TROPPA FELICITÀ
Alice Munro
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Wenlock Edge
Buche-profonde
Radicali liberi
Faccia
Certe donne
Bambinate
Legna
Troppa felicità
Ringraziamenti
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Doree doveva prendere tre autobus: uno fino a Kincardine, lí aspettava il secondo per London, e lí di nuovo aspettava quello urbano fino alla struttura. Si mise in viaggio alle nove di una domenica mattina. Dati i tempi d’attesa fra un mezzo e l’altro, prima delle due circa non avrebbe percorso le cento e rotte miglia di strada. Stare tanto seduta, sia in pullman, sia nelle stazioni, non le sarebbe dovuto pesare. Il suo lavoro di tutti i giorni non era certo di tipo sedentario.
Faceva la cameriera al Blue Spruce Inn. Lustrava bagni, cambiava lenzuola, passava l’aspirapolvere sui tappeti e puliva specchi. Era soddisfatta di quel lavoro: entro certi limiti le teneva la mente occupata e la stancava tanto da lasciarla dormire, la notte. Di rado le succedeva di dover rimediare a veri e propri disastri, anche se alcune colleghe raccontavano storie da far rizzare i capelli. Erano tutte piú vecchie di lei, e tutte convinte che Doree dovesse cercare di farsi strada. Le dicevano che doveva impratichirsi e puntare a un lavoro dietro una scrivania mentre era ancora giovane e di bell’aspetto. A lei però stava bene quel che faceva. Non le andava di dover conversare.
Nessuna delle persone con cui lavorava era al corrente dell’accaduto. O, se lo erano, facevano finta di nulla. C’era stata la sua foto sul giornale: avevano messo quella con i tre bambini che le aveva scattato lui, il piccolo Dimitri in braccio, e Barbara Ann e Sasha su ciascun lato, con gli occhi fissi all’obiettivo. Doree al tempo aveva i capelli lunghi e mossi, castani e ondulati naturali, come piacevano a lui, e la faccia morbida e schiva, non tanto lo specchio della vera Doree, quanto di quella che lui voleva vedere.
Da allora, si era tagliata i capelli, li aveva decolorati e li portava corti e a ciocche ispide, e aveva anche perso parecchi chili. Si faceva chiamare con il suo secondo nome, adesso: Fleur. Non solo: l’impiego che le avevano trovato era in una cittadina a una discreta distanza da dove viveva allora. Era la terza volta che faceva quel viaggio. Le prime due, lui si era rifiutato di incontrarla. Se l’avesse fatto di nuovo, avrebbe smesso di provarci. E se anche avesse accettato di vederla, probabilmente non sarebbe tornata per un po’. Non voleva esagerare. A essere sinceri, non sapeva bene cosa avrebbe fatto.
Sul primo autobus non fu particolarmente agitata. Viaggiava e basta, guardando il panorama. Era cresciuta sulla costa, dove esisteva una cosa chiamata primavera mentre da quelle parti l’inverno precipitava quasi senza soluzione di continuità nell’estate. Un mese prima c’era ancora la neve, e ora faceva abbastanza caldo da andare in giro sbracciati. Nei campi restavano abbaglianti pozze d’acqua, e il sole picchiava attraverso i rami spogli.
Sul secondo autobus cominciò a sentirsi nervosa e non poté fare a meno di chiedersi quali delle donne che aveva intorno potessero andare dove andava lei. Erano sole, perlopiú vestite con una certa cura, magari per dare l’impressione di essere dirette in chiesa. Le piú anziane sembravano membri di severe congregazioni all’antica, di quelle che impongono la sottana, le calze e il capo coperto, mentre le piú giovani potevano forse far parte di comunità piú aperte, disposte ad accettare tailleur pantalone, foulard a colori squillanti, orecchini e acconciature vaporose.
Doree non rientrava in nessuna delle due categorie. Per l’intero anno e mezzo da quando era stata assunta non si era comprata niente di nuovo da mettersi addosso. Stava in divisa al lavoro, e in jeans tutto il resto del tempo. Aveva perso l’abitudine di truccarsi perché lui non lo permetteva e, adesso che avrebbe potuto, non lo faceva comunque. Le ciocche ispide color granoturco stonavano con il suo viso ossuto e scialbo, ma non aveva importanza.
Sul terzo autobus si trovò un posto accanto al finestrino e cercò di mantenersi calma leggendo i cartelli – sia pubblicitari, sia stradali. Aveva escogitato un giochetto per tenersi la mente impegnata. Prendeva le lettere di qualunque parola su cui le capitasse di posare lo sguardo e cercava di stabilire quante parole diverse sarebbe riuscita a cavarne. «Gelati», ad esempio, dava «tela», «lega», e poi «lite» e «tale» e «alti» e «lati» e «lieta», mentre «bottega» produceva «botte» e «toga» e «gatto» e «botta» e – aspetta un po’ – anche «getto». C’era scorta abbondante di parole in uscita dalla città, fra tabelloni, megastore, parcheggi, perfino palloni aerostatici ormeggiati sui tetti a scopo pubblicitario.
Doree non aveva detto niente a Mrs Sands dei due tentativi passati, e con ogni probabilità non le avrebbe raccontato nemmeno di quell’ultimo. Mrs Sands, che vedeva tutti i lunedí pomeriggio, parlava del dovere di andare avanti, pur precisando che ci sarebbe voluto del tempo, che non bisognava precipitare le cose. Diceva a Doree che si stava comportando bene, che andava a poco a poco riscoprendo la propria forza.
– Lo so benissimo che sono frasi scontate da morire, – disse, – ma restano comunque vere. Arrossí nel sentirsi pronunciare quel «da morire», e tuttavia evitò di peggiorare la situazione scusandosi.
All’età di sedici anni – vale a dire sette anni prima –, per qualche tempo Doree era andata tutti i giorni dopo la scuola a trovare sua madre in ospedale. Era in convalescenza dopo un intervento alla schiena definito serio ma non pericoloso. Lloyd lavorava lí come inserviente. In comune con la madre di Doree, Lloyd aveva un passato da hippy, pur essendo in effetti piú giovane di qualche anno, perciò tutte le volte che aveva un po’ di tempo libero si presentava in camera e si metteva a chiacchierare con lei dei concerti e delle marce di protesta alle quali entrambi avevano partecipato, della gente strepitosa che avevano conosciuto, dei trip piú pazzeschi che si erano fatti con la droga e altre cose del genere. Lloyd era amato dai pazienti per via delle sue battute scherzose e perché li sapeva prendere con mani forti e sicure. Era largo di spalle, ben piantato e abbastanza autorevole da essere scambiato a volte per un dottore. (Non che la cosa lo lusingasse, peraltro: a suo giudizio, gran parte della scienza medica era una truffa e tantissimi medici, degli emeriti coglioni). Aveva la carnagione rossastra e delicata, i capelli chiari e lo sguardo audace.
Baciò Doree in ascensore e la paragonò a un fiore del deserto. Subito dopo rise da solo, commentando: – Come mi sarà uscita, questa?
– Magari sei un poeta, e non lo sai, – ribatté lei, per essere cortese.
Una notte, sua madre morí all’improvviso, per un’embolia. Aveva un mucchio di amiche che sarebbero state disposte a prendersi in casa Doree – e per un certo periodo in effetti si trasferí da una di loro –, ma il nuovo amico, Lloyd, era quello che preferiva. Prima di compiere diciassette anni, Doree si ritrovò incinta, e poi sposata. Lloyd non si era mai sposato prima, pur avendo almeno un paio di figli sparsi chissà dove. A quel punto, comunque, dovevano essere grandi. Invecchiando, la sua filosofia di vita era cambiata: ora credeva nel matrimonio e nella fedeltà, ed era contrario al controllo delle nascite. Inoltre trovava che la Sechelt Peninsula, dove lui e Doree risiedevano, fosse troppo affollata di gente ormai: vecchi amici, vecchie abitudini, vecchi amori. Di lí a poco si trasferirono dall’altra parte dello stato, in una località che avevano scelto dal nome sulla carta geografica: Mildmay. Non abitavano nemmeno in paese; affittarono una casa in aperta campagna. Lloyd trovò lavoro in una fabbrica di gelati. Si fecero un orto. Lloyd sapeva tante cose sulla coltivazione degli ortaggi, nonché sulla carpenteria domestica, sul funzionamento di una stufa a legna e sulla manutenzione di una vecchia auto.
Venne al mondo Sasha.
– Normalissimo, – disse Mrs Sands.
– Ah sí? – disse Doree.
Doree si sedeva sempre sulla sedia a schienale rigido che stava di fronte alla scrivania, anziché sul divano con i cuscini, rivestito di stoffa a fiori. Mrs Sands spostava la propria sedia a fianco della scrivania, di modo che potessero parlarsi senza barriere di sorta.
– In un certo senso mi aspettavo che succedesse, – disse. – Credo che al suo posto avrei potuto fare la stessa cosa.
Mrs Sands non si sarebbe espressa in questi termini all’inizio. Anche solo un anno prima sarebbe stata piú cauta, sapendo che al tempo Doree si sarebbe ribellata al pensiero che chiunque, un’anima viva qualsiasi, potesse presumere di mettersi nei suoi panni. Ormai invece era sicura che avrebbe preso quelle parole come un semplice tentativo, peraltro sommesso, di capire.
Mrs Sands non era come certe altre della categoria. Non era energica, non era magra, non era bella. E nemmeno troppo vecchia. Aveva grossomodo l’età che avrebbe avuto la madre di Doree, anche se non dava l’idea di essere mai stata una hippy. Teneva i capelli grigi tagliati corti e aveva un neo sporgente su uno zigomo. Portava scarpe basse, pantaloni larghi e bluse a fiori. Anche quando erano color lampone o turchese, quelle bluse non comunicavano l’impressione che a Mrs Sands importasse sul serio di quel che metteva addosso; era piú come se qualcuno le avesse detto che doveva curare il suo abbigliamento e lei fosse disciplinatamente andata a comprarsi qualcosa per obbedire al consiglio. La sua sobrietà, generosa, impersonale e garbata com’era, svuotava quegli indumenti di ogni squillante provocazione, di ogni oltraggio.
– Comunque, le prime due volte non l’ho neanche visto, – disse Doree. – Non ha voluto presentarsi.
– E questa volta, sí? È venuto?
– Sí. Ma io per poco non lo riconoscevo.
– Era invecchiato?
– Mi pare di sí. Credo sia un po’ dimagrito. E poi, quei vestiti. L’uniforme. Non l’avevo mai visto con roba del genere addosso.
– Le è sembrato una persona diversa?
– No –. Doree si morse il labbro superiore, cercando di capire dove fosse la differenza. Lui era cosí immobile. Non l’aveva mai visto tanto immobile. Sembrava non sapesse nemmeno di doversi sedere di fronte a lei. La prima cosa che gli aveva detto era stata: – Non ti siedi? – E lui aveva risposto:
– Si può?
– Era come assente, – disse. – Mi sono chiesta se lo tengono sotto farmaci.
– Può darsi che gli diano qualcosa per stabilizzarlo. Ma guardi che non lo so. Vi siete parlati?
Doree si chiese se si potesse dire di sí. Lei gli aveva fatto qualche domanda idiota, banale. Come stava? (Okay). Gli davano abbastanza da mangiare? (Pensava di sí). C’era un posto dove poteva passeggiare, volendo? (Sí, ma sotto sorveglianza. Lo si poteva chiamare un posto, perché no. Lo si poteva chiamare passeggiare, perché no).
Lei gli aveva detto: – Un po’ d’aria ti fa bene.
E lui: – È vero.
Stava quasi per chiedergli se si era trovato degli amici. Come si fa con un figlio che va a scuola.
Come si farebbe con i propri figli, se andassero a scuola.
– Certo, certo, – disse Mrs Sands, sospingendo la scatola pronta dei kleenex. Doree non ne aveva bisogno; gli occhi, li aveva asciutti. Il problema arrivava dal fondo dello stomaco. Conati.
Mrs Sands si limitò ad aspettare, sapendo bene di non dover intervenire.
E come se avesse intuito quello che stava per chiedergli, Lloyd l’aveva informata che uno psichiatra veniva a parlargli ogni tanto.
– Io gliel’ho detto che perde solo tempo, – aggiunse. – Ne so quanto lui.
Erano state le uniche parole in cui le era sembrato di riconoscere Lloyd, in qualche misura.
Il cuore non aveva smesso di batterle forte per tutta la visita. Pensava di poter svenire, o morire. Le costava una tale fatica guardarlo, ammetterlo dentro il suo campo visivo nella attuale versione di uomo grigio, sottile, freddo eppure esitante, che si muoveva a scatti meccanici ma scoordinati. Tutto questo non l’aveva detto a Mrs Sands. Mrs Sands avrebbe potuto chiederle – con delicatezza – di chi avesse avuto paura. Se di se stessa o di lui.
Ma quella non era paura.
Quando Sasha aveva un anno e mezzo era nata Barbara Ann, e quando Barbara Ann ne aveva due, era arrivato Dimitri. Il nome di Sasha l’avevano trovato insieme; poi si erano messi d’accordo che lui avrebbe scelto quello dei maschi e lei quello delle femmine.
Dimitri era stato il primo a soffrire di coliche. Doree si mise in testa che il suo latte non gli bastasse, che magari non fosse abbastanza nutriente. O magari troppo. Sbagliato, comunque. Lloyd fece venire a casa una signora della Leche League a parlarle. L’unica cosa da non fare assolutamente, le disse la signora, era integrare con il biberon. Quello sarebbe stato l’inizio della fine, aggiunse, e come niente si sarebbe ritrovata con il bambino che rifiutava il seno del tutto.
Non poteva certo sapere che Doree già stava integrando da un po’. E a quanto pareva il piccolo preferiva davvero il biberon: faceva sempre piú storie quando lo attaccava al seno. Al compimento dei tre mesi, era passato al solo allattamento artificiale, e a quel punto non ci fu piú modo di tenerlo nascosto a Lloyd. Gli disse che aveva perso il latte ed era stata costretta a integrare. Lloyd le strizzò con fanatica determinazione prima un seno e poi l’altro, riuscendo a spremerle un paio di gocce di misero latte. Le diede della bugiarda. Litigarono. Le disse che era una troia, come sua madre.
Tutte troie uguali, quelle hippy, disse.
Presto fecero la pace. Ma ogni volta che Dimitri era nervoso, se prendeva un raffreddore, o si spaventava vedendo il coniglio di pezza di Sasha, o si attaccava ancora alle sedie a un’età in cui suo fratello e sua sorella già camminavano senza doversi reggere, tornava a galla la storia del mancato allattamento al seno.
La prima volta che Doree era andata in studio da Mrs Sands, una delle altre donne le aveva consegnato un opuscolo. In copertina si vedevano una croce dorata e una scritta in caratteri viola e oro. «Hai Subíto Una Perdita Intollerabile…?» Dentro c’erano un’immagine di Gesú a colori tenui e una scritta piú piccola che Doree non lesse.
Seduta di fronte alla scrivania, Doree si era messa a tremare con l’opuscolo stretto in mano. Mrs Sands aveva dovuto strapparglielo dalle dita.
– Qualcuno le ha dato questa roba? – domandò Mrs Sands.
– Quella là, – disse Doree, puntando la testa in direzione della porta chiusa.
– Lei non lo vuole?
– Quando uno è a terra subito se ne approfittano, – disse Doree, e si rese conto che la stessa cosa aveva detto sua madre di certe signore venute a farle visita in ospedale, con un messaggio analogo. – Sono convinte che crollerai in ginocchio e tutto andrà a posto.
Mrs Sands sospirò.
– Be’, – disse, – di sicuro non è cosí semplice.
– Non è proprio possibile, – disse Doree.
– No, forse no.
Al tempo non sfioravano mai l’argomento Lloyd. Doree non pensava a lui, potendo evitarlo, e, all’occorrenza, solo in termini di un tremendo incidente di natura.
– Anche se credessi a quella roba, – disse, riferendosi a quanto stava scritto nell’opuscolo, – sarebbe soltanto per… – Intendeva che la fede le avrebbe fatto comodo, perché le avrebbe permesso di immaginare Lloyd tra le fiamme dell’inferno, o qualcosa di simile, ma non riuscí a proseguire, perché era troppo cretino per parlarne. E la conseguenza del consueto impedimento, era che le parole si trasformavano in martellate nella pancia.
Lloyd pensava che l’istruzione dei loro figli dovesse aver luogo in casa. Non per motivi religiosi – per contrastare la storia di dinosauri, uomini delle caverne, scimmie e affini – ma perché voleva che rimanessero accanto ai genitori e che fossero loro a introdurli nel mondo con cautela e poco per volta, anziché scaraventarceli dentro d’un colpo. – Si dà il caso che per me siano figli miei, tutto qui, – disse. – Cioè, sono figli nostri, non del ministero dell’Istruzione.
Doree non era sicura di saper gestire la cosa, ma scoprí che il ministero metteva a disposizione linee guida e programmi disciplinari che si potevano ritirare presso la scuola di zona. Sasha era un bambino sveglissimo e praticamente imparò a leggere da solo, mentre gli altri due erano ancora troppo piccoli per insegnar loro granché. La sera e durante i fine settimana, Lloyd faceva lezione a Sasha sulla geografia e il sistema solare e il letargo degli animali e il funzionamento dell’automobile, passando da una materia all’altra man mano che si presentavano le domande. In breve Sasha si portò in vantaggio rispetto ai programmi scolastici, ma Doree continuò a ritirarli lo stesso e lo fece esercitare secondo le scadenze previste per soddisfare i requisiti di legge.
C’era un’altra madre in zona che non mandava i bambini a scuola. Si chiamava Maggie e aveva un furgoncino. A Lloyd serviva la macchina per andare al lavoro, e Doree non aveva mai imparato a guidare, perciò le fece piacere quando Maggie le offrí un passaggio a scuola una volta alla settimana per consegnare gli esercizi svolti e ritirare quelli successivi. Naturalmente si portavano tutti i bambini appresso. Maggie aveva due maschi. Il maggiore era allergico a cosí tante cose che bisognava fare attenzione a tutto quello che mangiava: ecco perché non lo aveva mandato a scuola. E a quel punto le era sembrato che tanto valeva tenersi a casa anche il piccolo. Voleva stare insieme al fratello e aveva un problema di asma, comunque.
Come si sentí fortunata Doree, paragonandoli ai suoi tre figli sani. Lloyd le disse che dipendeva dal fatto di averli avuti quando era ancora giovane, mentre Maggie aveva aspettato di essere a un passo dalla menopausa. Esagerava sull’età di Maggie, ma era innegabile che avesse aspettato. Faceva l’optometrista. Lei e il marito erano stati soci e non avevano messo su famiglia fino a quando lei non era stata in grado di lasciare il lavoro e avevano potuto comprarsi una casa in campagna.
Maggie aveva i capelli sale e pepe, tagliati cortissimi. Era alta, piatta di seno, allegra e ostinata. Lloyd la chiamava la Biche. Solo alle sue spalle, s’intende. Scherzava con lei al telefono ma intanto faceva segno a Doree con le labbra: «È la Biche». La cosa non dava particolarmente fastidio a Doree – chiamava cosí un mucchio di donne. In compenso temeva che Maggie trovasse le battute di Lloyd troppo confidenziali, una forma d’invadenza, o quantomeno una perdita di tempo.
– Vuoi parlare con la vecchia? Sí, certo. Sta giusto qui davanti a me. Piegata in due sul mastello. Già, sono un autentico schiavista. Te l’avrà detto, no?
Doree e Maggie presero l’abitudine di andare a fare la spesa insieme dopo aver ritirato il materiale a scuola. A quel punto qualche volta si prendevano un caffè da asporto da Tim Hortons e portavano i bambini fino al Riverside Park. Si sedevano su una panchina mentre Sasha e i figli di Maggie scorrazzavano intorno o si arrampicavano alle spalliere, Barbara Ann ci dava dentro a spingersi in altalena e Dimitri giocava nella sabbiera. Oppure restavano sedute nel furgoncino, se faceva freddo. Perlopiú parlavano di figli e delle cose che cucinavano, ma Doree venne a sapere che Maggie aveva girato l’Europa prima di seguire il corso per optometrista, e Maggie scoprí quanto fosse giovane Doree quando si era sposata. E della facilità con la quale rimaneva incinta all’inizio, del fatto che adesso invece non era piú cosí semplice e di come questo fenomeno insospettisse Lloyd, tanto che andava a frugare nei suoi cassetti a caccia di pillole contraccettive, convinto che le prendesse di nascosto.
– Ed è vero? – chiese Maggie.
Doree trasalí sbigottita. Disse che non avrebbe mai osato.
– Cioè, mi sembrerebbe terribile, senza dirglielo. Quando si mette a cercarle, lo fa solo per scherzo.
– Ah, – disse Maggie.
Un’altra volta Maggie le chiese: – Tutto bene da te? Mi riferisco al tuo matrimonio. Sei felice? Doree rispose di sí, senza esitazione. In seguito però fu piú attenta a quel che diceva. Si rese conto che altri potevano non capire certe cose alle quali lei era abituata. Lloyd vedeva tutto quanto a modo suo: era fatto cosí. E questo fin dal loro primo incontro, in ospedale. La caposala era un tipo piuttosto sostenuto, e allora lui la chiamava Mrs Merd-in-ciel, anziché con il suo nome, cioè Mrs Mitchell. Lo pronunciava talmente in fretta che quasi non si capiva. A suo giudizio Mrs Mitchell aveva i suoi protetti e lui non rientrava nella categoria. Attualmente gli stava antipatico un tale al gelatificio, un collega che lui chiamava Succhiastecchi Louie. Doree non sapeva neppure come facesse di nome, in realtà. Se non altro quella era la dimostrazione che non se la prendeva soltanto con le donne.
Doree era abbastanza sicura che quelle persone non fossero poi cosí male come pensava Lloyd, ma contraddirlo non serviva a niente. Magari gli uomini avevano bisogno di nemici, come non potevano fare a meno delle loro battute. E in effetti qualche volta Lloyd stesso scherzava sui suoi nemici, come se si prendesse in giro da solo. Doree poteva perfino unirsi alla risata, a patto che la cosa non partisse da lei.
Sperava tanto che non assumesse quell’atteggiamento nei riguardi di Maggie. Di quando in quando temeva di intravedere qualcosa di simile all’orizzonte. Se le avesse impedito di andare a scuola e a fare la spesa con Maggie, sarebbe stato un notevole inconveniente. Ma il peggio sarebbe stata la vergogna. Avrebbe dovuto inventarsi chissà quale stupida storia per spiegarle il perché. E Maggie avrebbe comunque capito, come minimo che stava mentendo, e probabilmente ne avrebbe dedotto che Doree doveva trovarsi in condizioni peggiori di quanto non fossero in realtà. Anche Maggie aveva idee molto precise su tutto.
A quel punto Doree si chiese perché stare a preoccuparsi tanto di come la pensava Maggie. In fondo era un’estranea, nemmeno una persona con la quale lei si sentisse particolarmente a suo agio. Era stato Lloyd a farglielo notare, e aveva ragione. La verità tra loro due, il loro legame, non era cosa che altri potessero comprendere, e poi non li riguardava. Per non avere problemi, bastava che Doree non perdesse di vista il proprio dovere di lealtà coniugale.
Peggiorò, poco alla volta. Nessuna proibizione esplicita, ma le critiche aumentavano. Lloyd tirò fuori la teoria che le allergie e l’asma dei bambini potessero essere colpa di Maggie. La causa era spesso la madre, disse. Non aveva visto altro che casi del genere, in ospedale. Madri fanatiche del controllo, di solito troppo scolarizzate.
– Capita anche che i bambini nascano con qualcosa, – ribatté incautamente Doree. – Non puoi dire che sia sempre la madre, la responsabile.
– Ah, sí? E perché non potrei?
– Non mi riferivo a te. Non intendevo che non puoi dirlo tu. Dico solo che a volte i bambini hanno qualcosa alla nascita, o no?
– E da quando sei diventata un’esperta di medicina?
– Non ho mai detto di esserlo.
– Ci mancherebbe.
Di male in peggio. Lloyd volle sapere di cosa parlavano, lei e Maggie.
– Non so. Di niente.
– Buona questa. Due donne che viaggiano in macchina. È la prima volta che sento una cosa del genere. Due donne che non si dicono niente. Quella ha deciso di farci litigare.
– Ma chi? Maggie?
– Le conosco, io, quelle della sua risma.
– Ma quale risma?
– La sua.
– Non fare lo scemo.
– Attenta. Non darmi mai dello scemo.
– Ma che vantaggio ne avrebbe lei?
– E io cosa vuoi che ne sappia? Si diverte cosí, punto e basta. Aspetta e vedrai. Ti frastornerà di stronzate su quel bastardo che sono. Un giorno di questi.
E in effetti andò a finire come aveva detto lui. O perlomeno sarebbe senz’altro sembrato cosí, agli occhi di Lloyd. Una sera verso le dieci Doree si ritrovò nella cucina di Maggie, a tirare su col naso piangendo e bevendo tisana. Quando aveva bussato, attraverso la porta aveva sentito il marito di Maggie che diceva: «Che diavolo?» Non sapeva proprio chi fosse. Doree aveva detto: «Mi spiace tantissimo disturbarvi…», mentre lui la fissava con le sopracciglia sollevate e le labbra tese. Poi era comparsa Maggie.
Doree si era fatta tutto il tragitto a piedi, nel buio, prima la strada di ghiaia dove abitavano lei e Lloyd, e poi lo stradone. Dovendo spostarsi verso il fossato ogni volta che arrivava una macchina, ci aveva messo molto piú tempo. Doveva controllarle, le auto di passaggio, perché su una poteva esserci Lloyd. Non voleva che la trovasse, non ancora, non prima che la paura avesse la meglio sulla sua furia. Altre volte in passato era riuscita a completare la transizione da sola, urlando, piangendo e perfino sbattendo la testa per terra, mentre ripeteva come in una cantilena: «Non è vero, non è vero, non è vero». Alla fine lui mollava. Le diceva: «Va bene, va bene. Ti credo. Calmati, amore. Pensa ai bambini.
Ti credo, lo giuro. Adesso basta, però».
Quella sera invece Doree aveva ripreso il controllo l’attimo prima di dare inizio alla solita sceneggiata. Si era infilata il cappotto e aveva preso la porta, con lui che le urlava dietro: – Questo non lo devi fare. Attenta, sai!
Il marito di Maggie era andato a dormire, con un’aria tutt’altro che soddisfatta, mentre Doree continuava a ripetere: – Mi dispiace. Mi spiace tantissimo. Piombarvi in casa a quest’ora.
– Oh, falla finita, – tagliò corto Maggie, ma con gentilezza. – Ti va un bicchiere di vino?
– Non bevo.
– Allora è meglio che non incominci adesso. Ti faccio una tisana. È buona, calmante: camomilla e lampone. Non è successo niente ai bambini, vero?
– No.
Maggie le prese il cappotto, passandole un pacco di kleenex per naso e occhi. – Aspetta, non dirmi niente per ora. Tra un attimo vedrai che andrà meglio.
Anche quando in effetti andò un po’ meglio, Doree non si sentí di buttar fuori tutta la verità e far sapere a Maggie che il nocciolo del problema riguardava lei. Ma in particolare non voleva doverle spiegare Lloyd. Per quanto fosse esasperata, lui restava comunque la persona piú vicina che avesse al mondo, e temeva che sarebbe crollato tutto quanto se si fosse convinta a raccontare a qualcuno esattamente com’era fatto, se l’avesse tradito del tutto insomma.
Disse che lei e Lloyd avevano litigato per una vecchia questione e che lei era stufa e aveva avuto solo voglia di andarsene. Ma era certa che poi l’avrebbe superata. Che l’avrebbero superata, anzi.
– Succede a tutte le coppie, ogni tanto, – disse Maggie.
A quel punto suonò il telefono, e Maggie rispose.
– Sí. Sta bene. Aveva giusto bisogno di fare due passi e scaricare un po’ di tensione. D’accordo. Va bene allora, la riaccompagno a casa domattina. Nessun problema. D’accordo. Buonanotte.
– Era lui, – disse. – Hai sentito, no?
– Che voce aveva? Ti sembrava normale?
Maggie scoppiò a ridere. – Be’, come faccio io a sapere che voce ha, quando è normale?
Ubriaco, non mi pareva.
– Non beve nemmeno lui. Non teniamo neppure il caffè, in casa.
– Ti va una fetta di pane tostato?
L’indomani, al mattino presto, Maggie la accompagnò a casa. Il marito di Maggie non era ancora andato a lavorare e rimase lui con i bambini.
Maggie aveva fretta di tornare e si limitò a dirle: – Allora, ciao. Chiamami se hai bisogno di parlare, – mentre faceva manovra con il furgoncino in cortile.
Era una mattina fredda di inizio primavera, con la neve ancora per terra, ma Lloyd era seduto sugli scalini senza una giacca addosso.
– Buongiorno, – esclamò, in tono sarcasticamente educato. E lei disse buongiorno a sua volta, in un tono che fingeva di non aver notato quello di lui.
Lloyd non si scansò per lasciarle salire i gradini.
– Non puoi entrare lí dentro, – disse.
Doree decise di metterla in scherzo.
– Neanche se chiedo per favore? Per favore.
Lui la guardò ma non le rispose. Sorrise a labbra strette.
– Lloyd? – disse lei. – Lloyd?
– È meglio che non entri.
– Non le ho detto niente, Lloyd. Mi spiace di essermene andata. Avevo solo bisogno di una boccata d’aria, credo.
– Meglio che non entri.
– Si può sapere cos’hai? Dove sono i bambini?
Lui scosse la testa, come quando lei diceva qualcosa che non gli andava di sentire. Magari un’espressione un po’ villana, tipo «porco mondo».
– Lloyd. Dove sono i bambini.
Si scostò quel tanto che le permettesse di passare, se voleva.
Dimitri era ancora nella culla, sdraiato sul fianco. Barbara Ann, per terra, vicino al letto, come se fosse scesa o qualcuno l’avesse trascinata fuori. Sasha accanto alla porta della cucina: aveva provato a scappare. Era l’unico dei tre con dei lividi sul collo. Per gli altri era bastato il cuscino.
– Sai quando ho chiamato, ieri sera? – disse Lloyd. – Quando ho chiamato, era già successo.
– È stata tutta colpa tua, – disse.
Il giudice stabilí che, in quanto malato di mente, non poteva subire un processo. Era un pazzo criminale e doveva essere affidato a un istituto di sicurezza.
Doree era corsa fuori in cortile incespicando e stringendosi la pancia con le braccia come se l’avessero squartata e cercasse di tenersi le viscere al loro posto. Fu questa la scena che si offrí allo sguardo di Maggie, quando tornò indietro. Una specie di premonizione le aveva fatto invertire la marcia. Il suo primo pensiero fu che Doree fosse stata picchiata, o presa a calci in pancia dal marito. Non riuscí a capire niente dei versi che emetteva Doree. Ma Lloyd era ancora seduto sui gradini e si fece cortesemente da parte per farla passare, senza proferire parola; lei entrò e si trovò di fronte quel che ormai si aspettava. Chiamò la polizia.
Per un po’ Doree non fece altro che ficcarsi in bocca tutto quello su cui riusciva a mettere le mani. Dopo erba e terra, fu la volta di lenzuola, strofinacci o suoi capi d’abbigliamento. Come se si sforzasse di soffocare non soltanto le urla che le salivano in gola, ma anche la scena che aveva nella testa. A intervalli regolari le facevano un’iniezione di qualcosa, per placarla, e funzionava. Anzi, diventò calmissima, benché non proprio catatonica. Dissero che si era stabilizzata. Quando uscí dalla clinica, l’assistente sociale la accompagnò in quella località nuova dove Mrs Sands la prese in cura, le trovò un alloggio, un impiego, e organizzò con lei incontri a scadenza settimanale. Maggie avrebbe voluto venirla a trovare, ma era proprio l’unica persona che Doree si rifiutava a tutti i costi di vedere.
Mrs Sands commentò che si trattava di una reazione prevedibile, dovuta all’associazione mentale.
Disse che Maggie avrebbe compreso.
Mrs Sands disse anche che spettava a Doree decidere se proseguire o no le visite a Lloyd. – Non sono qui per approvare o disapprovare quello che fa, mi creda. Come si è sentita quando l’ha visto? Meglio o peggio?
– Non lo so.
Doree non era in grado di spiegare come in realtà non le fosse sembrata Lloyd, la persona che aveva di fronte. Era un po’ come vedere un fantasma. Cosí pallido. Con quei vestiti larghi, scoloriti, quelle scarpe che non facevano rumore, tipo pantofole, probabilmente. Ebbe l’impressione che avesse perso un po’ di capelli. I suoi bei capelli fitti e ondulati, color miele. Le spalle parevano prive di spessore, senza l’incavo del collo dove lei era solita appoggiare la testa.
Ecco che cosa aveva detto dopo, alla polizia, e che i giornali avevano riportato: «L’ho fatto per risparmiare ai miei figli la pena».
Che pena?
«La pena di scoprire che la madre se n’era andata e li aveva abbandonati», aveva risposto. La frase era marchiata a fuoco nel cervello di Doree, e forse, quando aveva deciso di andare a trovarlo, la sua idea era stata quella di fargliela rimangiare. Di fargli capire, e riconoscere, come erano andate realmente le cose.
– Mi hai detto di smetterla di contraddirti o di andarmene. E io me ne sono andata.
– Sono solo andata a dormire da Maggie. Ero piú che decisa a tornare. Non stavo abbandonando nessuno.
Si ricordava perfettamente com’era iniziata la lite. Aveva comprato un barattolo di spaghetti precotti leggermente ammaccato. Costava un po’ meno, per quell’ammaccatura, e lei era tutta contenta di aver fatto economia. Era convinta che fosse una mossa astuta. Ma non gliel’aveva detto, quando lui si era messo a farle una raffica di domande al riguardo. Chissà perché, aveva ritenuto preferibile fingere di non aver notato il difetto.
L’avrebbe notato chiunque, disse lui. Potevamo avvelenarci tutti quanti. Ma che cosa le passava per la testa? O magari era proprio quello che voleva? Su chi aveva intenzione di sperimentarla, sui bambini o su di lui?
Lei gli disse di non delirare.
Lloyd rispose che il pazzo non era certo lui. Che solo una pazza avrebbe comprato del veleno per la propria famiglia.
I bambini osservavano la scena dalla porta del soggiorno. L’ultima volta che li aveva visti vivi. Era davvero quello che aveva pensato: che alla fine sarebbe riuscita a fargli capire chi fosse il pazzo dei due?
Sarebbe dovuta scendere dall’autobus, nel momento in cui si rese conto di cosa le passasse per la mente. Perfino ai cancelli, avrebbe ancora potuto tirarsi indietro, mentre le poche altre donne arrancavano sull’inghiaiato. Attraversare e aspettare l’autobus che l’avrebbe riportata in città. È probabile che a qualcuno capitasse. Gente che aveva pensato di andare a fare una visita e che poi cambiava idea. Chissà quante volte succedeva.
D’altra parte forse era stato meglio cosí, che avesse proseguito e l’avesse visto, strano com’era e ridotto in quel modo. Non una persona alla quale si potessero attribuire delle colpe. Non una persona e basta. Era come il personaggio di un sogno.
Doree ne faceva, di sogni. In uno, correva fuori di casa dopo averli trovati, e c’era Lloyd che si metteva a ridere nel suo modo scanzonato, e subito dopo sentiva ridere anche Sasha dietro di sé e le veniva la meravigliosa idea che le avessero fatto uno scherzo tutti insieme.
– Mi ha chiesto se vederlo mi aveva fatta stare meglio o peggio. Me l’ha chiesto l’altra volta. – Esatto, – disse Mrs Sands.
– Ci ho dovuto pensare.
– Sí.
– Ho capito che mi ha fatta stare peggio. Quindi non ci sono piú tornata.
Con Mrs Sands non era facile stabilirlo, ma il cenno di assenso pareva comunicare compiacimento o approvazione.
Perciò, quando Doree decise che invece sarebbe tornata, pensò fosse meglio non dire niente. E visto che non far parola di quanto le succedeva non era semplice – perché di fatto non le succedeva mai quasi nulla – telefonò per disdire l’appuntamento. Disse che si era presa una vacanza. Si avvicinava l’estate, le vacanze erano all’ordine del giorno. Con un’amica, disse.
– Non hai la giacca che ti eri messa la settimana scorsa.
– Non era la settimana scorsa.
– Ah, no?
– Era tre settimane fa. Adesso fa caldo. Questa è leggera, e comunque non ne ho bisogno. Non serve nessuna giacca ormai.
Lloyd le chiese del viaggio, che pullman dovesse prendere da Mildmay.
Gli disse che non abitava piú lí. Gli disse dove abitava e dei tre autobus.
–Ti sobbarchi un bel viaggio. Ti piace stare in una città piú grande?
– È piú facile trovare lavoro.
– Ah, lavori.
Già la volta prima gli aveva detto dove abitava, degli autobus, dove lavorava.
– Faccio le pulizie in camera in un motel, – ripeté. – Te l’avevo detto.
– Sí, sí. Me l’ero scordato. Scusami. Hai mai pensato di tornare a scuola? Ai corsi serali? Doree disse che sí, ci pensava qualche volta, ma mai abbastanza seriamente da prendere iniziative. Disse che il lavoro di cameriera non le dispiaceva.
A quel punto sembrò che non riuscissero a farsi venire in mente altro da dirsi.
Lloyd sospirò. Disse: – Scusa. Scusami. Mi sa che non sono abituato a far conversazione.
– E cosa fai tutto il giorno?
– Mah, direi che leggo parecchio. Medito un po’. Cosí, alla buona.
– Oh.
– Grazie per essere venuta fin qui. Vuol dire tanto per me. Ma non devi sentirti obbligata a continuare. Vieni solo quando vuoi, insomma. Se succede qualcosa, o se ti va… sto cercando di dirti che già il fatto che tu sia venuta, anche solo una volta, è un regalo insperato per me. Capisci cosa intendo?
Rispose di sí, che credeva di capire.
Lloyd disse che non voleva immischiarsi nella sua vita.
– Non lo fai, – disse lei.
– Stavi per dire questo? Ho avuto l’impressione che volessi dire un’altra cosa.
In effetti, le era quasi scappato, Quale vita?
No, disse, direi di no. Nient’altro.
– Bene.
Altre tre settimane e ricevette una telefonata. Era Mrs Sands in persona, non una delle impiegate.
– Oh, Doree. Pensavo non fossi ancora tornata. Dalla vacanza. Sei tornata, allora?
– Sí, – disse Doree, cercando di farsi venire in mente un posto dove poter dire di essere stata. – Ma non avevi ancora avuto modo di fissare il prossimo appuntamento, immagino.
– Già. Non ancora.
– Non fa niente. Volevo solo avere notizie. Stai bene?
– Sto bene.
– Perfetto. Be’, sai dove trovarmi se hai bisogno. Se ti viene voglia di fare una chiacchierata.
– Sí.
– Stammi bene, allora.
Non una parola su Lloyd, non le aveva chiesto se era tornata a trovarlo. Del resto, Doree le aveva detto che non ci sarebbe piú andata. Di solito, però, Mrs Sands era piuttosto in gamba a captare come stavano le cose veramente. Piuttosto in gamba anche a trattenersi, se capiva che una domanda non l’avrebbe portata da nessuna parte. Doree non aveva idea di cosa avrebbe risposto se glielo avesse chiesto: se avrebbe fatto marcia indietro inventandosi una bugia, o se avrebbe tirato fuori la verità. Ad ogni modo era tornata a trovarlo la prima domenica dopo quella in cui Lloyd le aveva detto piú o meno chiaro che non aveva importanza che lei andasse oppure no. Lloyd aveva il raffreddore. Non sapeva come se l’era preso.
Magari lo stava già covando, disse, quando si erano visti l’ultima volta, ed era per quello che
era cosí ingrugnato.
«Ingrugnato». Ultimamente a Doree capitava di rado di avere a che fare con gente che usava una parola del genere, perciò le sembrò strana. Lloyd invece aveva da sempre l’abitudine di utilizzare quel frasario che in passato ovviamente non la colpiva come adesso.
– Ti sembro cambiato?
– Be’, fisicamente sei diverso, – rispose lei, cauta. – E io no?
– Tu sei bellissima, – disse lui, malinconico.
Sentí qualcosa sciogliersi dentro. Ma lottò per resistere.
– Tu ti senti cambiata? – domandò Lloyd. – Ti senti una persona diversa?
Doree rispose che non lo sapeva. – E tu?
– Eccome, – disse lui.
Qualche giorno dopo, sul lavoro, le consegnarono una grossa busta. Le era stata inviata all’indirizzo dell’albergo. Conteneva vari fogli, scritti su entrambe le facciate. In un primo momento non aveva pensato che arrivasse da lui – per qualche motivo si era fatta l’idea che la gente in carcere non potesse scrivere lettere. D’altra parte, Lloyd era un detenuto diverso dagli altri. Non un criminale e basta, solo un pazzo diventato criminale.
La lettera non recava data e nemmeno un consueto: «Cara Doree». Le si rivolgeva direttamente in un tono che le aveva fatto pensare a un appello di tipo religioso.
La gente la cerca dappertutto la soluzione. Si stanca il cervello (a furia di cercare). Soffre per tutte le cose che ha in testa. Glieli si vedono in faccia, tutti i lividi e i tormenti. Sono preoccupati. Vanno sempre di fretta. Devono fare la spesa, e passare in tintoria e farsi tagliare i capelli e guadagnarsi da vivere o andare a ritirare il sussidio di disoccupazione. I poveri sono messi cosí, e i ricchi devono pensare a come spendere i soldi che hanno. È un lavoro anche quello. Devono costruirsi le case con le rubinetterie d’oro per l’acqua calda e fredda. E comprarsi le Audi e gli spazzolini da denti miracolosi e tutti gli aggeggi possibili e immaginabili e i sistemi di allarme per proteggersi da ladri e assassini, e tutti (san) quanti, i ricchi come i poveri, nell’animo non hanno mai pace. Stavo per scrivere «santi» al posto di «quanti», chissà perché? Non ci sono santi qui. Ma se non altro dove sto io la gente ha superato un certo livello di confusione. Ciascuno sa bene che cosa gli spetta una volta per tutte e nessuno deve comprare niente, e nemmeno farsi da mangiare. O scegliere qualcosa. Le scelte sono abolite.Noi che stiamo qui dentro siamo padroni di quello che abbiamo in testa e nient’altro.All’inizio nella mia c’era solo scompilio (si scrive cosí?) Una bufera continua, e avrei sbattuto volentieri la testa contro il muro per potermene liberare. Per fermare quell’agonia, e la mia vita. Perciò mi infliggevano castighi. Mi hanno lavato con l’idrante, e legato, e drogato. Ma non mi sto lamentando, perché ho dovuto imparare che quegli strumenti non servono a niente. E che non è diverso da quel che succede nel cosiddetto mondo reale, dove la gente beve e continua a commettere crimini di tutti i tipi per eliminare pensieri che sono dolorosi. Spesso la gente viene anche presa e sbattuta in galera ma non quanto basta a raggiungere l’uscita opposta. E cioè? E cioè diventare completamente pazzi, o trovare la pace.La pace. Io l’ho raggiunta e sono ancora sano di mente. Immagino che leggendo queste parole tu ora ti aspetti che dica qualcosa su Dio, Gesú Cristo, o comunque Budda, come se fossi giunto a una conversione religiosa. No. Se chiudo gli occhi non mi sento portare in alto da un particolare Potere Superiore. Non so nemmeno che cosa vogliano dire queste cose. In compenso ora Conosco Me Stesso. Conosci Te Stesso è una specie di Comandamento scritto da qualche parte, forse nella Bibbia, perciò in questo senso se non altro sono rimasto Cristiano. E anche al Sii Fedele A Te Stesso ho cercato di attenermi, sempre che sia nella Bibbia pure quello. Non dice a quale parte di se stessi bisogna essere fedeli – se a quella buona o a quella cattiva –, perciò non va preso come un’indicazione morale. Anche il Conosci Te Stesso non c’entra niente con la morale, per come la intendiamo noi in Condotta. Comunque la Condotta non mi preoccupa, perché sono stato giustamente giudicato una persona incapace di stabilire come ci si deve comportare ed è per questo che mi trovo qui.Ma torniamo al capitolo Conoscenza del Conosci Te Stesso. Posso dire in tutta coscienza di conoscere me stesso, e il peggio di cui sono capace, e di sapere che l’ho anche commesso. Il Mondo mi giudica un Mostro e io non intendo discutere, anche se di sfuggita potrei ricordare che chi scarica bombe e incendia intere città, o affama la gente e ammazza centinaia di migliaia di persone di solito non è considerato un Mostro, ma anzi coperto di onori e medaglie, e che soltanto i crimini su scala ridotta sono giudicati malvagi e sconvolgenti. Il che non vuole essere una scusa, ma una semplice constatazione.Ciò che Conosco di Me Stesso è il Male che ho dentro. Ecco il segreto della mia tranquillità. Voglio dire che conosco il mio Peggio. Può darsi sia peggio del peggio di altri, ma non ci devo pensare e nemmeno preoccuparmene. Scuse non ce n’è. Ho trovato la pace. Sono un Mostro? Il Mondo dice di sí e, se lo dice, concordo. Ma d’altra parte devo aggiungere che il Mondo non significa niente per me. Io sono me Stesso e non ho nessuna possibilità di essere un me Stesso diverso. Potrei sostenere che allora ero pazzo ma cosa vuol dire? Pazzo. Sano. Io sono io. Non ho potuto cambiare il mio Io al tempo, e non posso ora.Doree, se hai letto fino a questo punto, c’è una cosa in particolare che voglio dirti, ma che non riesco a mettere per scritto. Se mai dovessi tornare, magari te la dirò allora. Non credere che sia senza cuore. Non credere che non cambierei le cose se potessi, ma non posso.Ti spedisco questa lettera al lavoro perché me lo ricordo e anche il nome della città, perciò come vedi il cervello mi funziona ancora, per certi versi. Doree pensò che avrebbero dovuto discutere quello scritto al loro prossimo incontro, perciò lo rilesse svariate volte, ma non le veniva in mente nulla da dire. L’unica cosa di cui le interessava parlare era l’argomento che Lloyd diceva di non poter mettere per iscritto. Quando lo rivide tuttavia lui si comportò come se non le avesse mai scritto affatto. Doree si sforzò di trovare uno spunto e gli raccontò di un cantante folk famoso in passato che quella settimana aveva alloggiato al motel. Con sorpresa, Doree scoprí che Lloyd ne sapeva piú di lei sulla carriera del cantante. Saltò fuori che aveva un televisore o quantomeno accesso a un apparecchio, e che seguiva certi programmi oltre ai telegiornali, naturalmente. Il fatto diede loro qualcos’altro da dirsi, fino a che lei non poté piú trattenersi.
– Cos’era che non mi potevi dire se non di persona?
Lloyd rispose che avrebbe preferito non glielo avesse chiesto. Non era sicuro che fossero pronti ad affrontare quel discorso.
