può star seduti assieme a lui per ore senza riuscire a cavargli una parola di bocca. La silenziosità e la disponibilità all’ascolto, anche quando non parla nessuno, in me sono innate. A casa nostra spesso si stava per giorni interi senza parlare, tutt’al piú ci si domandava dov’era un piatto o una matita oppure un libro. Ora non faccio piú tanta fatica a camminare lentamente come desidera il pittore; io sono abituato a correre, a passare rapidamente da una impressione all’altra, non a fermarmi sempre come fa lui, e a mettermi seduto e riposare. Per me il pittore è un grosso problema che bene o male sono costretto a risolvere. Un incarico, sí. E per lui?  
 Che lingua è quella in cui si esprime Strauch? Che cosa me ne faccio io dei suoi brandelli di pensiero? Quel che all’inizio mi pareva scisso, slegato, ha i suoi nessi «veramente incredibili». L’insieme è una terrificante trasfusione di parole praticata al mondo e agli uomini, «un processo brutale contro la demenza», per dirla con lui, «un incessante sottofondo musicale capace di rigenerarsi». Come prendere appunti? Quali appunti prendere? Fino a che punto schematici o sistematici? Quegli sfoghi mi rovinano addosso come frane. All’improvviso quel che sta dicendo si lacera nuovamente di fronte all’urlo esplosivo della ridicolaggine che lui scopre in se stesso e nel mondo. Quella di Strauch è una lingua da miocardio, che si oppone alle pulsazioni del cervello, una lingua infame. È «una ritmica automortificazione sotto la scricchiolante impalcatura del proprio orecchio interno». Le sue idee sono trucchi, sostanzialmente in accordo con quel latrare di cani sul quale aveva attirato la mia attenzione sin dall’inizio, col quale lui mi «polverizzava facendomi saltare in aria». Ma è ancora una lingua quella? Sí, è il doppio fondo della lingua, l’Inferno e il Paradiso della lingua, è l’ammutinamento dei fiumi, «le froge esalanti parole di tutti i cervelli sconfinatamente e spudoratamente disperati». Qualche volta recita una poesia ma subito la straccia e poi la ricompone per farne una «centrale elettrica», «per incasermare il rozzo mondo dei pensieri di tribú ancor prive di parola», dice lui. «Il mondo è un mondo di reclute, bisogna pestarle, insegnar loro a sparare e a smettere di sparare». Lui si strappa le parole di bocca quasi le estraesse da un terreno paludoso. E mentre si strappa le parole di bocca si ferisce a sangue.  
 La guerra ha lasciato nella valle tracce di orrore. «Ancor’oggi ci si imbatte continuamente in ossa di teschi o addirittura in interi scheletri coperti soltanto da uno strato sottile di aghi di pino», dice il pittore. Nei boschi, andando verso la valle stretta, dietro al lago e anche nel bosco di larici, reggimenti dispersi avevano patito la fame. «E alla fine erano morti assiderati. Alcuni son riusciti a salvarsi, ma solo pochi, gli altri erano già troppo deboli per poter raggiungere i villaggi. E a commettere degli assassini quei soldati non ci pensavano nemmeno», quella dell’assassinio è un’arte fatta per elementi sinistri che vengono dall’Est. Anche i detenuti delle vicine carceri avevano commesso delle atrocità e molti dei dispersi che erano evasi e mai piú ritornati, son stati trovati qua e là sotto alle rocce e agli sterpi. Spesso bambini in cerca di more all’improvviso trascinano le loro madri in qualche posto ricoperto da foglie serpentarie. E lí poi trovano un uomo nudo al quale un giorno molti anni prima erano state strappate di dosso le vesti. La fame trasforma gli uomini in bestie. «Alla fine della guerra i boschi erano pieni di materiale bellico, carri armati, carri di ricognizione, cannoni e motociclette e automobili erano sparsi un po’ dappertutto fra i tronchi d’albero». In certi casi saltavano in aria quando li si toccava. «Spesso nei carri armati si trovavano le salme dell’equipaggio, rannicchiate l’una accanto all’altra, i polmoni lacerati. Chi apriva i finestrini faceva scoperte terrificanti, 
– disse lui. – Poco alla volta la gente trovò il coraggio di smontare quel materiale bellico e incominciò a seppellire i soldati morti, li sotterrò direttamente sul luogo perché non li voleva nel suo cimitero, erano degli estranei. Bastava sfiorarli e si disintegravano, l’aria col passar del tempo li aveva decomposti. Nelle conche i bambini scoprivano dei lanciarazzi anticarro altamente esplosivi dai quali venivano dilaniati. Brandelli di bambini, sa, sugli alberi. Capitava di trovare uomini nel fiore dell’età schiacciati dalle ruote dei cannoni, nel sentiero infossato nel bosco giaceva un gruppo di granatieri con le lingue tagliate e il pene in bocca. E qua e là sugli alberi spenzolavano uniformi crivellate, mani e piedi irrigiditi sporgevano dalla superficie dello stagno. Ci vollero anni prima che i valligiani riuscissero a mettere un po’ d’ordine in quei boschi, in tutta la regione. Dapprincipio ci andarono solo per prendersi i viveri che trovavano nei carri armati, vari oggetti utilizzabili, come già detto, le uniformi che adattavano alle proprie misure e che poi indossavano per anni; solo in seguito ci andarono per seppellire i morti, quel che dei morti era rimasto, le loro spoglie mortali, come si suol dire, e infine vi si recarono con vanga e rastrello per far scomparire le tracce. Ma le tracce della guerra non sono ancora scomparse, – disse il pittore, – questa guerra non verrà mai dimenticata. Gli uomini continueranno sempre a trovarsela davanti ovunque vadano».  
 «Che cosa crede mi abbia detto oggi il pittore Strauch?» Con questa domanda, che non era una domanda, oggi la moglie dell’oste mi sorprese in camera mia, dove era entrata dopo aver bussato, per rifare il letto. In quella occasione prese il cuscino, lo buttò in aria un paio di volte e lo riafferrò al volo. Andò a scuotere il piumino alla finestra aperta. «Lei che cosa crede?» domandò dopo aver rifatto il letto e aver anche pulito il lavabo, riempito d’acqua fresca la brocca e il mio bicchiere sul tavolo. Cercava di far durare piú a lungo ogni suo gesto per potermi infine raccontare che cosa fosse quel che le aveva detto il pittore Strauch, «sdraiato nel letto, nemmeno ancora vestito, benché fossero già le nove! Ha detto che un giorno mi avrebbe fatto la sorpresa di farsi trovar morto nel suo letto». Lei aveva riso credendo che il pittore stesse scherzando. Ma poi gli aveva letto in volto che diceva sul serio. «Ecco una cosa, devo dirLe, che proprio non vorrei nella mia locanda, un morto». Poi uscí dalla mia camera, ma vi ritornò subito dopo dicendo: «Avevo dimenticato di chiudere la finestra». Richiuse la finestra e poi si mise in piedi davanti alla porta come se fosse in attesa di una mia delucidazione. «Non è singolare questo modo di spaventare la gente? – disse lei. – D’altronde il pittore questa volta è cosí strano. Ma che cos’ha? Lei ne sa qualcosa?» Io non sapevo niente, assolutamente niente. Il pittore ha delle preoccupazioni, ma di quali preoccupazioni si tratti lo ignoro. «È come se fosse un’altra persona, – disse lei. – Mi dispiacerebbe però che fosse malato», disse lei. Poi lasciò definitivamente la mia camera, la sentii chiamare una delle figlie nel corridoio del piano di sotto. Quando piú tardi scesi giú per fare due passi, solo un giro attorno alla casa, perché avevo la sensazione che se prima non avessi preso un po’ d’aria fresca non sarei riuscito a dormire un solo istante e poiché ero cosí stanco volevo coricarmi per un’ora per poi essere di nuovo fresco e riposato quando mi avrebbe chiamato il pittore, dunque, quando arrivai giú andai in cucina con la scusa di dover assolutamente bere un bicchier d’acqua del pozzo di cucina che era piú fresca, ed ecco lei, con addosso solo la gonna dentro cui infilò la maglietta quando mi vide e io, mentre aspettavo che il mio bicchiere si riempisse d’acqua del pozzo, che è un pozzo a carrucola come quelli che di solito si trovano solo davanti alle case dei contadini, non in una cucina, domandai: «Ha parlato di suicidio?» «Di suicidio? – disse lei. – No, di suicidio no. Sarebbe ancora piú grave. Ha solo detto che un mattino lo avrei trovato morto nel letto. Forse ha la sensazione che gli potrebbe venire una sincope. Anche prima ha sempre avuto paura di una sincope». «Paura di una sincope?» «Non vorrà mica ammazzarsi in casa mia? Io credo che sia stato solo uno scherzo», disse lei e poiché a me era chiaro che certamente non si trattava di uno scherzo, ma solo di una di quelle sue dichiarazioni che ormai mi erano diventate familiari, bevvi il bicchier d’acqua e feci il mio giretto.  
 Sulla strada che saliva alla chiesa aveva l’abitudine di fermarsi e di farmi notare che lui era un vecchio e che io potevo tranquillamente precederlo. «Non mi dispiace, al contrario». Dopo che lo ebbe ripetuto tre o quattro volte, l’ultima volta in severo tono di comando, io semplicemente lo piantai lí, circa a metà del pendio, accanto al ceppo piú grande che segna il confine tra due campi e corsi su piú in fretta che potevo. Mi godevo l’improvvisa libertà. Come un cane sciolto dal guinzaglio. Lassú mi misi in una posizione nella quale lui non poteva vedere me mentre io potevo benissimo vedere lui che saliva lentamente trascinandosi a fatica. Faceva delle soste, mi parve, piú frequenti del giorno prima in cui avevamo fatto la stessa passeggiata durante la quale la conversazione aveva portato alla seguente domanda: «Che tipo di persona è Lei veramente? Non riesco a farmi un’idea chiara su di Lei. Lei mi dice davvero quel che pensa? Come mai Lei mi frequenta e sta continuamente con me? Andare in giro con me! Si è almeno un po’ rimesso in salute? Naturalmente è il mistero che crea questa tensione. Lei per me è misterioso benché sia costruito in modo naturale e assolutamente semplice!» Mentre ora lo stavo cosí osservando pensai che sarebbe bastato un soffio di vento per buttarlo in terra. Quando si fermava, col bastone disegnava dei segni nella neve, segni che, come so da lui, aveva appreso da una dottrina indiana e che per me sono incomprensibili. Alcuni di questi segni mi fanno pensare a degli animali, a una mucca per esempio, a un maiale, altri a forme di templi, a corsi di fiumi. A cerchi. Ad altre forme geometriche. Fin lassú lo udivo parlare da solo. Come quando un vecchio generale fa dei soliloqui, rivolgendosi a un’armata che per lui esisterà in eterno. Difatti pareva che fosse chino sopra una carta topografica su cui tutto fino ai minimi dettagli dipendesse da lui. Parlava anche in lingua straniera, era tutto un lanciare in aria parole e intere costruzioni verbali in lingua asiatica. Tutta l’immagine di cui lui era il centro mi ricordava un quadro che anni prima avevo visto un giorno al Kunsthistorisches Museum di Vienna; ricordo persino la sala dov’era appeso: un paesaggio fluviale di Breughel il Vecchio nel quale degli uomini tentano di ottenere un rinvio dalla morte, che viene loro concesso, ma che loro – a quanto sembra voler esprimere il quadro – dovranno pagare con le infinite pene dell’inferno. Il colore nero del ceppo e dei suoi rami che si trasformava nel nero della giacca che il pittore indossava, nel nero dei suoi pantaloni e del suo bastone, richiamava il nero delle cime dei monti. Quando ormai si trovava a pochi passi da me, su uno degli ultimi scalini che conducono direttamente alla porta maggiore della chiesa, ebbi paura di lui. Immaginavo che mi avrebbe assalito alle spalle e che mi avrebbe dato un colpo in testa col bastone. Appena vidi il suo volto quel pensiero scomparve. Benché a giudicare dall’espressione del suo volto non si potesse affatto escludere che lui sarebbe stato capace di una simile brutta azione. «Se ne ha voglia entriamo in chiesa», disse lui. E subito dopo: «No, ci vada da solo. Io l’aspetterò fuori». Entrai in chiesa e mi sedetti su un banco dal quale potevo guardar bene l’altare. Presi in mano un libro di preghiere che trovai posato sul banco accanto a me. Lo sfogliai. Trovai un salmo. Lessi il salmo: «Asperges me, Domine, hyssopo, et mundabor: lavabis me, et super nivem dealbabor. Miserere mei, Deus, secundum magnam misericordiam tuam. Gloria Patri!» E poi: «Me expectaverunt peccatores, ut perderent me: testimonia tua, Domine intellexi: omnis consummationis vidi finem: latum mandatum tuum nimis. Beati immaculati in via: qui ambulant in lege Domini. Gloria Patri». Rilessi tutto ancor una volta. Una seconda volta. Una terza volta. Mi riusciva insopportabile, non ci trovavo alcun significato e non potei fare a meno di alzarmi e uscire dalla chiesa. Mentre passando sul morbido tappeto, andavo verso l’uscita, vidi dei volti d’angelo di incredibile bruttezza i quali, man mano che mi avvicinavo a loro assumevano espressioni sempre piú crudeli. Quando mi trovai fuori dalla chiesa, il pittore era sparito. Nel frattempo s’era trascinato fino alla cappella mortuaria, una costruzione attaccata al retro della chiesa. Di laggiú, affondando nella neve mi gridò: «Resti dov’è sennò si spaventa!» Non sapevo che cosa avrebbe dovuto spaventarmi. Allora mi venne in mente che di tanto in tanto nella cappella funebre ci sono dei morti composti nella bara sul catafalco. «C’è un morto nella cappella», disse lui e sollevò la testa fino al davanzale della finestra di modo che il cappello gli scivolò sulla nuca. Appena m’ebbe raggiunto disse: «Una salma truccata. Spesso truccano le salme nel modo piú orrendo». Si domandava perché mai fosse andato fino alla cappella funebre. «Non è curiosità», disse lui. Solo molto tardi, all’una, arrivammo alla locanda.  
 Il pittore Strauch è piú piccolo del chirurgo Strauch. Il pittore Strauch è uno di quei casi in cui non servono piú a nulla né il martello né lo scalpello e nemmeno la sega o le pinze o il bisturi del chirurgo. A questo punto dovrebbero intervenire le piú elevate riflessioni della scienza, l’intuito sottile sviluppato durante molte notti insonni. Poiché si tratta di un errore comprato dalla morte, pagato a rate per decenni, e ormai prossimo a essere saldato. Davvero? Si tratta di una conseguenza di tutta l’evoluzione – che non è un’evoluzione – di una conseguenza della sostanza. Del movimento che non è movimento. Di qualcosa di organico che non è organico. Di un punto di partenza che non è un punto di partenza. Che non può esserlo. Di una malattia inguaribile. Lui subodora continuamente il pericolo. È chiaro che si sente costantemente minacciato. Sta sempre all’erta proprio come gli sembra stia sempre all’erta il mondo attorno a lui. E che cos’è poi l’organismo? E quali sono gli opposti? Lo Spirito e il corpo? Lo Spirito meno il corpo? Il corpo senza l’anima? Che cosa dunque? Sotto alla superficie? Sopra la superficie? Sulla sotto-superficie? Che cos’è mai un destino cosí penoso che a poco a poco si spegne? Ma esistono malattie che restano sconosciute per sempre. Ci sono sempre state. Ci saranno sempre. Se una malattia tutt’a un tratto è guaribile, ce ne sarà un’altra che di colpo diventa inguaribile. Per ogni malattia in meno ci sarà una malattia in piú. Perché? Come? Forse che le cause sono sintomi?  
 Il pittore disse: «Il parroco è un uomo molto malato. Ieri, prima di ritornare alla locanda, ho avuto una conversazione con lui. S’è di nuovo rivolto a me per chiedermi una somma di denaro. 
Per l’ospizio, sa. Per la sacrestia. Lui sa anche troppo bene quel che penso della Chiesa. Gli piace passeggiare per un’ora nella neve. D’estate sta seduto vicino allo stagno e in due settimane non piglia un solo pesce. La Chiesa tiene a stecchetto i suoi sacerdoti. La Chiesa in campagna è qualcosa di simile alla poesia autoctona. Lo si incontra sugli alberi, in cantina e sui campi di patate. In giro coi bambini. La sua risata ha una cadenza diabolica. Ha paura di ogni cerimoniale, ma piú di ogni cosa teme il vescovo. Sa, questa è una cosa poetica. Se all’improvviso da qualche parte Le capita di sentir piangere un uomo, è il parroco. Tra l’altro ha una biblioteca fornitissima. Non sa far prediche. È cosí pauroso che un uccello riesce a fargli prendere uno spavento terribile. Ma quando è necessario va a trovare un moribondo anche di notte, nelle tenebre piú fitte e spesso senza chierico. Spesso in alta montagna tra rocce e ghiaccio in case di contadini lontanissime».  
 «Quelle enormi quantità di legno, – disse il pittore. – Che immensa quantità di legno prezioso muore lassú. Quelle migliaia, centinaia di migliaia di tronchi. La fabbrica di cellulosa li inghiotte. Quando arriva giú nella valle il legno ormai non è piú utilizzabile per altro che per la fabbrica di cellulosa. Tutto questo paesaggio, – disse lui, – prima non era nient’altro che una meravigliosa struttura biologico-vegetale... Venga, – disse lui, – voglio farLe vedere tutte le specie di alberi che qui sono molto comuni... Ecco dunque l’abete, la picea eccelsa, poi il pino silvestre, l’abete bianco, il larice. Qualche cembro. Su, venga, Le spiego qualche dettaglio riguardante le piante latifoglie, le cosiddette angiospermae, e le conifere, le gymnospermae...»  