A quel punto lei temette potesse trattarsi di qualcosa che non avrebbe proprio saputo gestire, qualcosa di insostenibile, tipo che lui continuava ad amarla. «Amore» era una parola che non poteva sopportare di sentire.
– D’accordo, – disse. – Forse hai ragione.
Poi aggiunse: – Anzi, no, è meglio che tu me lo dica. Se dovessi uscire di qui e finire investita da una macchina, non verrei mai a saperlo, e non avresti mai piú occasione di dirmelo.
– Vero, – fece lui.
– Allora, cos’è?
– Un’altra volta. Facciamo un’altra volta. Ogni tanto non riesco a parlare. Vorrei, ma poi mi si asciuga la voce, parlando.
Penso a te da quando sei andata via Doree e ho il rimpianto di averti delusa. Quando ti ho seduta di fronte mi emoziono piú di quanto forse non dia a vedere. Non ho il diritto di emozionarmi, dal momento che tu, che ne avresti piú ragione, sei sempre cosí controllata. Perciò voglio rimangiarmi quello che ho detto, perché sono giunto alla conclusione che in fondo mi è piú facile scriverti che parlare.E adesso da dove comincio.Il Paradiso esiste.Potrei cominciare cosí, ma non sarebbe il modo giusto visto che io non ho mai creduto all’esistenza di Paradiso e Inferno, eccetera. Ho sempre pensato che fossero tutte stronzate. Quindi deve fare uno strano effetto che io tiri in ballo l’argomento proprio adesso.Allora dirò solo questo: ho visto i bambini.Li ho visti e ho parlato con loro.Ecco. Cosa pensi, in questo momento? Starai pensando, be’, è davvero fuori di testa, allora. Oppure, se l’è sognato e non sa riconoscere un sogno, non riesce a distinguere un sogno dalla realtà. Invece ci tengo a dirti che la differenza la so e so una cosa: i bambini ci sono. Ripeto, ci sono, non dico che sono vivi, perché vivi vorrebbe dire nella nostra specifica Dimensione, e io non intendo sostenere che è lí che si trovano. Anzi credo proprio di no. Ci sono, però, e questo significa che deve esistere un’altra Dimensione o forse innumerevoli altre Dimensioni, ma l’essenziale è che sono riuscito a entrare in contatto con quella in cui si trovano loro. È possibile che ci sia riuscito perché sono stato cosí tanto tempo da solo, costretto a pensare e a ripensare, e a pensare certe cose poi. Cosí, dopo tanta pena e tanta solitudine, una qualche Grazia ha trovato il modo di offrirmi questa ricompensa. A me, l’essere che meno di tutti la meritava, secondo il giudizio del mondo.Be’ se stai ancora leggendo e non hai già stracciato questo foglio in mille pezzi vorrai sapere delle cose. Per esempio come stanno.Stanno bene. Sono proprio felici e in gamba. Sembra che non abbiano nessun brutto ricordo. Forse sono un po’ piú grandi di allora, ma non è facile dirlo. Sembra che capiscano le cose a livelli diversi. Sí. Lo si nota bene con Dimitri che ha imparato a parlare, mentre non era ancora capace. Si trovano in una stanza che riconosco solo parzialmente. È come casa nostra, ma piú spaziosa e piú bella. Ho chiesto chi si occupava di loro, ma si sono messi a ridere e hanno risposto qualcosa tipo che sanno badare a se stessi. Mi pare sia stato Sasha a dirlo. Non sempre si esprimono separatamente o comunque io faccio fatica a distinguere le voci, ma le loro identità sono chiare e, devo dire, gioiose.Per favore non pensare che sono pazzo. È per paura di questo che non volevo parlartene. Sono stato pazzo una volta, ma ti assicuro che ormai mi sono liberato di ogni vecchia follia, come un orso che cambia il mantello. O forse dovrei dire come un serpente che cambia pelle. Sono certo che se non l’avessi fatto non sarei mai riuscito a tornare in contatto con Sasha e Barbara Ann e Dimitri. Ora vorrei tanto che anche a te fosse concesso questo privilegio perché se si tratta di meritarlo, tu mi superi di gran lunga. Può darsi che per te sia piú difficile perché vivi nel mondo molto piú di me, ma se non altro posso darti notizie sulla Verità e, dicendoti che li ho visti, sperare di averti alleggerito il cuore. Doree si chiese che cosa avrebbe detto o pensato Mrs Sands se le fosse capitato di leggere quella lettera. Sarebbe stata cauta, naturalmente. Avrebbe badato a non emettere un verdetto di follia conclamata, ma con garbata circospezione, avrebbe guidato Doree a formularlo da sola.
Forse non l’avrebbe nemmeno guidata, forse avrebbe semplicemente sollevato il velo del disorientamento, di modo che Doree si confrontasse con quella che sarebbe apparsa come la sua conclusione sin dal principio. Avrebbe dovuto sbarazzarsi la mente di tutte quelle pericolose assurdità – secondo il frasario di Mrs Sands.
Ecco perché Doree si manteneva a debita distanza.
Anche lei era convinta che Lloyd fosse pazzo. E in quel che aveva scritto parevano ripresentarsi tracce della sua vecchia arroganza. Non gli rispose. Passarono i giorni. Le settimane. Doree non cambiava opinione, ma continuava a tenersi per sé il contenuto della lettera, come se fosse un segreto. E di quando in quando, mentre spruzzava prodotto detergente sullo specchio di un bagno o tendeva sul letto un lenzuolo, la invadeva una sensazione. Da quasi due anni aveva smesso di prestare attenzione alle cose che di solito rendono felice la gente, come il bel tempo, gli alberi in fiore, o l’odore del pane. A essere precisi, continuava a non provare quello spontaneo senso di felicità, ma ne aveva recuperato il ricordo. Con il tempo e coi fiori non c’entrava affatto. Era l’idea che i bambini si trovassero in quella che lui aveva definito la loro Dimensione, a insinuarsi di nascosto dentro di lei, e a trasmetterle per la prima volta un sentimento lieve, diverso dal dolore.
Per tutto il tempo dopo l’accaduto, qualsiasi pensiero sui bambini era stato qualcosa di cui liberarsi, qualcosa da estirpare immediatamente come uno si caverebbe un coltello dalla gola. Non poteva pensare i loro nomi, e se le capitava di sentirne pronunciare uno simile, le toccava strappare via anche quello. Perfino il vociare di bambini, le grida, il cic-ciac dei passi di corsa avanti e indietro dalla piscina del motel, dovevano essere tenuti a bada da una specie di cancello che era in grado di sprangarsi nelle orecchie. La differenza adesso era che disponeva di un riparo nel quale rifugiarsi non appena un pericolo del genere minacciava di presentarsi intorno a lei.
E chi era stato a procurarglielo? Non Mrs Sands di sicuro. Con tutte le ore passate alla sua scrivania con la scatola dei kleenex a portata di mano.
Gliel’aveva procurato Lloyd. Lloyd, l’uomo orribile, l’individuo isolato e fuori di senno. Fuori di senno, a volerlo definire tale. Ma non era forse concepibile l’eventualità che quanto aveva detto fosse vero: e cioè che lui fosse riuscito a raggiungere l’uscita opposta? E chi poteva arrogarsi il diritto di sostenere che le visioni di un uomo che aveva compiuto un gesto di quella portata e affrontato quel viaggio non significassero nulla?
Questa idea si insinuò nella mente di Doree e ci rimase. Insieme alla convinzione che, di tutte le persone al mondo, Lloyd era forse quella con cui avrebbe dovuto stare. Di quale utilità poteva essere a chiunque altro – sembrava quasi spiegare a qualcuno, a Mrs Sands probabilmente –, che ruolo poteva ancora avere sulla faccia della terra, se non quello di prestargli ascolto?
Non ho parlato di «perdono», precisò a Mrs Sands nella sua testa. Non lo direi mai. Non potrei mai concederglielo.
Ma ci pensi bene. Quel che è successo non ha forse tagliato fuori dal mondo me quanto lui? Chiunque fosse al corrente dei fatti non mi vorrebbe attorno. Io riesco solo a ricordare agli altri qualcosa su cui nessuno può soffermare il pensiero.
Ogni travestimento era impossibile, alla fine. Quella zazzera irsuta e gialla risultava patetica. E cosí si ritrovò di nuovo in autobus, diretta alla statale. Ricordò le sere subito dopo la morte di sua madre, quando usciva di nascosto per incontrare Lloyd, per non dire all’amica della madre dalla quale si era trasferita dove stesse andando. Ripensò al nome di quella donna, il nome dell’amica di sua madre. Laurie.
Chi, a parte Lloyd, avrebbe ricordato il nome dei bambini, ormai, o di che colore avessero gli occhi? Mrs Sands, quando doveva menzionarli, non li chiamava neppure i bambini, bensí «la sua famiglia», ammucchiandoli indiscriminatamente tutti insieme.
Allora andare da Lloyd mentendo a Laurie non la faceva mai sentire in colpa, ma piuttosto soggetta a una forza del destino, obbediente. Si era sentita come venuta al mondo al solo scopo di stare insieme a lui e cercare di comprenderlo.
Ebbene, non era cosí, adesso. Non era la stessa cosa.
Era seduta sul sedile davanti, di fianco al guidatore. Vedeva bene la strada, dal parabrezza. Ecco
perché fu lei l’unico passeggero a bordo, l’unica persona oltre all’autista, a vedere un pick-up immettersi sulla carreggiata senza nemmeno rallentare, sbandare davanti a loro sulla strada deserta della domenica mattina e infilarsi di muso nel fosso. E a vedere una cosa ancora piú strana: il guidatore del furgone spiccare un volo che pareva al tempo stesso fulmineo e lento, illogico e armonioso. Atterrò sulla ghiaia al ciglio del marciapiede.
Gli altri passeggeri non sapevano che cosa avesse spinto l’autista a pestare sul pedale costringendoli all’incomodo di una brusca frenata. In principio, l’unico pensiero di Doree fu, Come avrà fatto a uscire dalla macchina? Si riferiva al giovane uomo, o al ragazzo, che doveva essersi addormentato al volante. Come era riuscito a schizzare fuori dal furgone e a lanciarsi in aria con tanta eleganza?
– Ci si è messo proprio davanti, – disse l’autista ai passeggeri. Cercava di parlare forte e in tono pacato, ma c’era un tremore sbigottito, una specie di sbalordimento attonito nella sua voce. – Ci ha tagliato la strada ed è finito nel fosso. Appena possibile ripartiamo, ma nel frattempo vi chiedo la cortesia di non scendere.
Come se non l’avesse sentito, o si fosse guadagnata il diritto speciale di rendersi utile, Doree lo seguí, smontando dall’autobus. Lui non la riprese.
– Ma tu guarda ’sto coglione, – disse mentre attraversavano, e adesso nella sua voce non si sentiva altro che rabbia esasperata. – È da non credere, ’sto coglione di un moccioso.
Il ragazzo era supino, a gambe e braccia divaricate, come se stesse disegnando un angelo nella neve. Solo che intorno a lui c’era la ghiaia, non la neve. Non aveva gli occhi chiusi del tutto. Era talmente giovane, uno di quei bambini che si allungano di colpo, prima ancora di mettere un pelo di barba. Forse non aveva nemmeno la patente.
L’autista intanto parlava al cellulare.
– Circa un miglio sotto Bayfield, sulla Ventuno, sul lato est della strada.
Un rivolo di schiuma rosa fuoriusciva da sotto la testa del ragazzo, accanto all’orecchio. Non sembrava affatto sangue, ma la schiuma che si forma nella pentola quando si fa la marmellata di fragole.
Doree si accucciò di fianco a lui. Gli appoggiò una mano sul petto. Era immobile. Accostò l’orecchio. Qualcuno gli aveva stirato la camicia da poco: aveva quell’odore.
Non respirava.
Ma le dita di Doree sul collo liscio trovarono una pulsazione.
Le venne in mente una cosa che le avevano detto. Era stato Lloyd a dirgliela, in caso uno dei bambini avesse avuto un incidente mentre lui non c’era. La lingua. La lingua può bloccare il respiro, se collassa indietro e ostruisce la gola. Doree appoggiò le dita di una mano sulla fronte del ragazzo e due dita dell’altra sotto il mento. Spingi giú la fronte e tira su il mento, per liberare le vie respiratorie. Un colpetto lieve ma deciso.
Se non avesse ripreso a respirare, doveva procedere con la respirazione bocca a bocca. Deve pinzargli il naso, tirare bene il fiato, sigillargli la bocca con le labbra, espirare. Due emissioni e controllare. Due emissioni e controllare.
Un’altra voce maschile, non quella dell’autista. Doveva essersi fermato un altro guidatore. – Vuole che gli metta una coperta sotto la testa? – Doree scosse appena il capo. Si era ricordata di un’altra indicazione, la necessità di non spostare la vittima per non recare danni alla spina dorsale. Gli avvolse la bocca nella sua. Premette sulla sua tiepida carne giovane. Respirò e attese. Respirò e attese ancora. E un lieve umidore parve levarsi contro il suo viso.
L’autista disse qualcosa, ma Doree non poteva alzare gli occhi. Poi lo sentí per certo. Un respiro che usciva dalla bocca del ragazzo. Gli allargò la mano sulla pelle del petto e dapprima non fu in grado di stabilire se andasse su e giú, perché lei stessa tremava.
Sí. Sí.
Era proprio un respiro. Il canale era aperto. Respirava da solo. Respirava.
– Gliela metta addosso, – disse all’uomo con la coperta. – Ha bisogno di caldo.
– È vivo? – domandò l’autista, chinandosi accanto a lei.
Doree annuí. Trovò di nuovo il battito con le dita. Quell’orrenda schiuma rosa aveva smesso di uscire. Forse non era niente di importante. Non gli usciva dal cervello.
– Non posso bloccare l’autobus per lei, – disse l’autista. – Siamo già in ritardo sulla tabella di marcia.
L’altro guidatore intervenne: – Non si preoccupi. Posso stare io.
State zitti, state solo zitti, avrebbe voluto dire Doree. Le pareva che fosse necessario il silenzio, che ogni cosa al mondo esterna al corpo del ragazzo dovesse concentrarsi, aiutarlo a non perdere di vista il proprio dovere di tirare il fiato.
Boccate incerte ma regolari ormai, un’obbedienza dolce del petto. Continua, avanti, continua. – Ha sentito il signore? Dice che si ferma lui a tenerlo d’occhio, – disse l’autista. – Intanto l’ambulanza arriva, appena può.
– Vada pure, – disse Doree. – Io chiedo un passaggio in ambulanza fino in città e riprendo l’autobus stasera, al ritorno.
Dovette chinarsi per sentirla. Doree si esprimeva in tono sbrigativo, senza sollevare il capo, come se fosse suo il respiro prezioso.
– È sicura? – fece lui.
Sicura.
– Non deve piú andarci, a London?
No.
Racconti
I.
La cosa migliore d’inverno era tornare a casa in macchina dopo aver insegnato musica tutto il giorno nelle scuole di Rough River. Fuori era già buio e sulle vie piú alte del paese magari nevicava, mentre sulla statale del lungolago la pioggia sferzava l’auto. Nella foresta Joyce viaggiava oltre il limite consentito e, sebbene si trattasse di una foresta vera e propria con cedri e abeti immensi, piú o meno ogni quarto di miglio si incontrava un’abitazione. Qualcuno aveva messo su un’impresa di orticoltura, qualcuno teneva pecore e cavalli e c’erano piccole aziende come quella di Jon, che fabbricava mobili e li restaurava. C’erano poi le varie proposte di servizi pubblicizzati lungo la strada e specifici di questa parte del mondo: lettura di tarocchi, massaggi alle erbe medicinali, conciliazione stragiudiziale delle controversie. Qualcuno abitava in roulotte; altri si erano costruiti la propria casa usando tetti di paglia e tronchi di recupero, altri ancora infine, come Jon e Joyce, si rimettevano a posto una vecchia cascina.
C’era una cosa in particolare che Joyce era lieta di vedere quando imboccava il vialetto di casa. Molte persone in quel periodo, perfino il proprietario di qualche villino con tetto di paglia, si facevano installare le cosiddette porte a vetri da patio, anche quando, come Jon e Joyce, non avevano il patio. Di solito le lasciavano senza tende e quei due lunghi rettangoli di vetro parevano diventare indizio o promessa di abbondanza, protezione, benessere. Perché mai fosse cosí, piú che nel caso di finestre comuni, Joyce non avrebbe saputo dirlo. Forse dipendeva dal fatto che perlopiú non si limitavano ad affacciarsi sul buio della foresta ma vi si aprivano direttamente, oltre a rivelare in modo esplicito il porto sicuro di un interno domestico. Persone a figura intera indaffarate ai fornelli o sedute a guardare la televisione: scene che la incantavano, benché sapesse che, una volta dentro, le stesse cose non sarebbero apparse altrettanto speciali.
Quel che vedeva svoltando nel proprio vialetto in terra battuta, pieno di pozzanghere, era appunto la coppia di portefinestre installate da Jon, che incorniciavano la macchia di luce del cantiere all’interno di casa loro. La scaletta a libro, i ripiani incompleti della cucina, le scale a vista, il legno caldo illuminato dalla lampadina nuda che Jon trasferiva dove gli pareva, dovunque fosse impegnato. Di giorno lavorava nel capanno poi, quando cominciava a fare buio, congedava l’apprendista e si dedicava alla casa. Quando sentiva la macchina, voltava la testa in direzione di Joyce per un istante, in segno di saluto. Di solito aveva le mani troppo occupate per farle un cenno. Seduta lí, a fari spenti, mentre raccoglieva la spesa, la posta o quello che doveva portare dentro, Joyce si godeva anche quell’ultima corsa fino alla porta, nel buio, col vento, sotto la pioggia gelata. Aveva l’impressione di lasciarsi alle spalle la giornata di lavoro, le preoccupazioni e le incertezze di ore passate a dispensare musica a bambini indifferenti come a quelli interessati. Quanto era meglio lavorare il legno da soli – dell’apprendista non teneva conto – piuttosto che misurarsi con l’imprevedibilità di giovani esseri umani.
A Jon non diceva nulla di tutto ciò. Non gli piaceva sentire la gente blaterare della bellezza, l’essenzialità e il privilegio di lavorare il legno. Quanta pienezza, che dignità.
Stronzate, avrebbe detto lui.
Jon e Joyce si erano conosciuti nel liceo cittadino di un centro industriale, in Ontario. Joyce aveva il secondo quoziente d’intelligenza piú alto della classe e Jon, il primo di tutta la scuola se non dell’intera città. Lei doveva diventare una violinista raffinata – prima ovviamente che decidesse di passare al violoncello – e lui, uno scienziato fenomenale i cui risultati superavano l’immaginazione dei comuni mortali.
Al primo anno di college abbandonarono gli studi per fuggire insieme. Trovarono impieghi qua e là, girarono il continente in autobus, vissero per un anno sulla costa dell’Oregon, si riconciliarono a distanza con le rispettive famiglie per le quali si era spenta una luce nel mondo. Si era fatto ormai un po’ tardi perché potessero chiamarsi hippy, eppure era proprio cosí che li definivano i genitori. Loro non si erano mai ritenuti tali. Non avevano niente a che fare con la droga, vestivano in modo tradizionale sebbene un po’ trasandato, e Jon ci teneva molto a radersi tutti i giorni e a farsi tagliare i capelli da Joyce. Dopo un po’ si stancarono dei lavoretti a salario minimo e chiesero un prestito alle rassegnate famiglie per poter imparare un mestiere e migliorare il proprio tenore di vita. Jon si diede alla falegnameria su grande e piccola scala e Joyce prese un diploma che la abilitasse all’insegnamento della musica nelle scuole.
Trovò lavoro a Rough River. Si comprarono per quattro soldi quel rudere, e diedero inizio a una nuova fase della loro vita. Piantarono un orto, fecero conoscenza con i vicini di casa – alcuni dei quali erano tuttora autentici hippy alle prese con coltivazioni di cannabis nel cuore della foresta e con la vendita di collanine e sacchetti di erbe aromatiche.
Jon piaceva ai vicini. Era ancora magrissimo, sguardo acceso, egocentrico ma anche pronto ad ascoltare. E poi, quello era il momento in cui la gente cercava di familiarizzare con i computer e Jon ci sapeva fare e aveva pazienza a spiegare. Joyce riscuoteva meno simpatia. I suoi metodi di insegnamento della musica venivano giudicati troppo poco innovativi.
Joyce e Jon cucinavano insieme, la sera, bevendo un bicchiere del vino che producevano. (Il sistema di vinificazione di Jon era rigoroso ed efficace). Joyce gli raccontava le seccature e i momenti comici della giornata. Jon non parlava molto; del resto era il piú impegnato dei due, in cucina. Ma quando poi si mettevano a tavola, le riferiva magari di qualche cliente venuto al laboratorio, oppure di Edie, la sua apprendista. A volte ridevano di qualcosa che Edie aveva detto. Non in modo irrispettoso, però: Edie era come un cucciolo in casa, capitava a Joyce di pensare. O come un bambino. Certo, se lo fosse stata davvero, se fosse stata la loro figlia a mostrare quei tratti, lei e Jon probabilmente sarebbero stati troppo sconcertati e forse troppo in apprensione per riuscire a riderne.
Perché? Quali tratti? Non era stupida. Secondo Jon non era un genio della carpenteria, ma imparava e faceva tesoro di quello che le si insegnava. E soprattutto, non era ciarliera. Era la cosa che aveva temuto di piú, quando si era prospettata l’ipotesi di assumere un apprendista. Grazie all’avvio di un nuovo programma ministeriale, lo stato gli avrebbe riconosciuto un compenso per insegnare il mestiere a una persona, la quale a sua volta sarebbe stata pagata quanto bastava per vivere, durante il periodo di formazione. Da principio, Jon si era detto contrario, ma Joyce l’aveva convinto. Secondo lei, avevano un debito con la società.
Edie parlava magari poco, ma quando lo faceva si esprimeva con veemenza.
– Non faccio uso di droghe e non bevo alcolici, – aveva dichiarato al primo colloquio. – Sono iscritta alla Alcolisti Anonimi perché sono un’alcolista astinente. Non diciamo mai di essere guariti, perché non lo saremo mai. Non si guarisce, per tutta la vita. Ho una bambina di nove anni che è venuta al mondo senza padre, perciò ne sono responsabile al cento per cento e voglio crescerla come si deve. Il mio scopo è imparare il mestiere di falegname per guadagnarmi da vivere, per me e mia figlia. Mentre pronunciava quel discorso sedeva loro di fronte al tavolo di cucina, fissando a turno ora l’uno, ora l’altra. Era una giovane bassa e robusta che non sembrava né abbastanza vecchia né cosí malridotta da avere all’attivo chissà quali trascorsi viziosi. Spalle larghe, frangione, coda di cavallo stretta, neanche l’accenno di un sorriso.
– E un’altra cosa, – disse. Sbottonò la camicia e se la tolse. Sotto indossava una canottiera.
Entrambe le braccia, la parte alta del petto e, quando si voltò, anche del dorso erano coperte di tatuaggi. La sua pelle si era trasformata in una specie di indumento, o forse in un giornale a fumetti pieno di facce malvagie e tenere, assediate da draghi, fiamme, balene, in un intrico troppo fitto e terribile per voler dire qualcosa.
La prima domanda che veniva spontaneo farsi era se anche tutto il resto del corpo avesse subíto il medesimo trattamento.
– Sensazionale, – commentò Joyce, con voce piú compassata che poté.
– Be’, se è sensazionale non so, ma so che mi sarebbe costato un patrimonio, se avessi dovuto pagarlo, – disse Edie. – Facevo questo mestiere, una volta. Ve lo faccio vedere perché certa gente è contraria. E se dovessi aver caldo in laboratorio e mi mettessi a lavorare in maglietta… – Noi, no, – disse Joyce, voltandosi verso Jon. Lui si strinse nelle spalle.
Joyce chiese a Edie se le andava una tazza di caffè.
– No, grazie –. Intanto si rimetteva la camicia. – Molti all’Alcolisti Anonimi sembra che vadano avanti a caffè. Io dico sempre, Mi spiegate, dico, perché siete passati da una brutta abitudine a un’altra? – Straordinario, – commentò piú tardi Joyce. – Si ha l’impressione che qualunque cosa uno dica, lei abbia già il pistolotto pronto. Non ho osato chiederle della sua partenogenesi. Jon disse: – È forte. Questa è la cosa fondamentale. Ho dato un’occhiata alle braccia. Per «forte» Jon intende il significato letterale della parola. Vale a dire, in grado di trasportare una trave.
Lavorando, Jon ascolta la Cbc alla radio. Musica, ma anche notiziari, rubriche, trasmissioni aperte al pubblico. Certe volte, riferisce a Joyce i commenti di Edie su quanto hanno sentito.
Edie non crede all’evoluzione.
(Durante un programma, alcuni ascoltatori avevano chiamato per lamentarsi di quel che si insegna ai bambini nelle scuole).
E perché non ci crede?
– Be’, perché in quelle terre bibliche, – disse Jon, prima di passare al tono stentoreo e monocorde della voce di Edie, – in quelle terre bibliche hanno un mucchio di scimmie e le scimmie si dondolavano tutto il tempo dai rami degli alberi e cosí la gente si è fatta l’idea che le scimmie siano scese per terra e si siano trasformate in cristiani.
– Sí, ma prima di quello… – disse Joyce.
– Lascia perdere. Non ci provare nemmeno. Non conosci le regole base di quando si discute con Edie? Lascia perdere e taci.
Edie era anche convinta che le grandi industrie farmaceutiche conoscessero la cura per il cancro, ma che fossero d’accordo con i medici a non rivelare l’informazione per via del denaro che, cosí facendo, entrambe le categorie avevano da guadagnarci.
Quando la radio mandava in onda l’Inno alla gioia, Edie chiedeva a Jon di spegnere, perché era atroce, come una marcia funebre.
Inoltre, pensava che Jon e Joyce – anzi, Joyce, in effetti – non avrebbero dovuto lasciare delle bottiglie col vino dentro in bella vista sul tavolo di cucina.
– E sono affari suoi?
– A quanto pare, lei crede di sí.
– Da quando in qua s’è messa a controllare il nostro tavolo di cucina?
– Deve passarci davanti per andare in bagno. Non possiamo chiederle di farla nel bosco.
– Io proprio non vedo che c’entri lei…
– E qualche volta ci va anche a preparare dei panini per tutti e due… – E allora? Quella è la mia cucina. La nostra cucina.
– È solo che la vista dell’alcol per lei è una minaccia seria. È ancora molto fragile. Sono cose che tu e io non possiamo capire.
Una minaccia. Alcol. Fragile.
Ma come si esprimeva, adesso, Jon?
Quello fu il momento in cui avrebbe dovuto capire, anche se lui era ancora ben lontano dalla consapevolezza. Jon si stava innamorando.
Detta cosí, dava l’idea di un lasso di tempo, di uno scivolamento progressivo. Ma la si poteva anche vedere come un moto di accelerazione, come l’attimo, il secondo prima di precipitare. Ora Jon non è innamorato di Edie. Tac. Ora lo è. Non c’è modo di considerare il fenomeno come probabile o anche solo possibile, a meno di concepirlo come una folgorazione, una calamità improvvisa. La mazzata del destino che fa di un uomo un invalido, lo scherzo crudele che trasforma occhi limpidi in sassi ciechi.
Joyce si mise d’impegno per convincerlo che stava commettendo uno sbaglio. Aveva cosí poca esperienza in fatto di donne. Nessuna, anzi, a parte lei. Avevano sempre pensato che la promiscuità fosse puerile, l’adulterio una scelta sgangherata e autolesionista. Ora invece si domandava, Sarebbe stato meglio se si fosse dato un po’ piú da fare?
Per giunta, aveva trascorso i bui mesi invernali sempre chiuso in quel laboratorio, esposto alle fiduciose irradiazioni di Edie. Era paragonabile ad ammalarsi per scarsa ventilazione.
Edie lo avrebbe fatto impazzire, se avesse continuato a prenderla sul serio.
– Ci ho pensato, – disse Jon. – Forse ci è già riuscita.
Joyce gli disse che era un discorso stupido, da ragazzini, rappresentare se stesso come una creatura ammutolita e indifesa.
– Cosa credi di essere, una specie di Cavaliere della Tavola Rotonda? Credi che qualcuno ti abbia drogato con una pozione?
Poi invece si scusò. L’unica cosa da fare, disse, era affrontare la faccenda con un piano comune. Attraversare la valle oscura. Un’esperienza che un giorno avrebbero giudicato come un piccolo intoppo nel loro matrimonio.
– Ne verremo fuori fra noi, – disse.
Jon le rivolse uno sguardo remoto, perfino gentile.
– Non c’è nessun «noi», – disse.
Come poteva essere successo? Joyce lo domanda prima a Jon e a se stessa e poi agli altri.
Un’apprendista tarda nei gesti e dura di comprendonio, sempre in calzoni sformati, camicia di flanella e – finché durava l’inverno – un brutto maglione pieno di segatura. Un cervello che si trascinava inesorabile da un luogo comune o un’idiozia all’altra, definendo ogni tappa del percorso legge universale. Una persona simile aveva eclissato Joyce con le sue gambe slanciate e la vita sottile e la lunga treccia di capelli scuri lucidi come la seta. Con il suo senso dell’umorismo e la musica e il secondo quoziente d’intelligenza piú alto di tutta la classe.
– Te lo dico io cosa credo sia stato, – spiega Joyce. Questo accade piú tardi, quando le giornate si sono fatte piú lunghe e i fiori ciondolanti delle code di lucertole invadono i fossi. Quando doveva andare a insegnare musica con gli occhiali scuri per nascondere occhi gonfi di pianto e di alcol, quando anziché tornare a casa, dopo il lavoro, si dirigeva in macchina al Willingdon Park perché sperava che Jon la venisse a cercare là, temendo volesse suicidarsi. (Ci venne, in effetti, ma una volta sola). – Credo sia il fatto che è stata una donna di strada, – diceva. – Le prostitute si fanno tatuare per ragioni professionali, e gli uomini trovano certe cose eccitanti. Non i tatuaggi, intendo… be’, pure quelli, certo, li eccitano anche i tatuaggi… ma io intendevo il fatto di essere state in vendita. Tutta quella disponibilità unita all’esperienza. Dopo la conversione, però. Ha trovato la sua Maddalena pentita da scopare, ecco cos’è. Proprio lui che dal punto di vista sessuale è come un bambino; roba da vomitare.
Adesso ha delle amiche con le quali può esprimersi in questo modo. Hanno tutte le loro storie alle spalle. Alcune le conosceva anche prima, ma non come ora. Si scambiano confidenze e bevono e ridono finché non si mettono a piangere. Non si capacitano, dicono. Di come sono gli uomini. Di quello che fanno. Che stupidi, che schifosi. Non ci si può credere.
Ed è per questo che è vero.
Durante discorsi del genere, Joyce si sente bene. Proprio benissimo. Sostiene perfino di avere momenti in cui prova riconoscenza per Jon, perché non si è mai sentita cosí viva. È terribile, ma è anche meraviglioso. Un nuovo inizio. La nuda verità. La nuda esistenza.
Quando però si svegliava alle tre o alle quattro del mattino, non si ricordava dov’era. Non piú in
casa loro. Adesso ci stava Edie. Edie, la sua bambina, e Jon. Era stata Joyce stessa a incoraggiare quel passo, pensando che potesse fare rinsavire Jon. Lei intanto si trasferí in un alloggio, in centro. Era di una docente in anno sabbatico. Joyce si svegliava la notte con la luce rosa dell’insegna del ristorante di fronte che lampeggiava vibrando dalla finestra, e illuminava le cianfrusaglie messicane dell’altra insegnante. Cactus in vaso, ciondoli di occhi di gatto, coperte a righe color sangue secco. Tutta l’introspezione ubriaca, tutta quell’euforia, fiottata fuori da lei come vomito. A parte questo, nessun postumo della sbronza. Poteva tracannare dei laghi di alcol, si sarebbe detto, e svegliarsi asciutta e appiattita come un foglio di cartone.
La sua esistenza, finita. Una banale catastrofe.
La verità era che, pur sentendosi perfettamente sobria, Joyce era ancora ubriaca. Rischiava di uscire, montare in macchina e andare a casa loro. Non di finire in un fosso, perché in quelle occasioni la sua guida si faceva lenta e pacata, ma di parcheggiare davanti alle finestre buie e di mettersi a urlare a Jon che era ora di dire basta.
Basta. È tutto sbagliato. Dille di andarsene.
Ti ricordi? ci siamo addormentati nel prato e ci siamo svegliati con le mucche che ci pascolavano intorno e noi non le avevamo viste la sera prima. Ti ricordi? andavamo a lavarci nell’acqua gelida del ruscello. E raccoglievamo funghi allucinogeni su Vancouver Island e tornavamo in Ontario in aereo a venderli per pagarci il viaggio quando stava male tua madre e noi pensavamo che stesse morendo. E ci dicevamo, Che ridere, non siamo nemmeno dei tossici, siamo solo in commercio per ragioni di amore filiale.
Il sole sorgeva e i colori del Messico cominciavano a urlarle addosso nella loro ravvivata bruttezza e dopo un po’ Joyce si alzava, si lavava e si sfregiava le guance di fard e beveva un caffè spesso come fango, e si metteva addosso uno dei suoi vestiti nuovi. Si era comprata magliette sottili e gonne svolazzanti e orecchini ornati di piume multicolori. Se ne andava a insegnare musica nelle scuole conciata come una danzatrice gitana o la cameriera di un night. Rideva di qualunque cosa e flirtava con tutti. Con il tizio che le preparava la colazione alla tavola calda sotto casa, con il giovanotto che le faceva il pieno all’auto e con l’impiegato che le vendeva i francobolli all’ufficio postale. Aveva la vaga idea che in qualche modo Jon avrebbe sentito dire quanto era bella, allegra e sensuale, e come si buttasse tra le braccia di tutti gli uomini. Appena metteva piede fuori dell’appartamento, saliva su un palcoscenico di cui Jon era spettatore preferenziale, per quanto indiretto. E questo, sebbene Jon non fosse mai cascato nella trappola di abiti vistosi e atteggiamenti seduttivi, e mai avesse pensato che fosse quello a renderla attraente. Quando viaggiavano, spesso si erano accontentati di un guardaroba essenziale. Calzettoni, jeans, camicie scure, giacche a vento.
Un’altra trasformazione.
Anche con gli allievi piú piccoli e meno brillanti, il suo tono di voce si era fatto carezzevole e pieno di risatine maliziose, e irresistibile l’incoraggiamento. Li stava preparando per il saggio di fine anno. Quella serata di spettacolo non l’aveva mai entusiasmata troppo: aveva l’impressione che interferisse con il progresso degli studenti di talento, che li scaraventasse in circostanze per le quali non erano ancora pronti. Tutta quella fatica, l’eccesso di tensione potevano creare solo valori fasulli. Quell’anno, invece, si gettò a capofitto in ogni aspetto della rappresentazione. Dal programma di sala, alle luci, alla presentazione dello spettacolo e, ovviamente, al suo allestimento. Doveva essere un’occasione di svago, dichiarava. Tanto per gli studenti, quanto per il pubblico.
È chiaro che contava sulla presenza di Jon. La figlia di Edie era una delle musiciste, perciò Edie ci sarebbe stata per forza. E Jon avrebbe dovuto accompagnarla.
La prima uscita pubblica di Jon e Edie in veste di coppia. La loro dichiarazione ufficiale. Non potevano evitarla. Svolte esistenziali come la loro non erano inaudite, specie tra la gente che abitava a sud del paese. Ma nemmeno le si poteva definire ordinaria amministrazione. Il fatto che risistemarsi non costituisse scandalo non voleva dire che avesse smesso di attirare l’attenzione. Si era destinati a suscitare notevole interesse per un certo periodo, prima che tutto si normalizzasse e che la gente facesse l’abitudine alla nuova unione. E lo stesso valeva per i diretti interessati, e presto la coppia di recente formazione si sarebbe vista chiacchierare, o quantomeno salutare nel negozio di alimentari, il coniuge abbandonato.
Questo tuttavia non era il ruolo che Joyce immaginava di riservare a se stessa, sotto gli occhi di Jon e di Edie – o meglio, di Jon – la sera del concerto.
E che cosa immaginava? Chi può dirlo? Nei momenti di lucidità non contemplava l’ipotesi di travolgere Jon al punto da riportarlo sulla retta via, comparendo a fine spettacolo per ricevere l’applauso del pubblico. Non pensava che gli si sarebbe spezzato il cuore all’idea della pazzia commessa, quando l’avesse vista felice e affascinante e sicura, anziché sconsolata e pronta al suicidio. Ma nemmeno immaginava qualcosa di poi tanto diverso: era un esito che non avrebbe saputo formulare, ma che non poteva smettere di augurarsi.
Fu il saggio migliore di sempre. Lo dissero tutti. Dissero che sprigionava piú energia. Piú spensieratezza e piú profondità al tempo stesso. I costumi dei bambini erano in perfetta armonia con la musica eseguita. E i faccini, truccati in modo da non mostrarsi in preda al terrore come bestie sacrificali.
Quando alla fine Joyce uscí sul palco, indossava una lunga gonna di seta nera che scintillava d’argento a ogni passo. Nonché bracciali e brillantina argentea sui capelli sciolti. Tra gli applausi, si levò qualche fischio.
Jon e Edie non erano nel pubblico.
II.
Joyce e Matt hanno organizzato una festa nella loro casa di North Vancouver. Si festeggia Matt, che compie sessantacinque anni. Matt è neuropsicologo e anche un discreto violinista dilettante. È cosí che ha conosciuto Joyce, ora violoncellista di professione e sua terza moglie.
– Guarda tutta questa gente, – ripete Joyce. – È davvero la storia di un’intera vita. È una donna magra ed entusiasta, con una zazzera di capelli grigio peltro e la schiena leggermente curva, forse a furia di abbracciare il suo grande strumento, o forse solo per l’abitudine inveterata all’ascolto gentile e la disponibilità continua alla conversazione.
Ci sono, naturalmente i colleghi di Matt del college; quelli che considera amici personali. Essendo un uomo generoso, ma senza peli sulla lingua, si capisce come mai non tutta la categoria dei colleghi rientri nel novero degli amici. C’è Sally, la sua prima moglie, accompagnata dalla badante. In seguito a un incidente stradale avvenuto quando aveva ventinove anni, Sally ha subíto un danno cerebrale, perciò è poco probabile che sappia chi è Matt, o i suoi tre figli ormai adulti; o che quella è la casa in cui ha abitato da sposa. Ma i suoi modi garbati sono rimasti gli stessi, e Sally appare lietissima di conoscere persone, anche se le sono già state presentate un quarto d’ora prima. La badante è un donnino ordinato, di origine scozzese, che si ritrova spesso a spiegare di non essere abituata a grandi feste tanto rumorose, e a ribadire che non beve mai, quando è in servizio.
La seconda moglie di Matt, Doris, è vissuta con lui meno di un anno, benché il matrimonio sia durato tre. È qui con la sua giovanissima compagna, Louise, e con la loro bambina, partorita da Louise pochi mesi fa. Doris ha mantenuto rapporti affettuosi con Matt e soprattutto con Tommy, ultimogenito di Matt e Sally, che era abbastanza piccolo, al tempo del suo matrimonio con il padre, da essere affidato alle sue cure. Sono presenti i due figli maggiori di Matt, con i loro figli e le rispettive madri, sebbene una di loro non sia piú sposata con il padre del bambino, il quale è accompagnato dall’attuale fidanzata e dal figlio di lei. Quest’ultimo ha appena fatto a botte con un nipote di sangue della famiglia riguardo alla questione dei turni in altalena.
Per la prima volta, Tommy ha portato con sé il suo amante Jay, che non ha ancora aperto bocca.
Tommy ha spiegato a Joyce che Jay non ha molta esperienza di famiglie.
– Come lo capisco, – risponde Joyce. – Pensa che una volta era cosí anche per me –. E intanto
ride. Non ha quasi mai smesso di ridere mentre procede a illustrare i legami piú o meno ufficiali di quello che Matt definisce il clan. Personalmente, Joyce non ha figli, pur avendo un ex coniuge, Jon, che abita sulla costa, in un piccolo centro industriale al momento in pessime acque. Lo ha invitato alla festa, ma non è potuto venire. Quello stesso giorno battezzano il nipote della sua terza moglie. Joyce ha naturalmente invitato anche lei, Charlene, che gestisce una panetteria. È stata Charlene a spedire quel bel biglietto per il battesimo e Joyce ha commentato con Matt di non riuscire a credere che Jon sia diventato religioso.
– Quanto avrei voluto che ce la facessero a venire, – dice, spiegando tutto a una vicina. (I vicini sono stati invitati onde evitare proteste per il chiasso). – Almeno avrei avuto modo di aggiornarmi sulle complicazioni. So della seconda moglie, ma non ho idea di dove sia finita, e ho l’impressione che neanche lui lo sappia.
C’è una montagna di cibo, tra quello che hanno preparato Matt e Joyce e quello che hanno portato i vicini, e tanto vino, e un punch alla frutta per i bambini e uno vero ideato da Matt per l’occasione – in tributo ai bei tempi andati, dice lui, quando la gente sapeva bere come si deve. Dice che gli era venuta voglia di prepararlo nel bidone dell’immondizia lavato bene, come si faceva una volta, ma al giorno d’oggi sono tutti troppo schizzinosi, e non l’avrebbero toccato. Perlopiú i giovani non lo toccano comunque.
Il giardino è grande. C’è il croquet, per chi ha voglia di giocare, e l’altalena contesa, quella che risale ai tempi dell’infanzia di Matt, tirata fuori dal garage per l’occasione. Quasi tutti i bambini presenti conoscono soltanto le altalene che hanno visto nei parchi e quelle di plastica dei cortili. Matt è certamente uno degli ultimi abitanti di Vancouver a poter vantare il possesso di una vera e propria altalena e a vivere ancora nella casa in cui è cresciuto, in Windsor Road sulle pendici del Grouse Mountain, un tempo ai margini della foresta. Ora vanno aumentando gli edifici che danno la scalata al monte, perlopiú manieri dotati di imponenti rimesse per auto. Un giorno o l’altro, dovrà decidersi a sbarazzarsi della casa, dice Matt. Le tasse sono uno sproposito. Perciò dovrà rinunciare a tenerla e, al suo posto, costruiranno un paio di mostruosità.
Joyce non sa immaginare la propria vita con Matt in nessun altro posto. Qui succede di tutto.
Gente che va e gente che viene lasciando in deposito cose che poi torna a riprendersi, figli compresi.
C’è il quartetto d’archi di Matt nello studio la domenica pomeriggio, e l’assemblea della
Congregazione unitariana in soggiorno la domenica sera, mentre in cucina si studiano tattiche per il Green Party. C’è il gruppo di lettura teatrale che declama davanti a casa, mentre in cucina qualcuno vuota il sacco sui dettagli di qualche melodramma della vita vera. (E la presenza di Joyce è richiesta su entrambi i set). C’è Matt chiuso in studio con alcuni colleghi di facoltà per mettere a punto chissà quali strategie.
Spesso le capita di commentare che lei e Matt si ritrovano ben di rado insieme da soli, se non a letto.
– E a quel punto lui sta sempre leggendo una cosa importantissima.
Lei, invece, una cosa irrilevante.
Non fa niente. Matt si porta appresso un’eterna allegria e un ardore che possono esserle utili. Perfino al college – dove ha a che fare con allievi, assistenti, possibili nemici e detrattori – Matt sembra sempre muoversi dentro un turbine arginato a stento. Tutto ciò una volta le era di cosí grande conforto. E lo sarebbe ancora, probabilmente, se Joyce avesse tempo di osservare la situazione dall’esterno. È probabile che si invidierebbe da sola, in quel caso. Gli altri la invidiano, o quantomeno la ammirano: la vedono come una compagna perfetta per Matt, avendo anche lei tutte le sue amicizie e gli impegni e gli interessi e, ovviamente, la sua personale carriera. A guardarla ora, uno non direbbe mai che al suo arrivo a Vancouver era talmente triste e sola da aver accettato di uscire con il ragazzo della tintoria, troppo giovane per lei di una buona decina d’anni. Ragazzo che peraltro non si era presentato all’appuntamento.
Ora sta attraversando il prato con uno scialle sul braccio per la vecchia Mrs Fowler, madre di Doris, la seconda moglie e lesbica tardiva. Mrs Fowler non può sedersi al sole, ma all’ombra le prendono i brividi. Nell’altra mano Joyce stringe un bicchiere di limonata fresca per Mrs Gowan, la badante in servizio di Sally. Mrs Gowan ha trovato troppo dolce il punch alla frutta dei bambini. A Sally non permette di bere niente: potrebbe sporcarsi il vestito bello oppure schizzare la bibita addosso a qualcuno in un eccesso di giocosità. L’umore di Sally non pare risentire della privazione. Durante il tragitto sul prato, Joyce passa accanto a un gruppo di giovani seduti in cerchio. Tommy, il suo nuovo compagno e altri amici che ha visto spesso in casa, insieme ad altri ancora che le sembra invece di non aver mai visto.
Sente Tommy che dice: – No, non sono Isadora Duncan.
Scoppiano tutti a ridere.
Capisce che stanno facendo quel gioco difficile e sofisticato che era in voga anni fa. Come si chiamava? Le pare che il nome cominciasse con la B. Joyce era convinta che al giorno d’oggi i giovani trovassero passatempi del genere troppo snob.
Buxtehude. L’ha detto a voce alta.
– È Buxtehude.
– Sulla B ci sei, – dice Tommy, ridendo di lei cosicché possano farlo anche gli altri.
– Sapete, – aggiunge. – La mia belle mère non è mica una sempliciotta. Solo che fa la musicista.
Non era un musicista, questo Buxtahoody?
– Buxtehude si fece cinquanta miglia a piedi per andare a sentire Bach che suonava l’organo, – dice Joyce vagamente irritata. – Sí. Un musicista.
Tommy esclama: – Caspita.
Una ragazza si alza dal cerchio e Tommy la chiama.
– Ehi, Christie. Christie. Non giochi piú?
– Torno subito. Vado solo a nascondermi tra i cespugli con la mia orrenda sigaretta.
La ragazza indossa un abito corto di pizzo nero che sembra piú una sottoveste o una camicia da notte, con sopra un giacchino nero, serioso ma scollato. Capelli chiari e sottili, faccia pallida e sfuggente, sopracciglia invisibili. Joyce la trova immediatamente antipatica. Il classico tipo, pensa, la cui missione nella vita è far sentire gli altri a disagio. Di quelle che si presentano senza invito – Joyce è convinta che nessuno l’abbia invitata – alle feste in casa di persone che non conoscono ma che si sentono in diritto di disprezzare. Per la disinvolta (o insulsa?) accoglienza e l’ospitalità borghese. (Ma c’è ancora qualcuno che usa il termine «borghese»?)
Non è affatto vero che gli ospiti non possano fumare dove vogliono. Non ci sono in giro i soliti cartelli pedanti, nemmeno dentro casa. Joyce sente gran parte del suo buonumore abbandonarla. – Tommy, – dice secca, – ti spiace portare questo scialle a nonna Fowler? Sembra che abbia freddo. La limonata invece è per Mrs Gowan. Hai presente, no? La signora che sta con tua madre.
Non guasta affatto ricordargli certi rapporti e responsabilità.
Tommy scatta subito in piedi, cortese.
– Botticelli, – dice, liberandole le mani dallo scialle e dal bicchiere.
– Scusami. Non volevo rovinarti il gioco.
– Non siamo capaci, comunque, – ribatte un ragazzo che conosce. Justin. – Non siamo colti come eravate voi una volta.
– Una volta, dici bene, – commenta Joyce. Per un istante smarrita, e incerta sul da farsi, sul dove andare, adesso.
Sono in cucina a lavare i piatti. Joyce, Tommy e il suo nuovo amico, Jay. La festa è finita. Gli ospiti se ne sono andati, tra baci, abbracci e allegri schiamazzi, qualcuno portandosi via vassoi di cibo che Joyce non saprebbe come sistemare in frigorifero. Insalate appassite, tartine alla panna e uova ripiene sono finite in pattumiera. Le uova sono avanzate quasi tutte, comunque. Non vanno piú di moda. Troppo colesterolo.
– Peccato, ci è voluto un mucchio di lavoro. Probabilmente a qualcuno hanno fatto venire in mente i pranzi in parrocchia, – dice Joyce, rovesciandone un piatto nel secchio della spazzatura. – Le faceva la mia nonna, – dice Jay. Sono le prime parole che le rivolge, e Joyce coglie l’espressione riconoscente sul volto di Tommy. Gli è grata anche lei, pur essendo stata inserita nella categoria delle nonne.
– Noi ne abbiamo mangiate parecchie; erano buone, – dice Tommy. È da almeno mezz’ora che lui e Jay aiutano Joyce a radunare bicchieri, piatti e posate che la gente ha abbandonato ovunque sul prato, in veranda e in giro per casa, anche nei posti piú stravaganti, tipo nei vasi da fiori e sotto i cuscini dei divani.
I ragazzi – perché ai suoi occhi sono ragazzi – hanno caricato la lavastoviglie meglio di quanto avrebbe saputo fare lei, con la stanchezza che ha addosso, e hanno riempito il lavello di acqua calda e sapone da un lato, e fresca da risciacquo dall’altro, per i bicchieri.
– Possiamo tenerli da parte e fare un secondo carico in lavastoviglie, – ha proposto Joyce, ma Tommy non ha voluto saperne.
– Non ti verrebbe nemmeno in mente di metterli in lavastoviglie, se tutto quello che ti è toccato fare oggi non ti facesse straparlare.
Jay lava, Joyce asciuga e Tommy mette via. Si ricorda ancora dove vanno le cose, in questa casa. Fuori nel portico, Matt ha ingaggiato un’intensa conversazione con un collega del dipartimento. A quanto pare non è poi cosí sbronzo come gli interminabili saluti e i calorosi abbracci di poc’anzi facevano supporre.
– È piú che probabile, in effetti, – dice Joyce. – Al momento, se dovessi dar retta all’impulso, sbatterei via tutto e comprerei dei servizi di plastica.
– Sindrome post-party, – dice Tommy. – La conosciamo benissimo.
– Ma chi era quella ragazza col vestito nero? – domanda Joyce. – Quella che ha smesso di giocare.
– Christie? Intendi Christie, probabilmente. Christie O’Dell. È la moglie di Justin, ma ha conservato il suo nome. Sai, no, chi è Justin?
– Certo che lo so. Ma non sapevo fosse sposato.
– Ah, come crescono in fretta questi ragazzi, – commenta Tommy, scherzoso.
– Justin ha trent’anni, – aggiunge. – Lei forse anche di piú.
Jay interviene: – Senz’altro di piú.
– È un tipo strano, – dice Joyce. – Com’è?
– Fa la scrittrice. Non è male.
Chinandosi sul lavello, Jay fa un verso che Joyce non è in grado di interpretare.
– Tende a starsene un po’ sulle sue, – dice Tommy. Si rivolge a Jay. – Dico bene? Lo pensi anche tu?
– Si crede chissà chi, – dichiara Jay francamente.
– Be’, ha appena pubblicato il suo primo libro, – dice Tommy. – In questo momento mi sfugge il titolo. Non mi pareva granché, però, un titolo un po’ da manuale. Comunque, immagino che quando esce il tuo primo libro, per un po’ in effetti sei chissà chi.
Passando davanti a una libreria su Lonsdale Avenue qualche giorno dopo, Joyce vede la faccia della ragazza su un manifesto. E c’è anche il suo nome: Christie O’Dell. Ha un cappello nero e lo stesso giacchino che indossava alla festa. Di buon taglio, asciutto, con scollatura molto profonda. Benché ci sia ben poco da mettere in mostra. Guarda dritto dentro l’obiettivo con un’espressione fiera, ferita e vagamente accusatoria.
Dove l’ho già vista, si domanda Joyce. Alla festa, è ovvio. Ma anche allora, in preda a quella fitta di antipatia probabilmente ingiustificata, le era parso che quella faccia non le fosse nuova.
Un’allieva? Ne aveva avute talmente tante.
Entra nel negozio e acquista una copia del libro. Come dobbiamo vivere. Niente punto interrogativo. La commessa che glielo vende dice: – E lo sa che se torna con il libro venerdí pomeriggio fra le due e le quattro, ci sarà qui l’autrice a firmare le copie?
Si ricordi soltanto di non staccare l’adesivo dorato che dimostra che l’ha preso qui. Joyce non ha mai capito perché la gente si metta in fila per il gusto di posare gli occhi sull’autore di un libro e andarsene con la firma di uno sconosciuto in prima pagina. Perciò bofonchia qualcosa che non è né un sí né un no.
Non sa neppure se leggerà il libro. Al momento ha cominciato un paio di belle biografie che certamente sono piú il suo genere, rispetto a questo.
Come dobbiamo vivere è una raccolta di racconti; non un romanzo. Il che è già di per sé una delusione. Sembra sminuire l’autorevolezza del libro e far apparire l’autore come qualcuno che sta solo appeso ai cancelli della letteratura con la L maiuscola, anziché averli saldamente varcati.
Comunque quella sera Joyce si porta il libro a letto e ne scorre doverosamente l’indice. A metà dell’elenco, un titolo cattura il suo sguardo.
«Kindertotenlieder».
Mahler. Terreno familiare. Rassicurata, cerca la pagina relativa. Qualcuno, probabilmente la stessa autrice, ha avuto il buonsenso di fornire una traduzione.
«Canti dei bambini morti».
Al suo fianco, Matt sbruffa rumorosamente.
Joyce sa che è in disaccordo con qualcosa che sta leggendo e vorrebbe sentirsi chiedere di cosa si tratta. Lo asseconda.
– Cristo. Questo idiota.
Joyce si rovescia sul petto il volume aperto di Come dobbiamo vivere, e fa capire di essersi messa in ascolto.
Anche sul retro di copertina c’è una foto dell’autrice, solo senza cappello questa volta. Sempre seria e imbronciata, ma con l’aria un po’ meno presuntuosa. Mentre Matt parla, Joyce sposta le ginocchia in modo da riuscire ad appoggiarci contro il libro, e leggere le poche righe di biografia. Christie O’Dell è cresciuta a Rough River, una cittadina costiera del British Columbia. Laureatasi in
Scrittura creativa presso la University of British Columbia, risiede a Vancouver, B.C., con il marito,
Justin, e il gatto, Tiberius. Dopo averle spiegato le ragioni dell’idiozia riscontrata nel proprio libro, Matt solleva lo sguardo dalla pagina e, guardando il libro di Joyce, le dice: – Ma quella è la ragazza che era alla nostra festa!
– Sí. Si chiama Christie O’Dell. È la moglie di Justin.
– E ha scritto un libro? Che cos’è?
– Racconti.
– Ah.
Torna alla propria lettura, ma un attimo dopo, con una punta di rimorso, le chiede: – E vale la pena?
– Non lo so ancora.
«Abitava con la madre – legge – in una casa a metà strada fra le montagne e il mare…» Le bastano queste poche parole e già si sente troppo a disagio per continuare a leggere.
Perlomeno, con suo marito accanto. Chiude il libro e dice: – Scendo un momento, sai?
– Ti dà fastidio la luce? Guarda che sto per spegnere.
– No. Credo di aver voglia di un tè. Torno tra poco.
– Dormirò, quando arrivi.
– Buonanotte, allora.
– Buonanotte.
Lo bacia e si porta via il libro.
Abitava con la madre in una casa a metà strada fra le montagne e il mare. Prima invece aveva abitato da Mrs Noland, che ospitava bambine in affido. Il numero di bambine in casa Noland variava, ma era sempre troppo alto. Le piccole dormivano in un letto in mezzo alla stanza e le grandi in brande sistemate su entrambi i lati del letto per evitare che le piccole rotolassero a terra. La mattina, per svegliarsi, c’era una campanella. Era Mrs Noland a suonarla, sulla porta della stanza. Alla seconda scampanellata dovevi aver già fatto la pipí, esserti lavata e vestita ed essere pronta per la colazione. Le grandi dovevano aiutare le piccole e poi rifare i letti. Certe volte le piccole bagnavano le lenzuola perché non era facile scavalcare le brande in tempo. Qualcuna delle grandi faceva la spia, ma ce n’erano anche di piú brave che tiravano su le coperte e lasciavano che il lenzuolo asciugasse e a volte, la sera, quando ti infilavi a letto non era ancora completamente asciutto. Di casa Noland ricordava in pratica soltanto questo.
Poi andò a stare da sua madre e tutte le sere lei la portava con sé all’Alcolisti Anonimi. Era costretta a farlo, perché non sapeva a chi affidarla. All’Alcolisti Anonimi c’era una scatola di Lego e i bambini ci potevano giocare, ma a lei il Lego non piaceva granché. Dopo aver cominciato il corso di musica a scuola, si portava il violino alle riunioni. Non lo poteva suonare lí, ma doveva sempre tenerlo d’occhio perché era di proprietà della scuola. Se la gente si metteva a parlare molto forte, poteva esercitarsi un po’, pianissimo.
Le lezioni di violino si svolgevano a scuola. Se non ti andava di suonare uno strumento, potevi dedicarti al triangolo, ma la maestra era piú contenta se sceglievi qualcosa di difficile. La maestra era una donna alta, dai capelli castani che di solito portava raccolti in una lunga treccia sulla schiena. Aveva un odore diverso dalle altre maestre. Qualcuna usava il profumo, lei mai. Sapeva di stufa a legna, di alberi. In seguito la bambina si fece l’idea che fosse odore di legno di cedro tagliato. Quando la madre della bambina andò a lavorare dal marito della maestra, cominciò ad avere anche lei lo stesso odore, ma non proprio. La differenza era che la madre sapeva di legno, ma la maestra sapeva di legno in musica.
La bambina non aveva un grande talento, però si impegnava. Non perché le piacesse la musica.
Lo faceva per amore della maestra, e nient’altro.
Joyce appoggia il libro sul tavolo di cucina e torna a osservare la foto dell’autrice. C’è qualcosa di Edie in quella faccia? Niente. Nella forma, come nell’espressione.
Si alza, prende la bottiglia del brandy e se ne versa un goccio nel tè. Cerca di farsi venire in mente il nome della figlia di Edie. Christie non era, di sicuro. Non ricorda una sola volta in cui Edie l’abbia portata a casa. A scuola erano tante le bambine che studiavano violino.
La piccola non doveva essere stata del tutto incapace, altrimenti Joyce l’avrebbe indirizzata verso uno strumento meno difficile. Ma non doveva essere dotata – del resto l’aveva detto lei stessa –, altrimenti il suo nome le sarebbe rimasto impresso.
Un viso anonimo. Un fagottino di infantile femminilità. Sebbene Joyce avesse in effetti riconosciuto qualcosa nel viso della ragazza, della donna, cresciuto.
Non poteva essere venuta a casa, magari una volta che Edie aiutava Jon di sabato? Oppure uno di quei giorni in cui Edie si presentava un po’ come se fosse in visita, non per lavorare ma per vedere come procedeva il lavoro e dare una mano, in caso di bisogno. Si piazzava lí a guardare Jon che faceva una cosa o l’altra, e a impedirgli qualsiasi discorso con Joyce nel suo unico, prezioso giorno libero.
Christine. Ma certo. Ecco il nome. Facilmente trasformato in Christie.
Christine doveva aver avuto a che fare in qualche modo con il corteggiamento. Di sicuro Jon passava a trovarle nel loro alloggio, come Edie veniva a fare visita in casa. Edie doveva aver sondato la bambina.
Ti è simpatico Jon?
Ti piace casa sua?
Non sarebbe bello andare ad abitare a casa di Jon?
La mamma e Jon si vogliono tanto bene e quando due persone si vogliono tanto bene hanno voglia di abitare nella stessa casa. La maestra di musica e Jon non si vogliono bene come la mamma e Jon, perciò ora noi tre, tu, la mamma e Jon, andremo a stare in casa di Jon e la tua maestra invece andrà a stare in un appartamento.
Macché; Edie non avrebbe mai sparato simili baggianate, a onor del vero.
Joyce pensa di sapere che piega prenderà la storia. La bambina sarà coinvolta nelle faccende e negli inganni degli adulti, tirata di qua e di là. Ma quando riprende il libro in mano, scopre che del trasferimento da una casa all’altra si fa appena cenno.
Tutto il racconto ruota sul cardine dell’amore della bambina per la maestra.
Il giovedí, giorno della lezione di musica, è il momento cruciale della settimana; felicità o infelicità dipendono dalla buona o cattiva esecuzione della piccola al violino, e dalla reazione della maestra. Entrambe le circostanze risultano pressoché intollerabili. La voce della maestra può velarsi di una controllata gentilezza e scherzosità per mascherare fatica e delusione. La bambina è distrutta.
Oppure, la maestra all’improvviso si fa spensierata e allegra.
«Bene. Molto bene. Quest’oggi hai fatto autentici progressi». E la bambina è talmente felice che le vengono i crampi allo stomaco.
Poi viene quel giovedí in cui la bambina si graffia un ginocchio inciampando, al parco giochi. E la maestra le pulisce la ferita con il panno bagnato d’acqua tiepida, e con voce inaspettatamente tenera le dice che qui ci vuole proprio una coccola, e prende il vaso degli Smarties, quelli che adopera per incoraggiare i piú piccini.
– Qual è il tuo preferito?
La bambina, sopraffatta, dice: – Qualunque.
Sarà l’inizio di una trasformazione? Sarà perché è primavera, perché ci si prepara al saggio? La bambina si sente prescelta. Le viene affidato un brano da solista. Il che vuol dire che il giovedí dovrà trattenersi dopo scuola per esercitarsi, cosí perde il pulmino che la porta fuori del paese, alla casa dove ora abitano lei e la mamma. L’accompagnerà la maestra. Durante il tragitto, la maestra le chiede se è nervosa per il saggio.
Un po’.
Allora, dice la maestra, deve allenarsi a pensare a qualcosa di bellissimo. Come un uccello che attraversa il cielo in volo. Qual è il suo uccello preferito?
Di nuovo il preferito. La bambina non riesce a pensare, non è in grado di farsi venire in mente il nome di un solo uccello. Alla fine dice: – La cornacchia?
La maestra ride. – D’accordo. Va bene. Pensa a una cornacchia. Prima di metterti a suonare, pensa a una cornacchia.
Poi, forse per rimediare alla risata, sensibile all’umiliazione della bambina, la maestra propone di andare al Willingdon Park a controllare se il chiosco dei gelati ha già aperto per la bella stagione. – Si preoccupano se non vai subito a casa?
– Sanno che sono con lei.
Il chiosco è aperto, ma la scelta è limitata. I gusti piú speciali non ci sono ancora. La bambina opta per la fragola, badando a non farsi prendere alla sprovvista questa volta, confusa com’è dall’ansia e dalla gioia sublime. La maestra sceglie vaniglia, come spesso fanno gli adulti. Scherza con il gelataio, però, dicendogli di affrettarsi a preparare il malaga, o non gli vorrà piú bene.
Forse è lí che avviene un altro cambiamento. Sentendo la maestra parlare cosí, con quella voce impertinente, quasi da ragazza, la bambina si rilassa. Da quel momento, sebbene felicissima, non sarà piú paralizzata dall’adorazione. Vanno in macchina al molo a vedere le barche ormeggiate, e la maestra le dice che ha sempre desiderato vivere in una casa galleggiante. Deve essere bellissimo, no? E la bambina, ovviamente, concorda. Si scelgono la barca che vorrebbero. È fatta a mano e dipinta di celeste, con una fila di finestre piccoline ciascuna con il suo vaso di gerani.
A quel punto il discorso passa alla casa dove adesso abita la bambina, e dove una volta abitava la maestra. E chissà come, anche in seguito, durante il percorso in macchina, parlano spesso di quell’argomento. La bambina è contenta di avere la sua cameretta, ma non le piace che sia cosí buio, fuori. Certe volte le sembra di sentire degli animali, dalla finestra.
Che animali?
Orsi, coguari. Secondo sua madre stanno in foresta e non si avvicinano alle case. – E quando li senti cosa fai, corri nel letto della mamma?
– Non mi lascia.
– Santo cielo, come mai?
– Perché c’è Jon.
– E Jon che ne pensa, degli orsi e dei coguari?
– Secondo lui sono solo cervi.
– E si è arrabbiato con la mamma per quello che ti ha detto?
– No.
– Scommetto che non si arrabbia mai.
– Una volta, un pochino si è arrabbiato. Quando io e la mamma gli abbiamo rovesciato tutto il vino nel lavello.
La maestra dice che è un peccato avere sempre paura dei boschi. Ci sono delle passeggiate da fare, dice, posti dove gli animali non danno nessun fastidio, specie se uno fa rumore, e di solito se ne fa. La maestra conosce i sentieri sicuri e anche i nomi di tutti i fiori selvatici che stanno per sbocciare proprio adesso. Denti di cane. Trillium. Gigli dorati. Violette e colombine. Lilium di cioccolato. – Il nome vero e proprio credo sia diverso, ma a me piace chiamarli cosí, lilium di cioccolato. Sembra buonissimo. Naturalmente, il sapore non c’entra, dipende dal colore. Sembrano fatti di cioccolato con dentro un po’ di viola, tipo frutti di bosco pestati. Sono fiori rari, ma io so dove ce n’è qualcuno.
Joyce rimette giú il libro. Ecco, adesso ha veramente capito dove si andrà a parare, sente l’orrore in arrivo. La bambina innocente, l’adulta falsa e morbosa, la seduzione. Doveva immaginarlo. Cosí in voga di questi tempi, quasi obbligatorio. I boschi, i fiori di primavera. Ecco il punto in cui la scrittrice innesterà la sua laida frottola sulle persone e la circostanza che aveva desunto dalla vita vera, essendo troppo svogliata per inventare, ma non per produrre malignità.
Qualche frammento di vero, in effetti, c’è. Joyce ricorda cose che aveva dimenticato. Di aver accompagnato a casa Christine, senza aver mai pensato a lei come a Christine, ma sempre e solo come alla figlia di Edie. Si ricorda di quando non riusciva a entrare in cortile per fare manovra, cosí lasciava la bambina sul ciglio della strada, poi proseguiva di un mezzo miglio per trovare un posto dove girare la macchina. Non ricorda niente del gelato. In compenso, c’era una casa galleggiante proprio come quella descritta, ormeggiata giú al molo. Perfino i fiori, e le abominevoli domande insidiose alla bambina, potrebbero essere veri.
Deve proseguire. Vorrebbe versarsi altro brandy, ma domani l’aspettano le prove, alle nove del mattino.
Niente del genere. Ha preso un altro abbaglio. Boschi e lilium di cioccolato escono di scena, del saggio si fa appena cenno. La scuola è finita da poco. E la domenica mattina della settimana conclusiva la bambina viene svegliata di buon’ora. Sente la voce della maestra in cortile e va alla finestra. La maestra è in macchina, con il finestrino abbassato e sta parlando con Jon. Agganciato all’auto c’è un carrello per traslochi U-Haul. Jon, scalzo e a petto nudo, ha addosso soltanto i jeans. Chiama la madre della piccola e questa compare sulla porta di cucina e avanza di alcuni passi in cortile, ma non raggiunge la macchina. Indossa una camicia di Jon che usa come vestaglia. Porta sempre le maniche lunghe per nascondere i tatuaggi.
La conversazione verte su qualcosa che ora è nell’appartamento e che Jon promette di andare a prelevare. La maestra gli lancia le chiavi. Dopodiché Jon e la madre della bambina, invitano contemporaneamente la maestra a prendersi qualcos’altro. Lei però fa una risata antipatica e ribatte: – È tutto vostro –. Poco dopo Jon dice: – D’accordo. Allora, ciao, – e la maestra risponde: – Ciao, – mentre la madre della bambina non dice niente di udibile. La maestra ride di nuovo come prima e Jon le dà indicazioni su come girare auto e carrello in cortile. A quel punto la bambina si precipita di sotto in pigiama, pur sapendo che la maestra non è dell’umore giusto per darle retta.
– Troppo tardi, – dice la madre della bambina. – Doveva prendere il traghetto.
Si sente un colpo di clacson; Jon solleva una mano. Poi attraversa il cortile e dice alla madre della bambina: – Ecco fatto.
La bambina chiede se la maestra tornerà e lui risponde: – Mi sa di no.
La metà pagina successiva contiene la descrizione della crescente consapevolezza della bambina riguardo all’accaduto. Con il passare degli anni, le tornano in mente certe domande, apparentemente casuali, che avevano lo scopo di sondare il terreno. Informazioni – per la verità abbastanza insulse – a proposito di Jon (che qui non si chiama Jon) e di sua madre. A che ora si alzano la mattina? Che cosa amano mangiare, e lo cucinano insieme? Che programmi ascoltano alla radio?
(Nessuno: hanno comprato un televisore).
Cosa voleva la maestra? Sperava forse di sentirsi raccontare delle cattiverie? O era semplicemente smaniosa di sapere qualunque cosa, di rimanere in contatto con qualcuno che dormiva sotto lo stesso tetto, mangiava alla stessa tavola e viveva giorno dopo giorno accanto a quei due? È questo che la bambina non potrà mai sapere. Ciò che sa invece è quanto poco abbia contato la sua persona, come sia stata manipolata la sua infatuazione, e che povera piccola stupida lei sia stata. Il che la riempie di amarezza, non c’è dubbio. Amarezza e orgoglio. Ora pensa a se stessa come a qualcuno che non si farà prendere in giro mai piú.
Succede qualcosa, tuttavia. Ed ecco il finale a sorpresa. I suoi sentimenti nei riguardi della maestra e di quel tempo della sua infanzia un bel giorno cambiano. Non sa dire come né quando, ma si rende conto che ha smesso di pensare a quel periodo come a un inganno. Pensa alla musica e alla fatica estrema che le costava studiarla (ha smesso, ovviamente, ancor prima dell’adolescenza). All’ottimismo delle sue speranze, ai momenti di felicità, ai nomi strani e bellissimi dei fiori della foresta che non ha mai avuto modo di vedere.
Amore. Ne è stata contenta. Sembrava quasi che l’economia emotiva del mondo dovesse contemplare una forma di parsimonia sentimentale fortuita e naturalmente scorretta, se l’immensa felicità – per quanto passeggera, per quanto effimera – di una persona poteva nascere dall’immensa infelicità di un’altra.
Be’, sí, pensa Joyce. Sí.
Il venerdí pomeriggio torna in libreria. Si porta la copia del libro da firmare, e una piccola scatola di cioccolatini presi da Le Bon Chocolatier. Si mette in coda. È un po’ sorpresa dalla quantità di persone presenti. Donne della sua età, ma anche piú vecchie e piú giovani. Qualche uomo, immancabilmente piú giovane; qualcuno venuto ad accompagnare la sua ragazza.
La donna che le ha venduto il libro la riconosce.
– Mi fa piacere rivederla, – dice. – Ha letto la recensione sul «Globe»? Accidenti!
Joyce è disorientata, trema persino un po’. Fatica a parlare.
La donna informa le persone in fila che potranno essere autografati soltanto i volumi acquistati in quel negozio e che, purtroppo, non sarà presa in considerazione una certa antologia nella quale compare un racconto di Christie O’Dell.
Davanti a Joyce c’è una signora alta e massiccia che le impedisce di vedere Christie fino al momento in cui si china per appoggiare sul tavolo il libro da firmare. E quella che Joyce si trova di fronte è una giovane completamente diversa dalla ragazza del poster e da quella della festa. Sparito il vestitino nero, e il cappello. Christie O’Dell indossa una giacchetta in broccato di seta rosso fragola, con minuscole perline dorate cucite sui revers. Sotto, si intravede una delicata camiciola rosa. I capelli sono stati rinfrescati di recente con un riflessante biondo miele, alle orecchie ha cerchi d’oro e, intorno al collo, una catenina sottile come un filo. Ha le labbra lucide come petali di fiori e, sugli occhi, un velo di ombretto color terra bruciata.
D’altra parte, chi ha voglia di comprare un libro da una persona scorbutica, o frustrata?
Joyce non ha preparato quello che dirà. Pensa che le verrà in mente qualcosa.
Ora la commessa sta parlando di nuovo.
– Ha già aperto il libro alla pagina dove desidera l’autografo?
Per poterlo fare Joyce deve mettere giú la scatola. Si sente le farfalle in gola, le sente davvero. Christie O’Dell la guarda e le sorride: il sorriso di un’allenata cordialità mista a distacco professionale.
– Il suo nome?
– Joyce è sufficiente.
Ha pochissimo tempo a disposizione.
– Lei è nata a Rough River?
– No, – dice Christie O’Dell con una nota di vago dispetto, o perlomeno di minore allegria nella voce. – Però ci ho abitato per qualche tempo. Vuole che le metta la data?
Joyce prende in mano la scatola. Da Le Bon Chocolatier vendevano in effetti dei fiori di cioccolato, ma non lilium. Soltanto rose e tulipani. Perciò ha preso i tulipani, per analogia con i lilium.
Bulbacee tutti e due.
– Volevo ringraziarla per «Kindertotenlieder», – dice, talmente in fretta da mangiarsi quasi quella parola interminabile. – Significa moltissimo per me. Le ho portato un regalo.
– Che racconto meraviglioso, quello, no? – La signora del negozio si impadronisce della scatola. – Questa per ora la conservo io.
– Non è una bomba, – dice Joyce ridendo. – Sono lilium di cioccolato. Anzi, tulipani. I lilium non li avevano, cosí ho preso i tulipani, mi sembrano il ripiego migliore.
Nota che la commessa non ricambia il sorriso e le lancia invece un’occhiata severa. Christie O’Dell dice: – La ringrazio.
Non un cenno di agnizione, sul viso della giovane. Non riconosce né la Joyce di anni fa, a Rough River, né quella di due settimane orsono, alla festa. Non è nemmeno detto che abbia riconosciuto il titolo del suo racconto. Si direbbe che la faccenda non la riguardi affatto. Come se fosse un impedimento dal quale è riuscita a divincolarsi e che ha lasciato a terra fra l’erba.
Christie O’Dell è lí seduta e scrive il proprio nome come se fosse l’unico atto di scrittura al mondo di cui la si possa ritenere responsabile.
– È stato un piacere parlare con lei, – dice la libraia, senza staccare gli occhi dalla scatola che la ragazza di Le Bon Chocolatier ha confezionato con un ricciuto nastro giallo.
Christie O’Dell ha già alzato lo sguardo sulla successiva persona in coda e Joyce finalmente ha il buonsenso di farsi da parte, prima di poter diventare lo zimbello di tutti i presenti e di vedere, chi lo sa, la scatola trasformarsi in un oggetto di eventuale interesse per le forze dell’ordine.
Mentre percorre a piedi Lonsdale Avenue, in salita, si sente a terra, ma recupera a poco a poco la padronanza di sé. Questo potrebbe perfino diventare un aneddoto divertente da raccontare a qualcuno un giorno o l’altro. Non si stupirebbe.
Wenlock Edge
Mia madre aveva un cugino scapolo che ogni estate veniva a trovarci alla fattoria. Si portava appresso la madre, la zia Nell Botts. Lui di nome faceva Ernie Botts. Era un uomo alto di statura, florido, dall’aria gioviale, con un faccione squadrato e riccioli chiari che gli spuntavano dritti sopra la fronte. Aveva mani e unghie sempre pulite come sapone, e i fianchi un po’ tondi. Quando non mi sentiva, io lo chiamavo Ernest la Botte. Avevo una bella linguaccia.
Ma ero convinta di non voler fare del male a nessuno. O quasi. Dopo la morte della zia Nell Botts, Ernest non venne piú, però mandava gli auguri, a Natale.
Quando mi iscrissi al college a London – London, Ontario, s’intende – dove viveva, lui prese l’abitudine di portarmi a cena fuori a domeniche alterne. A me quella sembrava una cosa che aveva deciso di fare perché eravamo parenti, perciò non si sentiva nemmeno in dovere di chiedersi se fosse appropriato che trascorressimo del tempo insieme. Mi portava sempre nello stesso posto, un ristorante che si chiamava Old Chelsea, al primo piano di un edificio su Dundas Street. C’erano i tendoni in velluto, le tovaglie bianche e piccole lampade col paralume rosa sui tavoli. Probabilmente era un locale al di sopra delle sue possibilità, ma io non ci stavo a pensare perché, arrivando dalla campagna, ero convinta che un uomo di città che usciva ogni giorno in giacca e cravatta e ostentava unghie tanto pulite, dovesse aver raggiunto un tale livello di agiatezza da considerare lussi del genere normale amministrazione.
Sceglievo sempre le proposte piú esotiche sul menu, tipo vol-au-vent di pollo o canard à l’orange, mentre lui ordinava roast-beef. I dolci arrivavano al tavolo su un carrello portavivande. Di solito c’era una torta altissima al cocco, tartine alla crema con fragole fuori stagione, e cornetti di sfoglia ricoperti di cioccolato e farciti di panna. Ci mettevo un mucchio di tempo a decidere, come fanno i bambini di cinque anni con i gusti del gelato, e il lunedí mi toccava digiunare tutto il giorno, per smaltire l’abbuffata.
Ernie sembrava un po’ troppo giovane per essere mio padre. Speravo che nessuno del college potesse vederci e pensare che era il mio fidanzato.
Mi chiedeva del mio piano di studi e poi annuiva con aria solenne quando gli dicevo, o gli ricordavo, che seguivo corsi avanzati d’inglese e di filosofia. Lui non strabuzzava gli occhi, a sentirlo, come faceva la gente a casa. Mi diceva di avere grande rispetto per gli studi e che gli dispiaceva di non avere avuto i mezzi per proseguire i suoi, dopo le superiori. Si era invece dovuto trovare un lavoro come bigliettaio alle ferrovie Canadian National. Adesso era controllore.
Amava le buone letture, ma non potevano sostituire un’istruzione di livello universitario. Io ero piuttosto sicura che per buone letture intendesse i classici condensati del Reader’s Digest e, per distrarlo dall’argomento dei miei corsi di studio, gli parlavo del pensionato in cui stavo. Al tempo, i college non disponevano di dormitori, perciò alloggiavamo tutti in pensioni, appartamenti economici o residenze studentesche. La mia camera era la soffitta di una vecchia casa, e aveva una vasta superficie calpestabile, ma il soffitto troppo basso in piú punti. Tuttavia, essendo stata in passato l’alloggio della domestica, aveva il bagno privato. Al primo piano c’erano stanze occupate da altre due borsiste che frequentavano l’ultimo anno di Lingue moderne. Si chiamavano Kay e Beverly. Nelle camere dai soffitti alti ancorché scrostati del pianoterra abitavano uno studente di medicina, che non c’era quasi mai, e sua moglie Beth, che invece stava in casa tutto il tempo perché aveva due figli piccolissimi. Beth era la direttrice dello stabile nonché l’addetta a incassare gli affitti e spesso si scatenava una faida tra lei e le ragazze del primo piano perché lavavano i panni e li appendevano ad asciugare in bagno. Quando lo studente di medicina era a casa gli capitava di dover usare il bagno di sopra, perché quello del pianterreno era occupato dalla roba dei bambini e, secondo Beth, non era logico che si ritrovasse calze da donna e un mucchio di biancheria intima che gli penzolava in faccia. Kay e Beverly ribattevano che all’atto del trasferimento era stato loro promesso l’uso privato dei servizi.
Era questo il genere di cose che sceglievo di raccontare a Ernie, il quale arrossiva e diceva che avrebbero dovuto farselo mettere nero su bianco.
Kay e Beverly erano una delusione per me. Studiavano parecchio a Lingue moderne, ma in quanto a discorsi e interessi non si discostavano granché dalla media delle impiegate di banca o di ufficio. Il sabato si mettevano i bigodini e lo smalto sulle unghie, perché la sera uscivano con i rispettivi fidanzati. E la domenica erano costrette a spalmarsi creme emollienti per lenire le escoriazioni da barba inflitte alle loro facce. Io non trovavo affatto desiderabile nessuno dei due giovanotti, e mi chiedevo come facessero loro a pensarla diversamente.
Dicevano che in passato si erano messe in testa l’idea balzana di diventare interpreti alle Nazioni Unite, ma ormai avevano capito che sarebbero state insegnanti al liceo e, con un po’ di fortuna, si sarebbero sposate.
Mi elargivano consigli indesiderati.
Avevo trovato lavoro alla mensa del college. Giravo con un carrello a raccogliere i piatti sporchi e a pulire i tavoli sparecchiati. E disponevo il cibo pronto nelle scansie del self-service.
Secondo loro quell’impiego non era una buona idea.
– Nessun ragazzo ti inviterà mai a uscire, se ti vede fare quel lavoro.
Lo raccontai a Ernie e lui commentò: – E tu cosa hai detto?
Risposi di aver ribattuto che non avrei avuto nessuna voglia di uscire con uno che la pensasse a quel modo, perciò non vedevo il problema.
Dovevo aver toccato la corda giusta. Ernie si illuminò; agitò le mani nell’aria.
– Giustissimo, – disse. – Proprio l’atteggiamento giusto da assumere. Un lavoro onesto. Non dare mai retta a nessuno che cerchi di sminuirti perché fai un lavoro onesto. Tu va’ per la tua strada e ignora gente del genere. Cammina a testa alta. E se a qualcuno non piace, dovrà farsene una ragione. Quel suo discorso, unito alla rettitudine e alla stima che gli illuminavano il faccione, e all’entusiasmo sgraziato del suo gesticolare, suscitò in me i primi dubbi, i primi sinistri sospetti che l’avvertimento ricevuto potesse essere dopotutto abbastanza fondato.
Trovai sotto la porta un biglietto in cui si diceva che Beth mi voleva parlare. Temevo che fosse a proposito del soprabito che avevo messo sul mancorrente ad asciugare, o dell’eccessivo baccano che facevo salendo le scale quando suo marito Blake (qualche volta) e i bambini (sempre) dovevano riposare durante il giorno.
La porta si aprí sullo scenario di tribolazione e disordine in cui pareva che Beth trascorresse le sue giornate. C’era il bucato – ciripà e odorose copertine di lana – appeso a una specie di rastrelliera al soffitto, mentre i biberon tintinnavano bollendo sul fornello, dentro uno sterilizzatore. I vetri alle finestre erano appannati e sulle sedie si ammucchiavano stracci fradici o luridi peluche. Il bambino piú grande, aggrappato alle sbarre del recinto, lanciava urla di protesta – Beth doveva averlo appena sistemato lí – mentre il piccolo stava sul seggiolone, con una poltiglia di pappa color zucca spalmata intorno alla bocca e sul mento, come uno sfogo cutaneo.
Beth faceva capolino da tutto ciò con un’espressione superba sul visino piatto, come a dire che non molta gente sarebbe riuscita a tollerare un simile incubo con la sua disinvoltura, sebbene il mondo fosse poi troppo ingeneroso per dargliene il minimo credito.
– Ti ricordi – mi disse, subito costretta ad alzare la voce per competere con le urla del grande – che quando ti sei trasferita ti avevo accennato al fatto che su da te c’era spazio per due persone? Sempre che non ci si alzi in piedi, stavo per replicare, ma lei proseguí, informandomi senza tanti complimenti che stava per arrivare un’altra ragazza. Avrebbe dormito in casa dal martedí al venerdí. Frequentava certi corsi al college come uditrice.
– Stasera Blake sistema la poltrona letto. Vedrai che la nuova non occuperà molto spazio. Non so perché dovrebbe portarsi tanti vestiti, visto che vive in città. D’altra parte sono sei settimane che hai tutto il posto per te, e continuerai ad averlo ogni fine settimana.
Di riduzioni d’affitto non fece parola.
In effetti Nina non occupava molto spazio. Era minuta e si muoveva con accortezza; non le capitava mai di sbattere la testa nelle travi, come facevo io. Passava un mucchio di tempo seduta sulla poltrona letto a gambe incrociate, con il viso seminascosto dai capelli biondo scuro e con addosso un kimono che lei portava slacciato sulla biancheria da bambina. Aveva vestiti bellissimi: un cappotto in pelo di cammello, maglie di cashmere, una gonna a pieghe scozzese con grande spilla d’argento. Esattamente il genere di abbigliamento da servizio fotografico su rivista intitolato: Nella valigia della matricola che affronta una nuova vita al campus. Ma nell’istante in cui rincasava dal college si liberava di quel costume e passava al kimono. Di solito non si preoccupava di appendere niente. Avevo anch’io l’abitudine di togliermi i vestiti di scuola, ma nel mio caso era per mettere in piega la gonna e mantenere camicetta e maglia decorosamente fresche, perciò appendevo tutto con cura. La sera mi infilavo un vestaglione di lana. Avevo già cenato al college, perché i pasti rientravano nelle spese coperte dalla borsa di studio, e anche Nina sembrava aver già mangiato, va’ a sapere dove. Può darsi che la sua cena si riducesse a quello che smangiucchiava per tutta la sera: mandorle e arance e una scorta di baci di cioccolato in carta stagnola viola, dorata o rossa.
Le chiesi se non aveva freddo, con quel kimono leggero.
– Hn, hn, – fece lei. Mi afferrò la mano e se la premette sul collo. – Senti come sono calda, – disse, ed era cosí. Perfino a guardarla, la pelle sembrava emanare calore, ma secondo lei dipendeva dall’abbronzatura, che comunque stava sbiadendo. A quel tepore della pelle si univa un odore particolare, un misto di noci e spezie, non certo sgradevole, ma nemmeno fragrante come quello di un corpo sottoposto a bagni e docce continue. (Del resto, nemmeno io ero il massimo della freschezza, dato che Beth imponeva la regola di un bagno caldo la settimana. Erano in molti, allora, a fare il bagno solo una volta la settimana, e ho idea che in giro si sentisse piú afrore umano, a dispetto del talco e di certi grumosi deodoranti in crema).
Di solito leggevo fino a molto tardi. Ero convinta che sarebbe stato piú complicato farlo con un’altra persona in camera, ma quella di Nina era una presenza discreta. Si sbucciava le arance, scartava i cioccolatini, si faceva i suoi solitari. Se era costretta ad allungarsi per spostare una carta, a volte emetteva un verso, una specie di gemito o di sospiro, come se lamentasse di doversi adattare fisicamente al bisogno, ma si divertisse comunque. Per il resto era sempre contenta e, quando era ora, si raggomitolava per dormire, nonostante la luce accesa. E dal momento che chiacchierare non era dovuto né necessario, ci ritrovammo ben presto a parlarci delle rispettive esistenze.
Nina aveva ventidue anni e da quando ne aveva compiuti quindici le erano successe le seguenti cose:
Prima di tutto si era fatta mettere incinta (era lei stessa a dirlo cosí) e aveva sposato il padre del bambino, poco piú grande di lei. Questo accadeva in un paese nei dintorni di Chicago. Una località di nome Laneyville, dove l’unica soluzione possibile, per un ragazzo, era trovare lavoro al silo dei cereali o in un’officina meccanica, e per una ragazza, in un negozio come commessa. Nina voleva fare la parrucchiera, ma per quello bisognava andarsene a seguire un corso. Non era sempre vissuta a Laneyville, però lí abitava la nonna e Nina stava con lei perché suo padre era morto, sua madre si era risposata e il patrigno l’aveva cacciata fuori di casa.
Ebbe un secondo figlio, ancora un maschio, e il marito si trasferí in un’altra cittadina, dove in teoria gli avevano promesso un posto di lavoro. Doveva mandarla a chiamare, ma non lo fece mai. Nina lasciò entrambi i figli alla nonna e prese un autobus per Chicago.
A bordo conobbe una certa Marcy, a sua volta diretta a Chicago, dove conosceva il padrone di un ristorante che avrebbe dato senz’altro lavoro a tutte e due. Ma quando arrivarono a destinazione e rintracciarono il locale, si scoprí che questo tizio non era affatto il padrone, ma che aveva lavorato lí per un po’ e si era licenziato qualche tempo prima. L’effettivo proprietario aveva una stanza libera al piano di sopra, dove concesse loro di sistemarsi, in cambio della pulizia del ristorante ogni sera. Per andare in bagno, erano costrette a utilizzare la toilette delle signore, ma non ci potevano stare a lungo durante il giorno, perché era riservata ai clienti. Se avevano bisogno di lavarsi qualcosa, dovevano aspettare l’orario di chiusura.
Non dormivano quasi mai. Fecero amicizia con un barman – una checca, ma simpatica – che lavorava nel locale di fronte e le lasciava bere qualche gingerino gratis. Conobbero un tale che le invitò a una festa e all’invito ne seguirono altri e fu in quel periodo che Nina incontrò Mr Purvis. Era stato proprio lui, anzi, a ribattezzarla cosí, Nina. Prima lei si chiamava June. Andò a stare da Mr Purvis a Chicago.
Attese il momento adatto per introdurre l’argomento dei suoi figli. A casa di Mr Purvis c’era cosí tanto spazio che, a suo parere, potevano starci tutti. Ma quando accennò la cosa, Mr Purvis le disse che detestava i bambini. Non voleva assolutamente che lei restasse incinta. In qualche modo invece capitò, e Mr Purvis la portò ad abortire in Giappone.
Fino all’ultimo Nina pensò che l’avrebbe fatto, poi invece decise di no. Che avrebbe comunque tenuto il bambino.
D’accordo, le disse lui. Le avrebbe pagato il ritorno a Chicago e da lí in poi se la sarebbe dovuta cavare da sola.
Questa volta sapeva muoversi un po’ meglio; andò in un posto dove si occupavano della madre fino al parto e poi mettevano il bambino in adozione. Il bambino nacque ed era una femmina e Nina la chiamò Gemma e stabilí che l’avrebbe tenuta.
Conosceva un’altra ragazza che aveva partorito lí e si era poi tenuta il figlio, cosí lei e quella ragazza si misero d’accordo per lavorare a turni alterni, andare a vivere insieme e allevarsi i figli. Affittarono un alloggio alla loro portata, trovarono lavoro – Nina presso un locale notturno – e tutto filava liscio. Un giorno poco prima di Natale Nina tornò a casa – a quel punto Gemma aveva otto mesi – e trovò l’altra madre mezza sbronza che se la spassava con uno, e la sua bambina che scottava di febbre e stava talmente male da non riuscire nemmeno a piangere.
Nina l’avvolse in una coperta, montò su un taxi e la portò in ospedale. Le strade erano tutte un ingorgo per via del Natale e, quando finalmente arrivarono, le dissero che si era fatta portare all’ospedale sbagliato (per chissà quale ragione) e la spedirono da un’altra parte, e durante il tragitto Gemma ebbe un attacco di convulsioni e morí.
Nina voleva che Gemma avesse un funerale come si deve e non che la buttassero insieme a qualche poveraccio morto (aveva sentito dire che succede cosí ai cadaveri dei neonati se non si può pagare), perciò andò da Mr Purvis. Lui si mostrò piú gentile del previsto, si accollò le spese della cassa e di tutto quanto, compresa la lapide con il nome di Gemma e, quando fu tutto finito, si riprese Nina a vivere in casa. Per tirarla su di morale, fecero un lungo viaggio a Londra, Parigi e tanti altri posti. Al ritorno, Mr Purvis chiuse la casa di Chicago, per trasferirsi da quelle parti. Aveva una tenuta in aperta campagna, dove allevava cavalli da corsa.
Le chiese se le sarebbe piaciuto riprendere gli studi e lei disse di sí. Le consigliò di frequentare qualche corso come uditrice per capire che cosa le interessasse. Nina gli disse che avrebbe voluto vivere almeno in parte come tutti gli altri studenti, vestirsi come loro e studiare come loro, e Mr Purvis ritenne la cosa fattibile.
La sua vita mi faceva sentire una deficiente.
Le chiesi come si chiamava Mr Purvis di nome.
– Arthur.
– Come mai non lo chiami cosí?
– Perché non mi viene spontaneo.
In teoria, Nina non sarebbe dovuta uscire, la sera, se non per andare al college in occasione di qualche evento speciale, tipo uno spettacolo, un concerto o una conferenza. In teoria, doveva pranzare e cenare al college. Ma, come ho detto, non so se lo facesse mai. Colazione voleva dire Nescafé bevuto in camera nostra, con ciambelle del giorno prima che avevo il permesso di portarmi a casa dalla mensa. A Mr Purvis l’idea non andava affatto a genio, ma l’accettava come parte del tentativo di Nina di scimmiottare la vita dello studente-tipo. Gli bastava sapere che consumasse un buon pasto caldo al giorno e almeno un panino e un piatto di minestra a cena, e pensava che Nina facesse cosí. Lei controllava il menu della mensa per potergli dire che aveva preso la salsiccia piuttosto che il tortino di carne tritata, il tramezzino al salmone piuttosto che all’uovo sodo.
– Ma come farebbe a scoprire se sei uscita?
Nina si alzò, emettendo quel suo verso particolare, a metà tra il lamento e il piacere, e si diresse con passo felpato alla finestra della mansarda.
– Vieni qui, – disse. – E rimani dietro le tende. La vedi?
C’era un’auto nera ferma non proprio di fronte, ma qualche porta piú in là. Un lampione stradale illuminava la chioma bianca della persona al posto di guida.
– È Mrs Winner, – disse Nina. – Resterà lí fino a mezzanotte. O anche piú tardi, non so. Se decidessi di uscire mi seguirebbe e starebbe ad aspettarmi ovunque, e poi mi seguirebbe ancora fino a casa.
– E se si addormenta?
– No, lei no. Ma se mai succedesse, si sveglierebbe all’istante, in caso tentassi una fuga. Giusto per tenere Mrs Winner un po’ in allenamento, come diceva Nina, una sera uscimmo di casa e andammo in autobus alla biblioteca civica. Dai finestrini osservammo il macchinone nero costretto a rallentare e prendere tempo a ogni fermata, per poi accelerare e tenerci dietro. C’era un isolato da fare a piedi prima della biblioteca e Mrs Winner ci superò e andò a parcheggiare oltre l’ingresso centrale tenendoci d’occhio – secondo noi – dallo specchietto retrovisore.
Volevo vedere se riuscivo ad avere in prestito una copia della Lettera scarlatta, che dovevo leggere per uno dei corsi. Non potevo permettermi di comprarla e le copie alla biblioteca del college erano tutte in lettura. Mi era anche venuta l’idea di prendere un libro per Nina – uno di quei volumi che contengono dei prospetti storici facilitati.