 «Solo all’inizio il rapporto tra due giovani che si sono avvicinati – all’improvviso o lentamente, ma poi con la rapidità del fulmine – è qualcosa, ma già allora tende a trasformarsi al piú presto in dolore – disse il pittore. – È cosí bello, è prezioso finché non è ancora nulla, – disse lui. – Ai giovani riesce la straordinaria impresa d’ingannare per un attimo il mondo», e tutto per giorni e notti intere ha l’apparenza della felicità... E io pensai a S. e volevo subito scriverle una lettera, ma un istante dopo non volevo piú e mi sforzai di pensare a un’altra cosa, non a lei, ma non ci riuscii fintanto che ero nel villaggio, non ci riuscii nemmeno lungo tutta la strada e nemmeno nel bosco di larici né sul sentiero infossato nel bosco e nemmeno alla locanda; mi domandai: che cosa è stato veramente? Non è forse finita da un pezzo? Come è avvenuto? E come e perché è finita all’improvviso? Dapprima nemmeno un giorno senza di lei, poi quasi nemmeno una notte senza di lei, poi tutto si sgretolò come s’è sempre sgretolato tutto, ritornò indietro nelle due direzioni distinte di due esseri umani distinti, lontanissimi. E dove ritornò indietro? Spesso mi svegliavo di notte spaventato da questo pensiero. E seguivo una traccia che all’improvviso finiva da qualche parte in qualche luogo selvaggio, presso il corso di un fiume, presso un fuoco. Mi sono domandato spesso che cosa mai crei in noi quello stato d’animo che deve per forza rendere infelici due giovani. Come sono giovane io! Sí! È finita! C’era ancora stata una serie di ritorni domande interrogazioni, una cosa spietata: la fine. Se le scrivo ancora una volta lei crede che potrebbe ricominciare. E invece non può ricominciare,non deve ricominciare. «È una menzogna», disse il pittore. So che cosa intende dire: è una menzogna che poggia su un’altra menzogna e che cerca rifugio in una terza menzogna: dentro a un’altra persona. Erano settimane che non pensavo piú a lei. M’ero allontanato da lei come si esce da un negozio con la ferma intenzione di non entrarci mai piú. Bene, il pittore disse: «Allora tutto diventa simile a due montagne separate da un fiume in piena». Improvvisamente m’accorsi che avevo incominciato a cantare lungo tutto il tratto di strada fino al campo di granturco. Cantando volevo scacciare i miei pensieri. Ma i pensieri non si lasciano mettere alla porta quando si vuole che se ne vadano. Al contrario: è la volta che si fissano veramente dentro di noi e ricominciano. Per generare rimproveri e rabbia senza fine. Se la vittima si lascia esaltare da questo processo distruttivo le può anche capitare di svenire per la strada, ovunque stia andando, ovunque cerchi rifugio. Il pittore disse: «I fiori piú belli sono i primi a essere tagliati; a che servono i bravi giardinieri?» Poi mi trascinò dentro a pensieri sempre piú lugubri, pensieri che alla fine, per quanto mi sembrasse una pazzia, man mano che si stringeva il cappio attorno alla mia testa fecero sí che io mi liberassi da lui. Corsi via senza dire una parola e lo aspettai vicino al fienile. Mi scusai. Lui non sembrò farci caso.  
 Tra il bosco di larici e il fienile, là dove – a quanto pare – hanno trovato il grosso cane scomparso del macellaio, «morto, congelato sotto al ponticello», il pittore mi fa ancora notare diversi alberi che si trovano in quel luogo, che formano dei gruppi qua e là, ma spesso sono completamente isolati, lontani l’uno dall’altro. «Vede qui, – disse, – l’abete argentato, la picea excelsa, l’aristocratico fratello dell’altro abete, l’abete rosso, chiamato anche erroneamente abete nobile. L’abete bianco...» Si avvicina al recinto e dice: «Qui, vede, la quercia. Questo è il cerro, il rovere... La quercia ha un periodo di crescita che spesso supera i duecento anni. Il suo nome deriva dall’arcaica parola indiana igya1 che significa qualcosa come venerazione. Ma qui troverà anche frassini e ontani, – disse lui, – persino degli aceri. E laggiú, vede, quel tasso di cui Le ho parlato il giorno del Suo arrivo. Esso è una reliquia regale di tempi preistorici...» Mentre si camminava per il bosco di larici e mi pareva di calpestare le mie stesse orme, orme lasciate soltanto ieri, lui disse: «Qui in questo momento siamo immersi in un silenzio demoniaco. Un fenomeno del quale gli scienziati non si sono ancora occupati abbastanza». Era davvero un silenzio assoluto. Nessun rumore di fabbrica ci raggiungeva dal basso. Nulla. «Il mondo continua ancora ad avere un’idea completamente primitiva e romantica di questo silenzio. Io questo silenzio per tutta la vita l’ho considerato come una malattia della natura estenuata, come lo spaventoso abisso spalancato dell’anima. Questo silenzio fa davvero orrore alla natura».  
 Naturalmente non si può venire a saper tutto, ma credo che il fatto di non ricevere posta lo deprima molto. «Poiché nessuno sa dove sono, non c’è nessuno che possa scrivermi. Ma io non voglio nemmeno che qualcuno mi scriva, – aveva detto. – Io non scrivo a nessuno e perciò nessuno sa dove sono. Credo che non scriverò mai piú una lettera». Nelle sue condizioni non ne sarebbe neanche capace. Quando si siede per prendere degli appunti su certi «quaderni di fantasticherie» che aveva già iniziato anni prima – «nell’attimo in cui ho cominciato a ritirarmi» – il suo mal di testa aumenta talmente che deve smettere, interrompere a metà un pensiero, chiudere il quaderno e andare a coricarsi. E poi non vuole davvero piú scrivere a nessuno. Per lui tutto è alle spalle, cosí lontano che non vuol piú farlo riemergere, «nessuna persona, nulla». Ora spesso ha la sensazione di andare alla deriva sottacqua, poi d’essere di nuovo sulla terra, congelato, da qualche parte dove nulla è in rapporto con nulla. «Non si può gridare perché non si può nemmeno aprire la bocca». Il tempo passa ma non passa mai. Come se si fosse fermato. Come finirà, «dato che deve pur finire», non lo so. La cosa peggiore può avverarsi all’improvviso, questo lo so per esperienza. Ai miracoli non ci credo, almeno non in questo momento. Riesco a immaginare che si ucciderà. Ma che passerà ancora molto tempo prima che lo faccia. Forse aspetterà ancora la primavera e poi l’estate e di nuovo l’inverno e cosí via ancora per un certo tempo. Un evento continuerà a susseguirsi all’altro. Ma questo non può durare per decine d’anni. Non nel suo caso. E nemmeno per anni. Perché lui è gravemente malato e morirà di morte naturale. È un processo che continua a lavorare nell’inconscio anche se in superficie tutto è spento. Tra l’altro un fratello di suo nonno si è suicidato: un giovane che aiutava i cacciatori. A sentir lui, perché «non riusciva piú a sopportare la miseria umana». Si dice che l’abbiano trovato nel bosco. S’era tirato una pallottola in bocca. Se si va a cercare, per ogni uomo si trovano le cause. Ma, come dice l’assistente, suo fratello ha sempre avuto una «predisposizione per il suicidio». Improvvisamente ricomincia a parlare della sua malattia, che «è assolutamente inimmaginabile». Di notte arriva sino alle radici del suo male, ma nel momento decisivo tutto sparisce nuovamente. Rimane solo il dolore, «un dolore che ha raggiunto un culmine insuperabile... Dapprima, – disse il pittore, – m’hanno fatto credere che ci fosse una cura per la mia testa, un metodo. Ma all’improvviso ho guardato dietro alle quinte del mondo medico: non sanno nulla e non scoprono nulla! Rifiutai ogni metodo. I medici, sa, sono dei contafrottole! Artigiani, sí! Certo, i medici non possono subito dire in faccia ai loro pazienti che sono inguaribili..., che la medicina non è altro che una specie di superficiale tranquillante per il corpo e per la psiche...» Disse: «Tenere la testa piú in alto? Ho tenuto la testa piú in alto e piú in basso. Il dolore viene quando vuole e la malattia fa quello che vuole, per sconosciuta che sia. Lei deve sapere che è possibile seguire le supreme altezze del dolore sin nelle sue piccole e minime singole oscillazioni, l’intera costruzione del dolore! Ma non parliamo di malattia: la malattia scioglie la lingua piú rozza e quella piú raffinata... Si vuol sapere se anche gli altri soffrono quanto soffriamo noi... si parla anche di pietà. Si sentono raccontare le peggiori catastrofi che avvengono nel mondo della medicina: delle coincidenze piú catastrofiche, di manchevolezze dei medici, di molte operazioni sbagliate per una specie di maledizione, di plastiche, incidenti e cosí via...»  
 «Eventualmente si potrebbe andar giú alla pasticceria, – disse lui. – Ma lo sa che il pasticciere ha la tubercolosi? Qui tutti vanno in giro con questa malattia contagiosa. Anche la figlia del pasticciere ha la tubercolosi, pare che sia legata alle acque di scarico della fabbrica di cellulosa, al vapore che le locomotive han buttato fuori per decenni, al cibo cattivo che mangia questa gente. Quasi tutti hanno lobi polmonari corrosi, il pneumotorace e il pneumoperitoneo sono all’ordine del giorno. Hanno la tubercolosi del petto, della testa, delle braccia e delle gambe. Tutti hanno anche una qualche ulcera dovuta alla tubercolosi. Questa vallata è tristemente famosa per i suoi casi di tubercolosi. Qui Lei troverà ogni tipo di tubercolosi: la tubercolosi della pelle, la tubercolosi cerebrale, la tubercolosi intestinale. Molti casi di meningite che nel giro di poche ore conduce alla morte. Gli operai si prendono la tubercolosi dalla sporcizia in cui debbono scavare, i contadini dai cani e dal latte infetto. Gran parte della gente vien colpita da tisi galoppante. Inoltre, – disse lui, – l’effetto dei nuovi farmaci, l’effetto della streptomicina, è nullo. Lo sa che lo scuoiatore ha la tubercolosi? Che la moglie dell’oste ha la tubercolosi? Che le sue figlie son già state tre volte in sanatorio? La tubercolosi non è affatto una malattia in via di estinzione. Dicono che si possa guarire. Ma questo lo dice l’industria farmaceutica. In realtà la tubercolosi è tanto inguaribile quanto lo era prima. Persino gente che s’era fatta vaccinare s’è presa la tubercolosi. Spesso i tubercolotici piú gravi son proprio quelli che hanno un cosí bell’aspetto da far pensare che non abbiano alcuna malattia. I volti rosei traggono in inganno e ci fanno dimenticare i polmoni marci. Si continua a incontrare gente che ha dovuto sopportare cauterizzazioni oppure una compressione del nervo frenico. Ma i piú son stati rovinati per tutta la vita da una plastica mal riuscita». 
Non andammo alla pasticceria. Subito alla locanda.  
 Il latrato.  
 «Potrei dire che è lassú in alto, – disse il pittore, – che è laggiú in basso, alternativamente lassú e laggiú, da tutte le parti, ascolti, va a sbattere la testa contro la coltre di neve, si frantuma incessantemente contro l’orribile ferro dell’aria, è dal ferro dell’aria, Lei deve sapere, che viene lacerato, e bisogna respirarlo, respirarlo attraverso il condotto uditivo, finché non si impazzisce, finché il latrato non ci frantuma e ci lacera, finché non ci distrugge i padiglioni delle orecchie, il cervello e la bocca, la bocca e il cervello, deve sapere, con la sconfinata semplicità tipica della volontà di distruggere. Ascolti, si fermi e ascolti: questo latrato! Non lo si può sopprimere, si può solo respingerlo, si può respingerlo, col proprio cervello si può intervenire contro il latrato, contro questo abbaiare, contro questo spaventoso ululato, si può abbatterlo, ma allora risorge in modo ancora piú spaventoso, ci schiaccia la carne, ci schiaccia l’anima e la carne, si è insediato come le tarme dentro alle stanze, Lei deve sapere, s’è insediato dappertutto nell’inimmaginabile lardo della Storia, dell’universo, nei cosciotti di insolubili diluvi... è insensato, – disse il pittore, – nascondersi dentro al latrato, si viene scoperti ugualmente e allora viene straziata anche la nostra paura... Sí, io ho paura, ho la paura e poi ancora la paura, odo la paura e basterà questo trauma spettrale della paura a rovinarmi, a farmi impazzire, non solo la mia malattia, Lei mi capisce, no, no, non solo la malattia, la malattia e questo trauma della paura... Ascolti!... come il latrato si organizza, si fa largo, ascolti, questi sono gli schiocchi di frusta dei cani, questa è la straordinaria agilità canina, l’estrema disperazione dei cani, l’infernale schiavitú che cosí si vendica, che deve vendicarsi dei suoi tristi inventori, vendicarsi di me, di Lei, sí, anche di Lei, di tutte le manifestazioni smodate, tutte le manifestazioni spaventose e smodate, in fondo tutte castrate, vendicarsi delle code umane, che sono code infernali e celesti, contro le code infernali di Lassú e contro quelle celesti di Laggiú, contro la sventura esperta di prigioni di tutti i portatori di tragedie... Ascolti, questi portatori di tragedie, ascolti: questa genia ostinata di lingue biforcute che si rifiutano di rispondere, ascolti: questa mostruosa disgustosa repubblica consigliare dell’idiozia onnipotente, ascolti: questa vergognosa spontanea ipocrisia parlamentare... Ecco i cani, ecco il latrato, ecco la morte, la morte in tutta la sua barbarie, la morte in tutte le sue infermità, la morte nel suo puzzo di delinquente abituale, la morte, questo penoso rimedio di ogni disperazione, la morte, questa portatrice di bacilli dell’immensa eternità, la morte della Storia, la morte dell’indigenza, la morte, ascolti, che io non voglio, che nessuno vuole, che nessuno vuole piú, eccola, la morte, questo latrato, ascolti, questo annegare ribelle della ragione, questo rifiuto di rendere testimonianza di tutte le congetture, ascolti, questo pazzo battere di tutte le parti molli della memoria sul cemento, sul cemento della sublime umana follia... Stia a sentire le mie idee sul latrato, le stia a sentire... in esso io cerco di esplorare i pensieri delle tempeste infernali, le perturbazioni degli spazi temporali, il cambriano, il silurico, il carbonifero, il permiano e il triassico, il giurassico, il pauroso terziario e quaternario, tra gli insensati paurosi rifiuti delle grandi alluvioni che da grandi profondità continuano a risalire e a lambirci... Ascolti, io entro in questo latrato, io ci entro dentro e gli spacco tutti i denti, lo fulmino con la fecondità temporalesca della mia irragionevolezza, spezzo i suoi processi mentali, quel suo propagandar bugie... Ascolti, si fermi ad ascoltare lo stupido fradicio sgocciolar sudore delle lingue canine, ascolti i cani, ascolti, ascolti...» Eravamo nel punto dal quale si può guardare dentro alla valle stretta. «Andare dai lupi, – disse il pittore. – Di qui Lei può dare uno sguardo perpendicolare al sapere di tutti i lupi». Era completamente esausto. Udivo i cani. Li udivo abbaiare e latrare. Anch’io ero esausto. Lo sfogo del pittore mi aveva buttato a terra, come se il mio corpo fosse stato travolto da una frana; «allora lo trovai schiacciato sulla strada, davanti a me, sotto di me», aveva detto il pittore. Subito riordinai mentalmente quell’«espettorazione» del pittore. Sono sorpreso, mi bastava premere il pulsante del mio apparecchio acustico perché quell’espettorazione mi si rovesciasse addosso. Ma sono esausto. Sono completamente esausto. «Ascolti, disse il pittore, – questo è il latrato della fine del mondo. È chiaro che questo latrato è proprio la fine del mondo in persona. Con quanto rigore si fa strada nei volti umani, nei volti umani e nei volti del pensiero, nei volti della ragione, da solo contro tutte le ridicolaggini». Disse: «Ho paura. Venga. Andiamo. Torniamo alla locanda. Non posso piú sentire quel latrato». Mai prima d’ora i cani avevano abbaiato senza smettere un solo istante come quel giorno e già tutta la notte precedente. «Che altro potrebbe annunciare quel latrato, – disse il pittore, – quando ormai sappiamo tutto, conosciamo tutto, e non che questa era davvero la fine del mondo». Fece passare l’espressione fine del mondo e la trattenne sul suo «membro linguale» come fosse un’impagabile preziosità, fece passare l’espressione fine del mondo e la trattenne sul suo «membro linguale» come se commettesse un «delitto di godimento senza pari». Poi restammo in silenzio. Nel sentiero disse: «Infame! Non vede cosa sta scritto lassú in alto nel punto cui diamo il nome lusinghiero di madre dei firmamenti: lassú sta scritto: Infame!»  
 Prima che si ritirasse in camera sua, «non per dormire, ma solo per piangere tra me e me nel silenzio dell’orrore, per singhiozzare dentro di me», come diceva lui, disse: «Come s’è disgregata ogni cosa, come s’è dissolta, come si sono dissolti tutti i punti d’appoggio, come s’è volatilizzata ogni solidità, come non esiste piú nulla, proprio piú nulla, vede, come non è venuto fuori nulla dalla religione e dall’a-religiosità e da tutte quelle lungaggini e ridicolaggini che sono tutte le concezioni della divinità, proprio nulla, vede, come la fede e la mancanza di fede non esistono piú, come la scienza, come la scienza al giorno d’oggi, come la pietra dello scandalo, il millenario ante-giudizio universale ha estromesso tutto, l’ha messo alla porta, lo ha soffiato fuori nell’aria, come tutto ora è diventato aria... Ascolti: tutto non è altro che aria, tutti i concetti solo aria, tutti i punti d’appoggio solo aria...» E disse: «Aria congelata, tutto nient’altro che aria congelata...»  



















 1
Igya ha un suono simile a «quercia» in tedesco, Eiche [N. d. 
T.].  
Quindicesimo giorno 





 «Morboso, – disse il pittore, – tutto in campagna e specialmente qui è morboso. È davvero un grave errore ritenere che la gente di campagna valga di piú: la gente di campagna, già! La gente di campagna è gente subumana! I subumani di oggi! In generale la campagna è corrotta, decaduta, caduta molto piú in basso della città! L’ultima guerra ha rovinato la gente di campagna! Rovinata di dentro e di fuori! Gli abitanti delle campagne non sono altro che vecchio ciarpame! E poi, mi dica Lei, quando mai la gente di campagna,i contadini son stati cosí meravigliosi? È mai stata cosí irreprensibile questa popolazione delle campagne? Tradizione, terra, che cosa è stata mai? No, non s’è mai trattato d’altro che di cattiva letteratura! Cattiva letteratura, dico io! Ascolti: cattiva letteratura! La gente di campagna forse è riservata, ma è questo il lato diabolico, indecente, il lato miserevole della gente di campagna! Questo loro mondo di pensieri assolutamente rudimentali brutali in cui la dabbenaggine e l’abiezione contraggono un matrimonio stupido e arrogante, distruggono tutto...! Dagli abitanti delle campagne non vien fuori nulla di buono! I villaggi, questo cretinismo in maniche di camicia! E ascolti: io arrivo a parlare di peste delle campagne! La campagna semplicemente mi ripugna! Io non ho simpatia, non ho mai avuto simpatia per il mondo contadino e cosí via. Lei potrà pensarla diversamente. Mi pare che in futuro gli abitanti delle campagne perderanno ogni importanza. Che cosa sono dopotutto questi abitanti delle campagne! La campagna non è piú zona di sorgenti, ormai non è altro che una miniera di brutalità e d’idiozia, di lussuria e di megalomania, di spergiuri e di omicidi, di morte sistematica! Non ha piú neanche il monopolio della tranquillità! Niente di piú sbagliato, a quanto vedo, del credere che nelle nostre campagne e che in generale in campagna tutto sia in ordine, che si possa trarne un qualche insegnamento e che lí magari la vita sia filosofica e che sia anche solo un po’ migliore di quella delle città. Anzi, tutto al contrario! Fuori, nel mondo dove ci s’incontra e ci si scontra, là c’è il benessere. Qui invece il benessere proprio non c’è. In questa valle il benessere non riesce a entrare. È troppo stretta sporca e brutta per il benessere. Le pareti di roccia gli sbarrano il cammino. Si perderebbe subito nella notte nera. Il benessere arriva solo fino ai piedi dell’alta montagna. Qui invece è buio. Qui ci sono la miseria, il lavoro e nient’altro. Qui ci s’impicca e ci si butta-nel-fiume. I sindacati ne dicono tante. I partiti ne dicono tante. Ma nulla cambia. E a quarant’anni questi uomini sono rovinati. Sono finiti. Li si vede ancora per un po’, poi si sente dire che si sono semplicemente lasciati cader giú da una rupe a strapiombo. S’impiccano nei magazzini, nei capannoni della centrale elettrica, nelle stanze di lavaggio della cellulosa. Questo pensiero, sa, spesso getta nella disperazione le partorienti. I fili della luce elettrica rendono tutti pazzi e l’acqua del fiume urla come un animale sgozzato».  