Nina si era comprata i manuali dei corsi che frequentava come uditrice. Si era presa quaderni e penne in tinta, le migliori stilografiche in commercio all’epoca: rossa per Civiltà precolombiane dell’America Centrale, blu per la Poesia romantica, verde per il Romanzo inglese georgiano e vittoriano, gialla per La fiaba da Perrault ad Andersen. Andava a ogni lezione e sedeva in ultima fila perché le sembrava adatta a lei. Per come parlava, doveva piacerle vagare per la facoltà di Arte insieme alla folla degli altri studenti, andare a cercarsi un posto a sedere, aprire il manuale alla pagina indicata, estrarre la penna. Ma i suoi quaderni restavano vuoti.
Il problema, a mio giudizio, era che non aveva paletti ai quali agganciare le cose. Non sapeva che cosa volesse dire «vittoriano», «romantico», o «precolombiano». Era stata in Giappone, e alle Barbados, e in molti paesi d’Europa, ma non sarebbe mai stata in grado di rintracciare quei luoghi su una carta geografica. Non avrebbe saputo dire se la Rivoluzione francese fosse scoppiata prima o dopo la prima guerra mondiale.
Mi domandai come si fosse proceduto alla scelta dei corsi. Che le fossero piaciuti i titoli? Che Mr Purvis l’avesse ritenuta in grado di seguirli, o che al contrario li avesse suggeriti cinicamente, di modo che Nina ne avesse presto abbastanza di giocare alla studentessa?
Mentre cercavo il libro che volevo, colsi di sfuggita Ernie Botts. Aveva tra le braccia una pila di polizieschi presi in prestito per una vecchia amica della madre. Mi aveva raccontato che lo faceva con regolarità, proprio come regolarmente ogni sabato mattina giocava a dama con un coscritto del padre, al Ricovero dei reduci di guerra.
Lo presentai a Nina. Gli spiegai che era venuta a stare da me ma senza accennare, ovviamente, né alla sua vita passata né a quella attuale.
Ernie strinse la mano di Nina dicendosi lieto di fare la sua conoscenza e subito dopo si offrí di darci un passaggio a casa.
Stavo per dire no, grazie, che avremmo preso l’autobus, ma Nina gli domandò dove avesse parcheggiato la macchina.
– Qui dietro, – disse lui.
– C’è la porta anche dietro?
– Sí, sí. È una sedan.
– No, non intendevo quello, – ribatté Nina cortesemente. – Volevo dire nella biblioteca.
Un’uscita nell’edificio.
– Sí, sí che c’è, – rispose Ernie nervoso. – Chiedo scusa, pensavo si riferisse alla macchina. Sí. C’è un’uscita sul retro. Anzi, io sono entrato di lí. Chiedo scusa –. Intanto arrossiva, e avrebbe continuato a scusarsi se Nina non lo avesse interrotto con una risata gentile, quasi lusinghiera.
– Benissimo allora, – disse. – Possiamo uscire dal retro. È deciso. Grazie.
Ernie ci accompagnò a casa. Chiese se volevamo fermarci da lui, a bere un caffè o una tazza di cioccolata.
– Mi spiace, abbiamo un po’ di fretta, – disse Nina. – Ma grazie lo stesso.
– Avrete da studiare.
– Infatti, – disse lei. – Altro che.
Pensai che a me non aveva mai chiesto di andare in casa sua. Correttezza. Una sola ragazza, no. Due, ok.
Niente auto nera dall’altra parte della strada quando ringraziammo scambiandoci la buonanotte. Niente auto nera quando guardammo dalla finestra della mansarda. Di lí a poco squillò il telefono; era per Nina e la sentii, sul pianerottolo, che diceva: – Oh no, siamo solo andate in biblioteca a prendere un libro, ma siamo tornate direttamente a casa in autobus. Sí, ne è passato uno subito. Sto bene.
Assolutamente. Notte-notte.
Salí le scale ancheggiando, sorridente.
– Mrs Winner si è messa in un brutto guaio, stasera.
Poi con un piccolo balzo, si mise a farmi il solletico, come le capitava ogni tanto di fare, senza il minimo preavviso, da quando aveva scoperto che lo soffrivo in modo straordinario.
Un mattino Nina non si alzò dal letto. Disse che aveva mal di gola, e la febbre.
– Toccami.
– A me sembri sempre caldissima.
– Oggi però di piú.
Era venerdí. Mi chiese di telefonare a Mr Purvis per dirgli che lei voleva restare lí per il fine settimana.
– Mi darà il permesso: non sopporta di avere un malato tra i piedi. È fissato in quel senso. Mr Purvis si domandò se far venire un dottore. Nina lo aveva previsto e mi aveva dato istruzioni di dirgli che aveva solo bisogno di riposare, e che lo avrebbe chiamato, o fatto chiamare da me, in caso di peggioramento. D’accordo, allora dille di riguardarsi, rispose lui, ringraziandomi della telefonata, e dell’affetto sincero che mostravo per Nina. Poi, mentre mi salutava, mi chiese se avrei gradito cenare con lui il sabato sera. Aggiunse che trovava noioso mangiare da solo.
Nina aveva previsto anche quello.
– Se ti invita a cena domani sera, perché non ci vai? C’è sempre qualcosa di buono il sabato sera, una cosa speciale.
La mensa era chiusa di sabato. La prospettiva di conoscere Mr Purvis mi incuriosiva e turbava allo stesso tempo.
– Dici davvero? Se me lo chiede?
Perciò tornai di sopra avendo accettato l’invito a desinare con Mr Purvis – aveva detto proprio cosí: «desinare» – e chiesi a Nina come dovevo vestirmi.
– Perché preoccuparsi già adesso? Hai tempo fino a domani sera.
Già, perché stare a preoccuparsi, in effetti? Tanto avevo un solo vestito buono, quello turchese in crêpe de Chine, comprato con una parte dei soldi della borsa di studio, per indossarlo al discorso di commiato che, in virtú del mio rendimento, ero stata scelta per tenere alla cerimonia di consegna dei diplomi, al liceo.
– E comunque non ha importanza, – disse Nina. – Non lo noterà nemmeno.
Venne a prendermi Mrs Winner. Non aveva i capelli bianchi, bensí biondo platino, tinta che indicava ai miei occhi un cuore di pietra, comportamenti immorali, un lungo percorso accidentato attraverso i sordidi vicoli bui della vita. Ciononostante, abbassai la maniglia della portiera anteriore per viaggiare seduta al suo fianco, perché mi pareva la scelta piú giusta e democratica. Lei lasciò che le restassi accanto finché eravamo fuori dalla macchina, ma poi aprí di scatto la portiera posteriore. Mi ero fatta l’idea che Mr Purvis abitasse in una di quelle ammuffite dimore circondate da acri
di prato e terreno incolto a nord del centro. Dovevano essere stati i cavalli da corsa a farmelo immaginare. Invece, ci dirigemmo a est percorrendo quartieri ricchi ma non lussuosi, tra ville in mattoni e in finto stile Tudor, con le luci accese nell’oscurità precoce e le decorazioni di Natale già lampeggianti tra arbusti incappucciati di neve. Svoltammo in un vialetto delimitato da alte siepi e ci fermammo davanti a una casa che riconobbi come «moderna» dal tetto piatto e dalla facciata lunga a vetrate, nonché dal materiale di costruzione che dava l’idea di essere cemento. Niente luci di Natale, niente luci di sorta, anzi.
E nessuna traccia di Mr Purvis. L’auto si infilò in un sotterraneo e noi risalimmo al piano di sopra a bordo di un ascensore dal quale uscimmo in un atrio immerso nella penombra e arredato come un salotto, con sedie imbottite a schienale rigido e tavolini lustri, specchiere e tappeti. Mrs Winner mi invitò con un cenno a precederla oltre una porta che, dall’atrio, dava accesso a un locale cieco, con una panca e una serie di ganci alle pareti. Una specie di spogliatoio scolastico, a parte il legno incerato e la moquette per terra.
– I vestiti li lasci qui, – disse Mrs Winner.
Mi sfilai le galosce e cacciai le muffole nelle tasche del cappotto, che appesi. Mrs Winner non si muoveva. Pensai che non potesse fare diversamente, dovendo indicarmi ancora la strada. Avevo un pettine in tasca e avrei voluto aggiustarmi i capelli, ma non mentre lei mi osservava. Per giunta, non vedevo uno specchio.
– Adesso anche il resto.
Mi guardò negli occhi per accertarsi che avessi capito e, poiché cosí non pareva (sebbene in un certo senso avessi capito invece, ma mi augurassi di essermi sbagliata), mi disse: – Non preoccuparti, non avrai freddo. La casa è ben riscaldata.
Ancora non mi muovevo per obbedire, e lei mi si rivolse con noncuranza, come se non valesse nemmeno la pena di mostrarsi sprezzanti.
– Non sarai una bambina piccola, no?
Avrei potuto riprendere il mio cappotto, a quel punto. Avrei potuto pretendere di essere riaccompagnata al pensionato. In caso di rifiuto, mi sarei potuta avviare anche a piedi. Ricordavo il tragitto percorso e, freddo a parte, si sarebbe risolto tutto con una camminata di meno di un’ora. Non credo che avrei trovato la porta d’ingresso chiusa a chiave, o che qualcuno avrebbe cercato di riportarmi indietro.
– Oh, no, – disse Mrs Winner, constatando che ancora non mi ero mossa. – Cos’è, credi di essere fatta diversa dagli altri? O che io non abbia mai visto tutto quello che hai da mostrare?
In parte fu quella sua sufficienza a farmi rimanere. In parte. Quella, e il mio orgoglio.
Mi sedetti. Tolsi le scarpe. Sganciai le giarrettiere e sfilai le calze. Mi alzai, abbassai la cerniera e mi levai il vestito indossato per il discorso alla cerimonia dei diplomi, quello con tanto di conclusione in latino. Ave atque vale.
Tuttora ragionevolmente coperta dalla sottoveste, passai dietro le mani, aprii il gancetto del reggiseno, lo feci tortuosamente scivolare dalle braccia e, con un unico movimento, me ne liberai sul davanti. Poi fu la volta del reggicalze, poi le mutandine – dopo averle tolte, le appallottolai e le nascosi sotto il reggiseno. Rimisi i piedi dentro le scarpe.
– Piedi nudi, – sospirò Mrs Winner. Sembrava le facesse troppa fatica nominare la sottoveste, ma quando mi fui tolta di nuovo le scarpe, aggiunse: – Nuda. Sai cosa vuol dire questa parola? Nuda. Tolsi la sottoveste sfilandola dalla testa, e lei mi consegnò una bottiglia di lozione e disse: – Frizionati con questa.
Sapeva di Nina. Me ne passai un po’ su braccia e spalle, le uniche parti del corpo che osavo toccare con Mrs Winner davanti che mi guardava, dopodiché tornammo nell’atrio dove ebbi cura di evitare gli specchi, e Mrs Winner aprí un’altra porta e mi introdusse nella stanza successiva, da sola. Nemmeno per un istante avevo pensato che Mr Purvis potesse avermi attesa nelle mie stesse condizioni di nudità, e in effetti cosí non era. Indossava un blazer blu scuro, camicia bianca, cravatta ascot (che ignoravo avesse quel nome) e pantaloni grigi. Era poco piú alto di me, esile e vecchio, quasi del tutto calvo, e con la fronte rugosa, quando sorrideva.
Neppure avevo pensato che l’essermi spogliata preludesse a uno stupro, o a qualunque altra cerimonia al di là di una cena. (E cosí doveva essere, a giudicare dagli aromi invitanti della sala e dai vassoi con coprivivande d’argento, sopra il buffet). Come mai non mi era passata per la mente una cosa simile? Come mai non ero piú spaventata? C’erano di mezzo le mie convinzioni sui vecchi. Li ritenevo non solo incapaci, ma anche troppo esausti, resi troppo dignitosi – o depressi – dall’accumulo di affanni e di esperienze e dal loro ripugnante declino fisico, per conservare qualunque interesse. Non ero tanto stupida da pensare che il mio essere nuda non avesse nulla a che vedere con un impiego sessuale del mio corpo, ma lo interpretavo piú come una sfida che come un preliminare a ulteriori abusi, mentre la mia accondiscendenza era piú frutto di un delirante orgoglio, come ho detto, piú espressione di un’ambigua incoscienza che d’altro.
Eccomi qua, avrei avuto voglia di dire, con il corpo vestito di sola pelle, senza piú vergogna di quella che proverei a mostrare i denti. Ovviamente non era vero, e infatti avevo cominciato a sudare, anche se non per paura di essere aggredita.
Mr Purvis mi strinse la mano, senza manifestare la minima consapevolezza del fatto che non avevo niente addosso. Si disse lietissimo di conoscere l’amica di Nina. Come se fossi una compagna che Nina aveva portato a casa da scuola.
E in un certo senso era la verità.
Un modello per Nina, mi definí.
– Ti ammira moltissimo. Allora, avrai appetito. Vogliamo vedere che cosa ci hanno preparato? Sollevò i coperchi e prese a servirmi. Pollastrelle della Cornovaglia, che io scambiai per galline nane, riso allo zafferano con uva sultanina, e varie verdure tagliate finissime e disposte a ventaglio che conservavano i loro colori naturali piú di quelle che ero abituata a vedere io. Un piatto di sottaceti di un verde limaccioso e uno di conserva rosso scuro.
– Non esagerare con quelli, – disse Mr Purvis riferendosi a sottaceti e conserva. – Un po’ troppo forti, per cominciare.
Mi fece accomodare a tavola, ritornò al buffet a servirsi con grande parsimonia, e sedette. Sul tavolo c’erano una caraffa d’acqua e una bottiglia di vino. Presi l’acqua. Servirmi del vino in casa sua, disse, sarebbe stato probabilmente uno scandalo grave. Fui un po’ delusa, perché non avevo mai avuto occasione di assaggiare del vino. Quando andavamo all’Old Chelsea, Ernie non mancava di ribadire con soddisfazione che la domenica il locale non serviva né vino né liquori. Non soltanto lui non beveva, di domenica come qualunque altro giorno, ma non amava nemmeno vedere altri farlo. – Allora, Nina mi racconta, – disse Mr Purvis, – mi racconta che studi filosofia inglese, ma ho idea che si tratti di filosofia e inglese, o mi sbaglio? Perché non mi pare che di filosofi inglesi ci sia abbondanza, no?
A dispetto del suo avvertimento, avevo sulla lingua un gran boccone di sottaceto, perciò ero troppo sbalordita per replicare. Attese gentilmente che finissi di tracannare acqua.
– Si parte dai greci. È storia della filosofia, – dissi appena potei parlare.
– Sí, certo. La Grecia. Be’, e tra i greci che avete fatto finora, chi è il tuo preferito? Oh, no, aspetta. Si stacca meglio se fai cosí.
Seguí una dimostrazione di disossamento della pollastrella, un bel gesto, senza paternalismi di sorta, piú come se fosse un gioco divertente che potevamo fare insieme.
– Allora? il tuo preferito?
– Non ci siamo ancora arrivati, per adesso siamo ai presocratici, – dissi. – Comunque, Platone. – Platone è il tuo preferito. Vedo che ti porti avanti, non ti limiti a fare il dovuto. Platone. Sí, avrei potuto arrivarci. Ti piace la storia della caverna?
– Sí.
– Sí, certo. La caverna. Bellissima, no?
Finché restavo seduta, la parte indecente di me risultava nascosta. Se avessi avuto un seno minuscolo e decorativo come quello di Nina, e non il mio, pesante, dai capezzoli grossi e dalla flagrante accessibilità, mi sarei quasi sentita a mio agio. Mi sforzavo di guardarlo, quando mi parlava, ma ero sopraffatta da incontrollabili vampate di rossore. Quando il fenomeno si verificava, avevo l’impressione che il suo tono di voce si modificasse appena facendosi placido e garbatamente appagato. Come dopo una mossa vincente in un’immaginaria partita. Ma continuava a parlare in modo vivace e spiritoso, raccontandomi di un suo viaggio in Grecia. Delfi, l’acropoli, la famosa luce che si stenta a credere reale e invece lo è, le nude ossa del Peloponneso.
– E poi a Creta… sai qualcosa della civiltà minoica?
– Sí.
– Naturalmente. Naturalmente. E sai come si vestivano le signore in età minoica?
– Sí.
Lo guardai in faccia questa volta, dritto negli occhi. Non intendevo piú farmi prendere dalla vergogna, neppure quando l’ondata di caldo mi aggrediva la gola.
– Che moda magnifica, quella, – disse in tono quasi malinconico. – Incantevole. È strano come si coprano parti del corpo diverse, in epoche diverse. E se ne esibiscano altre.
Il dolce era crema alla vaniglia con panna montata, pezzetti di torta e lamponi. Mr Purvis lo assaggiò appena. Ma io, non essendo riuscita a trovare la tranquillità necessaria per godermi la portata principale, ero decisa ad assaporare appieno quella nutriente dolcezza, e mi ci dedicai concentrando l’appetito su ogni cucchiaiata.
Versò il caffè in piccole tazze e disse che l’avremmo bevuto in biblioteca.
Quando cercai di scollarmi dalla fodera lustra della sedia in sala da pranzo, le mie natiche produssero un risucchio sonoro. Ma il rumore fu quasi coperto dal tintinnio delicato delle tazzine sul vassoio, sorretto dalle vecchie mani tremanti di Mr Purvis.
Sapevo dell’esistenza di biblioteche all’interno di abitazioni soltanto dai libri. A questa si accedeva attraverso un pannello nella parete della sala da pranzo. Il pannello si aprí scorrendo senza un suono, appena lui sollevò un piede a sfiorarlo. Si scusò di precedermi, ma doveva, per via del vassoio. Per me fu un sollievo. Ero convinta che il posteriore – non solo il mio, ma di tutti – fosse la parte piú volgare di un corpo.
Quando ebbi preso posto sulla poltrona che mi indicava, mi consegnò il mio caffè. Stare seduta cosí in bella vista non era facile come al tavolo in sala da pranzo. L’altra sedia aveva una fodera di seta lucida a righe, ma questa era ricoperta di un tessuto scuro e peloso che mi pizzicava. Scatenandomi un intimo turbamento.
In questo locale la luce era piú aggressiva che nell’altra sala e i volumi allineati sulle pareti avevano un’aria inquietante e severa, tutta diversa dalla penombra della sala da pranzo coi suoi paesaggi appesi ai pannelli di legno scuro delle pareti.
Per un istante, mentre passavamo da una camera all’altra, mi balenò in testa una storia – il genere di racconto di cui avevo sentito parlare ma che ben pochi al tempo avevano occasione di leggere – nella quale la stanza denominata biblioteca si sarebbe poi rivelata una camera da letto, arredata con luci soffuse, cuscini vaporosi e ogni genere di morbido rivestimento. Non ebbi modo di immaginare la mia reazione in simili circostanze, perché la sala in cui ci trovavamo era evidentemente null’altro che una biblioteca. Dalle lampade da lettura, ai libri sugli scaffali, all’aroma stimolante del caffè. A Mr Purvis che estraeva un volume e prendeva a sfogliarlo, fino a trovare quel che cercava.
– Saresti molto gentile se volessi leggermi qualcosa. Mi si stancano gli occhi la sera. Conosci questo libro?
Un ragazzo dello Shropshire.
Lo conoscevo. Anzi, molte poesie le sapevo perfino a memoria.
Acconsentii a leggere.
– E posso chiederti la cortesia… posso chiederti… di non accavallare le gambe?
Quando gli presi il libro, tremavo.
– Sí, – disse lui. – Sí.
Si scelse una poltrona di fronte agli scaffali, e di fronte a me.
– Allora…
– «A Wenlock Edge si agita il bosco».
Parole e cadenze note mi rassicurarono. Ebbero la meglio. A poco a poco mi sentii piú tranquilla.
È tempesta, piega a terra i virgulti e infuria tanto che presto cesserà. Oggi i Romani e i loro affanni sono cenere sotto Uricon.
Dove sarebbe Uricon? Chissà.
Non che mi scordassi veramente dov’ero o chi ero o con chi o in quali condizioni ero seduta. Però avevo cominciato a provare una specie di distacco filosofico. Improvvisamente pensai che al mondo sono tutti nudi, in un certo senso. Era nudo Mr Purvis, a dispetto dei vestiti. Eravamo tutte creature nude, meschine, ambigue. La vergogna diminuí. Continuavo a girare le pagine, leggendo ora questa ora quella poesia, poi un’altra ancora. Compiacendomi del suono della mia voce. Finché con mia sorpresa per non dire disappunto – dovevano ancora arrivare certi versi famosi – Mr Purvis mi interruppe. Si alzò, sospirando.
– Basta cosí, basta, – disse. – È stato magnifico. Grazie. Il tuo accento di provincia è perfetto.
Ora però devo andare a dormire.
Gli restituii il volume. Lo ritirò sullo scaffale e chiuse lo sportello a vetri del mobile libreria.
L’accento di provincia era una novità per me.
– E temo sia anche ora di farti tornare a casa.
Aprí un’altra porta di accesso a quell’atrio che avevo visto tantissimo tempo prima, all’inizio della serata, io gli passai davanti e la porta fu chiusa alle mie spalle. Forse gli diedi la buonanotte. È perfino possibile che l’abbia ringraziato per la cena e che lui mi abbia rivolto qualche parola secca (di nulla, grazie a te della compagnia, sei stata gentilissima, grazie di avermi letto Housman) con voce improvvisamente stanca, vecchia, ruvida e noncurante. Non mi sfiorò neppure con un dito. Lo stesso spogliatoio male illuminato. I miei stessi vestiti. L’abito turchese, le calze, la sottoveste. Mrs Winner comparve mentre mi stavo agganciando le calze. Mi disse solo una cosa, mentre già stavo per andarmene.
– Hai dimenticato la sciarpa.
Ed eccola lí, in effetti, la sciarpa che mi ero fatta al corso di Economia domestica, l’unico lavoro a maglia di tutta la mia vita. E per poco non l’avevo abbandonato, proprio in quella casa. Mentre scendevo dall’auto Mrs Winner disse: – Mr Purvis gradirebbe parlare con Nina prima di coricarsi. Se vuoi ricordarglielo…
Ma ad aspettarmi non c’era nessuna Nina alla quale riferire il messaggio. Mancavano le sue galosce, e il cappotto. Restava qualche altro suo vestito appeso nell’armadio a muro.
Beverly e Kay erano a casa per il fine settimana, perciò corsi giú da Beth per vedere se ne sapeva qualcosa.
– Mi dispiace, – disse Beth, che mi dava l’idea di non dispiacersi mai di nulla. – Non posso certo star dietro a tutti i vostri andirivieni.
E mentre me ne andavo aggiunse: – Ti ho chiesto un mucchio di volte di non pestare i piedi in quel modo sulle scale. Sono appena riuscita a far addormentare Sally-Lou.
Rientrando, non avevo ancora deciso cosa avrei raccontato a Nina. Dovevo chiederle se era obbligata a girare nuda per casa, se aveva avuto piena consapevolezza del genere di serata a cui andavo incontro? O invece non dirle granché, e aspettare che fosse lei a chiedere? E anche in quel caso, potevo limitarmi a riferirle innocentemente di aver mangiato pollastrella della Cornovaglia e riso allo zafferano, entrambi squisiti. E di aver letto alcune pagine da Un ragazzo dello Shropshire.
Potevo lasciarla nel dubbio.
Ma ora che Nina non c’era, tutto ciò non aveva importanza. Le priorità erano cambiate. Mrs Winner chiamò dopo le dieci – contravvenendo a un’altra regola di Beth – e quando le dissi che Nina non c’era, mi chiese: – Ne sei sicura?
Domanda che ripeté anche quando dissi di non avere idea di dove potesse essere. – Ne sei sicura?
Le dissi di non chiamare piú fino al mattino dopo, per via del regolamento di Beth e dei bambini che dormivano, e lei: – Be’, non saprei. Questa è un’emergenza.
Quando mi alzai, la mattina, l’auto era parcheggiata davanti a casa. Piú tardi, Mrs Winner suonò alla porta e disse a Beth di essere stata mandata a controllare la stanza di Nina. Perfino Beth fu spiazzata da Mrs Winner, la quale perciò salí senza rimediare neanche un rimbrotto o un avvertimento. Dopo aver ispezionato tutta la stanza, passò al bagno e all’armadio a muro, arrivando addirittura a scuotere un paio di coperte ripiegate sul fondo.
Io ero ancora in pigiama intenta a scrivere un tema su Sir Gawain e il Cavaliere Verde, e a bere Nescafé.
Mrs Winner disse che aveva dovuto chiamare gli ospedali per vedere se Nina si era sentita male, e che Mr Purvis era uscito personalmente a cercarla ovunque potesse essere.
– Se sai qualcosa, faresti meglio a dircelo, – disse. – Qualsiasi cosa.
Poi, mentre si incamminava giú per le scale, si voltò e, in tono meno minaccioso, aggiunse: – Aveva fatto amicizia con qualcuno al college? Qualcuno che tu conosca?
Risposi che non mi pareva.
Avevo intravisto Nina soltanto un paio di volte al college. Una volta percorreva il corridoio al pianoterra della facoltà di Arte durante la ressa del cambio d’ora. E un’altra, era in mensa. In entrambe le occasioni era sola. Non che fosse inusuale essere soli nel passaggio frettoloso da una lezione all’altra; un po’ strano invece era starsene seduti in mensa davanti a una tazza di caffè verso le quattro del pomeriggio, quando la sala era praticamente deserta. Era lí, tutta sorridente, come a dire quanto si sentisse contenta e privilegiata di esserci, con quanto zelante entusiasmo fosse pronta a soddisfare le richieste di quella vita, appena avesse capito in che cosa consistessero.
Nel pomeriggio cominciò a nevicare. L’auto davanti a casa dovette spostarsi per far passare lo spazzaneve. Quando entrai in bagno colsi di sfuggita il kimono appeso al solito posto, e finalmente provai quel che avevo sino a quel momento represso: vera e propria paura per Nina. Me la immaginai, smarrita, in lacrime e scarmigliata, vagare nella neve con addosso la biancheria da bambina, anziché il cappotto di pelo di cammello, pur sapendo benissimo che l’aveva preso con sé.
Il telefono squillò proprio mentre uscivo di casa per andare alla prima lezione del lunedí mattina.
– Sono io, – disse Nina in tono di frettolosa cautela, ma con un che di trionfante nella voce. – Ascolta. Ti prego. Puoi farmi un favore?
– Dove sei? Ti stanno cercando.
– Chi?
– Mr Purvis. Mrs Winner.
– Be’, non devi dirglielo. Non dire niente. Sono qui.
– Qui dove?
– Da Ernest.
– Da Ernest? – dissi. – Da Ernie?
– Sshh. Ti ha sentito qualcuno?
– No.
– Ascolta, ti supplico, puoi prendere un autobus e venire a portarmi il resto della mia roba? Mi serve lo shampoo. Il kimono. Giro per la casa di Ernie in vestaglia. Dovresti vedermi, sembro un cane marrone, vecchio e peloso. La macchina è ancora lí fuori?
Andai a guardare.
– Sí.
– D’accordo, allora dovresti prendere l’autobus e andare al college come sempre. Poi ne prendi un altro e vieni in centro. Lo sai dove scendere. Tra Campbell e Howe. Da lí, vieni a piedi. Carlisle Street. Tre sei tre. Lo sai, no?
– Ernie è in casa?
– No, babbea. È al lavoro. Deve guadagnare per mantenerci, giusto?
Mantener-ci? Ernie doveva mantenere Nina e me?
No. Ernie e Nina, intendeva. Ernie e Nina.
Nina disse: – Oh, ti supplico. Ho soltanto te.
Eseguii le istruzioni. Presi l’autobus per il college, poi quello per il centro. Scesi alla fermata Campbell-Howe e mi diressi a piedi verso Carlisle Street, in direzione ovest. Non nevicava piú; il cielo era limpido; era una giornata luminosa, freddissima e senza vento. La luce mi feriva gli occhi e la neve fresca scrocchiava sotto le scarpe.
Ancora mezzo isolato a nord, in Carlisle Street, verso la casa nella quale Ernie era vissuto con padre e madre, poi con la madre e infine da solo. E adesso – possibile? – con Nina.
La casa era esattamente come quando ci ero venuta un paio di volte insieme a mia madre. Un edificio basso, in mattoni, con un giardinetto minuscolo sul davanti, e in salotto una finestra ad arco con in alto un pannello di vetro colorato. Pretenziosa e zeppa.
Nina era intabarrata, proprio come nella sua descrizione, dentro una vestaglia da uomo in lana marrone con le nappe, che emanava l’odore maschile ma inoffensivo di Ernie, un misto di schiuma da barba e sapone Lifebuoy.
Mi afferrò le mani, stecchite di freddo nei guanti. Ciascuna aveva retto il manico di una sporta.
– Sono gelate, – disse. – Vieni, le mettiamo nell’acqua tiepida.
– Non sono gelate, – dissi. – Soltanto un po’.
Ma lei non ne volle sapere e mi aiutò a spogliarmi, mi portò in cucina e riempí una ciotola d’acqua e, mentre il sangue tornava dolorosamente a scorrermi nelle dita, mi raccontò di Ernest (Ernie), che quel sabato sera si era presentato alla pensione. Aveva con sé una rivista piena di fotografie di antiche rovine, castelli e cose simili che pensava potessero interessarmi. Lei naturalmente si era alzata dal letto e gli era andata incontro perché Ernest non poteva certo salire, ma vedendola cosí malata Ernest le aveva detto che doveva andare da lui dove avrebbe potuto curarla. E ci era riuscito talmente bene che il mal di gola era quasi del tutto sparito e non aveva piú febbre. Dopodiché avevano deciso che lei sarebbe rimasta. Nina sarebbe rimasta con lui per non tornare mai piú dove stava prima.
Sembrava che non volesse neanche nominare Mr Purvis.
– Però dev’essere un grandissimo segreto, – disse. – Tu sei l’unica a saperlo. Perché sei nostra amica ed è grazie a te che ci siamo incontrati.
Intanto faceva il caffè. – Guarda qui, – disse, indicando l’armadietto aperto. – Guarda come tiene le cose. Qua ci sono i tazzoni. Qui, tazze e piattini. Ogni tazza ha il suo gancio. Ordinato, no? La casa è tutta cosí. Io l’adoro.
– È grazie a te che ci siamo incontrati, – ripeté. – Se avremo un figlio e sarà una bambina, potremmo darle il tuo nome.
Tenevo le mani intorno al tazzone, e sentivo ancora pulsare le dita. C’erano delle violette africane sul davanzale sopra l’acquaio. L’ordine di sua madre negli armadi, i vasi di sua madre in casa. Probabilmente davanti alla finestra del soggiorno c’era ancora la grossa felce e, sulle poltrone, i centrini. Quello che aveva detto sul conto di Ernie e di se stessa mi pareva sfacciato e, specie se soffermavo il pensiero sull’aspetto che riguardava Ernie, anche di pessimo gusto.
– Volete sposarvi?
– Be’…
– Ma hai detto, se avremo un figlio.
– Be’, non si sa mai, potremmo anche averlo già messo in cantiere senza essere sposati, – disse Nina, piegando maliziosamente la testa.
– Con Ernie? – dissi. – Con Ernie?
– E perché no? Ernie è simpatico, – disse. – E comunque, io lo chiamo Ernest –. Si avvolse piú stretta nella vestaglia.
– E Mr Purvis?
– Lui che c’entra?
– Be’, se fosse già in arrivo, non potrebbe essere suo?
Nina si trasformò completamente. Le venne una faccia acida, cattiva. – Lui, – disse sprezzante.
– Si può sapere perché vuoi parlarne? Lui non era capace.
– Oh, – dissi io, e stavo per domandarle di Gemma, ma mi prevenne.
– Perché parlare del passato? Non farmi star male. Sono cose morte e sepolte. A me e a Ernie non interessano. Ormai siamo insieme. Siamo innamorati, adesso.
Innamorati. Lei ed Ernie. Ernest. Adesso.
– Va bene, – dissi.
– Scusami: ho alzato la voce. Gridavo? Scusami. Tu sei nostra amica e mi hai anche portato le mie cose, grazie. Sei la cugina di Ernest e fai parte della famiglia.
Sgattaiolò dietro di me e con uno scatto fulmineo mi cacciò le dita sotto le ascelle e cominciò a farmi il solletico, prima stancamente, e poi in un crescendo di furia, ripetendo: – Dico bene? Eh? dico bene?
Cercai di divincolarmi, ma non ci riuscivo. Fui colta da spasmi di risa convulse, e smaniavo urlando e supplicandola di smettere. Mi accontentò solo quando mi ebbe ridotta allo stremo, e rimanemmo tutte e due senza fiato.
– Mai incontrato nessuno che soffre il solletico come te.
Dovetti aspettare l’autobus per un mucchio di tempo, pestando i piedi sul marciapiede. Quando arrivai al college mi ero già persa non solo la prima ma anche la seconda lezione, ed ero in ritardo al lavoro in mensa. Mi cambiai nello sgabuzzino delle scope, dove indossai il grembiule di cotone verde e infilai la mia zazzera di capelli neri (i peggiori in assoluto da trovare nel cibo, come mi aveva ammonita la direttrice) sotto l’apposita reticella.
In teoria avrei dovuto esporre tramezzini e insalate sulle scansie prima dell’apertura per pranzo, ma a quel punto fui costretta a farlo sotto lo sguardo impaziente delle persone in coda, con mio sommo disagio. Mi si notava decisamente di piú ora di quando spingevo il carrello tra i tavoli per raccogliere i piatti sporchi. In quelle occasioni, la gente era concentrata sui propri discorsi e su ciò che mangiava.
Adesso invece guardavano tutti me.
Ripensai alle parole di Beverly e Kay riguardo al rovinarmi la piazza facendomi notare nel modo sbagliato. Mi parevano in effetti plausibili, adesso.
Quando ebbi finito di pulire i tavoli in sala mensa, andai a cambiarmi e mi avviai alla biblioteca del college per lavorare un po’ sul mio tema. Era il pomeriggio in cui non avevo lezioni.
Per andare dalla facoltà di Arte alla biblioteca c’era un sottopassaggio all’ingresso del quale erano affissi annunci pubblicitari di cinema e ristoranti, offerte di biciclette e macchine da scrivere di seconda mano, programmi di spettacoli teatrali e concerti. Il dipartimento di Musica dava comunicazione di una rassegna gratuita di canti ispirati alle liriche pastorali inglesi ormai passata. Avevo visto altre volte l’annuncio, perciò non dovetti soffermare lo sguardo per ricordare i nomi di Tennyson, Herrick e Housman. E a pochi passi dall’ingresso del sottopassaggio, cominciai a sentirmi assillata dai versi.
A Wenlock Edge si agita il bosco
Non sarei mai piú riuscita a pensarci senza sentire il pizzicore del tessuto sulle natiche nude. Quella vergogna appiccicosa e urticante. Di gran lunga peggiore ora nel ricordo, che allora. Qualcosa mi aveva fatto, Mr Purvis, dopotutto. Di lungi, da mattino a sera, e di lassú, i dodici venti del cielo per tessermi di stoffa della vita mi hanno soffiato qui: eccomi.
No.
Che sono quei colli azzurri del ricordo?
E quelle guglie, quelle fattorie?
No, mai.
Bianca si allunga la strada sotto la luna che mi conduce lontano dal mio amore.
No. No. No.
Mi avrebbero ricordato per sempre quello che avevo acconsentito a fare. Nessuno mi aveva costretta, minacciata e nemmeno persuasa. Avevo acconsentito.
Nina doveva saperlo. Quella mattina era troppo presa da Ernie per accennare all’accaduto, ma un giorno o l’altro ne avrebbe riso. Non con crudeltà, ma solo come rideva di tante altre cose. Magari mi avrebbe anche presa in giro. Usando parole che sarebbero suonate simili al modo in cui mi faceva il solletico, parole insistenti, oscene.
Nina ed Ernie. Nella mia vita da allora e per sempre.
La biblioteca del college era un locale vasto e bellissimo, progettato, costruito e sovvenzionato da persone convinte che i lettori seduti a quei lunghi tavoli davanti a un libro aperto – perfino quelli assonnati, reduci da una sbronza, astiosi e intontiti – dovessero avere molto spazio sulla testa ed essere circondati da lustri pannelli di legno e finestre vertiginose e incorniciate da motti latini attraverso le quali osservare il cielo. Per i pochi anni prima di avviarsi chi a insegnare, chi a lavorare in un ufficio, e chi ad allevare bambini, dovevano avere tutto ciò. E dato che era il mio turno, il privilegio toccava anche a me.
Sir Gawain e il Cavaliere Verde.
Era un buon tema quello che stavo scrivendo. Probabilmente avrei preso un bel voto. Ne avrei scritti altri e preso altri bei voti, perché era ciò che sapevo fare. Chi assegnava borse di studio e faceva costruire università e biblioteche avrebbe continuato a sborsare soldi perché potessi farlo.
Ma non era la cosa importante. Non era cosí che ci si poteva difendere dal guasto.
Nina non rimase con Ernie neppure una settimana. Pochissimi giorni dopo, tornando a casa, lui non l’avrebbe piú trovata. Né lei né il suo cappotto, le galosce, i suoi bei vestiti e il kimono che le avevo portato. Spariti i suoi bei capelli biondo miele, la sua mania di fare il solletico, il tepore insolito della sua pelle e quel suo ancheggiare vezzoso. Sparito tutto, senza una spiegazione, senza una parola scritta su un pezzo di carta. Nemmeno una parola.
Ernie comunque non era il tipo da chiudersi nel proprio dolore. Cosí mi disse, quando mi telefonò per darmi la notizia e controllare se ero libera a cena quella domenica. Mentre salivamo le scale dell’Old Chelsea, commentò che sarebbe stato il nostro ultimo incontro prima delle vacanze di Natale. Mi aiutò a sfilare il cappotto e sentii l’odore di Nina. Possibile che gli fosse rimasto addosso? No. La fonte mi fu rivelata subito dopo, quando mi mise in mano una specie di grosso fazzoletto.
– Infilatelo nella tasca del cappotto, – mi disse.
Non un fazzoletto. Il tessuto era piú robusto e delicatamente bordato. Una canottiera. – Non la voglio in giro, – disse, e, dal tono di voce, si sarebbe potuto credere che non gli andasse di avere per casa qualunque articolo di biancheria intima, indipendentemente dal fatto che quello in particolare fosse di Nina e avesse il suo odore.
Ordinò il roast-beef, che tagliò e masticò con consueta efficienza e garbato appetito. Gli diedi le notizie di casa, riguardanti, come sempre in quella stagione, la gravità delle bufere di neve, il numero di strade bloccate, l’apocalisse invernale che ci distingueva.
Dopo un poco, Ernie disse: – Sono stato a casa sua. Non c’era nessuno.
A casa di chi?
Dello zio di Nina, disse. Conosceva l’indirizzo perché ci erano passati davanti in macchina insieme, quando era buio. Non c’era nessuno, ora, avevano fatto armi e bagagli e se n’erano andati.
Una sua scelta, dopotutto.
– È una prerogativa femminile, – aggiunse. – Come si dice, è una prerogativa femminile cambiare idea.
Ora che lo guardavo in faccia, vidi che aveva gli occhi asciutti, famelici, e occhiaie scure e rugose. Tese le labbra per controllare un tremore, poi proseguí con il tono di chi sia deciso a considerare le varie prospettive, a tentare di comprendere.
– Non poteva lasciare il suo vecchio zio, – disse. – Non ha avuto cuore di andarsene. Le ho proposto di prenderlo con noi, visto che ai vecchi sono abituato, ma lei ha detto che piuttosto sarebbe scappata. Poi però immagino non se la sia sentita.
– Meglio non aspettarsi mai troppo. Ci sono cose che non è destino avere, credo.
Andando in bagno, passai accanto ai cappotti appesi e presi di tasca la canottiera. La cacciai nella cesta degli asciugamani usati.
Quel giorno in biblioteca non ero riuscita a proseguire il lavoro su Sir Gawain. Avevo strappato un foglio dal quaderno, preso la penna ed ero uscita. Sul pianerottolo fuori dall’ingresso della biblioteca c’era un telefono a monete e, appesa accanto, una guida. La consultai e mi scrissi due numeri sul foglio di carta che mi ero portata. Non numeri di telefono, ma due indirizzi.
1648 Henfryn Street.
L’altro che volevo soltanto verificare, avendolo visto sia di persona recentemente, sia sulle buste dei biglietti d’auguri, era il 363 di Carlisle Street.
Tornai alla facoltà di Arte percorrendo il sottopassaggio ed entrai nel piccolo negozio di fronte alla Sala comune. Avevo in tasca abbastanza spiccioli per comprare busta e francobollo. Strappai il lembo di foglio su cui era scritto l’indirizzo di Carlisle Street e lo infilai nella busta. La sigillai e sul davanti copiai l’altro numero piú lungo con l’indirizzo di Henfryn Street e il nome di Mr Purvis. Tutto in stampatello maiuscolo. Leccai il francobollo e lo appiccicai sulla busta. Credo che al tempo dovesse essere un francobollo da quattro centesimi.
Appena fuori del negozio c’era una buca delle lettere. Infilai dentro la busta, lí, nell’ampio corridoio al pianoterra della facoltà di Arte, con la gente che mi passava accanto diretta a lezione, o a fumarsi una sigaretta o a farsi una mano di bridge in Sala comune. Gente diretta alla realizzazione di imprese di cui non si sapeva capace.
Buche-profonde
Sally preparò delle uova ripiene, anche se detestava portarle ai picnic perché sporcavano ovunque. Tramezzini al prosciutto, insalata di granchio, tartine al limone, anche queste difficili da impacchettare. Kool-Aid per i bambini, una bottiglia da mezzo litro di Mumm per sé e per Alex. Lei ne avrebbe giusto assaggiato un sorso, perché stava ancora allattando. Per l’occasione, aveva comprato bicchieri di plastica da champagne, ma quando Alex glieli vide in mano andò alla cristalliera a prendere quelli veri, un regalo di nozze. Sally protestò, ma lui insistette, e si assunse personalmente l’incarico di incartarli bene e metterli nel cestino.
– Papà è un autentico «bourgeois gentilhomme», – le avrebbe detto qualche anno dopo Kent, ormai adolescente ed eterno primo della classe. Talmente certo del proprio futuro da scienziato da potersi permettere di girare per casa a sputare sentenze in francese.
– Non prendere in giro tuo padre, – replicava Sally automaticamente.
– Non lo prendo in giro. È che i geologi hanno quasi sempre un’aria cosí scarruffata.
Il picnic doveva festeggiare la pubblicazione del primo articolo a firma unica di Alex sulla «Zeitschrift für Geomorphologie». Sarebbero andati a Osler Bluff: primo, perché la località veniva nominata piú volte nel testo e, secondo, perché Sally e i bambini non c’erano mai stati.
Percorsero un paio di miglia accidentate di pista campestre, dopo essersi lasciati alle spalle una decorosa carrozzabile non asfaltata, e si trovarono in uno spiazzo adibito a parcheggio, in quel momento deserto. La scritta abbozzata a vernice su un’insegna di legno sarebbe stata da ritoccare. pericolo: buche-profonde.
Perché poi il trattino?, pensò Sally. Ma sí, cosa importa?
L’ingresso al bosco aveva un’aria consueta e nient’affatto minacciosa. Ovviamente Sally sapeva che boschi come questo crescevano in cima a un alto scoscendimento, e aveva messo in conto un punto di osservazione da brivido prima o poi. Ma non si aspettava certo quel che si trovarono quasi subito a dover costeggiare.
Profonde cavità, in effetti, alcune delle dimensioni di una bara, altre anche molto piú spaziose, come stanze scavate nella roccia. Separate da tortuosi corridoi e ricoperte di muschio e di felci sui lati. Una vegetazione comunque insufficiente a ovattare il pietrisco che si intravedeva sul fondo. Il sentiero serpeggiava in mezzo a tutto questo, alternando terra compatta a sporgenze di roccia ineguale. – Fiiuu, – esclamarono correndo avanti i bambini, Kent e Peter, rispettivamente di nove e sei anni.
– Non si corre, qui, – gridò Alex. – Sentito? Niente spacconate. Intesi? Voglio una risposta. Dissero di sí, e Alex proseguí con il cestino del picnic, apparentemente convinto che non occorressero ulteriori raccomandazioni paterne. Sally arrancava piú svelta del proprio passo, con la borsa del cambio e la piccola Savanna in braccio. Non poté rallentare prima di aver avvistato i figli che intanto trottavano l’uno a fianco dell’altro scrutando nelle cavità buie e continuando a prodursi in esclamazioni di orrore appena piú contenute. Avrebbe quasi pianto per la stanchezza, l’ansia e per una specie di ben nota rabbia che le si andava depositando dentro.
Il punto panoramico non comparve se non quando ebbero percorso piste di terra e roccia per una distanza che a lei parve di mezzo miglio, anche se probabilmente era la metà. A quel punto ci fu una schiarita, un’irruzione di cielo, e l’alt del marito, piú avanti. Alex diede in un grido che significava, ci siamo e guardate!, e i bambini risposero con espressioni di autentica meraviglia. Emergendo dal bosco, Sally se li trovò allineati su un masso sovrastante le cime degli alberi, diversi piani di cime d’alberi, anzi, con le coltivazioni estive a distesa giú in basso, in un tremolio di verde e di giallo. Appena adagiata sulla coperta, Savanna cominciò a piangere.
– Ha fame, – disse Sally.
E Alex: – Credevo che avesse mangiato in macchina.
– Infatti. Ma ha di nuovo fame.
Si agganciò Savanna su un fianco e, con la mano libera, slegò le cinghie del cestino da picnic. Naturalmente non era cosí che Alex aveva programmato la cosa, ma si limitò a emettere un sospiro indulgente e a recuperare dalle tasche i bicchieri da champagne incartati, che appoggiò rovesciati su un piccolo spiazzo erboso.
– Glu-glu, ho sete anch’io, – disse Kent, immediatamente imitato da Peter.
– Glu-glu, sí, anch’io, glu-glu.
– Zitti, – disse Alex.
E Kent: – Sta’ zitto, Peter.
Alex domandò a Sally: – Per loro cosa hai portato da bere?
– C’è il Kool-Aid nella caraffa azzurra. E sotto, i bicchieri di plastica avvolti in una salvietta di carta.
Naturalmente era opinione di Alex che Kent si fosse messo a fare lo stupido non perché avesse davvero sete, ma solo perché si era eccitato alla vista del seno di Sally. A suo parere era piú che ora di passare al biberon: Savanna aveva ormai quasi sei mesi. Inoltre, pensava che Sally fosse decisamente troppo disinvolta riguardo a quella prassi: certe volte se ne andava in giro per la cucina a sbrigare faccende con una mano sola, mentre la bambina si ingozzava al seno. Intanto, Kent sbirciava di nascosto, e Peter faceva commenti sulla latteria della mamma. Il responsabile era sempre Kent, per Alex. Kent era subdolo, piantagrane, e aveva la testa piena di porcherie.