 L’inverno, com’è naturale, è la stagione piú difficile per andare avanti coi lavori in un cantiere, dice l’ingegnere. Siamo seduti giú in sala e il pittore fa finta di interessarsi moltissimo alle parole dell’ingegnere. Ha un forte mal di testa, ma non lo dà a vedere, beve vino come tutti noi e ogni tanto con la mano fa il gesto di voler controllare se il suo Pascal, che tiene nel taschino della giacca, è sempre al suo posto.  
 «Nella stagione del gelo, è assolutamente impossibile realizzare un qualsiasi lavoro in calcestruzzo, – dice l’ingegnere. – Ma ci sono altre cose da fare: in questo momento stiamo infilando nel terreno uno dei pilastri del ponte. Una cosa che non è esente da pericoli».  
 Il pittore domanda: «Non fa molto freddo sopra l’acqua del fiume? Io sento freddo solo a guardarci dentro, chissà che cos’è doverci star sopra tutto il giorno e dare ordini!» «Non fa freddo, – disse l’ingegnere, – l’unica cosa importante è non soffrire di vertigini. Se uno soffre di vertigini, ancor prima di rendersene conto, precipita nell’acqua a testa in giú». «Mi sembra che l’acqua sia profonda», dice il pittore. «In quel punto non è profonda, – dice l’ingegnere, – ma impetuosa. Anche a essere un buon nuotatore e per giunta molto robusto come tutta la nostra gente, se ne esce a mala pena, semplicemente perché l’acqua porta via con violenza, nel giro di un secondo ci si trova alla vecchia diga e là si viene uccisi senza scampo». «Ah già, – disse il pittore, – laggiú c’è ancora la vecchia diga. Non si dovrà demolire la vecchia diga una volta terminata la centrale?» «Sí, – dice l’ingegnere, – allora si dovrà demolirla». «Naturalmente, – dice il pittore. – E adesso Lei quanti dipendenti ha?» domanda lui. «Duecento, – risponde l’ingegnere, – ma in realtà son sempre di meno, una parte ha sempre il suo giorno libero, un’altra è malata. Ma in media sono centottanta persone». «Centottanta persone! – dice il pittore, – un bel po’ di gente». «Soprattutto bisogna sapere qual è il modo migliore di impiegarli. Dove occuparli nel momento piú adatto e nel modo piú adatto. Questo naturalmente mi dà dei grattacapi. Ma a questo ci penso di notte. Di notte mi viene in mente tutto quel che dovrà esser fatto il giorno seguente». «Lei prende appunti su quel che le viene in mente?» domanda il pittore. «No, non prendo mai appunti, – dice l’ingegnere, – ho tutto in testa. Quando sono in macchina e scendo verso la valle, riordino tutte le idee che mi sono venute durante la notte. Spesso incarico anche le persone che cenano alla locanda di inoltrare le mie disposizioni. In questo modo mi risparmio molte corse su e giú per il cantiere. Spesso è assai complicato spostarsi da un gruppo all’altro. I gruppi di lavoro sono molto distanti gli uni dagli altri. Un gruppo per esempio lavora al ponte, l’altro è intento a caricare e a scaricare a qualche centinaio di metri piú in là sulla strada, il terzo gruppo è occupato laggiú alla cascata». Il pittore domanda: «E dove mangiano a mezzogiorno?» «Alla mensa. È lí che a mezzogiorno mangiano tutti salvo quei pochi che sono liberi e vanno su in montagna sino alla locanda dove si mangia meglio». «Alla mensa costa certamente meno di qui», dice il pittore. «Costa meno, ma non si mangia altrettanto bene». «E com’è stato a Natale, sono tornati tutti a casa?» «Solo pochissimi sono tornati a casa. La maggior parte non ha nessuno. Alla mensa c’è stata una festa natalizia. Ci sono andato anch’io laggiú». «L’impresa paga un’indennità natalizia?» «Sí», Disse l’ingegnere. «È adeguata questa indennità natalizia?» L’ingegnere disse che era piuttosto elevata. «Le imprese di costruzione non sono grette nel fare doni natalizi». Dopotutto gli operai guadagnano un bel po’ di soldi. Un manovale laggiú al cantiere prende i suoi tremila scellini. «Una somma cosí non la prende nessun professore di liceo, – dice il pittore. – Naturalmente il lavoro di un manovale laggiú non può paragonarsi al lavoro di un professore di liceo». «Certamente no». Lo scuoiatore dice: «Fanno anche gli straordinari e spesso arrivano ai quattromila scellini o piú». «D’accordo, – dice l’ingegnere, – ma a quel modo si distruggono». Non è un segreto che s’ammalano di polmoni e che spesso crollano di colpo e che poi passano intere settimane a letto nelle baracche dell’infermeria. «La direzione dei lavori poi non vede di buon occhio troppi straordinari. Perché poi sarà costretta a pagare settimane e mesi di cassa malattia». Ma il lavoro che compiono laggiú «non è assolutamente sovrapagato». Inoltre hanno bisogno di molto denaro, perché devono mangiar bene e devono anche bere, dopo il lavoro, per non cadere nella disperazione. «Quelli che stanno meglio sono gli scapoli. Sono perlopiú giovani e forti e riescono a mettersi da parte qualcosa. Spesso, dopo aver lavorato per un paio d’anni a quel modo, dopo esser stati in piedi nel fango, iniziano un nuovo lavoro, magari un’attività commerciale, se se ne intendono». Del resto anche lui un tempo era stato in piedi nel fango. Da giovane aveva dovuto guadagnarsi i suoi studi facendo il manovale nei cantieri, anche lui, come me, sa bene che cosa sia stare in piedi nell’acqua dentro a una fossa e aver paura di non riuscire a scavare otto metri cubi al giorno, ché altrimenti si viene licenziati e bisogna andarsene. «Tutte queste cose non mi sono sconosciute e poi io so fare qualsiasi lavoro al cantiere e loro lo sentono ed è per questo che ho un rapporto con tutti loro, un buon rapporto». Con nessun altro ingegnere del cantiere s’intendevano bene come con lui. Gli davano fiducia per esempio quando si trattava di ottenere qualcosa per loro dalla direzione dei lavori. «Quando verranno i primi giorni caldi, – dice lui, – faremo grandi progressi». «Lei sarà certo pagato bene, – dice il pittore. – A quanto mi consta gli ingegneri edili son le persone meglio pagate di tutto il paese». «Sí, – dice l’ingegnere, – questo è vero, ma io avrei anche potuto andare in India dove mi avrebbero pagato di piú. E invece non sono andato in India, per quanto attraente fosse l’offerta».  
 Improvvisamente pensai alla vita che ferve nella capitale, dove tra le dodici e l’una e mezzo chiunque appartenga a un certo rango e sia un personaggio in vista passeggia sul Graben e fa bella mostra di sé sulla Kärntnerstrasse come in una vetrina lunga centinaia di metri e viene osservato secondo il punto di vista del grande negoziante, quello della moglie di un fabbricante, quello della moglie di un avvocato e secondo centinaia di altri punti di vista ancora, per esempio quello del presidente della Corte dei Conti oppure della fruttivendola che fa una scappata dal Naschmarkt1 per esser presente anche lei. E io penso che mi mescolerò alla folla con i miei quaderni e i miei libri sotto il braccio e che di tanto in tanto raccoglierò qualche conversazione che sta per spegnersi oppure è appena iniziata; anche semplici insulti o espressioni di scontento penetrano dentro di me. Eccomi improvvisamente all’aria fresca che sembra calare nelle strade direttamente dai monti e dalla colline, e non so che fare di me stesso durante l’ora del pranzo. Gli amici se ne sono andati via tutti, scomparsi in casa loro al piano della sala da pranzo, dove s’incontrano con ragazze fratelli e zie venuti dalla provincia, mentre tu sei solo. Dopo esser stato a lungo indeciso se sia meglio abbandonarsi semplicemente al fiume di parole dei curiosi e dei fanfaroni oppure andare a sedersi in uno dei tanti parchi – uno piú bello dell’altro – di cui è piena la capitale, decido di cedere a quest’ultima tentazione e già sto svoltando dietro alla Albrechtsrampe diretto verso l’Isola Verde dove tutti i giorni dell’anno cantano gli uccelli e i bambini giocano a rincorrersi. Là siedono le segretarie che mangiano pane e burro, le lattivendole vi passano la loro ora d’intervallo e piú d’un dottore in filosofia, non potendosi permettere nulla di meglio, seduto su un piedestallo di pietra oppure su uno scalino, si mangia il suo panino di carne affumicata che al mattino gli è stato accuratamente avvolto in un pezzo di carta. L’aria profuma di gelsomino e di uova sode e solo a momenti è percorsa dal fruscio delle frasche che vengono trasportate da una parte all’altra del parco da uno dei tanti spazzini. Uno sguardo all’orologio mi avverte che ho ancora due ore di tempo prima della prossima lezione. I libri vengono posati sull’ultimo gradino di quella scala che conduce al tempio greco delle Muse stranamente patetico e ben presto il corpo si allunga al sole che sembra agonizzante. Tra breve sarà finito anche l’ottobre e non ci saranno piú foglie sugli alberi né gente nel parco. Tra breve sulla mia spalla cadranno i primi fiocchi di neve e i sandali verranno sostituiti dalle scarpe. Ma anche d’inverno la 
Kärntnerstrasse persino a trenta gradi sotto zero è cosí piena di vita che ci si sente al caldo. E il Graben nel periodo natalizio è scintillante e la gente si urta per la strada ed è felice d’essere al mondo. Talvolta si hanno i brividi di freddo, quando tutt’a un tratto ci si trova completamente soli in mezzo a tutta quella gente, ma poi si pensa che a casa propria si ha un letto sicuro e subito la tristezza scompare.  
 Oggi mentre stavo seduto davanti alla finestra, mi venne da pensare che dovrei proprio occuparmi del mio futuro. Perlomeno del mio futuro immediato. Di ciò che sarà di me quando avrò terminato la pratica d’ospedale a Schwarzach. Come mi presenterò agli esami? Non ho la sensazione di essere abbastanza preparato per potermi presentare agli esami. Ma qui intanto non potrei prepararmi agli esami. Non ne avrei il tempo. Poiché qui io mi trovo completamente sotto l’influenza del pittore, devo seguirlo, benché io non sia affatto costretto a farlo, non posso fare a meno di seguirlo: anche se lui non mi sollecitasse continuamente, lo seguirei. Son sempre le stesse passeggiate. Non sono neppure delle passeggiate. Sono semplici camminate nella neve, nel vento e nei boschi, nel freddo. Talvolta resto solo. Dopo il pranzo, quando lui si ritira in camera sua per distendersi sul letto – «ma non creda che io dorma!» – oppure quando improvvisamente mi manda alla locanda, come ieri l’altro. In quei momenti mi guarda in faccia, mi punta addosso il bastone e mi dice: «Ritorni alla locanda. Adesso io devo restar solo». Allora io mi allontano da lui e tuttavia mi riavvicino a lui nei miei pensieri che sono assorbiti unicamente da lui.  
 Dovrei scrivere a casa, comunicare almeno il mio indirizzo perché finalmente, dopo esser rimasti senza mie notizie per due settimane – ma certamente si saranno informati sul mio conto in ospedale – sappiano che cosa ne è di me. Ma gli parrebbe strano se scrivessi loro che sono qui per osservare un uomo. Per osservarlo. Osservare un uomo, questo non lo capirebbero, perché stenterebbero a immaginare che cosa significhi osservare un uomo, e veramente non lo so neppure io. Il fratello dell’assistente. Sí, ma perché? Perché è gravemente ammalato? Perché soffre di una malattia mortale? Di cui non si sa nemmeno che malattia sia? Una malattia cerebrale? Una malattia cefalica? Si tratta dunque di un uomo che non è normale? E ti mettono in balia di costui? Per incarico dell’assistente. E con l’approvazione del primario? Di un noto medico? Ti espongono a un tale pericolo? Un giovane? Che non sa ancora da che parte incominciare per gestire se stesso. A quel pittore dalla mente confusa? Nel quale tutto è confuso? Nel quale non c’è piú nulla che sia normale? Questo potrebbe avere ripercussioni terribili su nostro figlio, su nostro fratello, su nostro nipote! Sí, dunque è meglio non scrivergli. In fin dei conti, che cosa sono due settimane! Già altre volte non ho dato mie notizie per oltre due settimane. Per mesi interi. A questo loro ci hanno fatto l’abitudine, che io all’improvviso mi faccio vedere e che poi me ne vado senza piú dare alcuna notizia. Soprattutto, se mi credono all’ospedale, dove sanno che sono molto ben accudito, non penseranno a nulla in particolare, anche se non gli scrivo. Il mio futuro è come un ruscello in un bosco, un ruscello di cui si conoscono soltanto molte precise descrizioni e null’altro; e il bosco è senza fine ed è oscuro come l’immagine di bosco che si forma spontanea nella piú pura fantasia infantile, e subito si trasforma in tenebra e non esce piú dalla tenebra. Il futuro è lontanissimo. Eppure è alle porte. Passare attraverso quella porta? Come? Com’essere equipaggiati quando si passa attraverso quella porta che conduce – o addirittura fa precipitare nel buio? Tornerò a casa e mi chiuderò nella mia stanza per dedicarmi allo studio della pelle e del fegato e della milza e agli «esercizi di udito». Sarà uno studio gelido e spietato. Le finestre saranno chiuse, fuori forse già cadrà la neve, dovrò rinunciare a tutto, non mi farò piú vedere durante i pasti, e non scenderò insieme agli altri nemmeno per la prima colazione; loro mi chiamano, ma io non rispondo. Poi una sera faccio una passeggiata nel bosco e ritorno lungo il ruscello, accanto al mulino vado a sedermi sulla panchina da cui si ha una vista panoramica del villaggio. Poi mi preparo per il viaggio. Poi mi trovo nuovamente nella stanza di quel convitto dove non entra neanche un raggio di sole. Da solo mi preparo qualcosa da mangiare, guardo l’orologio, mi distendo e non riesco a dormire, esco e cammino su per la strada, torno indietro, riapro i miei libri. E la pratica d’ospedale? Che altro ancora mi porterà? Quanto tempo resterò ancora a Schwarzach? E se l’assistente non fosse contento? Se pensasse: ah, se avessi affidato l’incarico a un altro e non a lui? Chissà se riceverò ancora cinquecento scellini come tutti gli anni? Visto che sono rimasto assente per un bel po’? Chissà se la superiora ne sa qualcosa? Sí, naturalmente io manco all’appello, lei se ne accorge ogni volta che vien distribuito il mangiare. Ora penso all’atmosfera spettrale nella sala dei medici. C’è una radio che non funziona da anni. Ticchetta un orologio, ma segna l’ora sbagliata. Nei vasi ci sono fiori appassiti da tempo, rinsecchiti. Sul lungo tavolo è distesa una grigia tela cerata, inchiodata al ripiano. Alle pareti sono appesi dei quadri che rappresentano scene paesane, dipinte da un pittore opprimente e accademico. Libri del secolo scorso che non sono stati piú aperti da decenni. Ecco che da una parte del tavolo vedo il primario, l’assistente e l’assistente dell’assistente, il chirurgo delle fratture, la dottoressa del reparto pediatrico. E dalla mia parte gli altri due praticanti, il dottore greco, la nuova allieva interna. Mangiano in silenzio e ogni tanto disegnano sull’incerata una frattura comminuta dell’avambraccio, la posizione di un embrione, disegni che la suora addetta a servire il pranzo poi cancella quando tutti sono andati via. Ripercorro i lunghi corridoi, mi smarrisco di nuovo al piano di sotto dove improvvisamente tutte le porte son chiuse a chiave e non si sa come ci si è entrati, mi metto a tempestare di pugni la porta e già penso che passerò la notte intera chiuso tra tutte quelle porte. Odo dei passi e batto i pugni contro la porta, mi aprono, mi sta davanti la suora e dice: «Ma dottore, come ha fatto a cacciarsi là dentro?» E quel «dottore», con che tono lo dice? Con che tono? E poi tento di confrontare un paziente con un altro paziente, due persone che hanno la stessa malattia, ma che reagiscono ad essa in modo diverso. Poi uno muore e l’altro continua a vivere – a quanto sembra – come se nulla fosse stato. E tutti e due hanno avuto la stessa malattia. Leggo, ormai quasi al buio, il libro di Koltz che spiega le malattie del cervello, ma la malattia di cui soffre il pittore, che è una malattia del cervello – e che altro può essere? – non è citata nel libro di Koltz. E si tratta di un libro nuovissimo, scritto da uno scienziato di prim’ordine. Arrivato fresco fresco dall’America.  
 E poi vado in chiesa, sono solo due passi, perché la chiesa è attaccata all’ospedale (oppure è l’ospedale che è stato attaccato alla chiesa, non so), entrambi han visto passare molte generazioni, hanno i medesimi muri spessi, emanano lo stesso gelo. E poi attraverso il ponte, vado a sedermi al caffè e leggo il giornale. E piú tardi nel mezzo della notte mi svegliano perché è stato portato in ospedale «un caso certamente interessante per Lei, dottore». «Una frattura della colonna vertebrale, uno con un’emiparesi». Mi butto addosso il camice bianco e seguo la suora che mi ha scosso dal sonno, scendo giú, percorro i lunghi corridoi fino alla sala operatoria, dove si trova già l’assistente, è pronto, ancora qualche gesto e farà il primo taglio. «Qui non c’è quasi luce», dice lui e l’operazione incomincia. E dura forse sino al mattino e non c’è neanche il tempo di andare nella sala dei medici a far la prima colazione. Qui c’è da tirar su una testa sul cuscino, là c’è da ingessare una gamba, qua una iniezione di canfora, là una trasfusione di sangue. Quel che riescono a fare le suore è incredibile. Non vanno a letto prima delle undici di sera e alle cinque del mattino sono già uscite dalla chiesa dove le si sente cantare alle quattro e mezzo. Dappertutto i grandi tulipani bianchi delle cuffie alate che fioriscono là dove l’assenza di ogni speranza ha oscurato tutto, dove di solito tutto è vuoto e deserto e ostile agli uomini. I parenti della donna morta improvvisamente durante la notte si trovano tra l’ascensore e la stanza da bagno e tengono in mano le ultime cose appartenute al fratello o alla sorella. Li mandano subito all’amministrazione del cimitero. E il riso della giovane infermiera dissipa subito ogni tristezza. Come si configurerà il mio futuro? Che cosa mi aspetta? Domani? Dopodomani? Non voglio pensare a nulla di ciò che potrà avvenire. A nulla di ciò che verrà. Il futuro che cos’è? Non voglio pensare a niente!  
 Portai rapidamente alla posta una lettera per l’assistente. C’era la direttrice delle poste, una parente dello scuoiatore, che mi voltava la schiena e stava registrando qualcosa in un libro aperto. «Il pittore, – disse lei prendendo la mia lettera e stampigliandola, – il pittore non si fa vedere da un pezzo». Tempo fa riceveva montagne di posta quasi tutti i giorni, il postino durava fatica a portarla. E ora nulla. Neanche una sola lettera in tutte queste lunghe settimane che il pittore ha trascorso qui. «Ha un pessimo aspetto», disse lei. «Già, – dissi io, – difatti è malato». «Malato?» disse lei. Domandò che malattia avesse. «Una malattia grave?» «Sí, – dissi io, – una malattia grave». «Ma perché non gli scrivono?» Questo con la malattia non c’entrava. Sembrava dirsi: quando un uomo è malato ha piú bisogno di ricevere delle lettere che quando è sano. Di che cosa ha bisogno un uomo sano? pareva chiedersi. Dissi che non sapevo nulla dei suoi rapporti epistolari. Naturalmente notavo che non riceveva posta. Ma non volevo continuare la conversazione con la direttrice delle poste e uscii.  
 Davanti all’ufficio postale pensai: dev’essere terribile per la sua governante non sapere che ne è di lui. Dove si trova. Poi attraversai rapidamente la piazza del paese. Salii le scale del cimitero. Là c’era lo scuoiatore affondato nella terra fino al ventre. Ero appena stato all’ufficio postale, dissi. Oggi tutto era cosí stranamente calmo, chissà per quale motivo. «Non c’è mai stata una simile calma», dissi io. «Già, – disse lo scuoiatore. – C’è una gran calma. Non soffia un fil di vento». «No», dissi io. E poi mi venne in mente: «E l’oste... com’è che si era arrivati a quell’omicidio? A quella disgrazia», domandai. «A quell’omicidio?» disse lui. «Sí, all’omicidio. Che tipo d’uomo era quello?» «Che tipo d’uomo?»  
 Per un paio di settimane aveva mangiato alla locanda, ogni sera faceva baccano e spesso voleva che gli si portasse da bere ancora alle tre del mattino. Una volta l’oste s’era rifiutato. Allora l’operaio lo aveva colpito con un pugno. E l’oste con un bicchiere di birra. «Come capita spesso», disse lo scuoiatore. «Continuano ad alzarsi ma poi spesso tornano a sedersi l’uno accanto all’altro, bevono a piú non posso e diventano ottimi amici. Ma quella volta era andata male», Disse lui. «Ma in un primo momento non s’era forse creduto che nessuno ci sarebbe andato di mezzo?» «Sí, – disse lo scuoiatore, – in un primo momento sí». «E com’è saltata fuori la cosa?» «Già, – disse lo scuoiatore, – com’è saltata fuori la cosa?»  
 Riprese in mano la pala e continuò a lavorare. Io andai alle tombe dei bambini e guardai i volti sulle fotografie. Volti da lattanti, pensai. Volti gonfi. Volti morti. Come fossero stati assaliti da bestie feroci. Tornando indietro disturbai nuovamente lo scuoiatore e lui smise di scavare. «Non è strano, – dissi io, – che oggi tutto sia cosí calmo?» «Sí, – disse lui, – spesso c’è un silenzio tale che si sentono soltanto i battiti del proprio cuore». Scesi giú alla canonica e mi allontanai dal paese in direzione del bosco di larici.  
 Nessun oggetto, nulla è muto. Tutto esprime continuamente il proprio dolore. «Le montagne, vede, sono i grandi testimoni di grandissimi dolori», disse il pittore. Si voltò verso la montagna: «La gente dice: la montagna confina con il cielo. Non dice mai: la montagna confina con l’inferno. Perché?» Lui dice: «Tutto è inferno. Cielo e terra, terra e cielo sono inferno. Capisce? Lassú e Quaggiú sono l’inferno! Ma, com’è naturale, nulla confina con qualcosa. Capisce? non ci sono confini». Il föhn sorto all’improvviso permetteva di distinguere dettagli altrimenti impercettibili sul versante nord. «Non vede, – disse il pittore, – che tutte le cose sono ombre? Ecco là i camosci!» Mi tirò vicino a sé. «Vede!» disse lui. Ma non vedevo niente. «Questa montagna ha sempre evocato in me l’immagine di un gigantesco catafalco. Vede!» Effettivamente quella montagna ha il profilo di un gigantesco catafalco. «D’estate io sto qui seduto per ore e ore a osservare tutto questo, – disse lui. – Comprensione delle cose? No. Mi limito a guardarle. Perché non mi uccidano». Ora era lui a precedermi. «La morte non vuole che ci si occupi di lei, – disse lui. – Suvvia, mi preceda Lei. È per questo che continuo a occuparmi della morte!» Voleva sapere se avessi freddo. Non avevo freddo. «Col föhn tutto sembra assurdo. Tutto ciò che si dice è un’assurdità. Le religioni, sa, cercano di farci dimenticare che tutto è un’assurdità. Il Cristianesimo è un’assurdità. Sí. In quanto Cristianesimo. Il mondo delle preghiere è una situazione in cui tutto è interpretato in modo falso. In cui tutto viene ridotto al nulla. Proprio il mondo delle preghiere! Questa è la verità». Ma l’uomo ama vivere in modo falso e abbandonarsi a false impressioni «che gli fanno abbassare il capo sino a terra. Improvvisamente viene il rifiuto di tutto ciò che è falso. Il rifiuto della lussuria e il rifiuto dell’autodisciplina, il rifiuto della debolezza e del contrario della debolezza, il rifiuto di tutto. Allora tutto è chiaro. Ci sono stati nella mia vita eventi cosí bui che col tempo mi hanno fatto perdere l’uso della parola e che hanno causato la fine di ciò che vi era in me, di ciò che ne è rimasto ma non sarà mai piú, di ciò che sta per perire e improvvisamente morrà. Spesso ho fatto il tentativo di avvicinarmi alla verità, a questa idea della verità, fosse anche solo attraverso il silenzio. Attraverso il nulla. Non ci sono riuscito. Non andai oltre i tentativi. C’era sempre di mezzo un oceano, la mia incapacità, come si suol dire, di legare il mio cuore completamente al suo. Allo stesso modo in cui non riuscii a trovare un accordo con la verità, cosí nella mia vita non mi è mai riuscito nulla all’infuori del mio morire. Non ho mai voluto morire, eppure non ho mai tentato di ottenere nulla in modo piú spietato. Che il mondo esterno muoia dentro di me e che io muoia per opera sua e che tutto finisca, come se non fosse mai esistito. La notte è ancora molto piú tenebrosa dell’idea che ci facciamo della notte e il giorno non è altro che un interregno insopportabile e sinistro». Lui voleva ritornare alla locanda. Passammo per il sentiero infossato nel bosco.  
 «Anche il gendarme ha rapporti intimi con la moglie dell’oste, – disse lui. – Ho fatto le mie osservazioni. Avvalorano questa mia ipotesi. Mi alzo, vado alla finestra e vedo il gendarme. Sento che lo scambio di parole che m’aveva svegliato proviene da sotto. Uno scambio di parole tra il gendarme e la moglie dell’oste. In un primo momento ho creduto che il gendarme fosse nell’esercizio delle sue funzioni. Forse la moglie dell’oste era andata a chiamarlo per un qualche motivo. Ma dal suo abbigliamento ho capito che aveva passato la notte con lei. La sua uniforme non era completamente abbottonata. Tornò in paese col fucile in spalla. Avevo già notato un’altra volta che tra il gendarme e la moglie dell’oste c’è un rapporto di grande tensione. Non mi ero sbagliato. Il disordine nell’abbigliamento e tutto il comportamento del gendarme sono la prova che quella notte tra lui e la moglie dell’oste c’era stato qualcosa. Io del resto mi sveglio al minimo rumore. Perciò vedo piú degli altri. È una cosa piuttosto sgradevole. Il mio sospetto è confermato: che il gendarme, in assenza dello scuoiatore, prende il suo posto.È curioso se si pensa quali persone s’incontrano e si mettono insieme. Di certe persone si crede che tra loro vi debba essere repulsione e invece no, si attraggono. Il gendarme è ancora molto giovane. Piú giovane di lei». Quando arrivammo alla locanda, lui disse: «Avevo l’intenzione di invitarLa in camera mia, ma preferirei rinunciare. 
Vorrei rimandare la cosa a domani». Aprí la porta e col bastone mi spinse dentro alla sala dov’era seduta una folla di gente. Erano già le dodici.  
 «I muri sono vuoti. Anche il piú lieve picchiettio si trasmette in modo allarmante alle fondamenta, – disse lui. – Poiché cento metri piú in là scorre un ruscello, la locanda è sempre esposta a vibrazioni regolari e perciò ancora piú pericolose. L’intonaco si sgretola in camera mia, – disse il pittore. – Le rose della carta da parati in camera mia sono percorse da crepe che vanno dal soffitto fino al pavimento, incominciano ancora piú in su e scendono ancora piú in basso. Son piene di grandi macchie di umido. A toccarle con la mano, si sente freddo. D’autunno pare che il suono delle campane delle mucche abbia un effetto distruttivo sulla locanda. Due secchi d’acqua sbattuti assieme in cucina per esempio fanno lo stesso rumore d’un colpo di tuono. Per non parlare dei barili di birra che vengon fatti rotolare dentro alla locanda. E giorno e notte lavorano i tarli. Ma tutto questo mi piace. Non mi spaventa. Al contrario. Spesso mi sembra di essere a casa mia».  
 Per il pittore tutto è orribile. «Di tanto in tanto vengono portate a termine nuove gallerie nel muro e la segatura piove dal soffitto, – dice lui. – Quando il freddo diminuisce, gli stipiti delle finestre e gli assi del pavimento scricchiolano come se stessero respirando». Giú in cantina c’è una crepa causata dal terremoto. Pendole e quadri avevano sbattuto con violenza contro le pareti. Lampade erano andate in frantumi. Dovettero esser cambiati gli assi del pavimento. Questo lavoro aveva portato in casa carpentieri e muratori per quattro o cinque giorni. Weng – a quanto pare – si trova sul bordo orientale di una zona sismica che si estende da sud a nord sino ai contrafforti delle Alpi. Nella cantina della canonica si può vedere un pezzo di roccia spaccato a metà. «Tale è la violenza istantanea di un terremoto», dice il pittore. La roccia si era spaccata, mentre nella canonica il terremoto non aveva causato nemmeno una crepa. Da allora circolano diverse storie sulla 
«roccia del terremoto» in canonica. «Ogni luogo ha il suo miracolo. Lo sa che in soffitta un giorno ho trovato dei merli completamente rinsecchiti, stretti l’uno vicinissimo all’altro? Una coppia di merli. Pietrificati. Come se nell’aria tutt’attorno si potesse ancora udire il loro fischio». L’estate è «calda e piena d’angoscia». L’inverno «freddo e sinistro». Improvvisamente un giorno un cespuglio di sambuco aveva spaccato il muro posteriore della locanda. «Di botto, durante la notte. Come se una mano avesse spostato ogni cosa di un palmo... Sono stato qui una volta a fine ottobre e ho avuto la sensazione che il canto degli uccelli ch’era stato nell’aria per tutta la primavera e per tutta l’estate fosse congelato. Aspettavo dunque che si sciogliesse. I primi giorni piú caldi... Spesso la locanda proietta ombre malinconiche». E l’intera conca nella quale è situata la locanda è una miniera inesauribile per i rabdomanti.  
 Vi sono molti motivi per i quali il pittore si trova a Weng. Un’improvvisa folata di vento da una direzione maligna era bastata a deporlo lí. Ma la locanda lo aveva sempre deluso. Come dice lui, «la locanda delude persino l’ospite dalle pretese piú modeste. È un angolo nel quale l’esistenza può restringersi». Spesso aveva l’impressione che fosse una tomba come quella di San Michele a Venezia, anche lí i morti erano accatastati l’uno sull’altro... «Non ha mai notato che la gente abita dentro a dei cimiteri? Che le grandi città sono dei grandi cimiteri? Che le piccole città son dei piccoli cimiteri? E i villaggi dei cimiteri ancora piú piccoli? Che il letto è una bara? Che i vestiti sono vesti funebri? Tutti esercizi preparatori per la morte? L’intera esistenza è una perpetua prova di come si viene composti nella bara e di come si viene sepolti». Inspiegabile il motivo da cui è nata l’idea di costruire la locanda in quel luogo mortale. «Dove non c’era mai stato nulla». In realtà al padre dell’oste il terreno, la conca, era stata regalata. Gli era toccata grazie a una scommessa. Non si sa piú quale scommessa. Per la costruzione della locanda era stato utilizzato il legname residuo delle traversine usate per costruire la ferrovia. Vecchi mattoni faticosamente ripuliti dagli stessi costruttori. «Del cemento rubato nei magazzini della fabbrica di cellulosa. Nel giro di quattro anni avevano finito di costruire la locanda. Quando fu terminata, tre giorni dopo, il suo proprietario morí. Non capita sempre cosí, che la gente muore appena è finita la loro casa? O anche prima che sia finita? Ma sempre quando si è giunti al tetto o poco piú giú?» Per oltre dieci anni la moglie dell’oste non era riuscita a pagare le traversine. «Non bisogna aver fretta di pagare lo Stato, – disse lui. – I muri son costruiti in modo che attraverso ad essi si possono udire tutti i pensieri». La cattiva coscienza. Dal tetto alle fondamenta e viceversa. «Di tanto in tanto arriva la moglie dell’oste e con grande slancio porta via lo sporco rovesciando cascate d’acqua da grossi secchi. Porta via anche gli avanzi di giornate campali a Pasqua e a Natale... Ogni quindici anni ridipingono i muri... I rulli delle carte da parato vanno da una stanza all’altra». La luce elettrica è stata installata soltanto dopo l’ultima guerra.  
 «Un altro motivo per il quale sono qui è l’odore di mattatoio che è come una soffocante cappa sopra il villaggio». In quell’odore lui passeggiava su e giú stringendo forte la cinghia dei pantaloni come per spezzarsi in due. «I miei metodi a volte mi superano». Vi sono migliaia di segni del tormento, appena ci si sveglia, miriadi di segni dell’intollerabilità. Quello su cui è situata la locanda è un suolo sterile e umido... Tutte le malattie possibili e immaginabili nascono continuamente da quel suolo. «Qui non si può essere abbastanza sani per non trasformarsi in un invalido, un invalido di fuori e di dentro».  
 Tra l’altro di tanto in tanto aveva fatto il maestro supplente. Aveva insegnato in molte scuole pubbliche. «Tutte cospirazioni contro di me». Visto che, com’è noto vi è un’enorme mancanza di insegnanti, gli era sempre stato possibile trovare – di tanto in tanto – un posto di maestro supplente. Si stupiva del fatto che non lo avessero mai sottoposto ad alcun esame, «mai al benché minimo esame». Subito dopo che lui per la prima volta aveva fatto domanda per un posto di maestro supplente, lo avevano assunto. «Spinto dalla fame volli solo fare un tentativo nella scuola accanto alla quale passavo ogni giorno. Volevano tenermi subito lí e spedirmi in una classe senza sapere assolutamente nulla sul mio conto. Ma io gli dissi che non avevo neppure fatto regolare domanda per un posto di supplente. Allora mi lasciarono andar via. Capisce? A quell’epoca c’era un enorme numero di scolari e mancavano i maestri. C’era gran scarsità di maestri. La domanda per il posto di supplente l’ho presentata io stesso all’impiegato competente presso le autorità comunali al provveditorato. La pratica è stata subito inoltrata, ancora in mia presenza. L’impiegato avrebbe dovuto passarla a diversi altri impiegati prima di trasmetterla molto in alto alla massima autorità che aveva il potere di decidere. Invece andò direttamente dal superiore di grado piú alto, che diede subito l’autorizzazione. Il giorno stesso mi ripresentai alla scuola dove fui assunto. Mi fu assegnata una classe situata nella cantina della scuola dove si doveva continuamente tener accesa la luce. Ogni anno cambiavo piú volte scuola. Negli intervalli di tempo tra un impiego e l’altro vivevo di nuovo libero. Finché potevo. Finché non ero costretto a frequentare gli artisti. Piuttosto che esser costretto a frequentare gli artisti, ritornavo alla scuola. Talvolta occorreva una raccomandazione di mio fratello, che ha sempre avuto relazioni speciali con persone particolarmente altolocate. Mi aiutava benché io non lo avessi mai pregato di farlo. Non gli ho mai parlato del mio lavoro di supplente. Ma, com’è noto, in giro si viene a sapere tutto... Non si può far nulla senza che se ne parli in giro, senza che diventi di pubblico dominio. E diventa di pubblico dominio anche e soprattutto quando si teme che diventi di pubblico dominio...» In realtà lui non sapeva trattare con i bambini, era assolutamente incapace d’insegnar loro la benché minima nozione. «Ma su tutto questo non sono stato interrogato dalle autorità scolastiche. Mi hanno assunto senza farmi domande. Mi hanno solo domandato se ero soddisfatto della paga che mi avrebbero dato se avessi accettato. I bambini mi dominavano... La tragedia è stata che i bambini mi hanno dominato sin dal primo istante. Benché mi temessero. Questo naturalmente è un cattivo rapporto tra maestro e alunni, – disse lui. – I bambini sono dei mostri... Potenti e crudeli come mostri». 
Riusciva a tenerli a bada soltanto perché sin dall’inizio aveva fatto loro vedere un paio di volte che sapeva essere imprevedibile. «Li ho anche picchiati... Ma facevo male a me stesso. Mi causava un dolore cosí profondo che cominciai ad avere paura di me stesso». La via del ritorno dalle sue lezioni era «lastricata di paura». Malgrado ciò fare il supplente era per lui la cosa migliore. Non doversi tenere a galla per vie traverse con la sua pittura. «Ho sempre odiato gli artisti». Tutti i rimproveri che rivolgeva al mondo esterno sfociavano sempre in rimproveri a se stesso. «È sempre colpa nostra. Si soffre sempre per ciò di cui abbiamo colpa noi stessi. Si potrebbe davvero farla finita. Se non la facciamo finita siamo costretti a soffrire. A soffrire terribilmente. Impedire la sofferenza facendola finita», disse lui. Durante le ore di lezione «che avrebbe potuto tenere anche uno che non avesse saputo contare oltre a cinquanta e pronunciare o scrivere piú di tre sole frasi, frasi come: “Esco di casa con mio padre e vi ritorno da solo”, oppure: “Mia madre è buona con me”, oppure “Il giorno è chiaro e la notte è scura”, io continuavo a leggere il mio Pascal. Lei conosce Pascal! Già allora non leggevo altro che Pascal!» Il fatto curioso era che io ho sempre soltanto insegnato in edifici vecchissimi pericolanti e spesso semideserti. «Anche solo il mio modo di parlare avrebbe dovuto trattenere le persone competenti e le autorità dall’assumermi, dall’aver a che fare con me». In realtà la vita del maestro supplente non va neanche sopravvalutata. In fondo per lui era «un martirio, che però sopportavo con pazienza, perché ogni altra cosa sarebbe stata ancora peggiore». Spesso al preside giungevano le lamentele dei genitori. «La gente si lamentava di ogni sorta di cose e al preside spesso non restava altro che trasferirmi. Chiedere il mio trasferimento. Allora venivo trasferito». Dopo due anni poteva succedere che ritornasse in una scuola che conosceva già bene «per via di molte crisi di debolezza. A dire il vero si servono di me solo come sostituto di maestri ammalati».  