– Be’, devo pur farle lo stesso, le cose, – diceva Sally.
– Non allattare, però. Potresti passarla al biberon anche domani.
– Tra poco, sí. Non domani, magari, ma tra poco.
E invece, macché. Perciò Savanna e la latteria continuarono a essere al centro dell’attenzione anche durante il picnic.
Viene versato prima il Kool-Aid, poi lo champagne. Sally e Alex si toccano i bicchieri, con Savanna di mezzo. Sally beve il suo sorso, ma vorrebbe concedersene di piú. Sorride ad Alex per comunicargli quel desiderio, e forse anche come sarebbe bello se fossero soli. Lui beve e, come se la sorsata e il sorriso di Sally bastassero a pacificarlo, dà inizio al picnic. Riceve istruzioni riguardo a quali tramezzini abbiano la mostarda che piace a lui, quali quella preferita da lei e Peter, e quali siano per Kent che invece non la vuole affatto.
Mentre avviene tutto ciò, Kent riesce a intrufolarsi alle spalle di Sally e a scolarsi il suo avanzo di champagne. Peter deve averlo visto, ma per qualche ignota ragione decide di non denunciarlo. Sally se ne accorgerà di lí a poco, mentre Alex non verrà mai a saperlo, perché si è già scordato che era rimasto del vino nel bicchiere e lo ritira con cura, insieme al suo, mentre spiega ai bambini che cos’è una dolomia. I figli lo ascoltano, si presume, divorando panini e ignorando le uova ripiene e l’insalata di granchio, per avventarsi sulle tartine.
Dolomia, dice Alex. Si chiama cosí la spessa roccia di copertura che hanno di fronte. Sotto, si trova lo scisto, vale a dire l’argilla trasformata in roccia, a grana finissima. L’acqua penetra lo strato della dolomia e quando raggiunge lo scisto si deposita, non riuscendo a infiltrarsi nelle falde sottili, a grana fine. Perciò l’erosione, cioè il lento consumarsi della dolomia, si scava lentamente una via di ritorno, incide dei solchi, e nella roccia di copertura si formano delle faglie verticali; sanno che cosa vuol dire verticale?
– Da su a giú, – replica Kent distrattamente.
– Delicate faglie verticali che tendono a raggiungere la superficie e si lasciano dei crepacci alle spalle, per cui, nel giro di qualche milione di anni, si sgretolano e ruzzolano giú dal pendio.
– Devo andare, – fa Kent.
– Andare dove?
– A fare pipí.
– Oh, santo cielo, va’, allora.
– Anch’io, – dice Peter.
Sally serra le labbra per bloccare una raccomandazione automatica. Alex la guarda e approva l’autocensura. Si scambiano un mezzo sorriso.
Savanna si è addormentata con le labbra socchiuse intorno al capezzolo. Senza i bambini intorno, staccarla è piú agevole. Sally può farle fare il ruttino e stenderla sulla coperta senza preoccuparsi del seno nudo. Se Alex non trova lo spettacolo di suo gusto – sa che è cosí; non sopporta l’associazione sesso-nutrimento, il seno della moglie trasformato in mammella – può sempre girarsi dall’altra parte, come sta facendo, in effetti.
Mentre Sally si riabbottona, sentono un grido, non forte, anzi, lontano, evanescente, e Alex scatta in piedi prima di lei e prende a correre sul sentiero. Poi, ecco un secondo grido che si avvicina. È Peter.
– Kent ha volato giú. Kent ha volato giú.
Il padre gli urla: – Arrivo.
Sally resterà per sempre convinta di averlo saputo subito cos’era successo, ancor prima di aver sentito la voce di Peter. Se doveva capitare un incidente non sarebbe toccato al figlio di sei anni, che era impavido ma poco ingegnoso e non esibizionista. Sarebbe successo a Kent. E sapeva anche esattamente come. Pisciando nella buca, sporgendosi oltre il bordo, sfidando Peter, sfidando se stesso. Era vivo. Stava sdraiato laggiú, sul pietrisco in fondo al crepaccio, ma agitava le braccia, nello sforzo di rimettersi in piedi. Uno sforzo debolissimo. Aveva una gamba sotto il peso del corpo e l’altra piegata a un’angolatura strana.
– Ce la fai a portare la bambina? – domandò a Peter. – Torna dove abbiamo mangiato, la metti giú e rimani a guardarla. Sei il mio bravo bambino. Bravo e forte.
Alex intanto si calava strisciando nella buca e diceva a Kent di non muoversi. Ce la si faceva appena ad arrivar giú tutti interi. Il difficile sarebbe stato tirar fuori Kent.
Che fare? Correre fino alla macchina per vedere se c’era una corda? Legare la corda al tronco di un albero? Magari legarla intorno al corpo di Kent e provare a tirarlo su, mentre Alex lo sollevava verso di lei?
Figuriamoci se c’era una corda. Perché avrebbe dovuto esserci?
Alex lo aveva raggiunto. Si chinò a sollevarlo. Kent emise un grido straziante. Alex se lo caricò sulle spalle, con la testa ciondoloni da un lato e le gambe – una delle quali piegata in modo cosí grottesco – inerti dall’altro. Si alzò, arrancò di un paio di passi e, senza mollare Kent, cadde in ginocchio. Aveva deciso di avanzare carponi e si dirigeva – ora Sally capiva le sue intenzioni – verso la pietraia che in parte riempiva l’estremità opposta del crepaccio. Le urlò un ordine senza alzare la testa e Sally capí, sebbene non riuscisse a distinguere una sola parola. Si alzò – come mai era finita in ginocchio? – e si fece largo tra gli arbusti fino al punto del bordo dove il pietrisco saliva a meno di un metro dalla superficie. Alex si avvicinava strisciando, con Kent appeso al collo come un cerbiatto appena cacciato.
Sally gridò: – Sono qui. Sono qui.
Kent doveva essere issato dal padre e trascinato sulla sporgenza di roccia solida dalla madre. Era un bambino magrissimo che non aveva ancora avuto la prima impennata di crescita, eppure sembrava pesare come un sacco di cemento. Le braccia di Sally non ce la fecero, al primo tentativo. Allora cambiò posizione, si mise accucciata anziché distesa a pancia in giú e, con tutta la forza di spalle e petto e con Alex che sosteneva e spingeva il corpo di Kent da sotto, lo tirarono fuori. Sally ricadde all’indietro con il bambino tra le braccia e lo vide aprire gli occhi, prima di rovesciarli nelle orbite e svenire di nuovo.
Appena Alex si fu arrampicato fuori a sua volta, radunarono gli altri figli e si precipitarono al
Collingwood Hospital. Lesioni interne sembrava non ce ne fossero. Le gambe erano tutte e due rotte.
Una frattura era netta, disse il dottore; ma l’altra gamba era in briciole.
– I bambini vanno tenuti d’occhio costantemente da quelle parti, – disse a Sally, che era entrata in ambulatorio con Kent mentre Alex si occupava degli altri. – Non ci sono dei cartelli di pericolo? Con Alex, pensò Sally, si sarebbe espresso in modo diverso. I bambini sono fatti cosí. Basta voltare lo sguardo un secondo e se ne vanno in giro dove non dovrebbero. – I bambini fanno i bambini. Ma la sua gratitudine – per Dio in cui non credeva, e per Alex in cui invece credeva – era talmente incommensurabile, che non se la prese affatto.
Kent non poté tornare a scuola per la metà seguente dell’anno, e per il primo periodo fu costretto in trazione in un letto d’ospedale a noleggio. Sally andava a prendere e portare i compiti a scuola, e Kent li svolgeva a casa alla velocità del fulmine. Lo incoraggiarono quindi a procedere con qualche Progetto extracurricolare. Uno di questi si intitolava Viaggi ed esplorazioni – Studia un paese a tua scelta.
– Ne voglio uno che nessuno sceglierebbe mai, – disse.
E allora Sally gli confidò una cosa che non aveva mai detto ad anima viva. E cioè della sua passione per le isole sperdute. Non come le Hawaii, le Canarie, le Ebridi o le isole greche dove tutti volevano andare, bensí quelle isole sconosciute di cui non si parlava mai e che ben di rado qualcuno visitava. Ascension, Tristan da Cunha, le Chatham, l’isola del Natale, Desolation, le Faerøer. Lei e Kent cominciarono a collezionare qualsiasi frammento di informazione su quei posti, senza concedersi di inventare niente. E senza mai dire ad Alex che cosa facevano.
– Penserebbe che siamo fuori di testa, – disse Sally.
Il principale vanto dell’isola Desolation era un ortaggio antichissimo, un cavolo assolutamente speciale. Immaginarono riti di culto, costumi, processioni sacre in tributo al cavolo.
E prima che lui nascesse, raccontò Sally al figlio, aveva visto in tv gli abitanti di Tristan da Cunha sbarcare all’aeroporto di Heathrow, dopo essere stati evacuati a causa di un terremoto che aveva sconvolto la loro isola. Che strani le erano sembrati, mansueti e dignitosi come esseri umani di un altro secolo. Dovevano essersi piú o meno adeguati alla vita di Londra, ma appena il vulcano si era placato, avevano voluto tornarsene a casa.
Quando Kent poté rientrare a scuola naturalmente le cose cambiarono, ma continuò a sembrare un bambino piú grande della sua età, paziente con Savanna che si era fatta testarda e spericolata, e con Peter, sempre pronto a irrompere in casa come un uragano. E, soprattutto, estremamente sussiegoso con il padre, al quale portava il giornale strappato alle grinfie di Savanna e ripiegato con cura, e per il quale spostava indietro la seggiola all’ora di cena.
«Sia reso onore a colui che mi ha salvato la vita», diceva a volte, oppure: «Il nostro eroe è tornato a casa».
Pronunciava queste frasi in modo piuttosto solenne, ma senza il minimo sarcasmo. Alex, tuttavia, si innervosiva. Era proprio Kent a innervosirlo, da ben prima del grave incidente nella buca-profonda.
«Piantala», gli diceva, e si lamentava in privato con Sally.
– Sta solo dicendo che dovevi volergli bene, visto che lo hai salvato.
– Cristo, avrei salvato chiunque.
– Non fartelo scappare di fronte a lui. Ti prego.
Quando Kent iniziò il liceo, le cose con suo padre migliorarono. Scelse studi scientifici. Optò per le scienze ostiche, non quelle piú accessibili, come scienze della terra, ma anche questo non suscitò alcuna obiezione in Alex. Piú difficili erano, meglio era.
Dopo sei mesi di college, però, scomparve. Chi lo conosceva un poco – sembrava che non ci fosse nessuno disposto a definirsi davvero suo amico – riferí di avergli sentito dire che voleva andare sulla West Coast. Poi arrivò una lettera, proprio quando i genitori stavano decidendo di rivolgersi alla polizia. Kent lavorava in un negozio Canadian Tire, alla periferia nord di Toronto. Alex andò a trovarlo per ordinargli di riprendere gli studi. Kent tuttavia rifiutò, disse che era contentissimo del lavoro che si era trovato e che guadagnava bene, o che comunque avrebbe guadagnato bene, appena lo avessero promosso. Poi andò Sally a trovarlo, senza dire niente ad Alex, e lo trovò ben pasciuto, con addosso cinque chili piú di quando era partito. Lui disse che era la birra. Si era fatto degli amici, ormai. – Attraversa una fase, – spiegò Sally ad Alex quando gli confessò la visita. – Vuole avere un assaggio di indipendenza.
– Può anche fare indigestione, per quanto mi riguarda.
Kent non le aveva detto dove abitava, ma non aveva importanza dal momento che, alla visita successiva, Sally scoprí che si era licenziato. La notizia la imbarazzò – le parve di cogliere un sorrisetto sarcastico sulla faccia dell’impiegato che la informò dell’accaduto –, perciò non gli chiese dove fosse Kent. Era convinta che si sarebbe messo in contatto, in ogni caso, non appena si fosse trovato una nuova sistemazione.
Lo fece tre anni dopo. La lettera risultava spedita da Needles, in California, ma vi si diceva di non darsi pena a cercare di rintracciarlo da quelle parti, perché era solo di passaggio. Come Blanche, aggiungeva, e Alex commentò, E chi diavolo è Blanche? – È una battuta, – rispose Sally. – Non ha importanza.
Kent non diceva che lavoro facesse né dove fosse stato e nemmeno se si fosse legato a qualcuno. Non si scusava di averli lasciati cosí a lungo senza notizie e non si informava della loro salute, né di quella di fratello e sorella. In compenso, si dilungava per pagine e pagine sulla sua vita. Non sugli aspetti pratici, bensí su quanto riteneva opportuno fare della propria esistenza e su quanto in effetti stava realizzando.
«Mi sembra talmente ridicola – diceva – la prospettiva di rinchiudersi nei panni di qualcuno. Voglio dire, nei panni di un ingegnere, di un medico o di un geologo; va a finire che è la pelle a crescere intorno ai vestiti, e non viceversa, e cosí non ce li si può piú levare di dosso. Quando invece abbiamo la possibilità di esplorare il mondo della realtà interiore oltre che esteriore, e di vivere secondo principî che contemplino il piano fisico e quello spirituale e l’intera gamma della bellezza come del terrore destinati al genere umano, vale a dire della sofferenza, ma anche della gioia e del turbamento. Immagino che questo modo di esprimersi vi sembri presuntuoso, ma se c’è una cosa alla quale ho imparato a rinunciare è la superbia intellettuale…»
– Si droga, – disse Alex. – Si sente lontano un miglio. Gli è marcito il cervello a furia di droga.
E a metà della notte se ne uscí con: – È il sesso.
Sally, sdraiata al suo fianco, era sveglissima.
– Che c’entra il sesso?
– È il sesso che ti porta a parlare cosí. Che ti fa voler essere una cosa qualunque pur di guadagnarti da vivere. Cosí puoi permetterti sesso regolare e tutto ciò che ne consegue. Non è farina del suo sacco.
Sally commentò. – Be’, alla faccia del romanticismo.
– I bisogni primari non sono mai tanto romantici. Kent non è normale, è questo che sto cercando di dire.
Piú avanti nella lettera – o anzi nell’invettiva, come la chiamò Alex – Kent dichiarava di essere stato piú fortunato di tanti altri, perché a lui era toccata quella che definí un’esperienza di pre-morte che gli aveva garantito una consapevolezza maggiore. Sarebbe quindi rimasto per sempre in debito di riconoscenza con suo padre, per averlo rimesso nel mondo, e con sua madre, per avercelo amorevolmente accolto.
«Forse in quegli attimi sono nato per la seconda volta».
A quel punto, Alex aveva emesso un grugnito.
– No. Non lo voglio dire.
– Ecco, non dirlo, – ribatté Sally. – Tanto non lo pensi.
– Non lo so neanch’io, se lo penso o no.
La lettera si concludeva «con affetto» e la firma: fu l’ultima volta che ebbero sue notizie.
Peter si iscrisse a Medicina, Savanna a Giurisprudenza.
Sally si scoprí un inatteso interesse per la geologia. Una volta, in uno slancio fiducioso dopo aver fatto sesso, raccontò ad Alex la storia delle isole, seppure omettendo la fantasticheria che ora Kent abitasse in uno qualsiasi di quei posti. Disse di aver dimenticato molti dettagli che un tempo conosceva e si ripromise di consultare di nuovo l’enciclopedia sulla quale aveva scovato le informazioni. Alex disse che ormai probabilmente avrebbe trovato tutto quel che cercava su internet. Non certo località cosí oscure e remote, disse lei, perciò Alex la tirò giú dal letto e la portò al piano di sotto dove, in un lampo, le comparve davanti agli occhi Tristan da Cunha, un verde pianoro in pieno oceano Atlantico meridionale, piú una ridda di informazioni. Sally ne fu sconvolta e si ritrasse, mentre Alex, prevedibilmente deluso di lei, le chiese perché.
– Non so. Mi sembra di averla persa, adesso.
Lui disse che cosí non andava bene, che le occorreva qualcosa di vero da fare. Al tempo, era appena andato in pensione dall’insegnamento e progettava di scrivere un libro. Aveva bisogno di un’assistente, ma non poteva piú avvalersi dell’aiuto dei laureandi, come faceva quando stava ancora in facoltà. (Sally non era sicura che le cose stessero proprio in quei termini). Gli fece notare che lei di rocce non sapeva niente e lui disse che non aveva importanza, che l’avrebbe usata nelle fotografie, per avere il senso delle proporzioni.
E cosí Sally diventò la figuretta vestita di nero o a colori sgargianti fotografata in contrasto con le strisce di roccia del Siluriano o del Devoniano. O con lo gneiss formatosi per intensa compressione, piegato e deformato dalle collisioni delle placche Atlantica e Pacifica da cui aveva avuto origine l’attuale continente. A poco a poco Sally imparò a usare gli occhi e ad applicare le conoscenze acquisite, finché fu in grado di calpestare una strada deserta di periferia con la consapevolezza che, a grande distanza, sotto i suoi piedi, si trovava un cratere colmo di detrito che nessuno aveva né avrebbe mai visto, perché non c’erano stati occhi a constatarne la creazione, né a seguire l’interminabile storia del suo costruirsi e riempirsi di rocce e seppellirsi e andare perduto. Alex rendeva onore a cose del genere conoscendole, fin dove era possibile conoscerle, e lei lo ammirava per questo, sebbene fosse abbastanza saggia da non dirlo esplicitamente. Furono buoni amici in quei loro ultimi anni, che Sally non immaginava fossero tali, ma lui forse sí. Entrò in ospedale per un intervento, portandosi appresso carte e fotografie e, il giorno in cui doveva tornare a casa, morí.
Questo succedeva d’estate; nell’autunno a Toronto scoppiò un terribile incendio. Sally sedette per un po’ davanti alla televisione a guardare le fiamme. Il fuoco era divampato in un quartiere che lei conosceva, almeno una volta, al tempo in cui lo popolavano hippy armati di mazzi di tarocchi e collanine di semi e fiori di carta grandi come zucche. E anche dopo, per un po’, quando i ristoranti vegetariani vennero trasformati uno dopo l’altro in costosi bistrò e boutique. Ora un intero isolato di quegli edifici ottocenteschi stava per essere cancellato, con grande rammarico del cronista il quale raccontava di quegli occupanti dei vecchi alloggi sopra le botteghe che avrebbero perso la casa per essere messi in salvo in mezzo a una strada.
Ma nessuno faceva parola dei proprietari degli stessi appartamenti, pensò Sally, che molto probabilmente l’avevano sempre fatta franca, a dispetto di impianti elettrici fuori norma e invasioni di scarafaggi e cimici, mentre i poveri inquilini ingannati e timorosi non si potevano neanche lamentare. Negli ultimi tempi, capitava che Sally sentisse Alex parlarle nella testa, come di sicuro stava accadendo ora. Spense la tv.
Non piú di dieci minuti dopo, squillò il telefono. Era Savanna.
– Mamma. Hai la tv accesa? Hai visto?
– L’incendio, vuoi dire? Sí, ma l’ho spenta.
No. Se hai visto… Io lo sto cercando, l’ho visto meno di cinque minuti fa. Mamma, è Kent.
Adesso non lo trovo piú. Ma l’ho visto.
– È ferito? Accendo subito. Era ferito?
– No, è un soccorritore. Reggeva una barella con qualcuno sopra, non so se un morto o un ferito. Però era Kent. Era lui. Si vedeva perfino che zoppicava. Hai acceso?
– Sí.
– Bene, ora mi calmo. Deve essere tornato dentro l’edificio.
– Ma non permetteranno che…
– Potrebbe essere un medico, per quel che ne sappiamo. Oh merda, stanno rimandando in onda l’intervista allo stesso vecchio di prima, quello con la famiglia che aveva un negozio lí da cent’anni. Senti, attacchiamo e restiamo con gli occhi incollati allo schermo. Lo devono inquadrare di nuovo, prima o poi.
E invece no. I filmati si fecero ripetitivi.
Savanna richiamò.
– Voglio andare in fondo a questa storia. Conosco un tizio che lavora al telegiornale. Posso chiedergli di rivedere il servizio, dobbiamo trovarlo.
Savanna non aveva mai conosciuto bene suo fratello: perché agitarsi tanto? Che la morte del padre le avesse fatto sentire il bisogno di una famiglia? Meglio che si sposasse presto, che mettesse al mondo dei figli. Certo che quando si cacciava in testa una cosa saltava fuori la sua vena testarda… e se fosse riuscita a rintracciare Kent? Quando aveva una decina d’anni, suo padre le aveva detto che doveva fare l’avvocato, perché era capace di spolpare un’idea fino all’osso. E da quel momento Savanna aveva detto: farò l’avvocato.
Sally fu sopraffatta da un tremore, una smania, uno sfinimento.
Era proprio Kent e, nel giro di una settimana, Savanna aveva scoperto tutto sul suo conto. Anzi, no. Diciamo che aveva scoperto tutto quello che lui aveva deciso di farle sapere. Abitava a Toronto da anni. Gli era capitato spesso di passare davanti al palazzo dove lavorava Savanna e un paio di volte l’aveva vista per strada. In una occasione si erano ritrovati quasi faccia a faccia, a un incrocio. Non stupiva che non l’avesse riconosciuto, perché indossava una tunica.
– Un Hare Krishna? – domandò Sally.
– Oh, mamma, non è che tutti i monaci siano Hare Krishna. Comunque non lo è piú.
– E cos’è?
– Dice che vive nel presente. E allora io gli ho detto, perché, non lo facciamo tutti, al giorno d’oggi, ma lui mi ha detto, no, che intendeva nel presente vero.
Proprio quello in cui si trovavano, aveva specificato, e Savanna aveva chiesto: – Vuoi dire in questo buco? – Perché in effetti era cosí: il caffè nel quale le aveva chiesto di incontrarsi era davvero un buco.
– Io la vedo diversamente, – aveva ribattuto lui, ma aveva poi aggiunto che non intendeva criticare la sua visione delle cose, né quella di chiunque altro.
– Be’, come sei magnanimo, – aveva risposto Savanna, ma in tono ironico e lui aveva quasi riso.
Disse di aver visto il necrologio di Alex sul giornale e di averlo trovato ben scritto. Era convinto che Alex avrebbe gradito i riferimenti geologici. Si era chiesto se sarebbe comparso anche il proprio tra i nomi dei famigliari, e poi si era sorpreso di trovarlo. Si era domandato se fosse stato il padre a fornire loro l’elenco dei nomi che voleva, prima di morire.
Savanna disse di no, che non si aspettava affatto di morire cosí presto. C’era stata una riunione di famiglia e si era deciso che dovesse esserci anche Kent.
– Ah, non papà, – disse Kent. – Certo che no.
Poi chiese di Sally.
Sally si sentí nel petto una specie di pallone gonfio d’aria.
– E tu cosa gli hai detto?
– Che te la cavi, a volte un po’ smarrita, magari, dato quanto eravate uniti tu e papà e il poco tempo che hai avuto per abituarti a stare da sola. Poi mi ha detto, falle sapere che può venire a trovarmi, se vuole, e io gli ho detto che te l’avrei chiesto.
Sally non rispose.
– Mamma? Ci sei?
– Ha detto quando? dove?
– No. Devo rivederlo tra una settimana nello stesso posto e fargli sapere. Ho la sensazione che gli piaccia decidere per gli altri. Pensavo che avresti subito detto di sí.
– Certo, infatti.
– Non ti fa paura andarci da sola?
– Non dire stupidaggini. Era proprio lui quello che avevi visto nell’incendio?
– Non ha detto né sí né no. Ma a me risulta di sí. A quanto pare è piuttosto noto in certe zone della città e tra certa gente.
Sally riceve un biglietto. Il che era già un fatto particolare, dato che quasi tutta la gente che conosceva ormai usava il telefono o la posta elettronica. Fu contenta di evitare il telefono. Non era ancora in grado di valutare la propria reazione di fronte alla sua voce. Nel biglietto le diceva di lasciare la macchina in un parcheggio sotterraneo a un capolinea del metrò, e di proseguire fino a una determinata stazione, dove lui sarebbe andato a prenderla.
Pensava di vederlo sul lato opposto del tornello, ma non c’era. Forse intendeva che l’avrebbe aspettata fuori. Salí le scale e si ritrovò nel sole, dove si fermò, mentre persone di tutti i tipi le passavano accanto, di fretta. Si sentí sgomenta e a disagio. Sgomenta per l’apparente assenza di Kent, e a disagio perché provava esattamente quello che spesso sembravano provare gli abitanti della sua zona di mondo, anche se non avrebbe mai usato le loro parole per dirlo. Pareva di stare in Congo o in India, o in Vietnam, avrebbero detto. Dovunque, tranne che in Ontario. Turbanti, sari e dashiki davano molto nell’occhio, e a Sally piacevano tutti quei colori sgargianti e quei fruscii. Ma lí non venivano portati come costumi stranieri. La gente che li indossava non era appena arrivata; aveva da un pezzo attraversato la fase dell’adattamento. Era lei l’intrusa.
Sui gradini di una vecchia banca, poco oltre l’ingresso del metrò, c’erano degli uomini, chi seduto chi disteso, qualcuno addormentato. La banca non c’era piú, naturalmente, sebbene il nome restasse inciso nella pietra. Sally pose lo sguardo su quel nome piú che sugli uomini le cui posture stracche, reclinate e dormienti stridevano con il precedente impiego dell’edificio e con la fretta di chi usciva dalla metropolitana.
– Mamma.
Uno degli uomini sugli scalini le venne incontro con calma, trascinando un po’ un piede, e lei si rese conto che era Kent e lo aspettò.
Lí per lí avrebbe voluto scappar via. Poi però vide che non tutti gli sconosciuti erano sporchi o derelitti e che qualcuno non la guardava con aria di sfida o di disprezzo, ma quasi con bonaria indulgenza adesso che era stata identificata come madre di Kent.
Kent non aveva la tunica. Indossava dei pantaloni grigi fuori taglia, stretti in vita da una cintura, una maglietta senza scritte e una giacca logora. Portava i capelli talmente corti che non si vedevano nemmeno i ricci. Era grigio, con il viso segnato, qualche dente in meno e un corpo magrissimo che gli dava piú anni di quelli che aveva.
Non l’abbracciò – del resto non si era aspettata che lo facesse –, però le posò una mano leggera sulla schiena per pilotarla nella direzione giusta.
– Fumi sempre la pipa? – chiese lei, annusando l’aria e ricordando che al liceo Kent si era messo a fumarla.
La pipa? Ah. No. L’odore che senti è il fumo dell’incendio. Noi non ce ne accorgiamo piú.
Temo che aumenterà, man mano che procediamo.
– Dobbiamo attraversare il posto dov’è scoppiato?
– No, no. Anche volendo, non potremmo. È tutto transennato. Troppo pericoloso. Certi palazzi devono essere demoliti. Sta’ tranquilla, dove siamo noi è sicuro. Quasi due isolati dal casino.
– Il vostro condominio? – disse, messa in guardia da quel «noi».
– Piú o meno. Sí. Adesso vedrai.
Si mostrava disponibile e gentile, ma parlava con una certa fatica, come chi si esprima, per educazione, in una lingua straniera. E le stava un po’ addosso, per essere sicuro che sentisse. Quello sforzo particolare, il leggero affaticamento che gli costava parlarle, quello di un traduttore meticoloso, sembrava non doverle passare inosservato.
Il prezzo.
Scendendo dal marciapiede, le sfiorò il braccio – forse stava per inciampare – e disse: – Pardon –. E a Sally parve di registrare un debolissimo tremito.
Aids. Come aveva potuto non pensarci prima?
– No, – disse lui, benché Sally non avesse certo parlato ad alta voce. – Attualmente sto abbastanza bene. Non sono sieropositivo, né niente di simile. Anni fa mi sono preso la malaria, ma ora è sotto controllo. Magari sono un po’ stanco, niente di preoccupante. Ecco, qui dobbiamo girare, stiamo in questo isolato.
Di nuovo il plurale.
– Non sono un sensitivo, – disse. – Ho solo immaginato dove voleva andare a parare Savanna e ho pensato di tranquillizzarti. Eccoci arrivati.
Era uno di quegli edifici con la porta d’ingresso a pochi passi dal marciapiede.
– Sono casto, in effetti, – disse, tenendo aperta la porta, alla quale mancava un pannello di vetro. Al suo posto era stato fissato un pezzo di cartone con le puntine da disegno.
Le assi del pavimento erano nuove e scricchiolavano. L’odore era un misto molto penetrante. Si era insinuato in casa il fumo della via, naturalmente, ma era mescolato al lezzo stantio di cucina, caffè bruciato, gabinetto, malattia, marciume.
– Forse «casto» non è il termine giusto. Dà l’idea che ci sia di mezzo un atto di volontà. Credo che avrei dovuto dire sessualmente «inattivo». Non lo considero un traguardo. Non lo è.
Intanto la conduceva in cucina, facendo il giro intorno alla scala. Qui, un donnone gigantesco dava loro la schiena, rimestando qualcosa sul fornello.
Kent disse: – Ciao, Marnie. Ti presento mia madre. Ti va di salutarla?
Sally notò un cambiamento nella voce. Una pacificazione, una sincerità, forse un rispetto, diversi dai toni forzatamente leggeri che riservava a lei.
Disse: – Salve, Marnie, – e la donna si girò appena senza riuscire a mettere a fuoco lo sguardo e mostrando una faccia da bambola schiacciata dentro una massa di carne.
– Marnie è la nostra cuoca questa settimana, – disse Kent. – L’odore è buono, Marnie. Poi, a sua madre, disse: – Andiamo a sederci nel mio sancta sanctorum, ti va? – e la condusse giú da un paio di gradini, lungo il corridoio posteriore. Non era facile muoversi, per via delle pile di giornali, volantini e riviste, tutti legati assieme.
– Bisogna sgomberare questa roba da qui, – disse Kent. – L’ho detto a Steve stamattina. C’è rischio di incendio. Cristo, quante volte l’ho ripetuto. E adesso l’ho toccato con mano.
Cristo. Sally si era domandata se Kent fosse membro di un ordine religioso che non imponeva l’abito talare, ma in tal caso non si sarebbe di certo espresso in quel modo, no? D’altra parte, poteva sempre trattarsi di una setta non cristiana.
La sua stanza era in fondo a un’ulteriore rampa di scale, in una cantina, in effetti. C’erano una branda, una vecchia scrivania a scomparti assai malridotta, e un paio di sedie rigide senza poggiapiedi.
Le sedie reggono, sta’ tranquilla, – le disse. – Quasi tutto quello che abbiamo è rimediato in
discarica, ma sulle sedie esigo che ci si possa sedere.
Con un senso di sfinimento, Sally sedette.
– Che cosa sei? – chiese. – Che cos’è quello che fai? È una specie di casa di accoglienza per detenuti o malati di mente, questa?
– Ma no. Qui accogliamo proprio chiunque arrivi.
– Compresa me.
– Compresa te, – disse lui, senza sorridere. – Non abbiamo nessuno che ci finanzi, tranne noi stessi. Ci arrangiamo con un po’ di riciclaggio dei rifiuti che raccogliamo in giro. Quei giornali. Bottiglie. Tiriamo su qualcosa qui e là. E, a turno, sollecitiamo gesti di solidarietà.
– Cioè, chiedete l’elemosina?
– Mendichiamo, – fece lui.
– Per strada?
– Quale posto migliore? Sí, per strada. Ma entriamo pure in qualche locale con cui abbiamo un accordo, anche se non sarebbe legale.
– Lo fai anche tu?
– Non potrei chiederlo agli altri, se non lo facessi personalmente. Ho dovuto vincermi. Quasi tutti abbiamo dovuto vincere qualcosa. Poteva essere la vergogna. O magari il concetto di «mio». Se qualcuno ti scuce un biglietto da dieci o anche solo un dollaro, ecco che spunta fuori il concetto di proprietà privata. Di chi sono quei soldi, eh? Sono miei, oppure – aiuto, aiuto – sono nostri? Se la risposta che ci si dà è sono miei, di solito la persona se li spende subito e poi torna col fiato che puzza di alcol e dice, non so come mai, ma oggi non ho rimediato un centesimo. Poi capita che si senta in colpa e finisca per confessare. Oppure no, non importa. Li vediamo sparire per giorni di seguito – settimane – e poi ricompaiono quando si mette male. Qualche volta invece li vedi battere le strade per conto loro, facendo sempre finta di non riconoscerti. E non tornano piú. Il che va benissimo. Sono i nostri ex allievi, diciamo cosí. Se si crede nel sistema, ovvio.
– Kent…
– Da queste parti mi chiamo Giona.
– Giona?
– L’ho scelto io. Avevo pensato a Lazzaro, ma mi pareva troppo compiaciuto. Puoi chiamarmi Kent, se preferisci.
– Vorrei sapere che cosa è successo alla tua vita. Non tanto cosa ci fai con queste persone… – Queste persone sono la mia vita.
– Sapevo che l’avresti detto.
– D’accordo, era un po’ scontata. Però è questo che faccio da… quanto? sette anni? Nove. Nove anni.
Sally insistette. – E prima?
– E che ne so? Prima? Prima. I giorni dell’uomo sono come l’erba, no? Che oggi c’è e domani si getta nel forno. Ma sentimi. Ti ho appena incontrata e già ricomincio a darmi delle arie. Oggi c’è e domani si getta nel forno… non mi interessano piú queste cose. Io vivo alla giornata. Davvero. Non puoi capire. Non faccio parte del tuo mondo, e tu non fai parte del mio – lo sai perché ho voluto vederti qui, oggi?
– No. Non ci ho neanche pensato. Cioè, mi pareva che potesse essere arrivato il momento, naturalmente.
– Naturalmente. Be’, quando ho letto della morte di mio padre sul giornale, naturalmente mi sono detto, E i soldi, dove saranno finiti? E poi ho pensato, Be’, lei me lo può dire.
– Ce li ho io, – disse Sally, sopraffatta dalla delusione, ma ostentando grande autocontrollo. – Per il momento. Anche la casa, se ti interessa.
Immaginavo che fosse cosí. Va bene.
– E alla mia morte, andranno a Peter e ai suoi figli, e a Savanna.
– Benissimo.
– Non sapeva nemmeno se eri vivo o morto…
– Credi che lo chieda per me? Mi consideri idiota al punto da volere i soldi per me? Comunque, l’errore di pensare come avrei potuto usarli, l’ho fatto. Con l’idea che erano soldi di famiglia, e che potevo disporne. Ecco la tentazione. Adesso sono contento, però, contento di non poterli avere.
– Potrei…
– Il fatto è che questa casa ha i giorni contati… – Potrei farti un prestito.
– Un prestito? Qui non funziona cosí. Non utilizziamo il sistema dei prestiti da queste parti. Scusa, bisogna che ritrovi la calma. Hai fame? Ti va un po’ di zuppa?
– No, grazie.
Appena Kent se ne andò, Sally pensò di scappare. Se solo fosse riuscita a individuare una porta sul retro, un percorso che non prevedesse il passaggio in cucina. Ma non poteva, perché avrebbe significato non rivederlo mai piú. Senza contare che il cortile di una casa del genere, costruita prima dell’era automobilistica, non doveva avere accessi alla strada.
Passò piú o meno mezz’ora prima che ritornasse. Sally non si era messa l’orologio. Pensava che potesse risultare fuori luogo nella vita attuale di Kent e, a quanto pare, aveva colto nel segno. Se non altro su questo.
Lui parve un po’ sorpreso e disorientato di trovarla ancora lí.
– Scusami, ho dovuto sistemare una faccenda. E poi ho parlato un po’ con Marnie: mi tranquillizza sempre.
– Ci avevi scritto una lettera, – disse Sally. – È stata l’ultima volta che abbiamo avuto tue notizie.
– Oh, non me la ricordare.
– No, era una bella lettera, invece. Un buon tentativo di spiegarci che cosa pensavi.
– Ti prego. Non ricordarmela.
– Stavi cercando di impostare la tua vita…
– La mia vita, la mia vita, il mio percorso, e tutto quel che potevo scoprire del mio schifoso io. Obiettivo me stesso. Le mie stronzate. La mia spiritualità. Il mio cammino intellettuale. Non esistono tutte queste fesserie interiori, Sally. Ti dispiace se ti chiamo Sally? Mi riesce piú naturale. Esiste soltanto l’esterno, quello che uno fa, in ogni istante della vita. Da quando l’ho capito sono felice.
– Lo sei davvero? Sei felice?
– Certo. Ho abbandonato tutte quelle fesserie su me stesso. Penso, Cosa posso fare per dare una mano? È tutto il pensare che mi concedo.
– Vivi nel presente, insomma.
– Non m’importa se pensi che sono banale. Se mi trovi ridicolo.
– Io non…
– Non importa. Senti. Se credi che voglia i tuoi soldi, d’accordo. Voglio i tuoi soldi. E voglio anche te. Non ti interessa una vita diversa? Non sto dicendo che ti voglio bene, non uso parole idiote, io. O che ti voglio salvare. Sai bene che solo tu puoi salvare te stessa. E allora il punto qual è? Di solito non cerco di arrivare da nessuna parte, quando parlo con qualcuno. Di solito evito i rapporti personali.
Dico sul serio. Li evito.
Rapporti.
– Perché ti sforzi di non ridere? – disse. – Perché ho usato la parola «rapporti»? Ti suona fasulla? Non bado troppo alle parole, io.
Sally disse: – Pensavo a Gesú. «Che c’è tra me e te, donna?» Lo sguardo che gli balenò negli occhi era quasi furioso.
– Ma non ti stanchi mai, Sally? Non ti stanchi mai di essere intelligente? Scusa, non posso star qui a parlare con te. Ho da fare.
– Anch’io, – disse Sally. Era del tutto falso. – Allora ci… – Non lo dire. Non dire: «Allora ci sentiamo».
– Magari, ci sentiamo. Va meglio cosí?
Sally si perde, poi ritrova la strada. Di nuovo la banca, lo stesso esercito di perdigiorno, o forse tutto un altro. Il tragitto in metropolitana, il parcheggio, le chiavi, l’autostrada, il traffico. Poi la statale, il tramonto che arriva presto, ancora niente neve, gli alberi spogli e il buio sui campi. Le piace quel tratto di campagna, le piace questo periodo dell’anno. Deve cominciare a considerarsi indegna?
La gatta è contenta di vederla. Ci sono due o tre messaggi di amici, in segreteria. Si mette a scaldare una porzione singola di lasagne. Ormai si compra queste vaschette precotte e surgelate. Sono abbastanza buone e non costano care, se si considera che non c’è spreco. Nei sette minuti di attesa, sorseggia un bicchiere di vino.
Giona.
Sta fremendo di rabbia. Che cosa ci si aspetta da lei, che torni in quella casa per condannati e si metta a sfregare il linoleum marcio e a cuocere avanzi di pollo che qualcuno ha buttato via perché erano scaduti? Per farsi ricordare ogni giorno quanto lei sia da meno di Marnie e di qualunque altra creatura afflitta? Il tutto, per il privilegio di essere utile alla vita che un altro – Kent – si è scelto? È malato. Si sta logorando, forse sta morendo. Non le direbbe certo grazie per un paio di lenzuola pulite e un buon piatto di cibo. Oh no. Preferirebbe morire su quella branda sotto la coperta col buco della bruciatura di sigaretta.
Un assegno, però, può staccarlo. Non una cifra pazzesca. Né troppo, né troppo poco. Tanto lui non lo userà per sé, figuriamoci. E continuerà a disprezzarla, ovviamente.
Disprezzarla. Macché. Non è quello il punto. Niente di personale.
C’era comunque qualcosa che salvava quella giornata dal disastro assoluto. No? Lei aveva detto magari. Lui non l’aveva corretta.
Radicali liberi
In principio la gente telefonava per assicurarsi che Nita non fosse troppo giú, troppo sola, che non mangiasse troppo poco e non bevesse troppo. (Beveva da sempre con tale regolarità che adesso in molti si dimenticavano che l’alcol le era stato proibito del tutto). Lei li teneva a debita distanza senza assumere i toni della nobile disperazione né della forzata euforia, della svagatezza o del disordine mentale. Diceva che non le serviva niente da mangiare, perché stava cercando di dare fondo a quel che aveva in casa. Che con le medicine era a posto e che aveva abbastanza francobolli per i biglietti di ringraziamento.
I suoi amici piú cari probabilmente sospettavano la verità: e cioè che non si desse la pena di nutrirsi molto e che cestinasse ogni eventuale cartoncino di condoglianze. Proprio per scongiurarne l’arrivo aveva evitato di scrivere ai conoscenti lontani. E cosí alla ex moglie di Rich in Arizona, o al fratello con cui Rich aveva quasi interrotto i rapporti, in Nuova Scozia, anche se loro magari avrebbero capito, e forse anche meglio delle persone vicine, come mai Nita avesse optato per nessun rito funebre. Rich le aveva gridato che andava in paese, dal ferramenta. Potevano essere le dieci; quel mattino si era messo a dipingere la ringhiera della terrazza. O meglio, a raschiarla prima di pitturare, e il vecchio raschietto gli si era rotto in mano.
Nita non aveva fatto in tempo a chiedersi perché tardasse. Rich morí davanti al negozio piegato in due sul cartello che informava di uno sconto sui tosaerba. Non era neppure riuscito a entrare nel negozio. Aveva ottantun anni e stava bene, a eccezione di una parziale sordità all’orecchio destro. L’aveva visto il suo dottore giusto una settimana prima. Nita doveva scoprire che quel tipo di controllo e il conseguente referto di buona salute saltavano fuori in numero sorprendente nelle storie di morti improvvise che ora non mancavano di raccontarle. Veniva quasi da credere che fosse meglio evitarle, certe visite, diceva lei.
Avrebbe dovuto esprimersi in quei termini solo con quelle vecchie malelingue delle sue amiche, Virgie e Carol, donne pressappoco della sua stessa età, vale a dire sessantadue anni. Chi era piú giovane trovava quei discorsi sconvenienti ed evasivi. Da principio furono tutti disposti a stringersi intorno a Nita. Evitarono di introdurre l’argomento elaborazione del dolore, ma lei temeva che potessero cominciare da un momento all’altro.
Appena si diede ai preparativi, naturalmente, sparirono tutti tranne gli amici di comprovata lealtà. La cassa piú economica, subito in terra, nessuna cerimonia di alcun tipo. L’impresario di pompe funebri sostenne che procedere cosí poteva anche essere illegale, ma lei e Rich avevano ben chiara la situazione. Si erano informati già un anno prima, non appena la diagnosi di Nita era stata definitiva.
– Come facevo a sapere che mi avrebbe fregato l’idea?
Non che la gente immaginasse un rito tradizionale, ma si erano aspettati qualcosa di moderno. Un inno alla vita. L’esecuzione del suo brano musicale preferito, con tutti i presenti stretti per mano che raccontavano aneddoti celebrando le virtú di Rich e ricordando di sfuggita e spiritosamente le sue piccole manie e i suoi difetti veniali.
Il genere di cosa che, per dichiarazione dello stesso Rich, lo avrebbe fatto vomitare.
Perciò si risolse tutto in fretta, e il trambusto e l’affettuoso calore intorno a Nita si dissolsero, anche se alcuni, immaginava, avevano continuato a ripetere di essere in pensiero per lei. Non certo Virgie e Carol. Loro le dissero che se pensava di crepare subito, prima del dovuto, era solo una gran troia egoista. Dissero che sarebbero andate a trovarla ogni tanto, assicurandosi di tirarla su con un goccio di Grey Goose.
Nita rispose che non era sua intenzione, anche se riconosceva una certa logica nel discorso. Il suo tumore era attualmente in fase di remissione – chissà poi cosa voleva dire. Di sicuro non che stava battendo in ritirata. Non per sempre, quantomeno. Era il fegato la zona piú compromessa dal male e, a patto che continuasse a mangiare come un uccellino, non le dava noie. Dover ricordare alle amiche che non poteva toccare né vino né vodka, sarebbe solo servito a deprimerle.
La radioterapia della primavera scorsa a qualcosa era servita, in effetti. Eccoci in piena estate.
Le sembra di vedersi meno gialla in faccia, ma potrebbe anche essere che ormai si è abituata. Si alza presto la mattina, si lava e si veste come capita. Ma si veste e si lava, anche i denti, e si pettina i capelli che le sono abbastanza ricresciuti, grigi intorno alle tempie e scuri dietro, come prima. Si mette il rossetto, si scurisce le sopracciglia, molto rade adesso, e, in memoria di un’esistenza passata a coltivare il traguardo di vita sottile e fianchi snelli, controlla i risultati raggiunti su quel fronte, pur sapendo che l’aggettivo adatto a descrivere qualsivoglia parte di lei a questo punto sarebbe «scheletrico».
Si siede come sempre nella sua grande poltrona, circondata da pile di libri e di riviste mai aperte. Sorseggia adagio la tisana insipida che ha preso il posto del caffè. C’è stato un momento in cui ha creduto che non ce l’avrebbe fatta a tirare avanti senza caffè, ma poi ha scoperto che quello di cui non può fare a meno è stringere in mano il tazzone caldo, che è quella sensazione a favorirle i pensieri, o qualunque altra pratica svolga nel corso delle ore, o delle giornate.
La casa era di Rich. L’aveva comprata quando stava con la moglie Bett. Doveva essere solo una casa di villeggiatura, da tenere chiusa d’inverno. Due stanzette minuscole e una cucina col soffitto spiovente a mezzo miglio dal paese. Poi però si era messo a fare dei lavori, a studiare manuali di carpenteria per costruire altre due camere con bagno, poi uno studio per sé, fino a trasformare i locali di partenza in un unico grande soggiorno/cucina/sala da pranzo. Bett cominciò a interessarsi – in principio sosteneva di non aver capito che cosa avesse spinto Rich a comprare quella bicocca, ma le migliorie tangibili l’avevano sempre appassionata, perciò affrontò la spesa di due grembiuli gemelli da falegnameria. Avendo concluso la stesura del libro di cucina che l’aveva impegnata per anni e che era ormai stato dato alle stampe, aveva bisogno di dedicarsi a qualcosa. Lei e Rich non avevano figli. E nello stesso periodo in cui Bett raccontava a tutti di aver scoperto il proprio ruolo nella vita come aiuto falegname, e aggiungeva come quell’attività avesse reso piú che mai saldo il legame tra lei e il marito, Rich si innamorava di Nita. Nita lavorava alla segreteria dell’ateneo presso il quale lui insegnava Storia medievale. La prima volta avevano fatto l’amore in mezzo ai trucioli e alla segatura di quello che sarebbe diventato il cuore della casa, il salone con soffitto a volta. Nita dimenticò gli occhiali da sole; non lo fece apposta, ma Bett, che non scordava mai niente, non riuscí a crederlo. Ne venne fuori la solita cagnara, dolorosa e trita, che si concluse con Bett che partiva per la California prima e l’Arizona poi, Nita che si licenziava su suggerimento del capo, e Rich che si perdeva l’occasione di diventare preside della facoltà di Arte. Andò in prepensionamento, vendette la casa di città. Nita non ereditò il grembiule piccolo da falegname, ma leggeva allegramente i suoi libri in mezzo al caos, cucinava piatti spartani sulla piastra, si concedeva lunghe passeggiate esplorative dalle quali rientrava con fantasiosi bouquet di gigli tigrati e carote selvatiche che ficcava dentro vecchie latte di vernice. Piú tardi, quando lei e Rich si erano ormai sistemati, le capitò di vergognarsi al ricordo della disinvoltura con la quale aveva assunto il ruolo dell’amante giovane, della spensierata rovinafamiglie, della spigliata, insidiosa, oca giuliva. Di fatto era una donna – non certo una ragazzina – piuttosto seria, fisicamente impacciata, insicura, in grado di recitare l’elenco di tutte le regine, non soltanto dei re, ma delle regine d’Inghilterra, o di raccontare la guerra dei Trent’anni per dritto e per rovescio, ma che non se la sentiva di ballare in pubblico e che non avrebbe mai imparato a salire su una scala a pioli, come faceva Bett.