 «I supplenti di diritti non ne hanno, – disse lui. – Inoltre non percepisco che due terzi dello stipendio di un maestro di ruolo». 
Esiste anche un sindacato dei maestri supplenti. Lui però non aveva mai aderito a questo sindacato perché in tutta la sua vita non aveva mai aderito a nessun genere di associazione federazione società o gruppo. «Sarebbe talmente in contrasto con la mia natura, che da quel giorno non sarei piú me stesso», disse lui. Il sindacato dei maestri supplenti aveva tentato ripetutamente di obbligarlo a iscriversi. «Benché io facessi il supplente solo occasionalmente... Pensi un po’, un giorno mi tesero un agguato per la strada. Mi minacciarono». Ma loro non sapevano quanto lui in realtà fosse forte quando si trattava di difendere uno dei suoi principî. «Oltre al sindacato dei maestri supplenti esiste anche l’Associazione dei maestri supplenti, che si regge solo sull’iniziativa dei maestri supplenti. Si riuniscono tutti i sabati pomeriggio. A quanto pare durante quelle riunioni prendono delle decisioni. Quali decisioni? Non so quali decisioni. Come protesteranno contro il sindacato. Nell’ambito del proprio sindacato contro gli altri sindacati. Contro le alte autorità scolastiche. Contro lo Stato. Contro i loro nemici. Contro quelli che minacciano la loro esistenza. A quanto pare esiste anche un Fondo per i maestri supplenti grazie al quale vengono assistite le vedove e gli orfani dei maestri supplenti. Io non ho nulla contro una tale assistenza... Ma anche se una simile associazione avesse dato assistenza a Dio sa che cosa, io non vi avrei mai aderito...» A lui bastava veder sporgere dalla cassetta delle lettere la rivista «Il Supplente» per provare un senso di ribrezzo. «Spedivano quella rivista due volte al mese. A chi la voleva e a chi non la voleva. Ma io non l’ho mai pagata. Non l’avevo neanche mai ordinata. E non l’ho neanche mai letta». Ai suoi alunni – «avevano sempre tutti le stesse facce» – è sempre stato presentato come «il nuovo supplente». «Psicologicamente era come uno schiaffo in pieno viso...» La prima frase che rivolgeva agli scolari era sempre stata: «Far entrare dell’aria! Aprire! Aprir tutto e far entrare dell’aria! Nelle aule scolastiche ci vuole aria fresca! Aprire! Aprire!» Poi si faceva dire i nomi degli alunni. Quando non riusciva a capire un nome se lo faceva ripetere un’altra volta in modo «piú articolato» e lo faceva scrivere sulla lavagna. «Ma la maggior parte dei miei alunni non sapeva ancora scrivere il proprio nome». Aveva sempre solo insegnato durante il primo semestre a classi di prima elementare. «Una sola volta in una seconda elementare. Questo però mi faceva star male». Era un atto irresponsabile da parte delle autorità scolastiche quella di affidare spesso a lui il ruolo di primo maestro di scolari che non erano ancora mai stati a scuola, poiché «il primo maestro che si ha è quello determinante». In realtà in vita sua non aveva odiato nulla piú delle aule scolastiche e dei maestri in queste aule... «Si è sempre costretti a fare proprio ciò che ci ha sempre ispirato ribrezzo, a essere quel che ci ha sempre ripugnato». Le ore piú sopportabili come supplente le aveva trascorse portando i suoi allievi in un parco. «Fa parte del regolamento andare in un parco con gli alunni una volta alla settimana e spiegar loro tutto ciò che vi cresce: fiori, piante, cespugli... inculcar loro i nomi dei paesi d’origine di fiori piante e cespugli. Io non gli ho mai fatto il nome di un solo fiore o di una sola pianta. E nemmeno di un solo paese d’origine. Di nessun fiore, di nessuna pianta. Perché sono contrario a dare ai bambini spiegazioni che riguardano le piante, che riguardano la natura. Quanto piú si sa della natura, tanto meno la si conosce, tanto meno c’importa di lei. Ai saputelli che spiattellavano nomi di fiori e di piante cercando in tal modo di seminar discordia, io tappavo la bocca». Era solito sedersi su una panchina e sprofondare nel suo Pascal, lasciando fare agli allievi quel che volevano. «Dovevo solo stare attento che nessuno si facesse male. Che non scappasse nessuno». I mesi d’estate erano per lui i piú sopportabili. «Con i miei allievi andavo volentieri anche in piscina... A quei tempi leggevo molto Maupassant e Poe e Stifter. Se i miei allievi facevano troppo chiasso, li zittivo subito con uno dei miei sguardi cattivi. Minacciavo punizioni. Ma alla maggior parte bastava il mio sguardo. Mi temevano benché, come già detto, mi dominassero. La maggior parte erano bambini viziati e io cercavo di estirpare ciò che in loro vi era di viziato. Facevo ogni volta il tentativo di estirparlo. Ma in un tempo cosí breve come quello che io trascorrevo in una scuola non si combina un granché... Del resto è l’intero sistema scolastico che andrebbe cambiato. Capovolto. Lei lo sa che da noi tutto quel che riguarda la scuola è piú antiquato che in qualsiasi altra parte del mondo? È un unico scandalo! Tal quale l’aspetto esteriore dei nostri edifici scolastici decaduti fatiscenti e abbandonati è l’aspetto profondo del nostro sistema scolastico. C’è di che aver paura se si pensa a quel che ne verrà fuori!» Le lamentele dei genitori che a causa sua continuavano a giungere alle varie presidenze, si riferivano quasi sempre a «opinioni scandalose» che lui era accusato di «somministrare ai suoi alunni come delle medicine». «Per “scandaloso” però non si deve intendere “contrario al buon costume”. Scandaloso per tutta quella gente è ciò che li scandalizza». Gli rimproveravano di spiegar troppe cose ai suoi alunni. «Poi invece mi rimproveravano di non dar loro sufficienti spiegazioni». Non era mai stato contrario agli scherzi degli scolari. Malgrado ciò gli facevano pochi scherzi. Nelle prime classi elementari gli alunni di solito sono ancor piú ansiosi dei loro insegnanti. «Un’alta percentuale di alunni non sta seduta in classe, ma in mezzo alla paura... Gli edifici scolastici sono dei grandi edifici di paura. Persino da adulto gli edifici scolastici per me son rimasti dei grandi edifici di paura. La paura dell’edificio scolastico, come in genere la paura della scuola è la paura piú orribile che esista. La maggior parte degli uomini ne muore. Se non da bambini, piú tardi. A sessant’anni si può ancora morire di paura della scuola». Quando aveva fatto la domanda come maestro supplente s’era illuso di uscire da quella solitudine che non riusciva piú assolutamente a padroneggiare. «Ma tra i miei allievi ero ancora molto piú solo... Una volta mi vennero dei pensieri suicidi mentre facevo lezione. Ricordo ancora perfettamente in quale aula e in quali circostanze. Ricordo esattamente quella classe. Come maestro supplente avevo il vantaggio che il quindici di ogni mese mi veniva in tutti i casi versata una somma di denaro... Ma quella del maestro supplente è naturalmente un’esistenza atroce».  
 Ora la moglie dell’oste gli fa degli impacchi di unguento vescicale sulla bozza che ha al piede. Sono riuscito a convincerlo a lasciarseli fare. «Applicare mezzo centimetro di pomata piú calda possibile», avevo detto alla moglie dell’oste. «Lei fa soltanto finta d’intendersene», disse lei. Il pittore non fa che burlarsi di me. Si lascia fare gli impacchi solo perché vuol esser lasciato in pace da me. «È la prima volta che mi lascio dirigere da un uomo cosí giovane e che mi lascioimporre una cosa tanto insensata». Nel dir questo rideva. È la prima volta che l’ho visto ridere. Rideva come uno che non avesse riso per anni. Per decenni. Che non avesse mai avuto nulla di cui ridere. Ora, pensavo io, ride per tutti quegli anni. Ridere lo affatica. Era per lui qualcosa di inconsueto come per un’altra persona un taglio nell’addome. «Come mi sta riducendo, Lei?» Sto accanto al suo letto a guardare come la moglie dell’oste spande la pomata vescicale bruno-nerastra sopra una pezzuola di lino. Non senza una certa abilità. Solleva la gamba del pittore e ci appiccica la pezzuola di lino. Gli fascia il piede. «Non troppo stretto», dissi io. «Non è una commedia questa?» dice il pittore. La moglie dell’oste dice: «Lei ora però deve restare sdraiato, signor Strauch!»  
 Il pittore le domanda che cosa ci sia da mangiare. «Questo non posso mangiarlo!», dice lui, dopo che lei glielo ha detto. Io sto osservando la sua camera. Ma è cosí buio che non si vede quasi nulla. Appena uscita la moglie dell’oste, lui tira un sonoro sospirone. La sua camera è piú grande dellamia. E molto piú cupa. È l’effetto delle tende che lui tiene chiuse. Le tende che io avevo fatto staccare sin dal primo giorno. «Le mie tende son sempre chiuse... Se ne ha voglia, può prendersi il mio libro. Si prenda il mio Pascal!» Io dico che ho già il mio Henry James. «Ah sí, il suo Henry James».È lí sdraiato come sopra un catafalco. «S’interessa di poesia?», mi domandò. «Veramente no, – dissi io, – non m’interessano le cose inventate». C’è un orologio che ticchetta. Lo cerco con gli occhi, ma non lo trovo. Dev’essere dentro all’armadio. C’è odore di lavandino. La stufa è incandescente, ma non fa caldo. «Ho sempre i brividi di freddo, – dice lui. – Che cos’è che rende insopportabile il dolore? Che altro è il dolore se non dolore?» C’è un tale silenzio che il suo respiro sembra stia per far esplodere la stanza. In direzione del suo volto giallo che giaceva al buio e da cui non usciva piú parola dissi: «buonanotte» e me ne andai.  





























 1 Grande mercato alimentare viennese, attiguo al Mercato delle Pulci [N. d. T.].  
Sedicesimo giorno 





 Voglio assolutamente annotare che Strauch stanotte ha avuto un sogno. «Un sogno, – dice lui, – che non ha nulla in comune con tutti i miei sogni. Devo dirLe che è stato il sogno dell’infelicità suprema, il sogno della fine, il sogno della fine che ci soverchia. Ho sognato un colore, questo a dire il vero non distingue quel sogno dagli altri miei sogni, i miei sogni, deve sapere, incominciano tutti con un colore, con uno dei colori fondamentali, come sono indotto a credere, con uno dei tre quattro, posso dire quattro?, colori fondamentali, poi quel sogno s’è sviluppato rapidamente virando con infinita ostinazione verso le gradazioni intermedie fra i vari colori, verso una zona in cui tutti i colori hanno lo stesso significato, tutto è ancora senza tono, sin dentro all’oscurità dei colori, dentro alla loro tenebra e alla loro luce, là dove tutto è privo di tono, privo di suono, poi improvvisamente in un crescendo diventa suono, un’unica linea sonora: i suoni aumentavano nella proporzione in cui diminuivano i colori, improvvisamente quel sogno – ed è questo che lo distingue in modo fondamentale da tutti gli altri miei sogni – non era altro che suono, per non dover dire: musica, nome che in questo caso non sarebbe appropriato, sarebbe completamente scorretto, fuorviante, si udiva un suono senza principio né fine, ed ecco che si trasformava in qualcosa di spaventosamente soverchiante e infernale, non saprei esprimerlo in modo diverso, mi manca la capacità di esprimermi in parole, persino mentre sono in preda agli spasmi della memoria tardiva mi manca la capacità di esprimermi in parole, prima un suono, poi un enorme rumore, poi un rumore cosí enorme che non sentivo piú nulla: in questo spazio che era ed è uno spazio infinito, uno dei tanti spazi infiniti (una mia visione fantastica che tende sempre a distruggermi). In questo spazio nel quale improvvisamente il bianco e il nero urlavano stravolti allo stesso modo bestiale, stravolti da una potenza musical-celestiale, barcollavano due poliziotti, barcollavano senza un punto d’appoggio, improvvisamente barcollavano in tre, barcollavano, non posso dire ondeggiavano, barcollavano come imprigionati dentro a un onniavvolgente impudente palcoscenico immaginario, nell’onniavvolgente impudente palcoscenico immaginario dell’eternità...»  
 Verso sera incominciò una tempesta di neve, vedevo onde di neve sbattere contro la finestra. Mentre inizialmente – perché s’annunciava la tempesta di neve – la finestra s’era oscurata, dopo, quando la tempesta incominciò e si scatenò con gran violenza sulla locanda, divenne chiarissima, tutta coperta di bianco. Leggevo sul giornale di uomini che avevano delle pretese, di uomini che avevano delle nozioni, di altri che non avevano né pretese né nozioni, di città che sprofondavano, di corpi celesti che ormai non sono piú lontani.  
 La moglie dell’oste era in casa, le sue due figlie stavano sedute in cucina a fare i compiti.  
 Lo scuoiatore fa il suo giro, pensavo, l’ingegnere dà i suoi ordini sopra l’acqua del fiume.  
 Il parroco sta in parrocchia e il macellaio nel buio della sua macelleria.  
 Il calzolaio segue col pollice la sua cucitura.  
 Il maestro tira le tende e ha paura.  
 Tutti hanno paura. Io pensavo a Schwarzach.  
 Tutt’a un tratto sono di nuovo in sala operatoria, sollevo la testa di questo o di quel morto. Prendo l’ascensore per scendere in cantina a cercare un paio di stampelle e torno su al terzo piano dove un tale ha bisogno delle stampelle.  
 Penso a mia madre. Si domanderà: perché non scrive? Tutti si domanderanno: perché non scrive? Non lo so io stesso. Non riesco a scrivere a nessuno. Nemmeno all’assistente!  
 Guardo di nuovo verso la finestra e non vedo nulla.  
 Tale è la violenza spaventosa della tormenta.  
 Poi sento delle voci nel corridoio d’entrata, sono i primi operai che si scrollano la neve dai vestiti e con gli stivali pestano sul pavimento tanto forte da far tremar la casa.  
 Ma è ancora troppo presto per scendere a cena. Udendo quelle voci riesco a immaginare le persone a cui appartengono, a vedere i loro volti, alcuni per me restano al buio, non diventano persone.  
 Sto leggendo il mio Henry James, ma non so che cosa ho letto: mi tornano alla memoria delle donne che seguono una bara, un convoglio ferroviario, una città distrutta da qualche parte in Inghilterra. Il rumore di quelli che entrano si sposta lentamente dal corridoio verso la sala. Ora tutto è ancora piú tetro. La porta viene spalancata di colpo, poi si richiude. Allora si ha la sensazione che venga fatto rotolare dentro un barile. C’è un paio di uomini che ridono, mentre si lavano in cucina dove la moglie dell’oste continua a preparar loro dei secchi d’acqua e a rifornirli di asciugamani. La tormenta non diminuisce. Mi alzo e scendo.  
 Nel corridoio incontro il pittore. Aveva appena lasciato il paese, quando lo raggiunse la tormenta. Improvvisamente non era piú riuscito a veder nulla, la tormenta lo aveva avvolto come in un panno, «avvolto in panni di neve!... Durante la tormenta avevo certi pensieri, non erano pensieri ma accessi a pensieri, accessi a un qualche misterioso paesaggio che di solito mi è inaccessibile... Tante porte chiuse, deve sapere... Io allora ho bussato, ho gridato e infine mi son messo a martellare con le mani e coi piedi. Queste immagini e i fatti ad esse collegati, questo abbandono...» 
 Era molto agitato. Disse: «È una cosa indegna, deve sapere. Io non mi so spiegare, la verità, è cosí difficile sviluppare la facoltà che conduce alla verità, che con i mezzi umani non si riesce a vedere... tutto si limita a frammenti e allusioni, tutto il nostro pensiero consiste in un’unica chiarezza mai sperimentata... senza scopo. Tutto quell’immenso materiale! Quelle immense proporzioni! Tutto quell’orientamento indegno dell’uomo... tutta l’umana miseria mi parve un concetto sempre piú illuminante! Una tempesta di neve è senz’ombra di dubbio un processo di morte... 
Ma che cos’èuna tempesta di neve? Come avviene? È una ribellione da cui nasce questo miracolo... Tutta la mia spiegazione non è altro che paura, null’altro che una paura infantile di fronte a uno spettacolo inconsueto...» L’ingegnere aveva trovato il pittore sdraiato sulla strada, lo aveva caricato nella sua automobile e portato con sé. «Se non ci fosse stato l’ingegnere, sarei morto in questa tormenta», disse.  
 Il gendarme era arrivato a quello stadio in cui la virilità all’improvviso s’impossessa di tutto l’organismo e la giovinezza sparisce in un batter d’occhio. «Questo bel volto, – dice il pittore, – quanto a lungo resterà bello? Gli sarà risparmiato il grande deturpamento comune a tutte le vite? No. Un qualche elemento bestiale apparirà all’improvviso su quel volto e vi lascerà le sue tracce: prima in modo indistinto, poi in modo piú deciso, sempre piú brutale. Alla fine distogliamo lo sguardo da quel volto perché non riusciamo piú a sopportarlo e ne cerchiamo uno nuovo, non ancora deturpato, bello. Restiamo affascinati da quel volto finché non subisce la stessa evoluzione di quello precedente. Questo ci capita con tutti i volti. Del resto il gendarme ha molte caratteristiche che ho scoperto anche in Lei. Ma si tratta certamente della sua giovinezza, della giovinezza in generale». E poi: «Alla Sua età io avevo già visto molte cose e mi ero già piú o meno ritirato da tutto. A dir la verità io a ventitre anni ero già finito. Questa sensazione Le è estranea, non stento a crederlo. Lei non si è ancora ritirato da nulla, da nulla in modo definitivo. Nemmeno il gendarme. In questo momento sto parlando di questo tipo di costellazione, di una barriera, di un impedimento ad abbandonarsi a certe dissolutezze... di un’epoca di cui ho già parlato una volta... in cui tutto cade a pezzi, sa, in cui la nostra voce improvvisamente diventa una voce da ubriaco e l’urina inzuppa i pantaloni quando proprio non lo si vuole... Tra l’altro il gendarme è taciturno come Lei. E lo è sempre stato. Come si diventa gendarmi? Semplicemente perché non si sa che cosa sia un gendarme? Come si diventa poliziotto? Come si diventa una cosa che è ripugnante? Un portatore di uniforme? Come? 
Semplicemente infilandosi l’uniforme? Infilandosi la cosa ripugnante? Dapprima forse controvoglia, ma in seguito per abitudine, ostinatamente e infine per un sentimento di quotidianità, un sentimento di appartenenza? A che scopo? La gente della locanda tra l’altro è veleno per il gendarme. Ma lui è già infetto da tempo. Ha rinunciato a leggere libri, ha rinunciato a tutto ciò che non riguarda la gendarmeria. I caratteri sporchi tentano continuamente di trascinare gli altri nel loro fango, proprio per questo sono caratteri sporchi; e prima o poi ci riescono, come possiamo vedere con crudele chiarezza. Come ora sto passeggiando con Lei, un tempo, ancora l’anno passato, anche quest’anno, qualche settimana fa, ho passeggiato in compagnia del gendarme, ma ora lui s’è completamente ritirato, anche alla locanda viene solo raramente, di notte, sí, e io so a quale scopo, ma ormai lo si vede soltanto saltar fuori dai nascondigli, lo si nota solo dopo che ci ha fatto prendere uno spavento. Secondo me è già perduto da un pezzo».  
 Lui mi spiega come il ricordo di gioie sfrenate possa trasformarsi in tristezza, come dal mattino nasce il mezzogiorno, dal mezzogiorno il pomeriggio e dal pomeriggio la sera, dalla luce le tenebre. Come ciò che era partenza diventi ritorno. Come dalla negligenza e dall’inettitudine nascano il tormento, l’amarezza, anzi la disperazione. «Ma qual è il pericolo?» domanda lui. Abusarne? Abusare di che cosa? L’uomo osserva donne che, fino a quel momento felicissime di sé e di lui, cascano come una pietra nella sensazione avvilente di una gravidanza futura. La loro voce a un tratto diventa stanca e il loro cuore spossato, vogliono esser lasciate in pace. La forza di carattere vien meno solo ora che non è rimasto piú nulla. L’avversione fa un male spaventoso. Una sicurezza da sonnambuli si trasforma in ostilità, in aperta inimicizia, in lasciar vivere o uccidere. L’allegra ascensione alla vetta di una montagna si conclude all’osteria della valle con episodi di gravi lesioni personali. Un’espressione felice che incanta tutti gli ascoltatori all’improvviso semina la discordia. È colpa del meccanismo pensante che domina l’uomo. 
L’ammirazione si muta in rimprovero, il carattere rapidamente e senza indugi in assenza di carattere. I sogni ben presto si trasformano in distruzione di sogni, le poesie in randelli con cui si sferrano colpi da tutte le parti. Lui sa come la morale si trasformi in lutto, come un modo d’essere spontaneo diventi menzogna. Come in milioni di centri della sensibilità penetri il primitivismo e massacri tutto. «Non si sa nulla di quell’attimo, tutto si rattrappisce in un attimo, in un attimo tutto è morto». L’aria, mi spiega lui, fa sbiadire un colore mentre ne esalta un altro fino all’intollerabile. Ombre che all’improvviso s’intromettono in ogni cosa. «A casa dei nonni, – disse lui, – dove la felicità entrava e usciva e durava per ore, in modo spontaneo beninteso, ci si poteva meravigliare di come all’improvviso, senza transizione, si creasse un’atmosfera mortale che congelava l’atmosfera di prima, anzi la faceva addirittura dimenticare: le passeggiate nel bosco, la corsa in slitta sul lago, le letture ad alta voce, l’acqua trasparente come il vetro. Una mano s’intromette e non c’è obiezione che tenga». Come in generale i delitti e le disgrazie sono conseguenza di una felicità. «La conseguenza della spensieratezza che può essere cosí bella da muovere montagne. Paragonabile al vento che a un tratto mette a nudo un albero. Al mare dalla furia improvvisa. La cosa incredibile è che tutti desiderino una felicità duratura, – disse lui. – Visto che tutto ha solo valore transitorio. Ornamenti che incantano per intere domeniche diventano all’improvviso forme distorte, come uomini che si trasformino in bestie e viceversa, cosa che ci fa prendere la fuga. L’azzurro si trasforma in nero, il nero in azzurro. L’alto diventa il basso. Proprio come una strada sbocca in un’altra strada senza che si sappia esattamente dove. L’uomo non sa mai qual è l’attimo decisivo». Inoltre tutto scorre come i fiumi condannati dalla natura ad essere sempre ugualmente ricchi o poveri d’acqua.  
 Durante la tempesta di neve nella comunità vicina è scoppiato un incendio che ha ridotto in cenere una grande fattoria. Il luogo dell’incendio dista otto o nove chilometri da Weng. Molti sono accorsi mentre infuriava ancora la tormenta. Gli incendi, si sa, attirano la gente. La gente pianta lí tutto e non ha in mente altro che la catastrofe dell’incendio. Il pittore, quando l’ho incontrato giú nel corridoio d’entrata, mi ha detto: «Ha visto lo scuoiatore, ha visto come s’è precipitato nella locanda? L’incendio è stato “messo in scena” dalla scintilla d’un cavo elettrico». «Messo in scena, – disse il pittore. – Ha osservato come lo scuoiatore ha dato la notizia? È entrato precipitosamente come entra il messo di una tragedia greca. Ecco il popolo, – disse, – ecco come si eccita a vicenda quando c’è qualcosa di eccitante, come domina e viene dominato. Lo scuoiatore e la moglie dell’oste sono due buoni esempi, due ottimi esempi di come avviene questa trasmissione fulminea delle notizie tra il popolo. Vede, – disse lui, – da una parte c’è il latore della notizia, dall’altra c’è colei che la riceve, la stupefatta, la natura avida di sensazioni. Soltanto grazie alla moglie dell’oste ciò che dice lo scuoiatore diventa importante. A quel punto è la moglie dell’oste che si assume il ruolo che era dello scuoiatore, poi sono altri che si avvicendano nell’assumersi quel ruolo, poi altri ancora, il popolo intero accoglie la notizia...» L’incendio ha ucciso centinaia di maiali. Uomini con fazzoletti sul volto hanno tentato di salvare la vita ai maiali che erano scappati, i maiali invece gli sono scappati e ritornati nel fuoco, anche le mucche, le anitre, gli è bruciato tutto il pollame. Tutto bruciato o soffocato tra le fiamme. I pompieri completamente impotenti, poiché tutte le fontane sono gelate, tutti i ruscelli senz’acqua... La tempesta nel giro di pochi secondi ha fatto crescere con grande violenza fiamme gigantesche che le nuvole poi hanno istantaneamente abbassate. Era stata una vampata colossale quella che tutti loro avevano osservato. A dir la verità dalla locanda non s’era visto niente. Di qui non si vede niente. Dall’interno della conca non si vede niente. «Un incendio spaventoso! I pompieri di Weng si son messi in moto, non li ha sentiti?» Non li avevo sentiti. Nessuno alla locanda aveva sentito qualcosa. Nella locanda non penetrano i rumori, tutto passa al di sopra. «Il legno secco, il fieno, s’immagini, l’enorme granaio s’era ridotto a un cubo ardente che alla fine di colpo si sgretolò. Pompe senz’acqua, capitani di pompieri che stavano lí completamente impotenti, la squadra dei pompieri aveva srotolato le pompe, ma poi non veniva l’acqua... Da dove mai avrebbe potuto venire? Una cosa inimmaginabile, perché gli uomini non potevano far nulla. Che spettacolo gigantesco quando crolla un granaio! E per giunta durante una tempesta di neve! Io vi ho assistito una volta, in un villaggio bavarese, camminavo per la strada, non riuscivo a veder nulla a causa della neve e stavo attento cercando di non soffocare, quand’ecco che attorno alla mia testa incominciarono a turbinare delle faville, sempre piú numerose, tutt’a un tratto non c’erano solo dei fiocchi bianchi ma altrettanti fiocchi rossi; allora mi misi a correre e a correre e a correre nella direzione dalla quale sembrava venire il turbine dei fiocchi rossi... Lassú in alto su una collina vidi un granaio in fiamme dietro alla parete innevata. Tutto l’orizzonte era in fiamme. Corsi verso quell’orizzonte in fiamme. Forse pensavo anche alla salvezza, ma lo spettacolo era tale che gli orecchi mi rimbombavano e i piedi mi scottavano! Come potei constatare fui il primo a scoprire l’incendio. Mi vennero incontro enormi onde di calore. Già quand’ero a cento passi dal fuoco cominciai a udire cigolii, gemiti e schianti, e infine anche delle grida, tutt’a un tratto uomini spaventati correvano in qua e in là uscendo dal fuoco, rientrando nel fuoco. Cerchi d’immaginare, era già l’ora di andare a dormire, la gente era già a letto, correvano in qua e in là nella neve cosí com’erano in camicia da notte, fiaccole ardenti che cadevano nella neve, sfrigolavano come quando si spengono nella neve delle candele accese, sa, e a quel punto crollò il solaio. Prima parve sollevarsi per poi crollare con enorme frastuono. A questo s’aggiungevano le urla del bestiame che non riusciva a uscire perché alla fine, a causa dell’enorme pressione sovrastante, le porte erano rimaste bloccate. Tutto quanto è avvenuto in un tempo brevissimo, tutto in meno di venti minuti. I pompieri si spinsero coraggiosamente in mezzo alle fiamme e ne estrassero delle persone che poi però stramazzavano in terra mezze morte o già morte. Fui presente alla scena per puro caso, sa, perché m’ero attardato sulla via del ritorno, dalla casa dove allora vivevo non sarei riuscito a veder nulla poiché anch’essa, come la locanda, era situata in una conca. Come risultò poi il padrone di casa e sua moglie erano morti soffocati tra le fiamme. E anche tre o quattro delle persone di servizio. Alcuni dei domestici furono ricoverati in ospedale con delle ustioni e dovettero restarci per dei mesi, e in un caso di cui sono venuto a conoscenza, per degli anni. Quelle vite naturalmente sono state rovinate. Non appena lo scuoiatore s’era precipitato nella locanda, mi ricordai di quell’incendio doloso. Oggi come allora sul luogo dell’incendio c’è della povera gente munita di zaini che li riempie di pezzi di maiale o di manzo e di qualche brandello di pollame. Sul luogo dell’incendio hanno organizzato macellazioni d’emergenza. Sa, tutti hanno il diritto di appropriarsi del bestiame bruciato. Quel che c’era da arraffare, la gente se l’è preso. C’è gente che non aspetta altro che lo scoppio di un incendio e allora si precipita immediatamente, persino in automobile per potersi portare a casa quanta piú roba possibile. Arrivano muniti di arnesi da macellaio, di accette e coltelli, e massacrano tutto. Che spettacolo grandioso un incendio!» Alle dieci – io ero ancora seduto in sala visto che lo scuoiatore non riusciva a smettere di raccontare, riattaccava sempre con l’incendio e intanto continuava a non accorgersi dei punti che avrebbe potuto guadagnare avendo in mano un re o addirittura un asso – entrò l’ingegnere che era stato a una festa danzante dove correva voce che l’incendio fosse doloso. C’erano già stati degli interrogatori sul luogo stesso. Un gruppo di poliziotti e di magistrati s’era già messo al lavoro e non intendeva affatto interromperlo durante la notte. Un elevato premio assicurativo pagabile solo dal giorno prima era una prova inequivocabile del fatto che il proprietario stesso avesse dato fuoco alla fattoria.  






Diciassettesimo giorno 





 Si tratta di un incendio doloso. Ma non è stato il contadino ad appiccare il fuoco alla fattoria, come tutti pensavano, bensí un garzone il quale, convinto che il premio non fosse ancora pagabile, voleva vendicarsi del suo padrone. Si sa perché, si parla di una «relazione» che a quanto pare c’era stata tra il contadino e il garzone della quale la moglie del contadino era a conoscenza. E cosí il grosso premio dovrà essere pagato al contadino. Corre voce che lui voglia investire il denaro in una fabbrica in una valle del Tirolo e non aver piú nulla a che fare con il «contadinume». Sua moglie l’hanno trovata dietro alla casa schiacciata da un architrave del tetto. Probabilmente, cosí si crede, era ritornata in casa a prendere il suo bambino che invece era stato piú svelto di lei e non si trovava già piú nella stanza; quando lei poi, passata indenne attraverso alle fiamme, scappò fuori dalla casa, l’architrave le cadde sulla testa. Nel buio l’hanno calpestata un paio di volte senza accorgersi di lei, la credevano in casa, sotto le macerie, sotto il bestiame carbonizzato che era diventato una massa brunonerastra dalla quale sporgevano qua e là un paio di corna o di gambe, una massa rigida e simile a ghisa dalla quale veniva un odore terribile che, come ricordo in questo momento, si sentiva persino nelle vicinanze della locanda. Il nostro gendarme aveva dovuto respingere la gente con la canna del fucile, degli estranei venuti soltanto per saccheggiare, era anche stato costretto a dare un colpo in testa all’uno o all’altro quando non gli davano retta. Era venuto il medico, ma troppo tardi. Erano riusciti a salvare il trattore, su di esso il contadino era uscito dalla casa in fiamme. La moglie dell’oste andrà al funerale della contadina, lei conosce quella gente. «Una grande fattoria», ha detto lei. Da bambina era stata lí a servizio assieme a sua sorella. «Tutta un’estate». Il garzone che aveva appiccato il fuoco, lo stanno cercando dappertutto. Il gendarme com’era suo dovere di primo mattino era anche stato alla locanda a raccogliere delle informazioni. Ma un uomo che corrispondesse alla descrizione del ricercato, come dice la moglie dell’oste, non era mai stato alla locanda. L’incendiario viene dalla Carinzia, «patria di tutti i depravati», come dice la moglie dell’oste, ed era arrivato alla fattoria solo verso la fine dell’autunno. Si suppone che sia tornato in patria, ma non si vogliono trascurare altre possibilità. Era il suo giorno libero e prima di uscir di casa s’era messo l’abito della domenica. Piú tardi durante l’incendio il contadino notò che il garzone aveva portato via anche la sua piccola valigia. Il piú delle volte le persone come lui, dopo aver commesso il loro delitto, vanno a casa di parenti o conoscenti ed è lí che vengono arrestate. Alla fine si vedrà dove lo acciuffano, ammesso che riescano ad acciuffarlo. Ma i tipi come quello li trovano sempre già dopo pochi giorni, di solito già dopo poche ore. Visto che non possono andarsene via lontano, poiché non hanno i mezzi per farlo. E neanche il coraggio. Spesso si nascondono in un fienile oppure in casa di un tracciatore di sentieri e lí vengono scoperti mezzi morti di fame o morti del tutto. Se la fattoria fosse bruciata un solo giorno prima, il contadino non avrebbe avuto il diritto d’aspettarsi neanche un centesimo. E cosí invece riceverà una somma enorme. L’incendiario dev’essersi sbagliato di un giorno. «Sa, – disse il pittore, – l’intero paese, come si vede, è pieno di delinquenti. Pieno di assassini e d’incendiari».  
 «Oggi è una giornata opprimente, – disse il pittore, – l’incendio è ancora nell’aria. Ha voglia di andar lí a vedere? Io non ne ho voglia. Se ci fosse una slitta, ma la slitta non c’è.È troppo scomodo». Era stato nella cucina dell’ospizio dove s’era intrattenuto con la superiora e con le sguattere. «Con la buccia delle patate fanno delle minestre», disse lui. Degli zingari avevano attraversato il villaggio e ricevuto del cibo caldo all’ospizio. «In un carrozzone tirato da un cavallo. Fan parte di un gruppo che aveva fatto una tappa laggiú alla stazione. Vengono dalla Croazia. La superiora diede a ciascuno di loro una pagnotta e un medaglione. Gli zingari sono dei rimasugli, e i rimasugli di un mondo che fa venire il voltastomaco a se stesso. Volevano cantare, ma alla superiora non piace sentir cantare e cosí non cantarono, sistemarono il pane nel carrozzone e continuarono il viaggio...» Disse: «Allora ho attraversato il villaggio. Ma il tempo, come dice il maestro, è balordo. È un’epoca in cui dappertutto muoiono i neonati. Macellazioni d’emergenza sono all’ordine del giorno. Ho sentito che il macellaio dava ordini in continuazione. I suoi zoccoli di legno sbattevano contro il secchio pieno di sangue. Era tutto un luccicare di viscere che lui tirava fuori dai vitelli. Quell’odore caldo e dolciastro! Continuano ad abbatterli, si rifiutano di ucciderli con un colpo di pistola come ormai si fa dappertutto. Uno li tiene per le orecchie e per la coda, l’altro gli dà un colpo in testa con l’accetta. Lei certo conosce il rumore che fa una bestia ferita a morte che stramazza sul pavimento del mattatoio. Le montagne tutt’a un tratto sono cosí vicine che si crede di andarci a sbattere la testa. In tutto il villaggio si trovano sparsi ciuffi di peli, brandelli di pelle. Dico loro di spazzar via tutto questo, di ricoprire le pozze di sangue con la neve, ma loro non ci pensano nemmeno. In campagna tutte le strade sono sempre piene di sangue. Sono entrato dal macellaio e gli ho detto che ordinasse al suo garzone di spazzar via quei ciuffi di peli là fuori davanti alla porta della macelleria, di ricoprire quelle macchie di sangue e non me ne sono andato prima che il garzone avesse spazzato via e ricoperto tutto. Il macellaio dice che domani nella comunità vicina avrà luogo una gran mangiata in onore della contadina morta, avevano fatto le ordinazioni da lui. Ecco perché quella mattina aveva macellato di fresco. Doveva consegnare la sera stessa». C’era da portare al municipio di O. un’intera slitta carica di carne.  