La casa è costeggiata da un filare di cedri su un lato e dalla ferrovia sull’altro. Il traffico ferroviario non è mai stato molto intenso, e ormai deve essersi ridotto a un paio di treni al mese. L’erba cresceva alta fra le rotaie. Una volta, ai tempi in cui stava per entrare in menopausa, Nita aveva convinto Rich a far l’amore lí, non sulle traversine, è ovvio, ma sulla striscia d’erba accanto, dalla quale si erano poi allontanati immensamente soddisfatti dell’impresa.
Ogni mattina, appena si accomodava in poltrona, Nita passava in rassegna tutti i posti in cui
Rich non era. Non era nel bagnetto piccolo dove restava il suo occorrente per la barba, nonché i medicinali per tutti i suoi disturbi di poco conto, pillole varie che si rifiutava di buttare via. Non era nella camera da letto dalla quale era appena uscita, dopo aver messo in ordine. E nemmeno nel bagno grande, dove peraltro Rich entrava solo se decideva di usare la vasca. O nella cucina che negli ultimi anni era diventata il suo regno pressoché incontrastato. Ovviamente non era fuori sulla terrazza di legno già raschiata a metà, pronto a sbirciare per scherzo dalla finestra, davanti alla quale, ai bei tempi, lei magari accennava la parodia di uno spogliarello.
O nello studio. Di tutti i posti, era dallo studio che Nita doveva sancire in modo piú definitivo la sua assenza. In principio aveva provato il bisogno di andare alla porta, aprirla e stare lí sulla soglia a contemplare i mucchi di scartoffie, il computer moribondo, i dossier traboccanti, i libri aperti a faccia in su o in giú o ammassati sugli scaffali. Adesso invece le bastava immaginarsele, le cose. Un giorno o l’altro sarebbe dovuta entrare. La pensava come un’invasione. Avrebbe dovuto invadere la mente del marito morto. Era un’eventualità che non aveva mai considerato. Rich le era sempre apparso un tale colosso di praticità e di competenza, una creatura talmente salda e vigorosa da garantirle l’assoluta, quanto irragionevole, convinzione che le sarebbe sopravvissuto. Poi, nel corso dell’ultimo anno, quell’idea era diventata tutt’altro che assurda e, a suo giudizio per entrambi, si era trasformata in una certezza.
Per prima cosa intendeva occuparsi della cantina. Era proprio una cantina, non un seminterrato. Semplici assi appoggiate sulla terra battuta, e finestrini alti, drappeggiati di luride ragnatele. Non c’era niente là sotto di cui avesse mai bisogno. Giusto le latte di vernice mezze vuote di Rich, tavole di legno di varia lunghezza che prima o poi potevano tornare utili, arnesi ancora utilizzabili e altri da eliminare. Nita aveva aperto la porta e sceso quelle scale una volta soltanto, per controllare che non fosse rimasta nessuna luce accesa, e per assicurarsi della presenza di etichette che specificassero la funzione di ogni interruttore. Tornata di sopra, aveva sprangato come sempre la porta sul lato della cucina. Rich la prendeva in giro per quella sua mania, chiedendole cosa immaginava che potesse entrare a minacciarli dai muri di pietra o da quei finestrini lillipuziani.
Ad ogni buon conto, partire dalla cantina sarebbe stato piú facile; mille volte piú facile che incominciare con lo studio.
Il letto se lo rifaceva e rimediava al proprio limitato disordine in cucina e in bagno, ma, in linea di massima, lo slancio necessario per affrontare una vera e propria pulizia a fondo era impensabile. Già faticava a buttare via una graffetta storta o un magnete da frigo senza calamita, per non parlare della ciotola di monete irlandesi che lei e Rich avevano portato a casa da un viaggio quindici anni prima.
Ogni singolo oggetto pareva aver acquisito peso e peculiarità insospettabili.
Carol e Virgie chiamavano tutti i giorni, di solito verso l’ora di cena, probabilmente pensando che fosse quello il momento in cui la solitudine si faceva piú insopportabile. Nita diceva di star bene, assicurava che presto sarebbe uscita dalla tana, che le serviva solo un po’ di tempo, che per adesso preferiva leggere e pensare. Sí, anche mangiare, certo, e dormire.
Tutto vero, tranne la parte che riguardava la lettura. Seduta in poltrona in mezzo ai suoi libri, non ne apriva mai nemmeno uno. Era sempre stata una lettrice instancabile – una delle ragioni per cui, a detta di Rich, Nita era la donna giusta per lui, perché poteva starsene in un angolo a leggere senza dargli noia – e adesso non riusciva neanche a concentrarsi per mezza pagina.
E dire che in passato non si limitava a leggere una volta sola. I fratelli Karamazov, Il mulino sulla Floss, Le ali della colomba, La montagna incantata, quante volte ci era tornata su. Ne prendeva uno in mano, pensando di voler rileggere solo un certo passaggio, e si ritrovava incapace di smettere fino a che non se l’era divorato di nuovo tutto quanto. Frequentava anche i contemporanei. Sempre romanzi. Detestava sentirli definire «d’evasione». Avrebbe potuto ribattere, e non solo per scherzo, che l’evasione stava nella vita vera. Ma era un argomento troppo serio per discuterne cosí.
Ora però, strano a dirsi, era tutto finito. Non solo con la morte di Rich, ma anche prima, quando
la malattia aveva cominciato ad assorbirla. Allora aveva creduto che si trattasse di un cambiamento temporaneo e che l’incanto sarebbe tornato appena si fossero concluse le terapie spossanti e l’assunzione di certi farmaci.
A quanto pareva, no.
A volte cercava di fornire spiegazioni a un immaginario inquisitore.
– Ho troppo da fare.
– Dicono tutti cosí. Cosa devi fare?
– Sono troppo concentrata.
– Su cosa?
– Devo riflettere, insomma.
– Di che?
– Lasciamo perdere.
Una mattina, dopo essere rimasta seduta per un po’, decise che faceva molto caldo. Forse doveva alzarsi e accendere il ventilatore. Oppure, per maggior rispetto dell’ambiente, provare a spalancare le porte sui due lati della casa e far circolare dalla zanzariera l’eventuale refolo d’aria. Aprí per prima quella sul davanti. La luce del mattino non fece neanche in tempo a insinuarsi in casa di un centimetro, che già Nita la vide attraversata da una striscia scura. C’era un giovanotto fuori della porta a zanzariera fermata con il gancio.
– Non volevo spaventarla, – disse. – Stavo cercando un campanello o qualcosa. Ho bussato piano sullo stipite, ma si vede che non mi ha sentito.
– Mi scusi, – disse lei.
– Devo controllarle il contatore. Può dirmi dove lo trovo?
Nita si spostò di lato per farlo passare. Dovette pensarci un momento. – Sí. È in cantina, – disse poi. – Le accendo la luce. Lo trova subito.
Il giovane si chiuse la porta alle spalle e si chinò per sfilarsi le scarpe.
– Lasci stare, – disse Nita. – Tanto non piove.
– È lo stesso. Lo faccio per abitudine. Metta che le lascio le pedate di polvere anziché di fango. Nita entrò in cucina, incapace di tornare a sedersi finché lui era in casa.
Gli aprí quando lo sentí salire le scale.
– Tutto a posto? – disse. – L’ha trovato?
– A posto.
Si avviò alla porta per accompagnarlo, ma si accorse che non la seguiva. Si volse e lo vide fermo in cucina.
– Non è che potrebbe farmi qualcosa da mangiare, per caso?
C’era un che di diverso nella sua voce – una stonatura, un timbro piú acuto: le fece venire in mente un comico televisivo che fa il verso a un contadino. Sotto il lucernario della cucina si rese conto che l’uomo non era poi cosí giovane. Aprendo la porta di casa aveva solo intravisto un corpo magro, una faccia scura contro il bagliore del mattino. Per come lo vedeva adesso, il corpo, in atteggiamento di amichevole disinvoltura, era di certo magro, ma piú smunto che giovanile. Aveva la faccia lunga e gommosa, gli occhi sporgenti azzurro chiaro. Un’aria scherzosa, ma una certa ostinazione, anche, come se fosse abituato a ottenere quel che voleva.
– Vede, si dà il caso che sia diabetico, – disse. – Non so se lei conosce qualche diabetico, ma quando ci viene fame, dobbiamo mangiare subito, se no ci si sballa tutto il sistema. Dovevo mangiare prima di venire qui, solo che mi son fatto prendere dalla fretta. Le spiace se mi siedo? Intanto si era seduto al tavolo di cucina.
– Ha del caffè?
– No, solo tisane. Se le vanno bene.
– Sí, sí, certo.
Nita preparò la miscela di erbe in una tazza, accese il bollitore, e aprí il frigorifero.
– Non ho granché in casa, – disse. – Ci sono delle uova. A volte me ne faccio uno strapazzato con il ketchup. Le può andar bene? Ho anche dei muffin inglesi da tostare.
– Ma sí, irlandesi, inglesi, turchesi, non importa.
Nita ruppe un paio di uova in padella, forò la pellicola dei tuorli e rimestò tutto con un forchettone, prima di affettare un muffin e metterlo nel tostapane. Prese un piatto dal mobile, e glielo poggiò davanti. Poi andò al cassetto delle posate per coltello e forchetta.
– Carino, – disse lui, reggendo il piatto in alto come se ci si volesse specchiare dentro.
Nell’attimo in cui si volse per controllare le uova, Nita sentí il rumore del piatto che andava in frantumi sul pavimento.
– Oh povero me, – disse l’uomo con una voce diversa, una specie di squittio decisamente maligno. – Guarda un po’ che cosa ti ho combinato.
– Non c’è problema, – fece lei, sapendo che invece c’era, eccome.
– Mi sa che mi è scivolato di mano.
Nita ne prese un altro, lo appoggiò sul ripiano di cucina finché non ebbe pronte le due metà del muffin tostato e le uova condite con uno schizzo di ketchup.
Lui intanto si era chinato a raccogliere i cocci di ceramica. Ne tirò su uno con la punta molto acuminata. Mentre Nita gli metteva il piatto sul tavolo, lui si graffiò il braccio nudo con la punta del frammento. Comparvero minuscole perle di sangue, dapprima isolate, poi riunite in un unico rivolo. – Tutto ok, – disse. – Si fa per scherzare. So bene come si scherza su ’ste cose. Se volevo fare sul serio, non c’era bisogno del ketchup, dico bene?
A terra restavano alcuni cocci che non aveva visto. Nita si voltò pensando di andare a prendere la scopa, che stava in uno sgabuzzino accanto alla porta di servizio. Lui l’afferrò fulmineo per un braccio.
– Seduta. Ora te ne stai qui seduta, mentre mangio –. E alzò il braccio insanguinato per mostrarglielo di nuovo. Dopodiché si fece un panino all’uovo con il muffin e lo divorò in pochi bocconi. Masticava con la bocca aperta. L’acqua bolliva. – La bustina è già dentro?
– Sí. Veramente sono erbe sfuse.
– Ferma dove sei. Non ti voglio vicino al bollitore, intesi?
Andò lui a versare l’acqua calda nella tazza.
– Sembra fieno. Non hai nient’altro?
– No, mi scusi.
– E piantala di scusarti. Se non hai altro non hai altro. Che ne sapevi che venivo qui a controllare il contatore?
– Be’, – disse Nita. – Un po’ lo sapevo.
– Adesso non piú però.
– No.
– Hai paura?
Nita decise di prenderla come una domanda seria e non come una provocazione.
– Non saprei. Sono piú stupita che spaventata, credo. Non saprei.
– Chiariamo subito. C’è una cosa che non devi aver paura: non ti voglio violentare.
– Mi pareva improbabile.
– Non si può mai dire –. Bevve un sorso di tisana e fece una smorfia. – Solo perché sei vecchia?
C’è un mucchio di gente che si farebbe qualunque cosa, sai? Cani, gatti, neonati, vecchie. Vecchi. Gente che non va per il sottile. Be’, io sí. A me mi vanno solo le cose regolari con una bella signorina che mi piace e che io piaccio a lei. Perciò, sta’ tranquilla.
Nita disse: – Sono tranquilla. Comunque, grazie di avermelo detto.
Lui si strinse nelle spalle, ma parve soddisfatto di sé.
– È tua la macchina là fuori?
– È di mio marito.
– Tuo marito? E dov’è?
– È morto. Io non guido. La voglio vendere, ma non mi decido mai.
Che idiota, che idiota a dirgli cosí.
– Duemilaquattro?
– Penso di sí. Sí.
– Lí per lí pensavo che tiravi fuori il trucchetto del marito. Tanto era inutile. Ho naso io, me ne accorgo quando una donna sta da sola. Lo so appena metto piede in una casa. Da come mi apre la porta.
Questione di istinto. Comunque va bene, no? Sai quando l’ha presa l’ultima volta? – Il diciassette di giugno. Il giorno in cui è morto.
– Benzina ce n’è?
– Credo di sí.
– Magari ha fatto il pieno subito prima, pensa che bello. Hai le chiavi?
– Non qui. So dove sono.
– D’accordo –. Spinse indietro la sedia, che urtò un coccio rimasto a terra. Si alzò, scosse il capo un po’ sorpreso, si risedette.
– Sono fuori uso. Devo sedermi un attimo. Pensavo di star meglio, se mangiavo. Me la sono inventata, quella del diabetico.
Nita spinse indietro la sedia e lui scattò.
– Ferma dove sei. Non sono cosí fuori uso che non riesco a prenderti. È che ho camminato tutta la notte.
– Volevo solo andare a prendere le chiavi.
– Aspetta, te lo dico io quando è ora. Ho seguito i binari. Mai visto un treno. Me la sono fatta a piedi fin qui e non ho mai visto un treno.
– Non ne passano quasi mai.
– Sí. Be’. Mi sono buttato nel fosso per attraversare certi paesi sfigati. Poi è venuto chiaro, ma non ho avuto problemi se non quando incrociavo la strada e dovevo correre. A un certo punto ho guardato quaggiú e ho visto la casa e la macchina e mi sono detto, È fatta. Potevo anche prendere la macchina del mio vecchio, ma non mi sono ancora bevuto il cervello del tutto.
Nita sapeva che l’uomo voleva farsi chiedere che cosa avesse fatto. Ma era anche sicura che meno ne sapeva e meglio stava.
Poi, per la prima volta da quando lui le era entrato in casa, pensò al suo cancro. A come la liberava, la proteggeva da ogni pericolo.
– Cos’hai da sorridere?
– Non lo so. Sorridevo?
– Ho idea che ti piacciono le storie. Se vuoi, te ne racconto una.
– Magari preferirei che se ne andasse.
– Sí, poi me ne vado. Ma prima ti racconto una storia.
Si infilò la mano in una tasca posteriore. – Guarda. Vuoi vedere una foto? Ecco qua. Nella foto si vedevano tre persone in un salotto, con i tendoni a fiori tirati sullo sfondo. Un vecchio – non vecchissimo, sulla sessantina, diciamo – e una donna all’incirca della stessa età stavano seduti su un divano. Mentre, su una sedia a rotelle da un lato del sofà ma un po’ piú avanti, c’era una giovane molto grossa. Il vecchio era massiccio e grigio di capelli, con gli occhi stretti e la bocca semiaperta come se faticasse a respirare, ma sorridesse meglio che poteva. La vecchia era decisamente piú minuta, con i capelli tinti scuri, il rossetto e una di quelle casacche dalle maniche a sbuffo coi fiocchetti di nastro rosso al collo e ai polsi. Sorrideva con aria decisa, seppure un po’ nervosa, a labbra strette forse per coprire dei brutti denti.
Ma era la giovane a dominare la fotografia. Mostruosa e nitida nel suo camicione sgargiante, con i capelli scuri arrangiati in una cornice di riccioli intorno alla fronte e le guance pendule sul collo.
E, a dispetto di tanta massa carnosa, un’espressione vagamente furba e soddisfatta.
– Questi sono mia madre e mio padre. E questa è mia sorella Madelaine. Quella sulla sedia a rotelle.
È nata male. Nessuno ha potuto farci niente, neanche i dottori. Mangiava come un maiale. Non è mai corso buon sangue tra noi due, da quando mi ricordo. Ha cinque anni piú di me e si era messa in testa di tormentarmi. Mi tirava addosso tutto quello che le capitava in mano, mi faceva cadere, cercava di mettermi sotto con quella sua sedia del cazzo. Oh, pardon.
– Deve essere stata dura per lei. E per i suoi.
– Bah. Loro l’hanno presa come veniva. Sono andati da uno di quei predicatori e quello gli ha raccontato che era un dono di Dio. Se la portavano in chiesa cazzo e lei si lamentava come un maledetto gatto in calore, e loro giú a dire oh, senti vuole cantare anche lei, che Dio la benedica, cazzo.
Sempre con rispetto parlando, eh?
Cosí io in casa non mi sono fatto vedere molto, mi segui? ho cercato di andarmene e di farmi la mia vita. Mi sono detto, va tutto bene, ma io da questa merda voglio saltar fuori. Ho la mia vita. Mi sono cercato un lavoro. Avevo quasi sempre qualcosa da fare. Non sono mai stato il tipo che piazza il culo nel burro e si sbronza coi soldi del sussidio. Volevo dire il deretano. Non gli ho mai chiesto un soldo al mio vecchio. Ero capace di incatramare un tetto quando c’erano trenta gradi, o di lavare pavimenti in qualche bettola schifosa o di fare l’aiuto meccanico nel garage di un truffatore. Ho fatto di tutto. Solo che non ci stavo a prendermi le palate di merda, perciò non duravo tanto. La merda che quelli come me si vedono sbattere in faccia, io non la sopporto. Sono cresciuto in una famiglia come si deve, io. Mio padre ha sgobbato finché non è stato troppo male, lavorava sugli autobus. Non mi hanno cresciuto perché prendessi palate di merda senza fiatare. Va be’, comunque. I miei mi avevano sempre detto, la casa è tua. Questa casa è pagata fino all’ultimo centesimo, è in buono stato ed è tua. Cosí mi dicevano. Sappiamo che è stata dura per te da giovane, e che se qui ti andava un po’ meglio magari potevi studiare, perciò vogliamo fare qualcosa per rimediare. Poi, un po’ di tempo fa parlavo al telefono con mio padre e lui mi fa, Allora è chiaro come funziona l’accordo? E io, Che accordo? E lui, Che ti spetta la casa se firmi che accetti di badare a tua sorella finché vive. È casa tua solo se è anche casa sua.
Cristo, questa non l’avevo mai sentita. Mai sentito parlare di accordo prima. Avevo sempre pensato che, morti loro, lei se ne andava in ricovero. Ma mica che la ricoveravo in casa mia.
Cosí ho detto al vecchio che io non l’avevo proprio capita cosí e lui mi fa è già tutto pronto devi solo firmare e se non vuoi, non importa. Tanto tua zia Rennie verrà a tenerti d’occhio per essere sicura che rispetti i patti quando non ci saremo piú.
Buona quella. La zia Rennie è la sorella minore di mia madre: una troia di prim’ordine.
Comunque, lui mi dice che la zia Rennie verrà a tenermi d’occhio e di colpo io cambio musica. Gli faccio, Be’ allora si vede che è giusto cosí. Ok. Ok, vi va se vengo a pranzo a casa questa domenica.
Certo, fa lui. Sono contento che alla fine anche tu la vedi nella prospettiva giusta. Prendi subito fuoco, mi fa, alla tua età dovresti avere un po’ di buonsenso.
Senti senti, mi dico.
E cosí mi presento a casa e mamma ha fatto il pollo. C’è un buon profumo, appena entro. Poi sento l’odore di Madelaine, il solito tanfo, non so cosa sia, ma non se ne va neanche se mamma la lava tutti i giorni. Io però faccio l’allegro. Dico che è una grande occasione e che bisogna fare una foto. Dico che mi sono preso una fantastica macchina nuova che sviluppa le foto subito, cosí le puoi vedere.
Si scatta e già potete vedervi, che ne dite? E li faccio sedere in salotto, come nella foto. Mamma dice,
Dài sbrigati, devo tornare in cucina. Ci vuole un attimo, rispondo. Scatto la foto e lei fa, Allora, vediamo un po’ come è venuta, e io dico, Be’, un po’ di pazienza, ci vuole un attimo. E mentre aspettano di vedere come sono venuti, io tiro fuori la mia bella pistola e beng-beng li stendo tutti e tre. Poi scatto un’altra foto, vado in cucina e mi mangio un po’ di pollo senza voltarmi indietro. Credevo di trovare a casa anche la zia Rennie, ma mamma mi ha detto che aveva da fare in chiesa. Se no facevo fuori anche lei senza problemi. Insomma, eccoli qua. Prima e dopo la cura.
La testa del vecchio si era piegata di lato, quella della vecchia all’indietro. Le facce di entrambi, cancellate dagli spari. La sorella era crollata in avanti, perciò non si vedeva la faccia; solo le grosse ginocchia avviluppate nella stoffa a fiori e la testa bruna dalla complicata acconciatura fuorimoda. – Se era per me sarei rimasto a godermela per una settimana. Stavo cosí bene. Ma ho aspettato solo che venisse buio. Ho guardato di essermi pulito bene, ho finito tutto il pollo e poi sapevo che era meglio andare via. Ero pronto all’idea di veder arrivare la zia Rennie, ma nel frattempo mi era cambiato l’umore, perciò sapevo che per far fuori anche lei mi toccava prima ridarmi la carica. Non me la sentivo piú, tutto qui. Tra l’altro, ero pieno come un uovo, tanto era grosso quel pollo. Me l’ero spazzolato tutto invece di incartarlo e portarmelo via, perché avevo paura che i cani magari sentivano l’odore e piantavano casino mentre me la svignavo dai vicoli sul retro, come volevo fare io. Ero convinto che con tutto quel pollo nello stomaco andavo avanti una settimana. E invece guarda te che fame avevo, quando sono arrivato qui.
Si guardò intorno. – Scommetto che non hai niente da bere, o sbaglio? Quella roba era uno schifo.
– Forse c’è un po’ di vino, – disse lei. – Non so, io ho smesso di bere… – Sei negli A.A.?
– No. È solo che non mi fa bene.
Nita si alzò e si sentí tremare le gambe. Non stupiva.
– Ho sistemato la linea del telefono prima di venir dentro, – disse lui. – Giusto perché tu lo sappia.
Chissà se l’alcol lo avrebbe reso piú distratto e accomodante, o piú aggressivo e violento. Come faceva a saperlo? Trovò il vino senza bisogno di uscire dalla cucina. Avevano l’abitudine di concedersi un po’ di rosso a pasto, lei e Rich, perché si diceva che facesse bene al cuore. O che contrastasse quei cosi che facevano male al cuore. Era talmente confusa e spaventata che non le veniva in mente come si chiamavano.
Perché aveva paura, in effetti. Altro che. La faccenda del cancro non le sarebbe stata di nessunissimo aiuto nella circostanza specifica. Il fatto di dover morire nel giro di un anno non era in grado di revocare la possibilità di lasciarci la pelle subito.
Lui disse: – Ehi, ma questa è roba seria. Mica di quello col tappo a vite. Non ce l’hai un cavatappi?
Nita fece per dirigersi a un cassetto, ma lui scattò in piedi e la scostò di lato, senza scaldarsi tanto.
– Hn, hn, lo prendo io. Tu sta’ alla larga da questo cassetto. Però! ma quanta bella roba hai qui dentro.
Appoggiò i coltelli sulla propria sedia dove Nita non sarebbe mai arrivata a prenderli, e si diede da fare con il cavatappi. A Nita non sfuggí come quell’arnese potesse trasformarsi in un’arma letale nelle mani di lui, mentre non c’era la minima possibilità che lei fosse in grado di servirsene.
– Prendo solo i bicchieri, – azzardò, ma lui non glielo permise. Niente bicchieri di vetro, disse, di plastica non ce li hai?
– No.
– Tazze, allora. E guarda che ti vedo.
Nita mise giú le due tazze e disse: – Per me pochissimo.
– Idem per me, – fece lui deciso. – Devo guidare –. Ma si riempí la tazza fino all’orlo. – Non voglio certo che un poliziotto mi si infili in macchina per controllare come sto.
– Radicali liberi, – disse lei.
– E che diavolo vorrebbe dire?
– C’entrano qualcosa con il rosso. Non mi ricordo se il vino li distrugge perché fanno male, o li favorisce perché fanno bene.
Nita buttò giú un sorso e non provò il senso di nausea che si era aspettata. L’uomo bevve, senza sedersi. Lei disse: – Attento ai coltelli, quando si siede.
– Non fare la spiritosa con me.
Raccolse i coltelli e li ritirò nel cassetto, prima di sedersi.
– Mi prendi per scemo? Pensi che abbia paura?
Nita rischiò grosso, e disse: – Penso semplicemente che non abbia mai fatto niente di simile prima.
– Lo credo bene. Per chi mi hai preso, per un assassino? Ho ammazzato loro, ma non sono un assassino.
– C’è una bella differenza, – disse lei.
– Puoi dirlo forte.
– So anch’io com’è. Intendo, com’è disfarsi di qualcuno che ti ha fatto del male.
– Ah sí?
– Ho fatto anch’io come lei.
– Figuriamoci –. Spinse indietro la sedia, ma non si alzò.
– È libero di non credermi, se non vuole, – disse lei. – Però è vero.
– Tutte balle. E come avresti fatto?
– Col veleno.
– Ma cosa dici? Cos’è? Hai rifilato a tutti un tazzone di quella tisana schifosa, magari? – Non c’erano tutti di mezzo, c’era lei. Non ha niente che non va, la mia tisana. Dovrebbe perfino allungarti la vita.
– Meglio vivere meno che dover buttare giú quella porcheria. Comunque, il veleno lo trovano dentro il corpo, nel cadavere, insomma.
– Non credo che sia cosí anche per i veleni naturali delle piante. E poi, a nessuno sarebbe venuto in mente di controllare. Era una di quelle ragazzine che già da piccole hanno la febbre reumatica, sempre malate, di quelle che non possono fare sport né altro, che devono sempre sedersi a prendere fiato. Chi vuole che si stupisse se era morta?
– Cosa diavolo ti aveva fatto?
– Mio marito era innamorato di lei. Voleva lasciarmi per sposarla. Me l’aveva detto. Io avrei fatto qualsiasi cosa per lui. Avevamo lavorato insieme per costruire questa casa, lui era tutto quello che avevo. Non avevamo figli perché non ne aveva voluti. Mi ero iscritta a un corso di falegnameria e avevo paura di salire sulle scale, ma lo facevo lo stesso. Lui era la mia vita. E scopro che vuole sbattermi fuori di casa per quella piaga inutile che lavorava alla segreteria. Tutta la vita che ci eravamo costruiti insieme sarebbe finita in mano a lei. Le pare giusto?
– E dove si va a comprare, il veleno?
– Non ho dovuto comprarlo. Ce l’avevo in giardino. Qui dietro. Avevo delle piante di rabarbaro da anni. Le venature delle foglie sono piene di un veleno piú che sufficiente. Non gli steli. Quelli si mangiano. Sono buoni. Ma le venature rosse, sottili, delle grandi foglie del rabarbaro, quelle sono velenose. Lo sapevo, anche se devo ammettere che non sapevo esattamente quante ce ne volessero per fare effetto, perciò ho provato, è stata una specie di esperimento. Ho avuto diverse fortune. Prima di tutto, mio marito era a un convegno a Minneapolis. Avrebbe potuto portarsela appresso, naturalmente, ma era estate e lei era la praticante costretta a tenere aperto l’ufficio mentre gli altri erano in vacanza. Però potevano presentarsi altri inconvenienti: che lei non fosse completamente sola, ad esempio, che ci fosse qualcun altro nei paraggi. E per di piú, avrebbe anche potuto sospettare di me. Dovevo partire dal principio che non sapesse che sapevo, e che mi considerasse ancora un’amica. Era venuta piú volte a casa mia, eravamo in buoni rapporti. Dovevo contare sul fatto che mio marito era il classico tipo che tende a rimandare; a me aveva detto di lei per vedere la mia reazione, ma a lei probabilmente non l’aveva ancora fatto sapere. Mi dirà, Ma perché farla fuori, allora? Magari lui era ancora indeciso. No. Lui se la sarebbe tenuta, in qualche modo. E anche in caso contrario, la nostra vita era comunque distrutta. Lei mi aveva avvelenato l’esistenza, perciò io dovevo avvelenare la sua. Ho preparato due tortine. Una con le foglie velenose e una senza. Ovviamente, avevo fatto in modo di distinguerle. Sono andata in macchina all’università, ho preso due tazze di caffè e mi sono presentata nel suo ufficio. Era sola. Le ho raccontato che ero dovuta venire in centro e che nei pressi dell’università ero passata davanti a una bella pasticceria, un posticino di cui mio marito diceva sempre un gran bene, cosí ero entrata e avevo preso le tortine e due caffè. Pensando a lei che era lí tutta sola, mentre gli altri se n’erano andati in ferie, e a me tutta sola, con mio marito in trasferta a Minneapolis. Si commosse e mi ringraziò. Disse che si annoiava tanto in ufficio e che la mensa era chiusa, perciò toccava andare fino all’istituto di Scienze, se si voleva un caffè, e che quelli, nel caffè, ci mettevano l’acido cloridrico. Ha-ha. E cosí, ci concedemmo la nostra festicciola.
– Io lo detesto, il rabarbaro, – fece lui. – Con me non funzionava di sicuro.
– Be’, con lei, sí. Dovevo sperare che facesse effetto presto senza darle il tempo di rendersi conto di quel che era successo e si precipitasse a fare una lavanda gastrica. Ma nemmeno tanto in fretta da farle capire che era colpa mia. Bisognava che non fossi piú nei paraggi, e cosí fu. L’edificio era deserto e, per quanto ne so ancora oggi, nessuno mi aveva vista arrivare né andarmene. Va da sé che conoscevo certe vie di fuga.
– Ti senti tanto in gamba, eh? Certo che l’hai proprio fatta franca.
– Del resto, anche lei.
– Quello che ho fatto io è meno disonesto di quello che hai fatto tu.
– Per lei era un bisogno.
– Puoi dirlo.
– Anche per me lo era. Ho salvato il mio matrimonio. Alla fine lui si convinse che non poteva funzionare con lei. Quasi sicuramente gli avrebbe scaricato addosso la sua malattia. Era quel tipo di donna. Sarebbe stata solo un peso. E lui lo capí.
– Spero per te che non hai messo niente in quelle uova, – disse lui. – Perché se no, te ne faccio pentire.
– Ma si figuri. Non ci ho nemmeno pensato. Non è una cosa che uno fa per abitudine, quella. E comunque, non ci capisco niente di veleni, del rabarbaro sapevo per puro caso.
Lui si alzò talmente di scatto da far cadere a terra la sedia. Nita si accorse che era rimasto poco vino, nella bottiglia.
– Mi servono le chiavi della macchina.
Per un attimo Nita non riuscí a pensare.
– Le chiavi della macchina. Dove le hai messe?
Poteva succedere. Poteva, appena gli avesse dato le chiavi. Sarebbe servito a qualcosa dirgli che stava morendo di cancro? Che cretinata. Non avrebbe fatto nessuna differenza. Morire di cancro domani non le avrebbe impedito di parlare oggi.
– Nessuno sa di quello che le ho detto, – affermò. – Lei è l’unico.
Figuriamoci quanto poteva funzionare. Probabile che non si fosse minimamente accorto del vantaggio ricevuto.
– Nessuno lo sa, per ora, – fece lui, e Nita pensò, Grazie a Dio. Ha abboccato. Ha capito. Avrà capito?
Grazie a Dio, forse.
– Le chiavi sono nella teiera azzurra.
– Cioè? Quale cazzo di teiera azzurra?
– In fondo al mobile, laggiú. Si è rotto il coperchio, perciò la usiamo per buttarci dentro le cianfrusaglie…
– Zitta. Sta’ zitta o ti chiudo il becco una volta per tutte –. Cercò di infilare il pugno dentro la teiera azzurra, ma non ci entrava. – Cazzo, cazzo, cazzo, – gridò, rovesciando il contenuto della teiera e sbattendola contro il ripiano di modo che a terra finirono non soltanto le chiavi della macchina e quelle di casa, monete varie e un malloppo di vecchi biglietti della Canadian Tire, ma anche cocci di ceramica azzurra.
– Quelle con il cordino rosso, – mormorò Nita.
Lui prese a calci la roba per un attimo, prima di raccogliere le chiavi giuste.
– Allora, che cosa pensi di dire in giro, della macchina? – le chiese. – Che l’hai venduta a uno di fuori, giusto?
Il senso di quelle parole ci mise un po’ a raggiungerla. Quando le fu chiaro, la stanza tremò. – Grazie, – disse, ma aveva la bocca talmente asciutta che non era certa di aver emesso alcun suono. A quanto pareva sí, tuttavia, perché lui disse: – Aspetta a ringraziarmi.
– Ho buona memoria io, – proseguí. – Buonissima. Fa’ in modo che il forestiero non mi assomigli per niente. Non vorrai che si mettano a scavare al cimitero in cerca di cadaveri, no? Ricordati bene, tu ti fai scappare anche una sola parola, e io faccio lo stesso.
Nita non alzò lo sguardo. Non fiatò e non si mosse, limitandosi a fissare il caos sul pavimento. Andato. La porta era chiusa. Lei continuava a stare immobile. Avrebbe voluto chiudere a chiave, ma era paralizzata. Udí il motore accendersi, e spegnersi. E adesso? Era talmente nervoso che non ne faceva una giusta. Di nuovo, accensione, accensione, partenza. Le gomme sulla ghiaia. Nita si avviò tremante al telefono e scoprí che le aveva detto la verità: la linea era interrotta.
Accanto all’apparecchio c’era una delle loro numerose librerie. In quella in particolare tenevano soprattutto libri vecchi, roba che nessuno apriva da anni. C’era Il tramonto di un’epoca. Albert Speer. I libri di Rich.
La grande festa di frutta e verdura nostrana: piatti sostanziosi ed eleganti e inedite sorprese, ricette raccolte, ideate e realizzate da Bett Underhill.
Una volta che la cucina era stata sistemata, Nita per qualche tempo aveva commesso l’errore di voler riproporre l’arte culinaria di Bett. Non durò molto, comunque, perché di fatto Rich non aveva un buon ricordo di tanto scompiglio, e in ogni caso a lei mancava la pazienza necessaria per tutto quel tritare e sobbollire. In compenso, aveva imparato alcune cose sorprendenti. Come le proprietà venefiche di certe piante comuni e perlopiú benigne.
Roba da scriverlo a Bett.
Cara Bett, Rich è morto e io mi sono salvata la vita diventando te.
Ma che cosa importava a Bett che lei si fosse salvata la vita? C’è un’unica persona alla quale varrebbe la pena dirlo.
Rich. Rich. Finalmente ha scoperto che cosa significa sentire la sua mancanza. Come se il cielo si fosse risucchiato tutta l’aria.
Dovrebbe uscire e andare a piedi fino in paese. C’è un posto di polizia sul retro del municipio.
Dovrebbe procurarsi un cellulare.
Ma era talmente scossa, talmente sfinita, che non riusciva a muovere un passo. Prima di tutto era meglio riposare.
A svegliarla furono dei colpi sulla porta che ancora non aveva chiuso a chiave. Era un poliziotto, non del paese però, ma della stradale del distretto. Le chiese se sapeva dove fosse la sua macchina.
Nita guardò verso la chiazza di ghiaia dove era stata parcheggiata.
– Non c’è piú, – disse. – Era lí.
– Non sapeva del furto? Quando l’ha vista là fuori l’ultima volta?
– Deve essere stato ieri sera.
– Le chiavi erano a bordo?
– Immagino di sí, evidentemente.
– Devo informarla che l’auto ha avuto un brutto incidente, subito prima di Wallenstein; nessun altro veicolo coinvolto. Il guidatore si è infilato nel fosso e l’ha demolita. E non è tutto. È un ricercato per triplice omicidio. Queste sono le nostre ultime informazioni sul suo conto. L’omicidio di Mitchellston. Può ringraziare la sua buona stella di non averlo incontrato.
– È rimasto ferito?
– Morto sul colpo. Se l’è voluta.
Subito dopo le propinò una cortese ramanzina. Lasciare le chiavi in macchina. Una donna che vive da sola. Di questi tempi, non si sa mai.
No, non si sa mai.
Faccia
Sono convinto che mio padre mi abbia guardato, fissato, che mi abbia visto una volta soltanto.
In seguito, poté farne a meno, già sapendo com’ero.
Al tempo, i padri non avevano accesso alla luminosa sala in cui i bambini venivano al mondo, e nemmeno a quella dove le partorienti soffocavano le proprie grida o urlavano di dolore. I padri posavano gli occhi sulle madri solo dopo che queste erano tornate in sé e si era provveduto a pulirle e rincalzarle sotto coperte in tinte pastello, e a riportarle in reparto o nella loro stanza, singola o doppia che fosse. Mia madre stava in una singola, in ossequio alla sua posizione in paese e, col senno di poi, meglio cosí, in effetti.
Non so se fu prima o dopo aver rivisto mia madre che mio padre venne davanti alla vetrata del nido per dare un’occhiata anche a me. Tendo a credere che sia successo dopo, e che quando mia madre udí i suoi passi fuori dalla porta e nella stanza, avvertí in essi tutta la sua collera senza sapere ancora quale ne fosse la causa. Dopotutto, gli aveva partorito un maschio, che in teoria era ciò che gli uomini vogliono.
So cosa disse, però. O almeno cosa disse stando a ciò che lei mi riferí.
Disse: – Sembra un fegato fatto a pezzi.
E aggiunse: – Togliti pure dalla testa l’idea di portarlo a casa.
Una metà della mia faccia era – è – normale. E normale era pure tutto il corpo, dalle spalle alla punta dei piedi. Misuravo cinquantatre centimetri di lunghezza, per un peso di tre chili e quasi ottocento grammi. Un bambinone robusto, di carnagione chiara, benché probabilmente ancora arrossata dal mio recente itinerario secondo copione.
La mia voglia era viola, non rossa. Un viola carico per tutti gli anni dell’infanzia; un po’ piú tenue man mano che crescevo, senza tuttavia mai sbiadire fino a perdere di impatto, senza mai smettere, insomma, di essere la primissima cosa che nota di me chi mi vede di fronte, o il dato sconvolgente che scopre chi mi avvicina da sinistra, dal lato pulito, per cosí dire. Sembra che qualcuno mi abbia rovesciato addosso del succo d’uva, o vernice fresca, una gran chiazza vistosa che non accenna a scolare in gocce finché non mi arriva sul collo. Sebbene riesca a schivare di misura il naso, dopo avermi inondato una palpebra.
«Il bianco di quell’occhietto risalta di piú cosí; è piú bello»: ecco una delle perdonabili idiozie che mi ripeteva mia madre, nella speranza di farmi apprezzare me stesso. E accadde una cosa strana.
Dalla campana di vetro sotto cui vivevo, finii quasi per crederle.
Naturalmente mio padre non poté fare nulla per impedire che entrassi in casa. E naturalmente la mia presenza, la mia esistenza, spalancò un abisso tra lui e mia madre. Anche se mi è sempre stato difficile credere che un’incrinatura non ci fosse da sempre, o quantomeno un’incomprensione, un’amara freddezza.
Mio padre era il figlio di un uomo senza istruzione che aveva posseduto prima una conceria, poi una fabbrica di guanti. Con l’avanzare del ventesimo secolo la prosperità venne meno, ma rimaneva comunque la casa padronale, con tanto di cuoca e giardiniere. Mio padre frequentò il college, entrò in una fratellanza universitaria, se la spassò, come si è soliti dire, e dopo il fallimento del guantificio, si diede alla carriera assicurativa. In paese era una celebrità, come ai tempi del college. Ottimo giocatore di golf, eccellente velista. (Non mi pare di aver fatto presente che abitavamo sulle scogliere del lago Huron, nella villa vittoriana affacciata sul tramonto costruita da mio nonno).
In casa, il tratto piú saliente di mio padre era la capacità di mostrare odio e disprezzo. In effetti, le due cose andavano spesso di pari passo. Odiava e disprezzava determinati cibi, marche di automobili, musica, modi di esprimersi e di vestire, comici radiofonici e, piú tardi, personaggi televisivi, come pure il consueto assortimento di razze e classi sociali che era prassi comune odiare e disprezzare ai suoi tempi (sebbene forse non in maniera altrettanto perentoria). Dirò di piú: gran parte delle sue idee non rischiavano di suscitare un contraddittorio fuori delle pareti di casa, in paese, tra i compagni di barca a vela, o i membri della sua fratellanza universitaria. Credo fosse quella veemenza a generare una soggezione che poteva quasi tradursi in stima.
Sa dire pane al pane e vino al vino. Ecco che cosa la gente diceva di lui.
Va da sé che un prodotto come il sottoscritto rappresentava un oltraggio che mio padre era costretto ad affrontare ogniqualvolta apriva la porta della sua stanza. Faceva colazione da solo e non rientrava per pranzo. Mia madre consumava quei due pasti con me e anche una parte della cena, che poi completava con lui. In seguito penso ci sia stato un litigio tra loro in proposito e da allora prese a farmi compagnia per tutto il pasto, ma a mangiare dopo, con lui.
Come si può capire, non ero in grado di contribuire alla costruzione di un matrimonio sereno. Ma come erano potuti finire insieme? Lei non aveva frequentato il college, aveva dovuto farsi prestare il denaro per pagarsi il corso di abilitazione all’insegnamento. In barca a vela aveva paura, sul campo da golf era maldestra e, ammesso che fosse una bella donna, come mi è stato detto da alcuni (è difficile esprimere un giudizio personale sulla propria madre), non disponeva certo del tipo di bellezza che mio padre avrebbe ammirato. Lui definiva certe donne uno schianto o, piú avanti negli anni, una bambola. Mia madre non usava il rossetto, portava reggiseni modesti, si puntava i capelli in una stretta crocchia di trecce che sottolineavano l’ampiezza della sua fronte bianca. Il suo guardaroba era sempre in ritardo sui dettami della moda, con articoli informi e regali al tempo stesso: era il genere di donna che uno immagina con un filo di perle, anche se non credo ne abbia mai avuto uno.
Quello che sto cercando di dire, a quanto pare, è che potrei essere stato un pretesto, una benedizione addirittura, nel senso che fornivo loro una lite bell’e pronta, un problema insolubile che li rimandava alle loro naturali differenze, in seno alle quali non è escluso che potessero trovarsi piú a proprio agio. In tutti gli anni passati in paese, non ho mai incontrato nessuno che avesse divorziato, perciò si può dare per certo che dovessero esserci altre coppie di separati in casa, altri uomini e donne che avevano accettato l’impossibilità di sanare le rispettive idiosincrasie, o l’esistenza di una parola o un gesto per sempre imperdonabile, di una barriera ineliminabile.
Il risultato, poco sorprendente in una storia come questa, fu che mio padre fumasse e bevesse troppo, sebbene lo facessero anche quasi tutti i suoi amici, indipendentemente dalle loro situazioni. Ebbe un ictus prima dei sessant’anni, e morí dopo svariati mesi a letto. Né sorprende del resto che mia madre lo abbia curato per tutto quel tempo e che se lo sia tenuto in casa dove lui, anziché sciogliersi in manifestazioni di affettuosa riconoscenza, la insultava con epiteti impastati dalla disgrazia ma pur sempre decifrabili alle orecchie di lei e piuttosto gratificanti, si sarebbe detto, a quelle di lui.
Al funerale una donna mi disse: – Tua madre è una santa –. Ho chiara in mente l’immagine della donna, sebbene non il suo nome: ricciolini bianchi, guance incipriate, lineamenti fini. Un sussurro piagnucoloso. Suscitò la mia immediata antipatia. Mi accigliai. All’epoca frequentavo il secondo anno di college. Non mi ero iscritto alla fratellanza universitaria di mio padre, nella quale peraltro nessuno mi aveva invitato. Mi accompagnavo con aspiranti scrittori e commedianti che per il momento erano giusto ingegni arguti, perdigiorno professionisti, feroci censori del sistema, atei dell’ultim’ora. Non avevo alcun rispetto per chi si comportava come un santo. E, a essere sinceri, mia madre non mirava a niente del genere. Era tanto lontana da ogni forma di santità, che neanche una sola volta quando tornavo a casa, mi aveva chiesto di entrare nella stanza di mio padre cercando di strappargli un cenno di riconciliazione. E io non lo avevo mai fatto. Non esisteva alcuna prospettiva di un accomodamento, nessuna benedizione. Mia madre era tutt’altro che una sciocca.
Si era consacrata a me – nessuno di noi due avrebbe mai utilizzato il termine, ma credo sia quello corretto – per i miei primi nove anni. Mi insegnò lei a leggere e scrivere. E poi mi spedí in collegio. Lo so, suona come la ricetta di un disastro. Il cocco di mamma, dalla faccia viola, scaraventato all’improvviso agli assalti e allo scherno di una banda di piccoli selvaggi. E invece non me la passai affatto male e ancora oggi non so spiegarmi come mai. Ero alto e robusto per la mia età, il che può aver contribuito. Penso, tuttavia, che l’atmosfera di casa nostra, quel clima fatto di crudeltà, disprezzo e malumore – benché prodotto da un padre spesso invisibile –, possa aver fatto apparire ragionevole, se non addirittura accogliente, qualunque posto, per quanto negativo. Non era infatti che le persone si sforzassero di mostrarsi gentili con me. Mi trovarono un nome: Prugnasecca. Del resto quasi tutti avevano un soprannome dispregiativo. Un bambino dai piedi particolarmente odorosi che nessuna doccia giornaliera sembrava capace di rendere innocui aveva accettato di buongrado di farsi chiamare Tanfo. Imparai a cavarmela. Scrivevo a mia madre lettere divertenti alle quali lei rispondeva assumendo a sua volta un tono di vago sarcasmo riguardo ai fatti avvenuti in paese e in chiesa – ricordo per esempio la cronaca di un’accesa discussione sul corretto formato dei tramezzini da servire a un tè fra signore – e riuscendo perfino a mantenersi spiritosa ma non amara a proposito di mio padre, ribattezzato Sua Grazia.
Fino a questo punto, ho dipinto mio padre come un orco e mia madre come un riparo salvifico, e credo che fosse proprio cosí. La mia storia tuttavia prevede altre persone e l’atmosfera domestica non era la sola che conoscessi. (Mi riferisco ora al periodo precedente persino alla mia età scolare). Ciò che ho finito per considerare il dramma con la D maiuscola della mia vita si era già verificato fuori da quella casa.