 Eravamo arrivati nel punto dove la valle stretta appare All’improvviso. Strauch aveva voluto fare quella deviazione a tutti i costi. Gli avevo recitato una frase del mio Henry James e lui l’aveva interpretata in modo meraviglioso, quella frase incomprensibile, a me incomprensibile, che non mi aveva dato pace tutta la notte (devo confessare che in tutta la mia vita non ero mai stato preso da una tale inquietudine, ero uscito dalla mia camera, sceso nella sala della locanda e poi uscito fuori all’aria fredda. in quel freddo «sepolcrale», avevo preso il sentiero infossato nel bosco, m’ero semplicemente buttato la giacca sopra il pigiama, infilato i pantaloni e poi via, m’ero addentrato nel «deliquio delle tenebre»; ma non so spiegar nulla a me stesso, non riesco a mettere per iscritto nulla, nulla di tutto ciò, non riesco a prendere appunti su niente. Quando il pittore aveva interpretato per me quella frase di Henry James e la valle stretta era apparsa davanti ai nostri occhi, l’entrata della valle stretta coperta di neve altissima, lui si fermò e mi ordinò di restare a due passi di distanza da lui. Non si voltò benché a un tratto si fosse messo a conversare con me. «Vede, – disse lui, – quell’albero entra in scena e dice quel che lo avevo incaricato di dire, un incarico dato chissà quando, un verso, un verso incomprensibile che mette sossopra il mondo, un verso, come si suol dire, sacrilego, capisce! Quell’albero entra in scena a sinistra mentre la nuvola entra in scena a destra con la sua voce che è tutta tenerezza. Mi considero il creatore di questo spettacolo pomeridiano, di questa tragedia! Di questa commedia! E ascolti: la musica ha attaccato al momento giusto. La musica viene ordinatamente inserita negli intervalli tra le mie parole e tutte quelle degli altri. Li sente, tutti gli strumenti si completano, la tragedia, la commedia tutti gli strumenti, tutte le voci, le voci da soprano e quelle da basso, la musica è l’unica dominatrice del doppio fondo della morte, l’unica dominatrice del duplice tormento, l’unica dominatrice della duplice tolleranza... La musica, senta... il linguaggio si avvicina alla musica, il linguaggio non ha piú la forza di raggirare la musica, deve avvicinarsi alla musica, il linguaggio è un’unica debolezza, il linguaggio della natura cosí come il linguaggio dell’oscurità della natura, come il linguaggio dell’oscurità degli addii... Ascolti: io ero dentro a quella musica, io sono dentro a quella musica, fuori da quel linguaggio, dentro a questa tranquilla poesia del pomeriggio... Lo vede il mio teatro? Lo vede il teatro della paura? Il teatro della mancanza d’autonomia di Dio? Di quale Dio?» Si voltò e disse: «Dio è un unico grande imbarazzo! Uno spaventoso imbarazzo degli astri! Ma, – disse lui, avvicinando l’indice alle labbra, – meglio non parlarne. Voglio che l’albero finisca di parlare e voglio che il ruscello finisca di parlare e voglio che il cielo finisca di parlare, che l’inferno controlli le conseguenze delle sue fiamme, che le controlli sino alla fine, io voglio quelle fiamme, voglio quelle ombre, che quelle ombre uccidano... che uccidano tutto quanto... Provo compassione per questa tragedia, per questa commedia, non provo alcuna compassione per questa tragedia, per questa tragicommedia inventata da me solo, per queste ombre inventate da me solo, per questi tormenti d’ombra, per queste ombre di tormenti, per questa tristezza infinita...» Disse: «Un simile spettacolo è un prodotto della ridicolaggine, della ridicolaggine divina, un simile spettacolo, vede, Lei deve sapere, non è altro che una grande risata... E ascolti, – disse il pittore, – il mondo dalle sue stesse tenebre risale verso l’aria, come l’aria stessa, come l’acqua contenuta nell’aria, come la densità dell’aria nell’atmosfera... Sí, – disse Strauch, – adesso batto le mani, batto semplicemente le mani e picchio la testa contro il punto piú importante dell’universo e tutto non sarà stato altro che un’apparizione spettrale, il fantasma di un’apparizione spettrale, uno spettro-fantasma, capisce, uno spettro-fantasma». Andammo in paese. «Talvolta l’esaurimento mi entra nella testa come un teatro frantumato, come qualcosa d’infinitamente musicaldemoniaco che mi distrugge. Mi distrugge mentre sono in cammino verso l’incapacità di essere me stesso, in cammino verso la piú piccola e la piú paziente serenità della mia memoria, del mio cuore abbrutito». Disse: «A me sarebbe bastato dire semplicemente: albero bosco roccia aria terra; ma per Lei, per il mondo esterno non basta... Un giorno tutt’a un tratto ci si crea un trauma, uno spettacolo, una commedia, l’appendice di una commedia... Qualche volta la natura stessa ci tira il collo, la natura che è priva di semplicità, e allora si scopre: l’infinita complicazione dell’orribile natura. Ma poi alla fine tutto resta incomprensibile, piú incomprensibile che mai! Bastava che dicessi: “Ecco che entra in scena un albero...” nient’altro. Bastava che dicessi: “Ecco che l’aria ripete a memoria la sua parte...” nient’altro. Venga su, non dobbiamo piú aver paura».  
 «Gli interventi sul bosco rovinano l’equilibrio della natura», disse lui, quando ci trovammo al limite del bosco di larici, nel punto in cui si può precipitare verticalmente nel fiume, di fronte al «sarcofago». Se questi interventi dell’uomo continueranno per anni ad avere carattere di taglio incontrollato, al mondo non resteranno che queste orribili immagini di boschi morenti che vediamo dappertutto. Disse: «Questo paesaggio ogni volta che lo guardo diventa piú brutto. È brutto e minaccioso e pieno di particelle di cattivi ricordi, un paesaggio che getta lo scompiglio tra gli uomini. Con le sue tenebre, i suoi branchi di animali selvatici, con la sua concentrazione di sciagure laggiú nella valle dove viene perseguitato il mondo operaio. Ovunque l’insidia dei sentieri infossati, crepacci, boscaglia, intrico di cespugli, tronchi d’albero squarciati. Tutti atteggiamenti ostili. E spietati. Inoltre qui tutto è impregnato del puzzo di cellulosa. Gli uccelli d’estate volano completamente indifesi in ogni direzione, a questo si deve aggiungere la tenebra delle rocce: si crede sempre di soffocare. In nessun altro luogo il freddo è cosí intenso, in nessun altro luogo il caldo è cosí insopportabile. Il pensiero, sa, che tutto questo è la morte, sa, le tenebre, l’immensità del tutto... la morte senza alcun dubbio è l’infinito, il grande trionfatore è il momento della morte... Solo alla morte, solo al futuro si può ricollegare la speranza». E poi: «Che cos’è la folla che fraintende la morte? Che cos’è la massa che le è insensatamente ostile? La folla è sempre lí, si muove all’interno di se stessa, dei suoi distretti proibiti...» Entrò nel bosco di larici e mi disse di precederlo. «Spesso ho visto poliziotti sopra alti cavalli inseguire la folla e colpirla: quest’immagine è ricorrente: come picchiano con randelli e canne da fucile sopra teste indifese. Come la folla radunata si trasforma sempre piú in massa, come da essa nasce il terrore e poi improvvisamente la violenza. Come la massa poco prima ancora controllata dai poliziotti tutt’a un tratto controlla i poliziotti che subito ricominciano a colpire la folla, capisce... La folla a dire il vero è un fenomeno, il fenomeno della folla umana che da sempre mi ha interessato. Dalla folla ci vien trasmessa la smania morbosa di volerne far parte, di doverne far parte, sa... La ripugnanza all’idea di farne parte. Ora è questa, ora è quest’altra ripugnanza... Ma gli uomini sono sempre la folla, la massa. Ogni singolo è la folla, la massa, anche chi si trova lassú in alto tra le pareti di roccia e non è mai uscito da queste pareti di roccia, è sempre rimasto lassú in alto... Solo lui, quest’uomo-folla, quest’uomo-massa, quest’uomo-folla-e-massa, sa... È sconcertante far parte della folla! Sapere di farne parte: della folla!» Disse: «Vogliamo andare al campo dove si gioca a bocce sul ghiaccio? La gente qui ha tre passioni: giocare a curling, andare a puttane e giocare a carte. Lei ieri ha capito come funziona quel gioco? Lei era intirizzito. Avrebbe dovuto mettersi al collo una sciarpa piú calda. Possibile che Lei non possegga una sciarpa di lana veramente calda?» Camminando a fatica raggiunse un mucchio di rami secchi e poi mi fece cenno di seguirlo. «Guardi!» disse lui sollevando i rami secchi. Là sotto c’erano quattro o cinque caprioli, stretti l’uno accanto all’altro, congelati, gli occhi vitrei. «Di simili luoghi di rifugio, che sono sempre mortali quando fa freddo come quest’anno, qui ne può trovare dappertutto», disse il pittore. «E io ricordo il tempo in cui, quando veniva la primavera, trascinavo molti caprioli attraverso grandi boschi e ne facevo un mucchio per poi seppellirli con l’aiuto di mio fratello. Spesso sono caprioli già scarnificati dalle volpi, dei quali non resta altro che la testa e lo scheletro».  
 Oggi è arrivata un’altra lettera dall’oste. Probabilmente in quella lettera lui accusa ricevuta del denaro che sua moglie gli aveva mandato su insistenza del suo amante, lo scuoiatore, pensai io. Dopodiché continuai ad andare in giro con quella lettera pensando tutto il tempo a che cosa sarebbe capitato se l’avessi aperta e l’avessi letta. Ma quello sarebbe stato un reato. E cosí mi trattenni dal farlo. La calligrafia dell’oste mise in moto dentro di me tutta una serie di pensieri sulla sua persona e sulla sua vita. Ebbi la sensazione che ogni stato d’animo di quell’uomo non sarebbe mai stato altro che qualche nuova forma di infelicità. E riesco ad immaginare che verrà fatto sprofondare sempre di piú nella sua tristezza e nella sua disperazione, come una barca nella quale giace un uomo svenuto e che venga spinta dalla corrente sempre piú in prossimità dell’abisso... All’inizio non riuscivo a spiegarmi perché lo scuoiatore prendesse sempre le parti dell’oste costringendo addirittura la moglie dell’oste a mandargli del denaro, e perché, come so io, prende sempre le parti dell’oste pur essendo l’amante di lei... Ora conosco il perché, anche se non sono capace ad esprimerlo. Continuo a sentir raccontare di come stiano bene i carcerati, ma è impossibile che stiano cosí bene da non considerare come la peggior disgrazia il fatto di essere rinchiusi e non soffrirne terribilmente, ovunque siano e indipendentemente dal motivo della loro detenzione e dalle loro condizioni di vita... In questa calligrafia si riesce a vedere tutta la sua infelicità, la si riconosce subito... Ho continuato a leggere e a rileggere quelle righe girando attorno al fienile. Chissà se l’oste vuole di nuovo qualcosa, pensai. Che cosa mai avrà da scriverle? Lui certamente non sa come lei la pensi sul suo conto né come continui a dir male di lui e a comportarsi in modo ostile nei suoi confronti per non parlare delle infedeltà coniugali di lei delle quali lui è al corrente. Per non parlare dell’esistenza dello scuoiatore. Un destino terribile. In preda all’emozione vado al cimitero per cercare la tomba dell’operaio ammazzato dall’oste. Vado di qua e di là, poi mi trovo davanti a una montagnola coperta di neve, c’è una croce conficcata in terra. Ma non c’è il nome. Nulla. Dev’essere quella, penso io. Me ne stavo lí e mi veniva da piangere. Sí, piansi. Piansi! E poi entrai rapidamente in chiesa ma con quel freddo dentro alla chiesa e in quel silenzio insensato non riuscivo a trovar pace e ritornai al cimitero. Tutt’attorno i tetti. Case dalle quali saliva il fumo. Stavo malissimo. Allora incontrai lo scuoiatore che arrivava dalla canonica con pala e arpione e mi veniva incontro tra le tombe. A quanto pare mi aveva visto. Mi domandò che cosa stessi cercando in quel posto; disse che era una cosa davvero insolita incontrare qualcuno a quell’ora al cimitero. Che non cercavo nulla, dissi io. Ero completamente confuso. Non potevo certo domandargli se quella montagnola celasse davvero la tomba dell’operaio. «No, – dissi io, – non cerco proprio nulla». Io poi ero anche molto turbato. Allora corsi verso la locanda con la lettera in mano e la diedi alla moglie dell’oste. Vidi la moglie dell’oste che in cucina stava mettendo insieme dei viveri, lardo salame mele caffè, ammucchiando tutto quanto sulla credenza. Di tanto in tanto s’avvicinava ai fornelli o andava in sala da pranzo e ritornava tutti i momenti in dispensa perché continuavano a venirle in mente cose che avrebbe potuto aggiungere ai viveri che si trovavano già pronti sulla credenza. Aggiunse anche un sacchetto di carta azzurra con dentro dei cubetti di zucchero. Io mi trovavo in cucina perché aspettavo che fosse pronta l’acqua che lei aveva messo a scaldare per me sul fornello. Poi scomparve per un po’ nella sua camera da letto e quando ritornò aveva in mano un paio di calze di lana di suo marito e le aggiunse ai viveri: «La sua acqua sarà pronta tra poco», disse. Allora io la osservai mentre sistemava in una grossa scatola il mucchio di cose che aveva radunato. «Non ha mica visto lo scuoiatore?», domandò lei. «No, – dissi io. – Aveva detto che sarebbe venuto a prendere la roba per portarla alla posta». Avvolse lo scatolone in un grande foglio di carta da pacchi, lo legò stretto con un grosso spago, una vecchia corda stendipanni. «Questa roba deve essere portata alla posta oggi stesso, – disse lei. – Si tratta di una cosa urgente». Dentro a grosse pentole teneva sul fuoco il pranzo non ancora pronto. Con un grande cucchiaio di legno rimestava ora in una ora nell’altra pentola. Aggiungeva grossi ceppi. «Se il pacco venisse portato alla posta immediatamente la slitta potrebbe ancora caricarlo». Sarebbe costato molto spedire quel pacco? «No, – dissi io, – non costa molto». La direttrice delle poste in passato era stata sua amica e per anni aveva mangiato alla locanda. «Ma i nostri mariti ci hanno divise», disse lei. La direttrice delle poste s’era divisa dal postino e cinque anni fa aveva sposato un operaio della fabbrica di cellulosa. «Doveva andare a finir male per forza, – disse lei. – Io quello non lo avrei mai sposato». In quel momento entrò lo scuoiatore con lo zaino sulle spalle. Era un bene che lei avesse già preparato il pacco perché lui stava per andare all’ufficio postale. «Non posso mandargli piú di questo», disse lei. Lui prese un’aria stupita, perché il pacco era cosí grande. «Non avevo una scatola piú piccola, – disse lei. – Ho aggiunto anche le sue calze di lana». Andò in dispensa e ne uscí con del lardo di cui tagliò una fetta che mise sopra un pezzo di pane. Lo scuoiatore avrebbe dovuto mangiarlo. Lui si mangiò l’intero pezzo di pane col lardo. A me disse: «La sua acqua ormai sarà certamente calda». M’ero completamente dimenticato dell’acqua. Ritirai la brocca dal fuoco e tornai in camera mia. Pensai che l’oste probabilmente aveva scritto per farsi mandare altri viveri. E le calze di lana. E che certamente prima della spedizione del pacco c’era stata un’altra discussione tra la moglie dell’oste e lo scuoiatore. Lo scuoiatore faceva fatica a portare il pacco.  


















Diciottesimo giorno 





 «Potrei perforare la punta delle mie scarpe, Le è chiaro questo? Potrei farlo. Ma non voglio. Non ne ho la forza. Io non perforo la punta di queste mie scarpe. Sarebbe soltanto un assurdo spreco di energie. Io ora aspetto la fine, sa? Cosí come anche Lei aspetta la Sua fine. Come tutti aspettano la propria fine. Solo che loro non sanno che aspettano ciò che io sto aspettando da sempre: la fine!» Lui mi fa pensare a un cantore che tutt’a un tratto sia costretto a parlare nella navata centrale di una chiesa. «La mia fine mi libera! Me e la mia persona! Tutto ciò che esiste soltanto grazie a me!» Come riflessa dalle pareti di una chiesa ritorna l’eco di ogni singola frase. «È questa la cosa incredibile!» E poi: «Vago, tutto è vago! Ma io non vorrò mai esprimermi in modo preciso! E che cosa vi è di preciso?... Riesco a immaginare quanto sia difficile trovarlo in mezzo a tutte queste concatenazioni, omissioni, peccati d’omissione, accumuli, obblighi, condanne... No, questo io non lo pretendo! Non pretendo piú nulla. Nulla. E da nessuno!... Una situazione come quella in cui mi trovo io ora non se la immagina nessuno. Naturalmente anch’io non so nulla. È vero. Ma io La sto importunando... anche nella Sua vita nulla è facile, lo so, eppure tutto è molto piú facile che nella mia. Tanto per cominciare, – disse lui, – Lei ha tutte le possibilità. E poi Lei si entusiasma per molte cose. Per le cose piú banali! Lei ha anche sviluppato una serie di belle qualità, qualità che vediamo svilupparsi ovunque, con maggiore o minor destrezza, spesso in modo brutale, poi di nuovo con timore, con timidezza da verginella. Si sa fare questo o quello e si ha la testa piena di ogni sorta di piani, di direzioni, l’intera rosa dei venti. Tutto sommato si pensa che tutto ci sia concesso e che si sappia far qualsiasi cosa! Crediamo di trovarci in un circo nel quale, poiché siamo tanto dotati e tanto amati, a seconda del bisogno possiamo impersonare tutti i ruoli di tutti i componenti del circo: sappiamo fare tutti i giochi di prestigio, anche quelli piú complicati, persino i colpi di magia, anche quelli piú comuni. Ci si crede senz’altro capaci di danzare sulla corda, di cavalcare molto a lungo e molto in alto sopra l’abisso, lassú dove l’aria è già completamente rarefatta... capaci di ficcar la testa nelle fauci della belva per farcela poi restituire sbuffando... di saltare... di fare il buffone... ci si crede capaci di tutto questo e si è anche del parere, anzi profondamente convinti di essere persino il direttore di tutto quanto... il direttore del circo: per farla breve, non vi sono limiti perché non ne conosciamo. Ed è la mancanza di limiti e la fatale inconscia convinzione di possedere proprio tutte le qualità specifiche di ogni personaggio... finché un giorno sopraggiunge la prima idea e poi una seconda idea, una terza, una quarta idea... un’idea dopo l’altra... infine centinaia, migliaia, molte migliaia di idee: e allora ecco i pittori, i giornalisti, i guardiani delle prigioni, i prigionieri, i poliziotti, i filosofi... eredi, mucca, coda, ministro, direttore, Lei capisce... sino a che alla fine non si è piú convinti di niente... ecco com’è... perché in fin dei conti non si possiede altro che gli stati del proprio carattere, non un carattere... come tutto quanto fa presto a sfociare nel nulla, in una vita senza arte né parte di uno ignorante, spostato, dimenticato da tutti, ridotto infine a uno stato simile alla demenza... e non esiste nulla all’infuori delle opinioni, – disse lui, – e non vi è nulla che sia piú profondo ma neppure meno profondo del piú grave errore».  