Dramma. Mi vergogno un po’ di avere usato questa parola. Mi domando se non suoni miseramente comica o scontata. Poi però mi dico, Ma non è del tutto naturale che io veda la mia esistenza in questi termini e che ne parli in questi termini, visto e considerato come mi sono guadagnato da vivere?
Sono diventato un attore. Strano? Al college ovviamente frequentavo gente appassionata di teatro, e l’ultimo anno di corso misi in scena uno spettacolo. L’eterna battuta messa in circolazione dal sottoscritto era su come sarei riuscito a recitare una parte mostrando al pubblico soltanto il profilo pulito, a costo di camminare all’indietro in palcoscenico. Per fortuna simili complicate manovre non si resero necessarie.
All’epoca la radio trasmetteva regolarmente opere teatrali. Il programma di punta andava in onda la domenica sera. Adattamenti da romanzi. Shakespeare. Ibsen. Avevo una voce piuttosto versatile che, con un po’ di allenamento, fece ulteriori progressi. Mi assunsero. Piccole parti, in principio. Ma prima che la televisione arrivasse a mettere tutto quanto a tacere, andavo in onda quasi ogni settimana e il mio nome era noto a un pubblico magari non molto numeroso, ma fedele. Ci fu qualche lettera di protesta per il linguaggio scurrile o gli accenni a pratiche incestuose (interpretammo anche un certo numero di tragedie greche). Ma nel complesso, non mi piovve addosso tutta la disapprovazione che terrorizzava mia madre quando, puntuale e apprensiva, accostava la sedia all’apparecchio, ogni domenica sera.
Poi arrivò la televisione, e addio carriera d’attore, almeno per me. La voce tuttavia continuò a rendermi un buon servizio, e fui in grado di trovare lavoro come annunciatore, prima a Winnipeg e poi di nuovo a Toronto. Cosí, per gli ultimi vent’anni della mia vita lavorativa fui il conduttore di un programma musicale eclettico che andava in onda nel pomeriggio dei giorni feriali. Non ero io a occuparmi della selezione dei brani, come spesso pensava la gente. Non sono un appassionato di musica. In compenso mi ero costruito un discreto personaggio radiofonico, piuttosto originale e durevole. In redazione arrivavano parecchie lettere. Ricevevamo commenti da ricoveri per anziani e per ciechi, da persone costrette a lunghi e monotoni viaggi d’affari, da casalinghe sole davanti ai fornelli o ai panni da stirare nel cuore della giornata, da contadini chiusi nell’abitacolo di un trattore a dissodare immense distese agricole. Da ogni angolo della nazione.
Una quantità lusinghiera, quando alla fine mi ritirai. La gente si disse sgomenta, come se avesse perduto un amico caro o un membro della famiglia. Quel che intendevano era che per cinque giorni alla settimana qualcuno aveva riempito un poco del loro tempo. E lo aveva fatto in modo sicuro, gradevole, senza lasciarli mai alla deriva, per la qual cosa ora scoprivano di nutrire un’imbarazzante gratitudine. Il fatto strano è che provavo a mia volta la stessa commozione. Mi toccava controllare bene la voce quando leggevo in onda una di quelle lettere, se non volevo ritrovarmi ammutolito da un nodo alla gola.
Ciononostante il ricordo del mio programma e di me in breve tempo svaní. Nacquero nuove lealtà. Avevo dato un taglio netto, rifiutandomi di presiedere aste di beneficenza o di tenere discorsi nostalgici. Mia madre era morta a un’età veneranda, ma non avevo venduto la casa, mi ero limitato ad affittarla. Ora invece avevo deciso di metterla in vendita, perciò informai gli inquilini. Intendevo abitarci io stesso per il tempo necessario a rimetterla in sesto, specialmente il giardino.
Non ero stato solo in tutti quegli anni. Oltre al mio pubblico, avevo degli amici. E donne, anche. Si sa, ci sono donne specializzate in uomini che reputano bisognosi di consolazione; donne che non vedono l’ora di farsi sorprendere in giro con uno come me per dimostrare la propria magnanimità. E io le tenevo d’occhio. Quella alla quale mi legai di piú, al tempo, faceva l’impiegata alla stazione, una brava persona, di buonsenso, rimasta sola a occuparsi dei quattro figli. Ci illudevamo che saremmo andati a stare insieme quando anche l’ultima figlia avesse potuto badare a se stessa. Ma quella invece riuscí a mettere al mondo un bambino suo senza mai andarsene di casa e, vuoi per una cosa vuoi per l’altra, la nostra speranza, e la nostra relazione, appassirono. Ci mantenemmo in contatto via e-mail, dopo la pensione e il mio ritorno alla vecchia casa. La invitai a venirmi a trovare. Poi arrivò all’improvviso l’annuncio del suo matrimonio e trasferimento in Irlanda. Fui troppo sbigottito e colto alla sprovvista per avere la presenza di spirito di domandarle se figlia e nipote partivano al seguito. Il giardino è un autentico disastro. Eppure mi sento piú a mio agio lí che in casa, dove sembra tutto come prima, dall’esterno, ma dentro è tutto diverso. Mia madre ha trasformato il soggiorno sul retro in camera da letto, e la dispensa in bagno, poi ha fatto abbassare i soffitti, sistemare infissi economici e tappezzare le pareti con vistose carte da parati a disegni geometrici, per poter affittare. Il giardino non ha subíto simili sconvolgimenti; registra solo gli effetti di un colossale abbandono. Le vecchie piante perenni continuano a crescere disordinatamente tra le erbacce, ruvide foglie grandi come ombrelli segnalano la presenza di un’aiuola di rabarbaro di sessanta o settant’anni, e sopravvivono una mezza dozzina di meli che producono frutti stenti e bacati, di una varietà di cui non ricordo il nome. Le zone che ho sgombrato sembrano minuscole, in compenso i mucchi di erbacce e di rovi raccolti crescono come montagne. Bisognerà farli portare via, oltretutto, e a mie spese. Il municipio non permette piú di bruciare le sterpaglie.
Una volta, di tutte queste cose si occupava un giardiniere di nome Pete. Non ricordo il cognome. Trascinava una gamba e teneva la testa piegata da una parte. Non so se avesse avuto un incidente o un ictus. Lavorava adagio ma era diligente, oltre che quasi sempre di cattivo umore. Mia madre gli si rivolgeva con cauto rispetto, però sapeva chiedergli e ottenere determinati cambiamenti nelle aiuole fiorite, anche se a lui non andavano a genio. Quanto a me, gli stavo antipatico, perché scorrazzavo sempre sul triciclo in posti dove non avrei dovuto, costruivo nascondigli sotto i meli, e forse perché sapeva che di nascosto lo chiamavo Pete lo Spione. Chissà dove avevo rimediato quell’epiteto. Da un fumetto, magari.
Mi viene in mente ora un’altra ragione per quella sua ringhiosa antipatia ed è strano che non ci abbia mai pensato prima. Eravamo difettosi tutti e due, palesi vittime di una sventura fisica. Ci si aspetterebbe che gente simile sia incline a fare causa comune, ma può benissimo succedere il contrario.
La presenza dell’altro può ricordarci qualcosa che preferiamo scordare.
Non ne sono certo, però. Mia madre aveva organizzato le cose in modo che perlopiú non mi rendessi conto del mio stato. Sosteneva di non avermi iscritto a scuola a causa di una mia affezione bronchiale e della necessità di proteggermi dall’assalto dei germi che si verifica nel primo paio d’anni delle elementari. Non so se qualcuno le credesse. Quanto poi all’ostilità di mio padre, si era diffusa in modo talmente capillare in tutta la casa, che non credo di essermene sentito il destinatario privilegiato.
E qui, a costo di ripetermi, devo dirmi convinto che mia madre avesse ragione. L’accento sul
mio appariscente difetto fisico, le provocazioni e la tendenza a costituirsi in bande di pari, mi avrebbero travolto in quanto troppo piccolo e senza possibilità di nascondermi. Le cose sono cambiate, adesso, il pericolo per un bambino afflitto da un’anomalia come me si ridurrebbe a un eccesso di premure e di ostentata cortesia, non certo a scherno e isolamento. O cosí almeno mi sembra. Al tempo, invece, la vita trovava gran parte dello svago, del buonumore e dell’aneddotica nell’impiego della pura cattiveria, come mia madre probabilmente ben sapeva.
Fino a una ventina d’anni fa – forse qualcosa di piú – c’era un altro edificio nella nostra proprietà. Per me si trattava di un modesto granaio o di un grosso capanno di legno nel quale Pete teneva i suoi arnesi e dove finivano vari oggetti un tempo utilizzati e ora in attesa che si decidesse che cosa farne. La costruzione venne abbattuta poco dopo che Pete era stato sostituito da una energica giovane coppia, Ginny e Franz, i quali si portavano il proprio equipaggiamento moderno a bordo di un furgone. In seguito smisero di venire, avendo deciso di mettere su un vivaio, ma a quel punto poterono mandarci i nipoti adolescenti a rasare l’erba del prato, tanto per qualunque altra cosa mia madre aveva perso interesse.
«Ho lasciato perdere, tutto qui, – diceva. – È incredibile come sia facile lasciar perdere». Per tornare al capanno – accidenti quanto esito e divago sull’argomento –, c’era stato un periodo, prima di diventare un deposito, in cui qualcuno ci aveva abitato. Una coppia di nome Bell, rispettivamente cuoca-governante lei, e giardiniere-chauffeur lui, al servizio dei miei nonni. Il nonno possedeva una Packard, ma non imparò mai a guidarla. Tanto i coniugi Bell quanto la Packard non c’erano piú ai miei tempi, ma si continuava a indicare il posto chiamandolo il Villino dei Bell. Per alcuni anni della mia infanzia il Villino dei Bell venne affittato a una certa Sharon Suttles. Ci abitava con la figlia, Nancy. Era arrivata in paese con il marito, un medico alle prime armi che in capo a un anno circa morí di un’infezione del sangue. La donna restò in paese con la figlia piccola, senza soldi e, si diceva, senza nessuno. Il che probabilmente voleva dire, senza nessuno che potesse aiutarla o che le avesse offerto ospitalità. A un certo punto venne assunta nell’agenzia assicurativa di mio padre e si trasferí nel Villino dei Bell. Non so dire con esattezza quando tutto questo avvenne. Non ho memoria del loro arrivo, né del villino vuoto. All’epoca era dipinto di un rosa spento che ho sempre pensato avesse scelto Mrs Suttles, come se non potesse vivere in una casa di nessun altro colore. Naturalmente, io la chiamavo Mrs Suttles. Però conoscevo il suo nome di battesimo, cosa che mi capitava di rado con le donne adulte. Allora, Sharon era un nome poco comune. E mi faceva venire in mente un inno imparato al catechismo, attività che mia madre mi permetteva di svolgere perché eravamo ben sorvegliati e non si faceva l’intervallo. Cantavamo inni leggendo le parole proiettate su uno schermo luminoso e penso che molti di noi si facessero un’idea dei versi dalla forma che avevano, anche prima di imparare a leggere.
Sulle rive ombrose del fresco Siloam cresce tenero il giglio. Come è dolce il profumo sul declivio del colle della rorida rosa di Sharon.
Non posso credere che ci fosse veramente una rosa in un angolo dello schermo, eppure io la vedevo, anzi la vedo ancora, di un rosa sbiadito, la cui aura si sovrapponeva al nome di Sharon. Non voglio dire che mi innamorai di Sharon Suttles. Ero stato innamorato da piccolissimo, di una cameriera giovanissima e con l’aria da maschiaccio di nome Bessie, la quale mi portava in giro in passeggino oppure mi spingeva cosí forte in altalena che per poco non mi ribaltavo. E, qualche tempo dopo, di un’amica di mia madre che aveva un soprabito con il colletto di velluto e una voce che sembrava parente di quel velluto. Di Sharon Suttles non ci si poteva innamorare in quei termini. Niente voce vellutata e nessuna voglia di insegnarmi come ci si diverte. Era alta e molto magra per essere la madre di qualcuno; non aveva curve. I capelli ce li aveva color caramella al latte, marroni con le punte giallo oro e, al tempo della seconda guerra mondiale, li portava ancora corti. Metteva un rossetto rosso carico e pastoso che le faceva la bocca come quella delle dive del cinema che avevo visto sui manifesti e, in casa, portava un kimono decorato, se ricordo bene, con certi uccelli pallidi – cicogne, forse? – le cui gambe mi facevano venire in mente le sue. Passava un mucchio di tempo sdraiata a fumare sul divano e certe volte, per divertire noi o svagare se stessa, calciava in aria le gambe, una dopo l’altra, spedendo in volo una ciabatta piumata. Quando non era arrabbiata con noi, aveva una voce stanca e roca, non fredda, ma nemmeno saggia o affettuosa o severa, non articolata insomma sulla gamma completa dei toni, sull’eco della tristezza, che mi aspettavo da una madre.
Scimuniti, ci chiamava.
«Levatevi di torno e lasciatemi un po’ in pace, scimuniti».
Era già sdraiata sul divano con il posacenere appoggiato sulla pancia, mentre noi facevamo correre le macchinine di Nancy sul pavimento. Quanta pace voleva?
Lei e Nancy mangiavano cose strane a ore strane e, quando andava in cucina a prepararsi uno spuntino, Sharon non tornava mai con una tazza di cioccolata o un biscotto anche per noi. D’altra parte, Nancy aveva licenza di mangiare il passato di verdura denso come budino a cucchiaiate dalla lattina, o di acchiappare manciate di riso soffiato direttamente dalla scatola.
Era l’amante di mio padre, Sharon Suttles? Con l’impiego garantito, e il villino rosa gratis? Mia madre parlava di lei con gentilezza, non di rado nominando la tragedia che le era capitata, con la morte del giovane marito. Le mandava a casa la nostra domestica di turno con omaggi vari sotto forma di lamponi, patate novelle o piselli freschi e sgranati, raccolti nel nostro orto. Ricordo soprattutto i piselli. Ricordo che Sharon Suttles – sempre sdraiata sul divano – li faceva schizzare in aria colpendoli con il dito, e diceva: – E cosa dovrei farmene, di questi?
– Si cuociono sul gas, con l’acqua, – rispondevo io servizievole.
– Ma non mi dire.
Quanto a mio padre, non lo vedevo mai con lei. Usciva piuttosto tardi per andare a lavorare, e staccava presto, per tenersi al passo con le sue numerose attività sportive. Certi fine settimana Sharon prendeva il treno per Toronto, ma si portava sempre anche Nancy. La quale al ritorno non mancava mai di raccontarci tutte le avventure che le erano capitate e gli spettacoli ai quali aveva assistito, come per esempio il corteo di Babbo Natale.
Dovevano senz’altro esserci momenti in cui la madre di Nancy non era in casa, in kimono sul divano, e si poteva presumere che in quelle occasioni non stesse fumando né riposando, ma che svolgesse il suo regolare dovere nell’ufficio di mio padre, luogo leggendario che io non avevo mai avuto il bene di vedere e nel quale non sarei certo stato il benvenuto.
In tali occasioni, quando la madre di Nancy doveva essere al lavoro e Nancy doveva stare a casa, veniva ingaggiata quella scorbutica di Mrs Codd, che se ne stava tutto il tempo seduta in cucina ad ascoltare sceneggiati radiofonici, pronta a cacciarci fuori per continuare a rimpinzarsi di quel che trovava da mangiare. Non mi sfiorò mai l’idea che, vista la nostra abitudine a trascorrere tutto il tempo insieme, mia madre avrebbe potuto offrirsi di badare anche a Nancy, oltre a me, oppure chiedere alla nostra domestica di farlo, per risparmiare sui servizi di Mrs Codd.
A pensarci ora mi sembra in effetti che giocassimo insieme da quando ci alzavamo a quando andavamo a dormire. Mi riferisco al periodo che va grossomodo dai cinque agli otto anni e mezzo, otto per Nancy, che aveva sei mesi meno di me. Perlopiú si giocava all’aperto – dovevano essere giornate particolarmente piovose, visto che ho memoria di noi due nel villino di Nancy a infastidire sua madre. L’ordine era di tenerci alla larga dall’orto e cercare di non calpestare i fiori, ma non facevamo altro che scorrazzare avanti e indietro tra i filari di frutti di bosco e sotto i meli e nello spazio incolto e abbandonato oltre il villino, dove ci costruivamo i nostri rifugi antiaereo e i nascondigli dalle truppe tedesche.
A nord del paese c’era in effetti una scuola di volo, perciò gli aerei passavano davvero sopra di
noi di continuo. Una volta ci fu anche un incidente ma, con nostro rammarico, l’aereo fuori controllo precipitò nel lago. Comunque, tutto quel fantasticare sulla guerra ci permise di fare di Pete non soltanto un nemico locale ma un nazista, e del suo tosaerba un carro armato. Ogni tanto lo bombardavamo di frutti dall’alto del melo selvatico sotto il quale era mimetizzato il nostro bivacco. Una volta si andò a lamentare da mia madre e la questione ci costò una gita in spiaggia.
La portava spesso, Nancy, alla spiaggia con noi. Non a quella con lo scivolo d’acqua, al fondo della scogliera davanti a casa nostra, ma a una piú piccola, alla quale si arrivava in macchina e dove non c’erano bagnanti scalmanati. Insegnò perfino a entrambi a nuotare. Nancy era piú intrepida e incauta di me, il che mi seccava, cosí una volta la tirai sotto un’onda in arrivo e mi sedetti sulla sua testa. Lei scalciò trattenendo il fiato e lottando per liberarsi.
– Nancy è una bambina piccola, – mi rimproverò mia madre. – È piccolina e tu dovresti trattarla come una sorella minore.
Il che era esattamente quello che stavo facendo. Non la consideravo piú debole. Piú piccola, sí, ma a volte poteva essere un vantaggio. Quando ci arrampicavamo sugli alberi, lei si appendeva come una scimmia a rami che non avrebbero retto me. E una volta, durante una rissa – non riesco a ricordare il motivo nemmeno di una delle nostre liti –, Nancy mi morsicò il braccio che la immobilizzava fino a farlo sanguinare. Dopo l’episodio ci separarono, in teoria per una settimana, ma le nostre occhiate in cagnesco dalle finestre si trasformarono presto in nostalgia e suppliche, perciò il divieto venne interrotto.
D’inverno avevamo a disposizione l’intera tenuta, dove costruivamo fortezze di neve munite di affusti di legna da ardere e arsenali di palle di neve da scagliare contro chiunque si avvicinasse. Ma là si avventuravano in pochi, anche perché la strada era cieca. Dovemmo farci un pupazzo di neve, per avere qualcuno da prendere di mira.
Se una bufera considerevole ci costringeva in casa, da me, ci sorvegliava mia madre. Bisognava fare silenzio, se c’era mio padre a letto con il mal di testa, perciò lei ci leggeva una storia. Alice nel Paese delle Meraviglie, mi ricordo. Sconcertò molto tutti e due il capitolo in cui Alice beve la pozione e poi diventa talmente grande da restare bloccata nel cunicolo del coniglio.
Niente giochi erotici, vi chiederete? Ebbene sí, ci furono pure quelli. Ricordo un pomeriggio caldissimo in cui ci rintanammo in una tenda che, per misteriose ragioni, era stata montata dentro il villino. Ci eravamo infilati lí dentro allo scopo preciso di perlustrarci. La tenda emanava un odore sensuale ancorché infantile, come la biancheria che ci togliemmo. A furia di solletico passammo in fretta dall’eccitazione alla collera e ci riducemmo sudati fradici, pruriginosi e presto anche carichi di vergogna. Quando ci tirammo fuori da quella tenda ci sentimmo piú lontani del solito e stranamente guardinghi l’uno verso l’altra. Non mi ricordo se la stessa cosa accadde ancora, con analoghi risultati, ma non mi stupirei, se cosí fosse.
Non riesco a farmi tornare in mente la faccia di Nancy con la stessa chiarezza con cui rivedo quella di sua madre. Credo che i colori fossero piú o meno gli stessi, o che col tempo lo sarebbero diventati. Capelli di un biondo tendente naturalmente al castano, ma schiariti dalle lunghe esposizioni al sole. Una carnagione molto rosea, per non dire rossastra. Sí, ecco. Vedo le sue gote rosse, quasi come se fossero disegnate coi pastelli. Un fenomeno a sua volta dovuto a tutto quel tempo passato all’aperto in estate, e a tanta energica risolutezza.
In casa mia, manco a dirlo, era vietato l’accesso a ogni camera, a parte le poche specificate. Non ci saremmo mai sognati di salire al piano di sopra o di scendere in cantina o di entrare nel salotto buono o in sala da pranzo. Al villino invece avevamo campo libero, fatta eccezione per gli spazi dove la madre di Nancy cercava di starsene in pace, o dove Mrs Codd incollava l’orecchio alla radio. La cantina era un buon posto se capitava che ci stancassimo della canicola pomeridiana. Non c’era ringhiera lungo gli scalini e ci sfidavamo a saltare da sempre piú in alto per atterrare sul pavimento in terra battuta. Se poi ci stancavamo anche di quello potevamo montare su una vecchia branda e ballare su e giú, frustando un cavallo immaginario. Una volta provammo a fumare una sigaretta rubata nel pacchetto della madre di Nancy. (Non avremmo osato prenderne piú di una). Nancy se la cavò meglio di me, essendo piú allenata al fumo.
In cantina c’era anche un vecchio cassettone sul quale stavano svariate latte di pitture e vernici in gran parte secche, un assortimento di pennelli induriti, bastoni per rimestare il colore e assi su cui si erano provate le tinte o puliti i pennelli. Certe latte avevano ancora il coperchio ben chiuso: noi le dissigillammo con fatica scoprendo vernice che, rimescolata, poteva recuperare una densità utilizzabile. A quel punto ci impegnammo a cercare di ammorbidire i pennelli, intingendoli nella vernice e poi battendoli sulle pareti del cassettone che riducemmo un disastro senza ottenere grandi risultati. In compenso, scoprimmo che una delle latte conteneva acquaragia, e questo funzionò assai meglio allo scopo. Finalmente cominciammo a pitturare con quelle setole non piú inservibili. Sapevo leggere e scrivere discretamente grazie a mia madre, e Nancy pure, avendo frequentato la seconda elementare. – Non guardare finché non ho finito, – le dissi, scansandola un po’ di lato. Mi era venuta in mente una cosa da dipingere. Nancy comunque era impegnata a sbattere il pennello dentro una latta di vernice rossa.
Scrissi: IL NAZISTA E STATO CUÍ.
– Ora puoi guardare, – dissi.
Mi aveva girato le spalle, ma brandiva il pennello verso di sé.
Disse: – Ho da fare.
Quando si voltò aveva sulla faccia un’abbondante colata di vernice rossa.
– Cosí ti assomiglio, – disse, tirandosi il pennello fino al collo. – Cosí ti assomiglio –. Era molto eccitata e io credetti che volesse provocarmi, anche se in realtà la sua voce era carica di soddisfazione, come se avesse finalmente ottenuto ciò che desiderava da sempre.
Ora devo cercare di spiegare quello che accadde nei minuti successivi.
Per cominciare, trovai Nancy orribile.
Non credevo che una qualunque parte della mia faccia fosse rossa. E in effetti non lo era. La metà coperta dalla voglia aveva il tipico color mora di gelso che, come mi pare di aver già detto, con gli anni è andato scolorendo.
Ma non era cosí che mi vedevo nella mente. Credevo che la mia voglia fosse di un bruno chiaro come la peluria di un topo.
Mia madre non era arrivata a commettere la sensazionale stupidaggine di bandire gli specchi da casa. Ma gli specchi possono essere appesi troppo in alto perché un bambino piccolo riesca a vedersi. Era senz’altro cosí, in bagno. L’unico specchio in cui mi potevo vedere stava in ingresso, un vano in penombra di giorno e poco illuminato di sera. Doveva essere lí che mi ero fatto l’idea di avere metà faccia di quel colore mansueto e spento, una specie di ombreggiatura vellutata.
A quell’idea mi ero abituato e fu questo a rendere la vernice di Nancy un terribile insulto, uno scherzo maligno. La spinsi contro il cassettone con tutta la forza che avevo e poi corsi su per le scale. Penso che volessi cercare uno specchio o forse qualcuno in grado di dirmi che Nancy aveva torto. E, una volta ottenuta quella conferma, avrei potuto affondare i denti nel frutto dell’odio puro che nutrivo per lei. Gliel’avrei fatta pagare. Al momento, non avevo tempo per pensare in che modo.
Attraversai di corsa il villino – la madre di Nancy non era in vista, benché fosse sabato – e uscii sbattendo la porta a zanzariera. Corsi sulla ghiaia, poi sul viottolo lastricato, tra file di aitanti gladioli. Vidi mia madre alzarsi dalla sedia di vimini su cui era seduta a leggere, nella veranda dietro casa nostra.
– Non rosso, – gridai, trangugiando lacrime di rabbia. – Non sono rosso –. Lei scese i gradini con la faccia sconvolta, di chi ancora, però, non ha capito. Poi anche Nancy uscí dal villino di corsa, dietro di me, sbigottita e con la sua faccia sgargiante.
Mia madre capí.
– Piccola iena schifosa, – gridò a Nancy con una voce che non le avevo mai sentito. Una voce forte, furibonda, tremante.
– Non ti avvicinare mai piú a noi. Guai a te. Sei cattiva, perfida. Non hai un briciolo di cuore, eh? Nessuno ti ha mai insegnato…
La madre di Nancy uscí dal villino, coi capelli bagnati che le piovevano negli occhi. Stringeva un asciugamano.
– Cristo, qui non ci si può nemmeno lavare i capelli in pace… Mia madre investí di urla anche lei.
– Non si azzardi a parlare in questo modo di fronte a me e mio figlio…
– Oh, senti chi parla, – ribatté immediatamente la madre di Nancy. – Se sta strillando come un’ossessa…
Mia madre tirò un lungo respiro.
– Non. Sto. Affatto. Strillando. Voglio soltanto far sapere a quel mostro di sua figlia che non sarà mai piú la benvenuta in casa nostra. È dispettosa e cattiva a prendere in giro il mio bambino per qualcosa che non può cambiare. Non le ha mai insegnato niente, un minimo di buona educazione, non si è neppure degnata di ringraziarmi quando l’ho portata con noi in spiaggia, non sa nemmeno dire un per favore, un grazie, ma sfido io, con una madre che non si vergogna di andarsene sempre in giro in vestaglia…
Tutto questo scaturí dalla bocca di mia madre come se avesse dentro un torrente interminabile di rabbia, dolore, assurdità. Anche se, a quel punto, già la tiravo per il vestito ripetendo: – No, no. Poi le cose peggiorarono addirittura quando le parole annegarono nelle lacrime e lei sussultò, senza fiato.
La madre di Nancy si scostò dagli occhi i capelli bagnati e restò a guardare.
– Voglio dirle una cosa sola, – annunciò. – Se continua cosí, prima o poi finisce in manicomio.
Cosa ci posso fare io se suo marito la detesta e suo figlio ha la faccia che è un disastro? Mia madre si prese la testa nelle mani. Urlava: «Ah… ah», come se il dolore la stesse divorando. La donna che lavorava da noi in quel periodo – Velma – era uscita in veranda e diceva: – Signora. Coraggio, signora –. Poi alzò la voce e si rivolse alla madre di Nancy.
– Vattene, tu, torna a casa tua. Stronza.
– Certo che me ne vado. Non ti preoccupare. Chi ti credi di essere per dirmi cosa devo fare? Ti piace tanto lavorare per una vecchia megera fuori di testa? – Poi si voltò verso Nancy.
– Come cristo faccio adesso a farti tornare pulita?
E tornò ad alzare la voce per assicurarsi che io la sentissi.
– Guarda che babbeo. Appeso alle gonne di mammina. Tu scordati pure di giocare ancora con quello. Il babbeo di mammina.
Intanto, Velma da una parte e io dall’altra, cercavamo di convincere mia madre a rientrare. Aveva smesso di fare quei versi. Si ricompose e, con voce artificiosamente allegra e abbastanza vigorosa da raggiungere il villino, disse:
– Velma, ti dispiace portarmi le cesoie. Mentre sono fuori, tanto vale che dia un’aggiustatina ai gladioli. Ce n’è qualcuno decisamente appassito.
Solo che quando ebbe finito erano tutti sul viottolo, e in piedi non ne restava neanche uno, rigoglioso o appassito che fosse.
Tutto ciò, come ho detto, deve essere accaduto di sabato, perché la madre di Nancy era a casa, e c’era anche Velma, che la domenica non veniva. Entro lunedí, se non prima, sono sicuro che il villino era stato sgomberato. Forse Velma rintracciò mio padre al club o sul campo da golf o dovunque si trovasse e lui venne a casa spazientito e nervoso, anche se in breve si adeguò. Alla cacciata di Nancy e di sua madre, intendo. Non avevo idea di dove fossero andate. Forse mio padre le sistemò in un albergo in attesa di trovare loro un altro posto. Non credo che la madre di Nancy fosse il tipo da fare scenate.
Il fatto che non avrei rivisto Nancy mai piú mi si chiarí a poco a poco. In principio ce l’avevo con lei, perciò non mi interessava. Quando poi chiesi sue notizie immagino che mia madre mi abbia liquidato con qualche risposta vaga, non volendo infliggere né a me né a se stessa il ricordo angoscioso di quella scena. Fu certamente allora che si consolidò in lei la decisione di mandarmi a scuola. Se non sbaglio, anzi, fui iscritto a Lakefield quello stesso autunno. Probabilmente ipotizzava che, quando mi fossi abituato a una scuola maschile, il ricordo di aver avuto una compagna di giochi femmina sarebbe sbiadito e avrebbe perso importanza finendo con l’apparire perfino assurdo.
Il giorno dopo il funerale di mio padre, mia madre mi stupí chiedendomi se l’avrei portata a cena fuori (è ovvio che sarebbe stata lei a portare me) in un ristorante a qualche miglio sul lungolago, dove sperava non avremmo incontrato nessuno di nostra conoscenza.
– Mi sembra di essere rinchiusa qui dentro da una vita, – disse. – Ho bisogno di una boccata d’aria.
Al ristorante si guardò attorno circospetta e dichiarò che non c’erano suoi conoscenti.
– Ti va un bicchiere di vino con me?
Avevamo fatto tutta quella strada solo perché lei potesse bere alcolici in pubblico?
Quando il vino arrivò, dopo aver ordinato mi disse: – C’è una cosa che credo dovresti sapere. Penso siano tra le parole meno piacevoli che capita di sentirsi rivolgere. Quasi sempre infatti ciò che dobbiamo sapere è un annuncio gravoso, accompagnato dall’insinuazione che, fino a quel momento, altri ne hanno sostenuto il fardello per alleggerirci il carico.
– Papà non era il mio vero padre? – dissi. – Evviva.
– Non dire stupidaggini. Ti ricordi Nancy, la tua amichetta?
In effetti per un istante non riuscii a metterla a fuoco. Poi dissi: – Vagamente.
All’epoca ogni discorso tra me e mia madre mi sembrava esigere un atteggiamento strategico. Dovevo mantenermi sereno, scherzoso, imperturbabile. Nella sua voce e nel suo viso percepivo un dolore in agguato. Mia madre non si lamentava mai dei propri crucci, ma le storie che mi raccontava erano talmente affollate di personaggi innocenti e bistrattati, e di angherie, che come minimo ci si aspettava dovessi fare ritorno ai miei amici e alla mia esistenza beata con il cuore piú pesante. Non avevo nessuna intenzione di collaborare. Quel che voleva, probabilmente, era un semplice cenno di comprensione, o magari un po’ di tenerezza fisica. Non ero in grado di concedergliele. Mia madre era una donna difficile, non ancora ammorbidita dall’età, ma io mi ritraevo da lei come se corressi il pericolo di essere contagiato dal suo modello di ostinata desolazione. Soprattutto mi sottraevo a qualsiasi riferimento alla mia disgrazia, cui lei mi sembrava particolarmente affezionata: le catene che non potevo spezzare ma con le quali dovevo venire a patti e che mi legavano a lei dalla nascita.
– È probabile che saresti venuto a saperlo, se fossi stato un po’ piú a casa, – disse. – Comunque è successo poco prima che decidessimo di mandarti a scuola.
Nancy e sua madre si erano trasferite in un appartamento di proprietà di mio padre, sulla piazza. E un mattino presto, in una luminosa giornata d’autunno, la madre di Nancy aveva sorpreso sua figlia in bagno, intenta ad affettarsi la faccia con una lametta da barba. C’era sangue dappertutto, per terra, nel lavandino, sul corpo di Nancy. Ma lei non accennava a desistere e non dava il minimo segno di provare dolore.
Come faceva mia madre a sapere queste cose? Posso soltanto supporre che si trattasse di uno scandalo di paese, in teoria da tenere segreto, ma troppo cruento, nel senso letterale del termine, per non essere invece riferito in dettaglio.
La madre di Nancy avvolse la figlia in un asciugamano e in qualche modo la portò all’ospedale. All’epoca non c’era il servizio di ambulanza. Probabilmente fermò una macchina sulla piazza. Perché non si rivolse a mio padre? Inutile chiederselo: non lo fece. I tagli non erano profondi e, nonostante gli schizzi ovunque, l’emorragia non fu cosí grave: non aveva reciso nessun vaso sanguigno importante.
La madre di Nancy non smise per tutto il tempo di prendersela con la bambina chiedendole cosa si fosse messa in testa.
«Sono proprio fortunata – continuava a ripetere – ad avere una figlia come te».
– Se all’epoca ci fossero stati i servizi sociali, – disse mia madre, – di sicuro quella povera creatura sarebbe finita in un istituto.
– La stessa guancia, – aggiunse. – Come la tua.
Cercai di starmene zitto, fingendo di non capire che cosa intendesse. Ma qualcosa dovevo pur dire.
– La vernice se l’era messa su tutta la faccia, – avanzai.
– Già, ma questa volta faceva le cose per bene, e si era tagliata solo quella guancia, perché voleva a tutti i costi assomigliare a te.
A quelle parole riuscii a non rispondere.
– Diverso sarebbe se fosse stato un maschio. Ma per una femmina, che cosa tremenda. – I chirurghi plastici fanno miracoli al giorno d’oggi.
– Può darsi.
Dopo un attimo aggiunse: – Sono cosí sensibili. I bambini, intendo.
– Cose che si superano.
Mia madre disse che non sapeva che ne fosse stato di madre e figlia. Disse che per fortuna non le avevo mai chiesto niente, perché le sarebbe dispiaciuto tanto raccontarmi una vicenda cosí angosciosa mentre ero ancora piccolo.
Non so che peso abbia sulla storia in generale, ma sento il bisogno di dire che, da molto vecchia, mia madre cambiò completamente, diventando scurrile e fantasiosa. Sosteneva che mio padre fosse stato un amante eccezionale e, quanto a se stessa, si definiva «una discreta ragazzaccia». A me ribadiva che avrei dovuto sposarmi «quella bambina che si era affettata la guancia», perché cosí nessuno dei due avrebbe potuto vantarsi con l’altro dicendo di averlo fatto per bontà. E aggiungeva ridacchiando che in tema di disastri ce la saremmo vista ad armi pari.
Ero d’accordo. A quel punto, mia madre mi piaceva parecchio.
Qualche giorno fa, mentre raccoglievo frutti guasti caduti sotto un vecchio melo, una vespa mi ha punto su una palpebra. Mi si è quasi subito chiuso l’occhio. Usando l’altro (quello gonfio era sul lato «buono» della faccia) sono riuscito ad arrivare in macchina all’ospedale dove, con mia sorpresa, mi hanno ricoverato per la notte. Il motivo era che, dopo l’iniezione necessaria, avrebbero dovuto bendarmi entrambi gli occhi per evitare di affaticare troppo quello sano. Ebbi una notte inquieta, come si suol dire, con risvegli continui. In ospedale, si sa, non c’è mai silenzio e, già in quelle poche ore senza vista, mi pareva che l’udito mi si fosse affinato. Quando in camera mia ci furono dei passi, fui certo che si trattasse di una donna ed ebbi la sensazione che non fosse un’infermiera.
Quando però la donna disse: «Bene. Vedo che è sveglio. Sono venuta a leggere», pensai di essermi sbagliato, e che fosse invece proprio un’infermiera. Attesi, convinto che fosse venuta a leggere la mia cartella clinica.
– Non ha capito, – disse, con una vocetta insistente. – Sono qui per leggerle qualcosa, se le fa piacere. Qualcuno è contento: la gente si annoia a stare sdraiata a occhi chiusi.
– Chi sceglie? Lei o i pazienti?
– I pazienti, ma a volte suggerisco qualcosa. Mi capita di rinfrescare la memoria su certe storie della Bibbia, parti del testo sacro che conoscono. O magari una storia di quando erano bambini. Mi porto appresso un mucchio di roba.
– A me piace la poesia.
– Non mi sembra entusiasta, però.
Mi resi conto che era vero, e sapevo anche perché. Avevo provato a leggere poesie alla radio e avevo ascoltato attori esperti recitarne e, mentre con un certo stile di lettura mi sento a mio agio, ce ne sono altri che detesto.
– Magari potremmo fare un gioco, allora, – disse la donna, come se le avessi spiegato tutto ciò, quando cosí non era. – Potrei leggerle un paio di versi, poi fermarmi e vedere se sa andare avanti lei.
Che ne dice?
Mi venne in mente che potesse essere una persona molto giovane, e ansiosa di far bella figura e guadagnarsi consensi nel suo mestiere.
D’accordo, dissi. Niente inglese arcaico però, aggiunsi.
– «Il re sedeva a Dunfermline…», – prese a dire in tono interrogativo.
– «Bevendo il vino rosso sangue…», – intonai, pronto, e proseguimmo insieme in allegria. Leggeva discretamente, nonostante il ritmo un po’ infantile e ostentato. Cominciò a piacermi il suono della mia voce che scivolava qua e là in qualche vezzo d’attore.
– Molto bene, – disse lei.
– «E ti mostrerò dove nascono i gigli, | sulle rive fiorite d’Italia…»
– Dove «nascono», o dove «crescono»? – intervenne lei. – Non ho un libro con quella ballata. Dovrei ricordarmela, comunque. Non fa niente, è bella lo stesso. Mi è sempre piaciuta la sua voce, in radio.
– Davvero? Mi ascoltava?
– Certo. Come tanta altra gente.
Smise di suggerirmi versi per lasciarmi libero di procedere. Potete immaginare. La spiaggia di Dover e Kubla Khan, l’Ode al Vento di ponente, I cigni selvatici a Coole, l’Inno per una gioventú condannata, magari non tutte, magari non proprio fino alla fine.
– Comincia a mancarle un po’ il fiato, – disse lei. La sua piccola mano veloce mi chiuse la bocca. Poi la sua faccia, o piuttosto un lato di essa, si accostò alla mia. – Ora è meglio che vada. Eccone un’altra, l’ultima prima di andare via. Sarà piú difficile, perché non comincerò dal principio. «Nessuno ti piangerà a lungo, | pregherà a lungo, soffrirà a lungo | per il tuo posto rimasto vuoto…»
– Non l’ho mai sentita, questa, – dissi.
– Sicuro?
– Sicuro. Ha vinto lei.
A quel punto mi ero già insospettito. Lei sembrava turbata, perfino un po’ in collera. Udii il richiamo delle oche di passaggio in volo sopra l’ospedale. In questo periodo dell’anno compiono dei brevi voli di prova che poco per volta si allungano finché, un giorno, se ne vanno. Mi stavo svegliando, in preda alla meraviglia mista a indignazione che perdura alla fine di un sogno realistico. Avrei voluto tornare indietro e sentire la sua faccia sulla mia. La sua guancia sulla mia. Ma i sogni, si sa, non sono cosí arrendevoli.
Quando recuperai la vista e fui di nuovo a casa, andai a cercare quei versi che mi aveva lasciato in sogno. Sfogliai un paio di antologie senza trovarli. Cominciai a pensare che i versi non appartenessero affatto a una vera poesia, ma che fossero stati composti in sogno, per confondermi.
Composti da chi?
Qualche tempo dopo però, nell’autunno, mentre preparavo certi vecchi libri da donare a un banco di beneficenza, mi cadde un foglietto di carta brunastra, con sopra dei versi scritti a matita. La grafia non era quella di mia madre e fatico a credere che potesse essere di mio padre. Allora di chi? Chiunque fosse, aveva concluso il testo con il nome dell’autore: Walter De La Mare. Nessun titolo. Non certo un poeta di cui possa dirmi un conoscitore. Ma quella poesia dovevo averla già letta, magari non su quel foglio, forse su un libro di testo. Dovevo averne sepolto le parole in un ricettacolo della mente. E perché? Solo per poterne essere provocato in sogno, o per poter essere provocato da una bambina fantasma molto determinata? Non c’è alcun dolore
che il tempo non possa lenire; né perdita, o tradimento, che non sia dato riparare. È balsamo all’anima, dunque, anche quando la tomba separi l’amante dalla sua amata e tutto ciò che hanno insieme. Guarda, il sole risplende la pioggia ormai è passata; i fiori si fanno belli, e il giorno è limpido e terso! Non meditare perciò, troppo su amore, dovere; amici dimenticati da tempo ti aspettano forse là dove la vita attraverso la morte riduce tutti a una fine; nessuno ti piangerà a lungo, pregherà a lungo, soffrirà a lungo per il tuo posto rimasto vuoto, per te che non ci sei piú.
La poesia non mi demoralizzò. Anzi, in qualche curiosa maniera parve rafforzare in me la decisione che avevo preso a quel punto, di non vendere la proprietà e di restare.
Qui mi era successo qualcosa. Ci sono pochi luoghi in una vita, forse persino uno solo, in cui succede qualcosa; dopodiché ci sono tutti gli altri luoghi.
Naturalmente sapevo che, se avessi intravisto Nancy – che so, a Toronto, in metropolitana –, entrambi con i rispettivi segni di riconoscimento, saremmo probabilmente riusciti solo a imbastire una di quelle conversazioni stentate e insulse in cui si enumerano in fretta e furia vari episodi autobiografici. Avrei notato la sua guancia riparata e quindi pressoché normale, o al contrario la cicatrice ancora evidente, ma è probabile che non ne avremmo parlato. Forse avremmo toccato l’argomento figli. È abbastanza verosimile, che si fosse fatta aggiustare la faccia oppure no. I nipoti. Il lavoro. Forse il mio, non ci sarebbe stato bisogno di specificarlo. Saremmo stati confusi, cordiali, non avremmo visto l’ora di andarcene.
Pensate che avrebbe potuto cambiare le cose?
La risposta è certo, oppure per un po’, oppure mai e poi mai.
Certe donne
Certe volte mi stupisco se penso a quanto sono vecchia. Mi ricordo ancora di quando, d’estate, si spruzzavano d’acqua le strade del paese per tenere bassa la polvere, di quando le ragazze portavano guêpière e sottogonne che stavano ritte da sole, e di quando non si poteva fare quasi niente contro malattie come la polio e la leucemia. Qualcuno dopo la polio si riprendeva, piú o meno zoppo, ma chi si ammalava di leucemia si metteva a letto e, dopo un declino di settimane o mesi in un clima di tragedia, se ne andava.
Fu per un caso simile che ebbi il mio primo impiego, nelle vacanze estive dei miei tredici anni. Il giovane Mr Crozier (Bruce) era tornato sano e salvo dalla guerra, dove aveva combattuto come pilota, aveva frequentato la facoltà di Storia al college, si era laureato, sposato, e poi si era ammalato di leucemia. Bruce e la moglie erano venuti a stare a casa della matrigna di lui, la vecchia Mrs Crozier. La giovane Mrs Crozier (Sylvia) era impegnata due pomeriggi la settimana come docente di corsi estivi nello stesso college dove si erano conosciuti, a una quarantina di miglia da lí. Fui assunta per occuparmi del giovane Crozier durante le assenze della moglie. Stava a letto nella stanza d’angolo che s’affacciava sulla via al piano di sopra, ed era ancora in grado di andare in bagno da solo. Non dovevo fare altro che portargli acqua da bere, tirare su o giú gli avvolgibili e vedere cosa voleva quando suonava la campanella che aveva sul comodino da notte.
Di solito voleva che gli spostassi il ventilatore. L’aria gli piaceva ma gli dava fastidio il ronzio. Quindi voleva il ventilatore in camera per un po’, e poi lo voleva in corridoio, ma accanto alla porta aperta.
Quando lo seppe, mia madre si chiese perché non avessero sistemato il paziente in un letto al piano di sotto dove, coi soffitti alti, sarebbe stato piú fresco.
Le dissi che non c’erano camere, di sotto.
– Be’, santo cielo, non possono preparargliene una? Provvisoriamente?
Il commento dimostrava quanto poco conoscesse casa Crozier e le abitudini della vecchia Mrs Crozier. La vecchia Mrs Crozier camminava col bastone. Nei pomeriggi in cui ero lí saliva un’unica volta con passo minaccioso per vedere come stava il figliastro, e sono dell’opinione che anche in mia assenza non si scomodasse di piú. La seconda volta saliva per necessità quando era ora di andare a letto. Ma l’idea di una camera al pianoterra l’avrebbe scandalizzata non meno di un wc in salotto. Per fortuna un gabinetto da basso già c’era, dietro la cucina, ma ero certa che se l’unico servizio fosse stato di sopra, lei si sarebbe sobbarcata la fatica di salire ogniqualvolta ne avesse avuto bisogno, piuttosto che contemplare un cambiamento tanto radicale e traumatico.
Mia madre si era messa in testa di darsi all’antiquariato, perciò era curiosissima di vedere cosa ci fosse dentro quella casa. Riuscí anche a entrare una volta, durante il mio primo pomeriggio di lavoro. Ero in cucina e rimasi impietrita, quando la sentii gorgheggiare un «Ehi, di casa!» accompagnato dal mio nome. Seguí qualche colpo pro forma sulla porta mentre già avanzava sui gradini di cucina. E poi il passo calcato della vecchia Mrs Crozier in arrivo dalla veranda.
Mia madre disse che aveva fatto un salto per vedere come se la cavava sua figlia.
– Non c’è male, – rispose Mrs Crozier sulla soglia, impedendo la vista degli arredi antichi. Mia madre fece ancora qualche commento imbarazzante e alla fine se ne andò. Quella sera disse che la vecchia Crozier non sapeva comportarsi, perché era solo la seconda moglie, rimediata a Detroit durante un viaggio d’affari, il che spiegava pure perché fumasse e si facesse i capelli neri come catrame e la bocca rossa come uno sbaffo di marmellata. Non era neppure la madre dell’invalido al piano di sopra. Non avrebbe avuto abbastanza cervello per essere sua madre.
(Era una delle nostre solite liti; quella volta riguardava la sua improvvisata, ma in realtà era irrilevante).
Alla vecchia Crozier dovevo sembrare non meno invadente di mia madre, e altrettanto
egocentrica. Il primissimo pomeriggio ero entrata nel salotto sul retro, avevo aperto il mobile libreria e mi ero passata in rassegna la collana dei Classici Harvard allineati in bell’ordine. Non trovai quasi nulla di incoraggiante, ma scelsi un libro che mi pareva potesse essere un romanzo, a dispetto del titolo in lingua straniera, I Promessi Sposi. Sí, sembrava proprio un romanzo, ed era in inglese.