 L’esistenza è abituata ai torrenti in piena, ma talvolta se ne dimentica e si fa trascinar via dalla corrente. «Ma è pur sempre un’esistenza», disse il pittore. Una volta, molti anni prima, era stato a Weng con sua sorella, «contro la volontà di lei. Lei odiava quella regione. Fu durante la guerra». Quella valle per loro due diventava sempre piú un luogo di rifugio segreto. «In confronto a quel tempo io ora sono indifeso». Un bambino di sua sorella, di cui a quell’epoca l’aveva messa incinta un apprendista fontaniere «dietro al muro della chiesa», era morto poco dopo un parto regolare. «Nessuno sa perché fosse morto all’improvviso». Lei non riuscí mai a superare quella morte, anche perché sua sorella non aveva nulla contro quel bambino, «lei quell’attesa, iniziata senza tante storie, per cosí dire all’improvviso e praticamente dal nulla, l’aveva vissuta come un evento felice. Tant’è vero che dopo esser rimasta incinta mi parve che avesse acquisito dei tratti gentili che prima non aveva mai avuto. Improvvisamente in mia sorella s’era manifestato un lato selvaggio sino allora represso. Mentre mangiava. Quando la incontravo a passeggio. Una volta nell’oscurità. Lo si notava quando diceva “buona notte”. In seguito il padre di suo figlio era finito in carcere proprio a causa della sua precocità sessuale. E infine, coinvolto in numerosi stupri, non era riuscito a evitare il nodo scorsoio. Era nativo di Goldegg. A quell’epoca non aveva ancora sedici anni. Ma era robusto come tutti i ragazzi di quassú. Attraversano la montagna e spaccano tutto. Era una calda giornata di primavera. Mia sorella come molte altre volte stava attraversando il cimitero. Si udiva la guerra dietro le pareti di roccia. La casa di correzione lo inghiottí, lo sbatacchiare degli zoccoli dei detenuti nel penitenziario di Garsten gli pareva una marcia militare. Ho una sua fotografia. Nel corso degli anni venni a sapere diversi particolari sul suo conto e fra questi che aveva generato altri cinque bambini: tutti questi figli ora se ne vanno in giro da qualche parte e vivono con i contadini. Abitano in casa di lavoratori. Chissà dove. Di tanto in tanto la natura non vuole altro che misurare le proprie forze tra due persone che non sanno perché all’improvviso si trovino insieme, perché tutt’a un tratto si appartengano: si tratta di una forza bruta che improvvisamente, favorita dalle condizioni atmosferiche, per raggiungere i propri scopi mette fuori uso la ragione i sentimenti e tutte le idee. Spesso invece a colpire non è altro che l’astuzia animalesca».  
 Ritornò ancora una volta all’epoca in cui era maestro supplente. «In tutta la mia vita non ho odiato nulla piú dei maestri. I maestri che mi son sempre parsi la quintessenza di ogni stupidità disciplinata, quella che ti fa sempre stare sul “chivalà” e che ti s’infila sin dentro alle mutande. La quintessenza della ridicolaggine che diventa un pericolo pubblico e perdipiú accampa grandi pretese. Poiché Lei deve sapere che i maestri accampano sempre grandi pretese, pretese che superano di gran lunga quelle di chiunque altro. Detestavo a tal punto l’esistenza dei maestri che piantavo semplicemente in asso quelli tra i miei simili e compagni di strada lungo un tratto della mia vita, che erano diventati maestri. Ed ecco che all’improvviso diventai maestro supplente! E per mia propria iniziativa! Provi un po’ Lei a immaginare: che cosa mai dentro di me aveva raggiunto il limite estremo? Ma poi da quella vergogna ne venni fuori... Il maestro è la bocca di un’intera generazione. E vede: le peggiori calamità le dobbiamo proprio ai maestri. La guerra, l’ingiustizia. Naturalmente io non ero un maestro “regolare”, anche perché non percepivo un regolare stipendio. Non ero un maestro nel vero senso della parola. Ero un maestro supplente occasionale. Ma poi mi sottrassi a quell’orrore». Tutt’a un tratto era diventato maestro supplente proprio come altri – era capitato anche a lui anni prima – diventano manovali. Non c’è quasi differenza tra maestro supplente e manovale. L’unica differenza: il manovale lavora quasi sempre all’aria pura, il supplente nell’aria viziata. Il supplente deve insegnare numeri e cifre, il manovale deve trasportar secchi d’acqua e sacchi di cemento per preparare la malta. Il supplente deve star attento a non cascar giú dalla sua cattedra di supplente, il manovale a non cascare in strada dal terzo o dal quarto piano. «Il supplente è un essere cosí miserabile che i maestri di ruolo guardano dall’altra parte quando il supplente gli passa accanto. Fanno capannello in corridoio e s’avvicinano talmente l’uno all’altro con le braccia incrociate dietro la schiena, che per il supplente non c’è posto in mezzo a loro. Se il supplente vuol saper qualcosa deve rivolgersi al direttore, perché i maestri di ruolo non rispondono alle sue domande. “Ora che io parto, – dicono i maestri di ruolo ai loro alunni che stanno per abbandonare, – verrà un supplente”. Non dicono: “Verrà un altro maestro...” E cosí dicendo rovinano ogni cosa al supplente. Ai supplenti per esempio è proibito portare il camice bianco da maestro. Tutt’al piú il supplente può mettersi le soprammaniche. Per mia natura io non mi sarei mai messo un camice da maestro. Meno che mai le soprammaniche. I supplenti non ricevono neppure dei sussidi per completare la loro formazione». Durante gli intervalli non sapeva mai dove andare poiché i maestri di ruolo lo «ignoravano». «Il sindacato dei maestri supplenti vuole intervenire per migliorare le condizioni in cui son costretti a vivere i maestri supplenti. Ma piú il sindacato si dà da fare con i suoi metodi maldestri e peggio stanno i maestri supplenti. Perché il sindacato dei maestri di ruolo è una potenza molto superiore».  
 Oggi ho scritto per la quarta volta all’assistente benché io non abbia mai ricevuto risposta alle mie tre lettere precedenti. Faccio un confronto tra il pittore Strauch e il chirurgo Strauch. Sia di fuori che di dentro i due corrispondono a due concezioni del mondo diametralmente opposte. Sono due mondi opposti. Diversi, come siamo diversi io e suo fratello. Diversi, fatti di pasta diversa. Il chirurgo cui piace essere un uomo di successo. Che non sa cosa sia la disperazione oppure semplicemente non permette che essa gli si avvicini. Oppure la lascia avvicinare solo fino al grado in cui ancora non scatena il dolore. Certamente è preoccupato per la vita di suo fratello. Ma soltanto per cattiva coscienza. Il suo cuore non palpita per lui.  
 Un’attività che lo assorbe completamente, giorno e notte, la sua chirurgia, che inoltre gli procura già una notorietà locale, che non gli consente di riflettere piú a fondo, come sanno e amano fare gli uomini senza una professione e che perciò sono quasi sempre occupati con se stessi. In sala operatoria non si riflette, si agisce soltanto. Poi si mangia, si dorme, tutt’al piú talvolta ci si concede qualche distrazione tra una attività e l’altra. Pochissimi divertimenti. Pochissimi svaghi. Niente sbalzi di umore. E perciò niente malinconia. Niente tormentosi ricordi. Niente donne. Si gioca al totocalcio. E laggiú in cortile si fa del tennis per combattere quelle tracce di grasso che non vogliono piú andar via. Niente corrispondenza epistolare. All’infuori della letteratura specialistica come, per esempio, il libro su «La composizione delle caratteristiche del disfacimento tessutale nello strato interno sottocutaneo» oppure su «La ricerca oncologica in America», non si legge nulla. Si tengono lontani gli invidiosi, gli imitatori e gli ammiratori. Si discute di cancro, di malattie polmonari, di distrofia muscolare, di convulsioni, di emboli, di focolai d’infezione. Si beve vino. Alle suore si parla sussurrando. Alle infermiere della sala operatoria e ai praticanti ci si rivolge in tono di comando, tutt’a un tratto durante un’operazione bisogna ricucire i morti, spingerli fuori e poi «lavarsene le mani».  
 Capita che abbia conseguenze mortali qualcosa che non avrebbe dovuto avere conseguenze mortali. Capita piú spesso di quanto non si creda. Fuori dai muri dell’ospedale. Non trapelano mai notizie che potrebbero aver ripercussioni disastrose. Lui, l’assistente, sa come si parla con il primario, con il tale e con il talaltro, con i pazienti. Riesce a dar subito del tu alla gente, ma questo non significa gran che. Dicono che ha la mano ferma. Lo dicono anche i colleghi della sala operatoria. Che è piú abile nel tagliare che nel ricucire. Che è audace. Rapido nel decidere in situazioni nelle quali gli altri perdono tempo. Quando uno muore non lo interessano piú le cause della sua morte. Appassionato di caccia, è nemico di quell’interregno che è l’arte. L’attività di suo fratello gli faceva orrore. Il suo lato accademico aveva continuato ad accentuarsi. Odia l’estetica. Odia anche i sogni. Sembra uno che non ha mai sofferto. Quando esce dall’ospedale in lui si può notare una superbia da atleta. La domenica va in Chiesa. Ma si guarda bene dall’avere una fede che superi ciò che viene prescritto a un osservante. I comunisti vanno a trovarlo perché lui non ha mai deriso i comunisti. Si dice che le sue operazioni sono «spettacolari», proprio quel che ogni medico col tempo desidera. S’è sparsa la voce che per lui la terapia non è piú nulla di complicato. Durante le operazioni afferra gli strumenti con gesti magnetici. Il primario gli ha già ceduto il posto. A me rivolge grandi complimenti. Perché mai? Bisogna dire che il suo modo di adoperare il bisturi è quello di un grande artista. Non è soltanto un modo ingegnoso. Lui si porta le anamnesi in camera sua dove la luce rimane accesa anche fino alle due di notte. Alle sette è già in piedi. Lo si sente arrivare. Si odono i suoi passi in corridoio. Dalla sua bocca sono persino uscite osservazioni come queste: «Scoprire le cause del fantastico nella fantasia», oppure: «La parola mansuetudine che ricorre continuamente». Non è un sognatore. Non è un guastafeste, poiché non partecipa a nessuna festa. È una montagna? Per me, sí. Luoghi che nessuno ha mai visto, dove nessuno ha mai abitato. Sfondi che sono distese aperte. Il chirurgo, l’uomo capace. Il pittore, suo fratello, l’incapace, penso io.  
 Quando si levò il cappello scoprii una ferita sulla sua testa. Di notte s’era perso e aveva battuto la testa contro una trave. «Mi trascinavo carponi senza sapere dove andavo. Quando tentai di alzarmi andai a sbattere la testa contro una trave di legno». Non riesco ad immaginare che cosa possa esser stata la notte che lui aveva trascorso in quel modo. La paura di diventare 
«completamente pazzo» l’aveva indotto a precipitarsi fuori dalla stanza, «in preda alla disperazione, tra le tre e le quattro del mattino». Vestito alla bell’e meglio prima era sceso giú per le scale, poi era entrato in cucina, poi in sala da pranzo, per cercarsi qualcosa da bere, «ma lei aveva chiuso a chiave tutto». Poiché spesso le erano sparite bottiglie di birra e di sidro, la moglie dell’oste ora già da parecchio tempo chiude a chiave tutto. Dei clienti una volta avevano persino spillato la birra da una botte svuotandola quasi completamente. «Non ho trovato nulla. Né in cucina né in sala da pranzo», disse lui. Aveva pensato di andare in cantina, ma mentre stava scendendo gli venne in mente che lei chiudeva sempre a chiave anche la cantina. «Come Lei sa, la moglie dell’oste porta sempre con sé le chiavi della cantina». Poi era tornato su e tutt’a un tratto aveva perduto il senso dell’orientamento. «Non osavo piú accendere la luce. Se accendo la luce sveglio tutti. No, non accendo la luce... Probabilmente, restando carponi, ho girato in tondo un paio di volte». La ferita alla testa si era formata molto in fretta. Tutt’a un tratto scoprí che aveva del sangue caldo in una mano e che s’era imbrattato il vestito. «Anche il pavimento... Di mattina scesi per primo e lavai le macchie di sangue che avevo lasciato ovunque. Persino le porte ne erano imbrattate. Anche le pareti». Come avesse fatto a ritornare su in camera sua, lui non riusciva piú a ricordarlo. «Non appena arrivai su piombai subito sul letto. Fortunatamente però mi svegliai di nuovo prima delle cinque in modo da poter rimettere in ordine tutto. Se lo immagina Lei, se la moglie dell’oste avesse scoperto le mie macchie di sangue!... Soltanto dopo tornai su a lavarmi. Poiché mi ero disteso nel letto cosí com’ero con i vestiti addosso, ero semplicemente troppo stanco per spogliarmi, – avevo macchiato di sangue anche il letto. Ma questo non era nulla di insolito. Spruzzai un po’ d’acqua calda sulla ferita, cosa che mi fece bene. Poi infilai anche i piedi nella bacinella dell’acqua. I dolori si attenuarono. Non sentivo piú tutto quel bruciore. Quella notte continuai ad avere la sensazione di dovermi nascondere davanti a qualcosa di terribile». Era andato alla finestra, aveva aperto le tende e guardato fuori. «Mi parve di trovarmi dentro a un acquario nel quale l’acqua si fosse congelata. Tutto dentro all’acquario era congelato. I tronchi d’albero. I cespugli. Tutto. Congelato dentro a un blocco di ghiaccio biancastro, cosí trasparente che io riuscivo a vedere sino alle pareti di roccia. Alla minima scossa, per esempio quando udivo un respiro, nell’enorme blocco di ghiaccio nel quale s’era trasformata la terra, si formavano migliaia e decine di migliaia di crepe». A quella vista lui si era spaventato. «Dovetti distogliere lo sguardo, tanto ero affascinato... Tornai alla bacinella, immersi nell’acqua il mio fazzoletto col quale poi mi fasciai la testa. Quando ritornai alla finestra la visione era scomparsa. Non c’era piú ghiaccio. Le cose non erano piú irrigidite. All’improvviso tutto si muoveva, viveva. E questo era ancora molto piú inquietante». Allora si mise a sedere sul letto e, semplicemente per distogliere il pensiero da ciò che aveva visto, cercò di pensare a qualcosa di lontano nel tempo – «a qualcosa di gradevole» –. A un momento bello. A un solo momento bello. «Ma non ne trovai. Se nella mia memoria avessi potuto veder passare anche una sola immagine lieta! Ma niente, non vi era la benché minima cosa che servisse a distrarmi. Tutto quel che mi riuscí di fare fu di respirare in modo stentato».  
 Il mattino dopo la sua ferita alla testa s’era rimarginata. Lo osservai mentre si sedeva a far colazione. S’era rimarginata come in un uomo sano. S’era rimarginata come fosse stata ricucita con dei fili invisibili. Il pittore aveva trascorso la notte intera a meditare su se stesso ed era giunto alle conclusioni piú disparate, ma a dire il vero «tutte insoddisfacenti». Si può osservare se stessi da molti lati. Dalla superficie. Dall’interno. «Dagli abissi piú profondi di se stesso», da «migliaia di angoli ottusi e acuti». Ciò che si vede è un cosí misero spettacolo. E allo stesso tempo è uno spettacolo che incute paura. «L’uomo che si contorce come un verme in tutti gli specchi in cui è costretto a guardarsi». La ferita alla testa che ora stava guarendo lo aveva stimolato a riflettere sulle malattie umane. Sulle malattie umane del corpo e sulle malattie umane di tutto il resto. «Di che cosa son fatte le malattie?» s’era domandato. «È vero che nascono all’improvviso? Non esistono già sin dall’inizio? Da dove vengono se non ci sono sempre state? Quando può dirsi che diventano visibili? E quando che sono invisibili? Quando e dove? Là, dove scoppiano all’improvviso? Che cosa vuol dire “sin dall’inizio”? Dov’è questo inizio?» Aveva attraversato un tratto del campo di granoturco. «Avevo la sensazione che la mia ferita alla testa fosse carica d’elettricità, – disse lui. – Meditai sul legame che intercorre fra tutti i dolori. Ma improvvisamente mi passò la voglia di pensarci, forse perché contro la mia volontà s’erano fatte strada certe riflessioni raccapriccianti. Diventano sempre piú forti. Tutt’a un tratto mi avevano messo fuori combattimento. Ancora una volta mi resi conto di quanto fosse insensato abbandonarsi completamente a un flusso di pensieri, nella convinzione di non doverci morire come in un tunnel. Di non doverci morir soffocati».  
 «Come se dappertutto si aprissero continuamente delle porte, – disse lui. – Uomini e parvenze di uomini, la mia sconfitta tutta intera mi viene addosso da tutte le parti. Continuo a mandar via intrusi. Brandelli di ricordi del tempo in cui mi ero dedicato a tentativi che venivano annientati da altri tentativi simili, ma piú forti. Oggi ho piú volte pensato alla mia pittura. Ho visitato tante mostre. Ho sfogliato cataloghi nel ricordo. Amici mi hanno fatto visita. Si son seduti accanto a me per oltre un’ora. 
Improvvisamente appare il mio studio di pittore. E con esso delle conversazioni tra fantasmi. Tutt’a un tratto: gli abbigliamenti assurdi indossati soprattutto dalle donne che stavano in agguato sulle mie poltrone. Giovanotti distesi al buio con addosso pantaloni stretti. Vegliardi che con il loro denaro cercavano di comprarsi la considerazione, l’arte. Il mondo è semplice. Vidi le mie finestre gremite dal malessere di persone che non sanno dove vogliono andare né da dove sono venute. Tentativi fatti da migliaia di esse per realizzare i loro ideali restavano impigliati tra i vetri delle mie finestre mentre il fumo delle sigarette saliva in alto. Per anni ho avuto orrore di quelle serate. Di quei mattini. Di quelle notti che tra le sere e i mattini si trascinavano come lussuria filosofica incapace di movimento. Come una carne che attraversi un’altra carne. Se interloquivo tutto si sgretolava come se fosse putrefatto e poi si sollevava come polvere. Non dovevo mai urtare contro nulla. I giovani venivano per inveire contro i vecchi. I vecchi per inveire contro i giovani. Tutto mi veniva addosso come un turbine e lasciava dietro di sé la disperazione. Improvvisamente rividi il particolare di un paesaggio che avevo dipinto l’estate scorsa: un verde che aveva la meglio sul blu. Violento. Tutto mi parve simile a dei cavalli ridiventati selvaggi decenni dopo esser stati domati. E poi una mano che non voleva sottomettersi. Che non voleva vivere, benché in fin dei conti fosse costretta a vivere. Tutto molto spiritico, capisce. Col profumo di caffè e col sentimentalismo che esalava dalle fantasie prodotte dal vino. Oramai incapace di fare una cosa qualsiasi. Tediato persino dal sonno. “Un capolavoro!” si sentí gridare e il grido durò per qualche attimo. Ma solo per qualche attimo, capisce. Un paesaggio fluviale, una devastazione, una città di martiri. Un personaggio famoso ne tradiva un altro davanti a occhi che vedevano piú chiaro di quanto non convenisse. Tutto era fantasmatico anche perché l’irraggiungibile poteva venir soffocato con tanta facilità. Eroismo frustrato dai rimproveri, capisce. Snobismo trasformato per necessità in una rete di menzogne. L’uomo piú insignificante è in grado di prendere decisioni che di solito spettano soltanto ai re. Attorno a me s’era riunita un’intera generazione di usurpatori formata da tre quattro cinque sei persone in cerca, come me, di ciò che è straordinario, che erano precipitate nell’indigenza dei loro sentimenti. Roma veniva trattata come un boccale di birra rapidamente svuotato. All’idea di gloria veniva associata la caducità del mondo esterno, la grandezza di piante esotiche fatte crescere allo stato selvatico dietro a muri di giardini alti come case, di modo che si fosse costretti a vedere che cosa si stesse lacerando e in quale modo: bisogna esser capaci di tutto in questo universo stellato. Improvvisamente la gente sparí, sparí anche l’arte, lontano da me, dal mio studio di pittore, sparí anche lo studio, tutto sparí e mi lasciò solo con me stesso a fare grandi passi tranquilli, anche soltanto per pochi attimi nei quali non riuscii a compiere piú di quindici venti passi. Senza essere terrorizzato».  

Diciannovesimo giorno