Al tempo dovevo avere l’idea che i libri fossero tutti gratis, dovunque li si trovasse. Come l’acqua delle fontanelle pubbliche.
Quando la vecchia Crozier mi vide con quel libro in mano mi chiese dove l’avessi preso e che ci
facessi. Dalla libreria, risposi, e me lo sono portato di sopra per leggerlo. La cosa che pareva scandalizzarla di piú era che da sotto, l’avessi portato sopra. Sull’intenzione di leggerlo sembrava disposta a lasciar correre, come se si trattasse di un’attività troppo estranea alle sue abitudini per poterla prendere in considerazione. Infine, disse che, se volevo un libro, dovevo portarmelo da casa.
I Promessi Sposi, comunque, era un mattone. Non mi dispiacque doverlo rimettere a posto.
Naturalmente c’erano dei libri anche nella stanza del malato. Leggere, lí, sembrava accettabile. I volumi però erano quasi sempre aperti a faccia in giú, come se Mr Crozier si limitasse a leggiucchiarli qua e là per poi accantonarli. I titoli, in ogni caso, non mi tentavano. Civiltà al paragone. La grande congiura.
E poi, la nonna mi aveva messo in guardia dicendomi di evitare piú possibile di toccare quello che aveva toccato il malato, per via dei germi, e che dovevo usare sempre un panno per prendere il suo bicchiere dell’acqua.
Mia madre disse che la leucemia non la portavano i germi.
– E chi la porta, allora? – disse la nonna.
– I dottori non lo sanno.
– Bah.
Era la giovane Mrs Crozier a riportarmi a casa in macchina, anche se la distanza da percorrere era giusto quella da un capo all’altro del paese. Mrs Crozier era una donna alta e sottile, coi capelli chiari e la carnagione mutevole. Certe volte aveva delle chiazze rosse in faccia, come se si grattasse con le unghie. Correva voce che fosse piú vecchia del marito, che lui fosse stato suo studente al college. Secondo mia madre a nessuno era passato per la testa che, come reduce di guerra, lui poteva aver tranquillamente seguito i suoi corsi senza per forza essere piú giovane. La gente ce l’aveva con lei solo perché era una donna istruita.
Correva anche un’altra voce: che lei avrebbe potuto starsene a casa e occuparsi del marito, come aveva promesso di fare quando l’aveva sposato in chiesa, anziché andare in giro a insegnare. Anche su questo mia madre la difendeva, dicendo che erano solo due pomeriggi la settimana e che le conveniva non abbandonare la professione, visto che tra non molto sarebbe rimasta sola. Per giunta, se non si levava di torno la vecchia signora una volta ogni tanto, non c’era da credere che sarebbe impazzita? Mia madre difendeva regolarmente le donne che lavoravano fuori casa, e la nonna l’attaccava sempre per questo.
Un giorno provai a conversare con la giovane Mrs Crozier, alias Sylvia. Era l’unica persona laureata che conoscessi, oltre che l’unica professoressa. A parte suo marito, ovviamente, ma lui ormai non contava piú.
– Scusi, ma Toynbee scriveva libri di storia?
– Come, prego? Ah. Sí.
Non le importava di nessuno di noi, né di me, né dei suoi detrattori o sostenitori. Non badava a noi piú che a degli insetti su un paralume.
Quel che contava per la vecchia Mrs Crozier era soprattutto il suo giardino di fiori. C’era un uomo che veniva a darle una mano, piú o meno vecchio quanto lei, ma meglio in arnese. Abitava nella nostra via ed era proprio tramite lui che la vecchia era venuta a sapere di me come possibile aiutante da assumere. A casa non faceva altro che spettegolare e coltivare erbacce, mentre lí pacciamava e sfalciava senza sosta, con lei sempre appresso, china sul bastone, all’ombra del grande cappello di paglia. Certe volte la vecchia sedeva sulla panchina continuando da lí a fare commenti e impartire ordini, intanto che fumava una sigaretta. In principio, osavo avventurarmi tra le siepi perfette per chiedere se lei o il suo aiutante gradivano un bicchiere d’acqua, e lei sbottava in un «Attenta alle mie aiuole» prima di dirmi di no.
Nessuno portava mai fiori in casa, invece. Qualche papavero l’aveva fatta franca e cresceva selvatico oltre la siepe, quasi sulla strada, perciò chiesi il permesso di raccoglierne un mazzo per rallegrare la stanza del malato.
– Morirebbero e basta, – mi disse, evidentemente senza rendersi conto dell’infelicità del commento, date le circostanze.
Determinati suggerimenti o proposte le facevano tremare i muscoli della faccia sottile e piena di macchie, socchiudere gli occhi neri e muovere le labbra come se avesse in bocca un sapore cattivo. In quei casi era in grado di bloccarti sul nascere, come si estirpa una pianta di rovo.
I due giorni in cui andavo a lavorare non erano consecutivi. Diciamo che potevano essere il martedí e il giovedí. Il primo giorno rimasi sola con il malato e la vecchia Mrs Crozier. Il secondo, arrivò una persona di cui nessuno mi aveva parlato. Sentii l’auto sul vialetto d’ingresso, una corsetta vivace sui gradini del retro e qualcuno che entrava in cucina senza bussare. Dopodiché la sconosciuta chiamò «Dorothy», che io non sapevo fosse il nome della vecchia. La voce era quella di una donna o di una ragazza, una voce scherzosa e sfrontata al tempo stesso, da avere quasi l’impressione che ti stesse facendo il solletico.
Mi precipitai giú per le scale di servizio dicendo: – Credo che sia in veranda.
– Santi numi! E tu chi sei?
Le spiegai chi ero e che ci facevo lí, e la giovane disse di chiamarsi Roxanne.
– Sono la masseuse.
Non mi piaceva farmi sorprendere da una parola che non conoscevo. Non dissi nulla, ma lei capí come stavano le cose.
– Ti ho presa in castagna, eh? Faccio massaggi. Mai sentito dire?
Intanto apriva la borsa che aveva con sé. Comparvero pezze, cuscinetti e spazzole piatte foderate di velluto.
– Mi serve dell’acqua per scaldare questi, – disse. – Puoi mettere su il bollitore.
La casa era lussuosa, ma l’acqua corrente era solo fredda, come a casa mia.
A quanto sembrava mi aveva identificata come qualcuno disposto a prendere ordini, specie se impartiti con voce cosí suadente, magari. Aveva ragione, anche se è probabile non immaginasse che la mia prontezza aveva piú a che vedere con la mia curiosità che con il suo fascino.
Era già abbronzata benché fosse l’inizio dell’estate, e il taglio di capelli alla paggio mostrava riflessi ramati, roba che al giorno d’oggi si può facilmente ottenere comprando un flacone di tinta, ma che allora era invidiabile e insolita. Occhi marroni, una fossetta su una sola guancia, un’aria cosí sorridente e maliziosa che non si riusciva mai a guardarla abbastanza da stabilire se fosse davvero carina, né quanti anni avesse.
Il posteriore le faceva una bella curva all’infuori, anziché distribuirsi sui fianchi.
Scoprii subito che era nuova in paese, sposata col meccanico del distributore della Esso, e che
aveva due figli piccoli, di quattro e tre anni. – Mi ci è voluto un bel po’ per capire come mai arrivavano, – disse con una delle sue strizzatine d’occhi ammiccanti.
Aveva seguito il corso per diventare masseuse a Hamilton, dove abitavano prima, scoprendo di avere un talento innato per quel lavoro.
– Dor-thee?
– È in veranda, – le ripetei.
– Lo so. La stavo solo prendendo in giro. Ora tu forse non sai come funzionano le cose, ma per
farsi fare un massaggio bisogna spogliarsi completamente. Finché si è giovani, non è un problema, ma quando si invecchia, sai, ci si può vergognare.
E là si sbagliava, almeno riguardo alla sottoscritta. Voglio dire, rispetto al non essere un problema spogliarsi quando si è giovani. – Perciò forse è meglio se te ne vai.
Questa volta scesi dallo scalone, mentre lei armeggiava con l’acqua calda. Cosí ebbi modo di lanciare un’occhiata attraverso la porta aperta della veranda che in realtà di sole ne prendeva ben poco, avendo le vetrate sui tre lati invase dal generoso fogliame delle catalpe.
Vidi la vecchia Mrs Crozier distesa a pancia in giú su un divanetto con la faccia voltata dall’altra parte, completamente nuda. Una striscia sottile di carne chiara. Non sembrava vecchia come le parti di lei sempre esposte: le mani e gli avambracci cosparsi di efelidi brune e venati di scuro, le guance a macchie marroni. Questa parte di corpo invece, solitamente coperta in tutta la sua lunghezza, era di un bianco giallognolo, come legno appena scortecciato.
Sedetti sul gradino in cima alla scala e ascoltai i rumori del massaggio. Tonfi e grugniti. La voce di Roxanne si era fatta imperiosa adesso, gioviale ma piena di esortazioni.
– C’è un brutto nodo qui. Accidenti. Mi sa che dovrò andarci pesante. Scherzavo. Oh, su su, si lasci andare. Lo sa che ha proprio una bella pelle, qui? All’altezza del fondoschiena, per cosí dire. Liscia come il culetto di un bebè. Adesso devo proprio schiacciare, sentirà un po’ male. Molli la tensione. Faccia la brava bambina.
La vecchia Mrs Crozier emetteva qualche sommesso guaito. A metà tra il lamento e il senso di gratitudine. Andò per le lunghe, dopo un po’ mi annoiai. Tornai a sfogliare certi vecchi numeri del «Canadian Home Journal» che avevo trovato in un mobile dell’ingresso. Leggevo le ricette e guardavo i servizi di una moda sorpassata, finché udii Roxanne che diceva: – Adesso pulisco tutto quanto e andiamo di sopra come ha detto lei.
Di sopra. Feci riscivolare le riviste al loro posto in quel mobile che avrebbe fatto gola a mia madre ed entrai nella camera di Mr Crozier. Dormiva, o comunque teneva gli occhi chiusi. Spostai il ventilatore di qualche centimetro, gli lisciai la coperta e mi avvicinai alla finestra per armeggiare con le tapparelle.
Come previsto, dalle scale sul retro provenne il rumore del passo lento e minaccioso della vecchia Mrs Crozier col suo bastone, preceduto dal rapido scalpiccio di Roxanne, che diceva: – Si tenga pronto, lassú, perché adesso arriviamo a scovarla.
Ora Mr Crozier aveva gli occhi aperti. Oltre alla consueta espressione spossata c’era nel suo sguardo una specie di allarme. Ma prima che potesse tornare a fingersi addormentato, Roxanne fece irruzione nella stanza.
– Ah, ecco dove si nascondeva. Stavo giusto dicendo alla sua matrigna che era ora che ci presentassero.
Mr Crozier disse: – Piacere di conoscerla, Roxanne.
– Come fa a sapere come mi chiamo?
– Le voci corrono.
– Ma ha un ragazzino, quassú, – disse Roxanne rivolgendosi alla vecchia Mrs Crozier, che intanto faceva il proprio rumoroso ingresso nella camera.
– Smettila di pasticciare con quella tapparella, – mi disse la vecchia. – Va’ a prendermi un po’ d’acqua fresca se non sai cosa fare. Non fredda, ho detto fresca.
– Che disastro, – disse Roxanne a Mr Crozier. – Chi le ha fatto la barba e quando è stata l’ultima volta?
– Ieri, – rispose lui. – Ci penso da solo, cerco di arrangiarmi.
– Lo immaginavo, – disse Roxanne, e a me: – Mentre prendi l’acqua, puoi metterne un po’ a scaldare per me, cosí vedo di raderlo come si deve?
Fu cosí che Roxanne si assunse quest’altro incarico, dopo il massaggio, una volta la settimana.
A Mr Crozier, quel primo giorno, disse che non doveva preoccuparsi.
– Non ho intenzione di prenderla a botte come mi avrà sentito fare di sotto, con la Dorothysaura. Prima di frequentare il corso da massaggiatrice, facevo l’infermiera. Anzi, l’aiuto infermiera. Cioè, ero una di quelle che si sobbarcano tutta la fatica, prima che arrivi l’infermiera a dare ordini a destra e a manca. In ogni caso, ho imparato a far star bene la gente.
La Dorothysaura? Mr Crozier sorrise. Ma la cosa bizzarra fu che anche la vecchia Mrs Crozier si limitò a sorridere.
Roxanne lo sbarbò perfettamente. Gli lavò con la spugna faccia, collo, petto, mani e braccia. Gli tirò le lenzuola intorno, riuscendo chissà come a non disturbarlo, e gli sistemò i cuscini dopo averli sprimacciati. Senza mai smettere di fare battute e dire sciocchezze.
– Comunque, Dorothy, lei dice bugie. Mi aveva detto che quassú c’era un ammalato, perciò io arrivo e mi chiedo, Ma dove sarebbe l’ammalato? Non vedo nessun ammalato da queste parti. Giusto?
Mr Crozier disse: – Lei come mi definirebbe, sentiamo.
– Un convalescente. Ecco come la definirei. Non voglio dire che dovrebbe alzarsi e andare a
ballare, non sono cosí stupida. Mi rendo conto che ha bisogno di riposo a letto. Ma come convalescente. Un malato grave come dovrebbe essere lei in teoria, non ha questa bella cera.
Ritenevo offensive simili ciance e moine. Mr Crozier aveva una cera orrenda. Quando lo aveva lavato gli si potevano contare le costole, come a un sopravvissuto a una carestia, era alto, calvo, aveva la pelle di un pollo appena spennato, e il collo cordolato come quello di un vecchio. Ogni volta che mi ero occupata di lui in qualsiasi modo, avevo evitato di guardarlo. E questo non soltanto perché era brutto e malato. Soprattutto perché stava morendo. Avrei provato in parte la stessa ritrosia anche se fosse stato di una bellezza angelica. Sentivo in casa un’atmosfera di morte che aumentava man mano che ci si avvicinava alla sua stanza, e lui ne era al centro, come l’ostia che i cattolici custodiscono in quella scatola dal nome formidabile, tabernacolo. Mr Crozier era l’essere segnato, diverso da tutti gli altri, ed ecco che se ne arrivava Roxanne a invadere il suo territorio a furia di scherzi, vanterie e trovate che secondo lei l’avrebbero distratto.
Si informò, per esempio, se in casa c’era un gioco chiamato dama cinese.
Doveva essere la seconda volta che veniva; gli chiese cosa facesse tutto il giorno.
– Qualche volta leggo. Dormo.
E di notte, come riusciva a prendere sonno?
– Se non dormo, sto sveglio. Penso. A volte leggo.
– Non disturba sua moglie?
– Lei dorme nella stanza sul retro. – Ah-nn. Lei ha bisogno di svago.
– Pensa di cantare e ballare per me?
Colsi la vecchia Mrs Crozier distogliere lo sguardo, con un sorriso spontaneo.
– Non faccia l’impertinente, – disse Roxanne. – A carte, come se la cava?
– Detesto giocare a carte.
– Be’, c’è una dama cinese in casa?
Roxanne rivolse la domanda alla vecchia Mrs Crozier la quale, dapprima disse di non averne idea, poi si chiese se potesse essercene una nel cassetto del buffet in sala da pranzo. E mi spedirono sotto a guardare. Tornai con il tavoliere e il barattolo delle biglie. Roxanne piazzò il tavoliere sulle gambe di Mr Crozier e tutti e tre ci mettemmo a giocare, mentre la vecchia Crozier diceva di non aver mai capito il gioco e di non essere mai riuscita a mettere a posto le biglie. (Con mio assoluto stupore, parve offrire il commento come una battuta). A Roxanne capitava di squittire quando le toccava la mossa o di brontolare se uno di noi le mangiava una delle biglie, ma faceva attenzione a non disturbare mai il paziente. Teneva il corpo fermissimo e appoggiava le biglie leggere come piume. Cercai di imparare a imitarla, perché se non lo facevo mi spalancava gli occhi in segno di ammonimento. Sempre sorridendo però, con la sua fossetta sulla guancia. Ricordavo di avere sentito la giovane Mrs Crozier in macchina dirmi che suo marito non gradiva conversare. Lo affaticava, disse, e la stanchezza tendeva a renderlo piú irritabile. Perciò pensai che quella fosse l’occasione migliore per irritarsi. Essere costretto a giocare un gioco cretino sul proprio letto di morte, quando perfino attraverso le lenzuola si sentiva che aveva la febbre.
Sylvia, però, si sbagliava, a quanto pare. Mr Crozier doveva essersi fatto piú paziente e gentile di quanto lei immaginasse. Con gl’inferiori – e Roxanne certamente lo era – si mostrava piú tollerante, piú cortese. Quando doveva aver solo voglia di starsene lí sul letto a riflettere sui sentieri della vita passata e a concentrarsi sul proprio futuro.
Roxanne gli asciugava il sudore della fronte, dicendo: – Non si agiti tanto, non ha ancora vinto.
– Roxanne, – fece lui. – Roxanne. Lo sa chi si chiamava cosí?
– Hmm? – disse lei, ma io mi intromisi. Fu piú forte di me.
– La moglie di Alessandro Magno.
La mia testa era come il nido di una gazza ladra, pieno di cianfrusaglie di sapere.
– Ma va? – chiese Roxanne. – E chi diavolo era? Alessandro Magno?
In quell’istante, quando guardai Mr Crozier, capii una cosa triste e inaudita.
Gli faceva piacere che lei non lo sapesse. Ne ero sicura. Gli faceva piacere che non lo sapesse. L’ignoranza di lei risvegliava un piacere che si fondeva sopra la lingua come un avanzo di caramella al latte.
Il primo giorno era arrivata in pantaloncini corti, come me, ma la volta successiva, e in seguito sempre, Roxanne indossava un vestito verde chiaro di tessuto rigido e lustro. Lo si sentiva frusciare quando arrivava di corsa su per le scale. Portò a Mr Crozier un vaporoso cuscinetto di lana per evitare le piaghe da decubito. Era immancabilmente scontenta della sua biancheria da letto, che si sentiva in dovere di sistemargli. Ma per quanto borbottasse, i suoi gesti non lo irritavano mai e anzi riusciva a fargli ammettere che dopo stava meglio.
Non si perdeva mai d’animo. Certe volte se ne arrivava con una scorta di indovinelli. O di barzellette. Alcune erano del genere che mia madre definiva sporche e non permetteva circolassero in casa nostra, a meno che a raccontarle non fossero determinati parenti della famiglia di mio padre i quali in pratica non disponevano di altri argomenti di conversazione.
Le barzellette di solito cominciavano con una domanda apparentemente seria ma insulsa.
Avete sentito di quella suora che è entrata in un negozio per comprare un tritacarne?
Avete sentito che cosa ha ordinato per dolce una coppia di sposi, la prima notte di nozze? Le risposte contenevano sempre un doppio senso di modo che chi raccontava le barzellette poteva fingersi scandalizzato e accusare gli ascoltatori di avere la testa piena di pensieri sconci. E quando ci ebbe abituati tutti a sentirle fare questo genere di battute, Roxanne procedette allo stadio successivo, quello di barzellette di cui credo mia madre ignorasse perfino l’esistenza: facezie con frequenti allusioni a pratiche sessuali con pecore, polli o macchine da mungitura.
«Terrificante, no?», commentava sempre, alla fine. Aggiungeva che non sarebbe venuta a conoscenza di roba simile se suo marito non l’avesse portata a casa dall’officina.
Il fatto che la vecchia Mrs Crozier ridacchiasse mi sconcertava almeno quanto le battute stesse. Forse non le capisce, pensavo, e si diverte solo ad ascoltare Roxanne, qualunque cosa racconti. Se ne stava seduta con un sorriso ebete stampato in faccia, come se avesse ricevuto un regalo e sapesse, ancora prima di averlo scartato, che le sarebbe piaciuto tanto.
Mr Crozier non rideva, ma lui comunque non rideva mai. Alzava le sopracciglia, fingendo di non approvare, di ritenere Roxanne scurrile ma pur sempre adorabile. Forse era solo un fatto di educazione, o di riconoscenza per tutti gli sforzi di lei, di varia natura.
Personalmente mi premuravo di ridere, perché Roxanne non mi catalogasse come piena di
candori moralistici.
Faceva anche un’altra cosa, sempre per tenerci allegri: ci raccontava della sua vita. Di quando era scesa a Toronto da un paesino sperduto nel Nord dell’Ontario per andare a trovare sua sorella maggiore, di come aveva trovato lavoro da Eaton, prima come inserviente alla caffetteria e poi, d’improvviso, grazie a uno dei dirigenti che l’aveva notata perché si dava da fare ed era sempre di buonumore, come commessa al reparto guanti. (Avevo l’impressione che, a sentir lei, fosse un po’ come essere stati scoperti dalla Warner Bros.). E chi ti va a capitare in reparto, un bel giorno? Niente meno che Barbara Ann Scott, la stella del pattinaggio, venuta a comprarsi un paio di guanti in capretto bianco lunghi fino al gomito.
Frattanto la sorella di Roxanne aveva un tale numero di spasimanti che la sera, per decidere con quale uscire, faceva a testa o croce, e mandava Roxanne a scusarsi con gli esclusi alla porta della pensione, mentre lei e il prescelto se la svignavano dall’ingresso di servizio. Roxanne diceva che forse era stato cosí che le si era sciolta la parlantina. Senza contare che dopo un po’ qualcuno dei giovanotti conosciuti in quel modo aveva cominciato a invitare fuori lei, anziché sua sorella. Non sapevano quanti anni avesse davvero.
– Me la sono proprio spassata, – diceva.
Cominciai a capire che esistono conversatrici che la gente ama ascoltare non per quello che raccontano, ma per il piacere con cui lo fanno. Una specie di compiacimento, una luce negli occhi, la convinzione che ogni loro aneddoto sia di per sé rilevante e loro stesse, fonte intrinseca di godimento. Potevano forse esistere persone – gente come me – che non cedevano a questo genere di allegria, ma a loro unico discapito. E la gente come me, in ogni caso, non sarebbe mai stata il pubblico d’elezione di quelle conversatrici.
Mr Crozier sedeva appoggiato ai cuscini e in tutto e per tutto mostrava di essere contento. Contento di chiudere gli occhi e lasciarla parlare, per poi riaprirli e trovarsi di fronte Roxanne, come una sorpresa di cioccolata la mattina di Pasqua. E ancora godersi, a occhi aperti, lo spettacolo di ogni fremito delle sue labbra rosso caramella, di ogni dondolio del suo generoso fondoschiena. La vecchia Mrs Crozier intanto ondeggiava avanti e indietro in un curioso stato di appagamento.
Roxanne trascorreva al piano di sopra lo stesso tempo che passava sotto, al massaggio. Mi chiedevo se la pagassero, per farlo. Se cosí non era, come poteva permettersi quel lusso? E chi poteva pagarla, se non la vecchia Crozier in persona?
E perché?
Per tenere comodo e allegro il figliastro? Poco probabile, secondo me.
Per farsi intrattenere in modo bizzarro?
Un pomeriggio, dopo che Roxanne ebbe lasciato la sua stanza, Mr Crozier disse di avere piú sete del solito. Scesi a prendergli dell’acqua dalla caraffa che stava al fresco nel frigorifero. Roxanne si preparava ad andarsene.
– Non intendevo fare cosí tardi, – disse. – Non vorrei mai incontrare la signora maestra.
Per un attimo non capii.
– Sai, no? Syl-vi-a. Anch’io non le vado tanto a genio, giusto? Ti parla mai di me, quando ti porta a casa?
Risposi che Sylvia non l’aveva mai neanche nominata, durante i tragitti in macchina. Ma perché avrebbe dovuto?
– Dorothy sostiene che Sylvia non lo sa prendere. Che lo faccio di gran lunga piú contento io.
Cosí dice Dorothy. E non mi stupirei che gliel’avesse anche detto in faccia.
Pensai a Sylvia che ogni giorno, tornando a casa, si precipitava di sopra nella stanza del marito, prima ancora di rivolgere la parola a me o alla suocera, con il viso acceso dall’ansia e dalla disperazione. Avrei voluto ricordare questo fatto, difenderla in qualche modo, ma non sapevo come. Le persone sicure di sé come Roxanne, del resto, sembravano avere spesso la meglio su di me, se non altro non prestandomi ascolto.
– Sei certa che non ti dice mai niente di me?
Ripetei di no, mai niente. – È stanca, quando arriva a casa.
– Sí, sí. Siamo tutti stanchi. Solo che qualcuno impara a far finta di non esserlo.
A quel punto in effetti mi uscí una frase, per contrastarla. – A me Sylvia piace abbastanza.
– Ma non mi dire, – mi canzonò lei.
E mi prese alla sprovvista, tirandomi scherzosamente una ciocca della frangia che di recente mi ero tagliata da sola.
– Dovresti proprio farti aggiustare quei capelli come si deve.
Cosí dice Dorothy.
Ammesso che Roxanne fosse per carattere a caccia di ammirazione, Dorothy, cosa cercava? Sentivo che c’era di mezzo una cattiveria, ma non sarei stata in grado di definirla. Forse era solo il desiderio di avere Roxanne, e la sua vitalità, in giro per casa il doppio del tempo.
Ormai era piena estate. L’acqua si fece bassa nei pozzi. L’autobotte smise di passare a spruzzare le strade e alcuni negozi incollarono alle vetrine una specie di cellophane giallo per evitare che i prodotti sbiadissero. Le foglie erano chiazzate, e l’erba secca.
La vecchia Mrs Crozier si ostinava a far zappare il giardino. È cosí che si deve fare nei periodi di siccità, si continua a dissodare il terreno per sfruttare ogni avanzo di umidità sottostante. I corsi estivi del college si sarebbero conclusi dopo ferragosto, e a quel punto Sylvia Crozier sarebbe stata a casa tutti i giorni.
Mr Crozier era sempre contento di vedere Roxanne, ma sovente si addormentava. Gli capitava di crollare senza nemmeno buttare indietro la testa, a metà di una barzelletta o di un aneddoto. Dopo un momento si risvegliava, e domandava dov’era.
– Sempre qui, dormiglione. E dovrebbe anche starmi a sentire. Le ci vorrebbe una sculacciata.
Oppure, che ne dice se provo a farle il solletico?
Lo capiva chiunque che si andava spegnendo. Aveva le guance incavate come quelle di un vecchio e la punta delle orecchie trasparente come se fossero fatte di plastica e non di carne. (Benché al tempo nessuno di noi dicesse «plastica», bensí «celluloide»).
Il mio ultimo giorno di lavoro, e l’ultimo di scuola per Sylvia, cadde in una giornata di massaggio. Sylvia dovette uscire presto per una cerimonia al college e io perciò fui costretta a farmela a piedi da un capo all’altro del paese e arrivai quando Roxanne era già lí. Anche la vecchia Mrs Crozier era in cucina, e mi guardarono entrambe come se si fossero dimenticate di me e io avessi interrotto qualcosa.
– Li ho ordinati apposta, – diceva la vecchia Crozier.
Doveva riferirsi alla scatola di biscotti alla mandorla che stava sul tavolo.
– Sí, ma io gliel’ho detto, – ribatté Roxanne. – Quella roba, non posso mangiarla. Per nessunissima ragione.
– Ho mandato apposta Hervey in panetteria a comprarli.
Hervey era il vicino di casa, quello che l’aiutava coi fiori.
– E che se li mangi Hervey, allora. Non sto scherzando, mi fanno proprio malissimo.
– Pensavo che ci potevamo concedere qualcosa di buono, di un po’ speciale, – incalzò Mrs Crozier. – Dato che è l’ultimo giorno, prima…
– L’ultimo giorno prima che quella piazzi le chiappe in casa, lo so. Ma non servirebbe a niente che mi riempissi di chiazze come una iena ridens, no?
Di quali chiappe piazzate in casa si stava parlando?
Di quelle di Sylvia. Di Sylvia.
La vecchia Mrs Crozier indossava uno splendido négligé di seta nera disegnato a ninfee e
anatre. Disse: – Con lei tra i piedi, possiamo scordarci qualsiasi strappo alla regola. Vedrai. – Allora diamoci da fare e non perdiamo altro tempo, oggi. Non se la prenda per questa roba, non ce l’ho con lei. Lo so che l’ha fatto per gentilezza.
– Lo so che l’ha fatto per gentilezza, – le fece il verso la vecchia in un falsetto cattivo. Poi tutte e due guardarono me, e Roxanne disse: – La caraffa è al solito posto.
Presi dal frigo la caraffa d’acqua di Mr Crozier. Pensai che, di tutta la scatola, avrebbero potuto offrirmi almeno un biscotto alla mandorla, ma a quanto pare a loro non venne in mente. Pensavo di trovarlo abbandonato sui cuscini a occhi chiusi, ma Mr Crozier era invece sveglissimo.
– Aspettavo, – disse, e prese fiato. – Che tu arrivassi, – proseguí. – Voglio chiederti un favore.
D’accordo?
Certo, dissi io.
– Sai tenere un segreto?
Avevo avuto paura che potesse chiedermi di aiutarlo a mettersi sulla comoda che era da poco comparsa in camera sua, ma quello non avrei dovuto sicuramente tenerlo segreto.
Sí.
Mi disse di andare allo scrittoio che stava di fronte al suo letto, di aprire il cassettino sulla sinistra e vedere se ci trovavo una chiave.
Feci quanto richiesto. Trovai una vecchia chiave pesante.
Voleva che uscissi dalla stanza e chiudessi a chiave la porta. Poi che nascondessi la chiave in un posto sicuro, magari nella tasca dei pantaloncini.
E non dovevo dire a nessuno che cosa avevo fatto.
Non dovevo far sapere a nessuno che avevo la chiave, finché non tornava sua moglie, e a quel punto dovevo consegnarla a lei. Tutto chiaro?
D’accordo.
Mi ringraziò.
D’accordo.
Per tutto il tempo in cui mi parlò notai che un velo di sudore gli copriva la faccia e che aveva gli occhi lustri come se avesse la febbre.
– Non deve entrare nessuno.
– Non deve entrare nessuno, – ripetei.
– Né la mia matrigna, né… Roxanne. Soltanto mia moglie.
Chiusi la porta dall’esterno e misi la chiave nella tasca dei pantaloncini. Poi però ebbi paura che si potesse vedere attraverso il tessuto in cotone leggero, perciò scesi nel salottino sul retro e la infilai in mezzo alle pagine dei Promessi Sposi. Sapevo che Roxanne e la vecchia Crozier non mi avrebbero sentita, perché era in corso il massaggio, e Roxanne commentava con il solito tono professionale.
– Ho il mio bel daffare qui, oggi, a scioglierle ’sti nodi…
E udii la vecchia Mrs Crozier ribattere, con una contrarietà tutta nuova:
– … e ci dai dentro a farmi male anche piú del solito, eh?
– Be’, non posso fare diversamente.
Stavo per tornare di sopra, ma ebbi un ripensamento.
Se fosse stato lui e non io a chiudere a chiave la porta – come era evidente che Mr Crozier voleva dare a intendere –, e io fossi stata seduta come sempre in cima alle scale, lo avrei certamente sentito e dato l’allarme, avvisando chi era in casa. Perciò ridiscesi e mi andai a sedere sul gradino piú basso davanti alla porta d’ingresso, una postazione dalla quale era possibile che non avessi sentito niente.
Il massaggio sembrava energico e poco confidenziale quel giorno; era chiaro che nessuna aveva voglia di ridere e di scambiare battute. Di lí a poco, udii Roxanne salire di corsa le scale sul retro.
Si fermò. Disse: – Ehi, Bruce.
Bruce.
Girò piú volte la maniglia della porta.
– Bruce.
A quel punto, dovette accostare la bocca al buco della serratura nella speranza che la sentisse soltanto lui, e nessun altro. Non riuscivo a distinguere bene che cosa dicesse, ma capii che lo supplicava. Dapprima scherzando, poi seriamente. Di lí a poco sembrò che stesse dicendo le preghiere.
Quando rinunciò, si mise a battere i pugni su tutta la porta, non molto forte, ma con affanno.
Dopo un po’, smise di fare anche quello.
– Andiamo, – disse con voce piú ferma. – Se ti sei alzato per chiudere la porta, puoi anche venire ad aprirla.
Nessuna risposta. Roxanne si sporse dal mancorrente e mi vide.
– Hai portato l’acqua in camera a Mr Crozier?
Dissi di sí.
– Perciò la porta non era chiusa, no?
No.
– Ti ha detto qualcosa?
– Ha solo detto grazie.
– Be’, adesso si è chiuso a chiave e non riesco a farmi aprire.
Udii il bastone della vecchia Mrs Crozier battere in cima alle scale.
– Cos’è tutto questo baccano?
– Si è chiuso dentro e non riesco a farmi rispondere.
– Cosa vuol dire, si è chiuso dentro? Si sarà incastrata la porta. L’avrà sbattuta il vento e si sarà incastrata.
Quel giorno il vento non c’era.
– Ci provi lei, – disse Roxanne. – È chiusa a chiave.
– Non sapevo neanche ci fosse, la chiave di questa porta, – disse la vecchia Mrs Crozier, come se il suo non saperlo potesse cambiare la realtà dei fatti. Dopodiché fece un tentativo pro forma con la maniglia e disse: – Be’, sembra proprio che sia chiusa a chiave.
Mr Crozier doveva aver calcolato tutto questo. Che nessuno avrebbe sospettato di me, e che avrebbero considerato lui responsabile. E di fatto lo era.
– Dobbiamo entrare, – disse Roxanne. Sferrò un calcio alla porta.
– Basta cosí, – disse la vecchia Mrs Crozier. – Vuoi sfondarla? Non ce la faresti, comunque, è in quercia massiccia. Come tutte le altre porte di questa casa.
– Allora dobbiamo chiamare la polizia.
Ci fu un attimo di silenzio.
– Possono entrare dalla finestra, – disse Roxanne.
La vecchia Crozier tirò un gran respiro e parlò decisa.
– Non sai quel che dici. La polizia in questa casa non ce la voglio. Non ho intenzione che si mettano a strisciarmi sui muri come lombrichi.
– Ma non sappiamo che cosa potrebbe fare là dentro.
– Be’, in definitiva sono fatti suoi, no?
Altro silenzio.
Poi qualche passo – di Roxanne – che se ne andava scendendo le scale.
– Ma sí, è meglio, – disse Mrs Crozier. – Meglio che porti fuori i tuoi stracci, prima che ti dimentichi che sei in casa d’altri.
Roxanne intanto scendeva. Il bastone pestò su un paio di scalini, seguendola, ma poi desistette.
– E non metterti in testa di andare in commissariato di nascosto. Tanto non prenderanno certo
ordini da te. Chi è che comanda qui dentro? Non tu, di sicuro. Mi senti?
Poco dopo, udii la porta della cucina che si chiudeva sbattendo. E l’auto di Roxanne che partiva.
L’idea della polizia lasciava tiepida me non meno della vecchia Crozier. In paese polizia voleva dire l’agente McClarty, quello che veniva a scuola a dirci che non dovevamo andare in slitta sulle strade d’inverno e fare il bagno nella roggia d’estate, cose che noi continuavamo a fare tranquillamente. Era ridicolo immaginarselo appeso a un muro in cima a una scala, o impegnato a convincere Mr Crozier attraverso una porta chiusa.
Avrebbe detto a Roxanne di farsi gli affari suoi e di lasciare che i Crozier badassero ai propri. Tutt’altro che ridicolo invece era pensare alla vecchia Crozier che impartiva ordini, e considerai che avrebbe potuto cominciare a farlo ora che se n’era andata Roxanne, la quale sembrava non essere piú di suo gradimento. Poteva prendersela con me e pretendere di sapere se avevo qualcosa a che fare con questa vicenda.
Invece non provò nemmeno a girare la maniglia. Si limitò a piazzarsi davanti alla porta chiusa per dire una sola cosa.
– Piú forte di quel che pareva, – mormorò.
Dopodiché si incamminò per le scale. Accompagnata dai soliti colpi sinistri del suo martellante bastone.
Aspettai un poco e poi uscii, diretta in cucina. La vecchia Crozier non c’era. Non era neanche in salotto, né in sala da pranzo o in veranda. Mi feci coraggio e bussai alla porta del gabinetto, poi l’aprii, ma non era nemmeno lí. Guardai dalla finestra sopra l’acquaio in cucina e vidi il cappello di paglia avanzare piano lungo la siepe di bosso. Stava fuori in giardino, nella canicola, a misurare con passo pesante le sue aiuole fiorite.
Il pensiero che aveva sconvolto Roxanne non mi turbava. Non l’avevo nemmeno preso in considerazione, perché ritenevo del tutto assurdo che una persona alla quale restava cosí poco da vivere potesse suicidarsi. Non era possibile.
Ciononostante, ero nervosa. Mangiai due biscotti alla mandorla rimasti sul tavolo di cucina. Li mangiai sperando che il piacere mi riconsegnasse alla normalità, ma a malapena riuscii a sentirne il sapore. Ritirai la scatola dentro il frigo per evitarmi la speranza di raggiungere lo scopo, mangiandone altri.
La vecchia Mrs Crozier era ancora fuori, quando arrivò Sylvia. E non rientrò neanche allora. Non appena sentii la macchina andai a recuperare la chiave tra le pagine del libro e la consegnai subito a Sylvia. Le raccontai rapidamente quanto era successo, tralasciando gran parte del trambusto.
Non avrebbe comunque ascoltato fino alla fine. Si precipitò di sopra.
Restai in fondo alle scale a sentire quello che potevo.
Niente. Niente.
Poi, ecco la voce di Sylvia, sconvolta e stupita ma non disperata, e troppo flebile perché potessi
distinguere quel che diceva. In capo a cinque minuti era di sotto, e mi diceva che era ora di riaccompagnarmi a casa. Era rossa, come se le solite chiazze si fossero sparse su tutta la faccia, e sembrava agitata, ma incapace di mascherare la gioia.
Poi disse: – Ah, già. Dov’è la signora?
– In giardino, credo.
– Be’, penso sia meglio se le parlo un momento.
Dopo averle parlato non sembrava piú contenta come prima.
– Penso tu sappia, – disse mentre faceva manovra con l’auto, – penso tu possa immaginare che la mamma di Mr Crozier è sconvolta. Non ti rimprovero, intendiamoci. Sei stata molto buona e leale a fare quello che Mr Crozier ti ha chiesto. Non hai avuto paura che potesse succedere qualcosa? A Mr Crozier? No?
No, dissi.
Poi aggiunsi: – Credo che Roxanne abbia avuto paura, invece.
– Mrs Hoy. Ah, sí? Che peccato.
Mentre percorrevamo quello che allora si chiamava Croziers’ Hill, disse: – Non penso che volesse spaventarle per dispetto. Sai, quando si è ammalati da tanto tempo può capitare di non apprezzare l’affetto delle persone. Di provare rancore per certa gente anche se è buona e fa del suo meglio per aiutarti. Mrs Crozier e Mrs Hoy ce la mettevano tutta senz’altro, ma Mr Crozier semplicemente non le voleva piú intorno. Ne aveva avuto abbastanza. Mi capisci?
Sembrava non rendersi conto di sorridere, mentre diceva queste parole.
Mrs Hoy.
Avevo mai sentito prima quel nome?
Pronunciato con tanto garbato rispetto e con siderale indulgenza.
Credevo sul serio a quello che Sylvia mi aveva detto?
Ero certa che fosse quanto le aveva detto lui.
In effetti Roxanne, la rividi, quel giorno. Proprio mentre Sylvia mi stava parlando e mi metteva a parte di quel nome nuovo. Mrs Hoy.
Lei – Roxanne – era in macchina, ferma al primo incrocio al fondo di Croziers’ Hill per vederci passare. Non mi voltai a guardarla, perché ero troppo frastornata, mentre Sylvia mi faceva il suo discorso.
Sylvia naturalmente non poteva sapere di chi fosse quella macchina. Non poteva sapere che Roxanne doveva essere tornata indietro per farsi un’idea di che cosa stesse succedendo. O che magari non avesse fatto altro che continuare a girare intorno all’isolato – possibile? – da quando era uscita da casa Crozier.
Roxanne invece aveva probabilmente riconosciuto l’auto di Sylvia. E notato me. Doveva aver capito che era tutto a posto, visto che Sylvia mi stava parlando con aria seria e gentile, accennando perfino un sorriso.
Non svoltò l’angolo per risalire il colle e tornare a casa Crozier. Oh no. Attraversò la strada – la guardai nello specchietto retrovisore – e si diresse verso la zona orientale del paese, dove avevano costruito in tempo di guerra. Abitava lí.
– Senti la brezza, – disse Sylvia. – Magari quelle nuvole ci portano un po’ di pioggia. Erano nuvole alte, bianchissime, luminose, tutt’altro che da pioggia; e la brezza era solo aria che entrava dai finestrini abbassati di un’auto in corsa.
Comprendevo abbastanza bene il tiro alla fune che si era svolto tra Sylvia e Roxanne, ma era strano pensare all’oggetto pressoché distrutto di quel contendere, Mr Crozier, e pensare che avesse potuto trovare la volontà di prendere una decisione, perfino di imporsi delle privazioni, quando era ormai cosí avanti nella vita. Quella passione carnale – o vero amore che fosse – alle soglie della morte era qualcosa che dovevo distogliere dalla mente, perché mi dava i brividi.
Sylvia portò Mr Crozier in uno chalet in affitto in riva al lago, dove lui morí poco prima della caduta delle foglie.
La famiglia Hoy fece fortuna, come spesso succedeva a chi aveva un’officina meccanica.
Mia madre lottò con un male debilitante, che mise fine a tutti i suoi sogni di diventare ricca. Dorothy Crozier ebbe un ictus, ma si riprese e divenne celebre per aver iniziato a comprare dolcetti di Halloween da consegnare ai fratelli minori di quei bambini che aveva cacciato dalla porta di casa.
Io sono diventata adulta, e poi vecchia.
Bambinate
Penso che in casa nostra se ne sia parlato, dopo.
Che tristezza, che orrore. (Mia madre).
Ci doveva essere piú sorveglianza. Dov’erano finite le assistenti? (Mio padre).
Se mai passammo davanti alla casa gialla, è possibile che mia madre abbia detto: «Ti ricordi? Ti ricordi come ti faceva paura? Poverina».
Mia madre aveva il vizio di custodire, per non dire collezionare, i ricordi delle manie risalenti ai tempi della mia infanzia remota.
Da bambini, ogni anno si diventa una persona diversa. Di solito succede in autunno, quando con il ritorno a scuola, si entra nella classe successiva lasciandosi alle spalle il caos letargico delle vacanze estive. È allora che si registra il cambiamento piú netto. Dopo non si è piú sicuri del mese o dell’anno, ma si continua a cambiare, comunque. Per un bel po’ di tempo, il passato ti scivola via facilmente e, si direbbe, in modo automatico, consono. I suoi scenari piú che svanire perdono rilevanza. Poi si verifica una regressione, ciò che era morto e sepolto prende a rigermogliare, si impone alla nostra attenzione, ci chiede perfino di agire al riguardo, sebbene sia chiaro che non si può fare un bel niente.
Marlene e Charlene. La gente ci scambiava per gemelle. Al tempo andava di moda battezzare i gemelli con nomi in rima tra loro. Bonnie e Connie. Ronald e Donald. E per di piú noi due – Charlene e io – avevamo cappelli identici. «Cappelli da coolie», li chiamavano, erano ampi coni di paglia intrecciata con un laccio o un elastico che si stringeva sotto il mento. Sarebbero poi diventati comuni, nei decenni successivi, grazie ai servizi in televisione sulla guerra in Vietnam. Li portavano in testa uomini in bicicletta nelle vie di Saigon, o donne che vagavano per strada sullo sfondo di villaggi bombardati.
Allora, vale a dire quando Charlene e io andammo al campeggio, si poteva tranquillamente usare la parola «coolie» senza essere sfiorati dal dubbio di risultare offensivi. Come si diceva «moretto», o si parlava di «fare l’ebreo». Credo di non avere mai collegato l’espressione al popolo, prima di diventare ragazza.
Comunque, noi due avevamo quei nomi e quel copricapo, e al primo appello l’assistente – Mavis, quella simpatica che ci piaceva, anche se non quanto adoravamo Pauline, quella carina – ci indicò, esclamando: «Ehi, due gemelle», e proseguí l’elenco dei nomi prima che avessimo modo di correggere l’errore.
Quanto a noi, dovevamo già aver notato il cappello dell’altra e approvato la proprietaria. Se no una delle due (o forse anche l’altra) si sarebbe sfilata di dosso l’articolo appena comprato, pronta a farlo sparire sotto la branda, dichiarando che sua madre l’aveva obbligata a metterlo, ma che lei lo detestava e via dicendo.
Dovevo aver approvato Charlene da subito, ma non sapevo proprio come sarei riuscita a fare amicizia con lei. A nove, dieci anni, perché era quella l’età media del gruppo, anche se c’era qualche elemento di poco maggiore, le bambine non sono piú in grado di accoppiarsi e stringere amicizie con la disinvoltura dei sei, sette anni. Mi limitai a seguire le altre del mio paese (nessuna delle quali era propriamente mia amica) verso uno degli chalet dove rimanevano alcune brande disponibili, e ad ammassare le mie cose sulla coperta marrone. Poi sentii una voce alle mie spalle che diceva: – Per cortesia, posso mettermi vicino alla mia gemella?
Era Charlene, che parlava con una sconosciuta. Lo chalet dormitorio poteva ospitare una ventina di ragazze. Quella alla quale si era rivolta disse: – Ma certo, – e si spostò.
Charlene aveva utilizzato un tono di voce particolare. Scherzoso, accattivante, autoironico, carico di un’allegria seducente, come il trillo di una campanella. Fu subito chiaro che aveva piú fiducia in se stessa di me. Non solo confidava che l’altra bambina si sarebbe spostata, anziché rispondere scorbutica «Sono arrivata prima io» (o, nel caso di un soggetto poco educato – e ce n’erano: bambine la cui retta era a carico del Lions Club o della parrocchia, anziché dei genitori –, dirle magari: «Gira al largo, Tumistufi, io di qua non mi muovo»). No. Charlene confidava anche che chiunque avrebbe proprio voluto, non solo acconsentito a fare come chiedeva. In fondo aveva rischiato anche con me, visto che avrei potuto stroncarla con un «A me non va di essere la tua gemella», e continuare a mettere in ordine le mie cose. Ma naturalmente non lo feci. Mi sentii lusingata, come aveva previsto, e la guardai rovesciare il contenuto della sua valigia con tale entusiasmo da far ruzzolare qualcosa per terra.
A me non venne in mente altro da dire, se non: – Sei già abbronzata.
– Mi abbronzo facilmente, – disse lei.
Ecco la prima differenza tra noi. Ci dedicammo a studiarle con metodo. Lei si abbronzava, io mi coprivo di efelidi. Eravamo entrambe castane, ma lei castana piú scura. I suoi capelli erano ondulati, i miei crespi. Io ero piú alta di un paio di centimetri, lei aveva polsi e caviglie piú spessi. I suoi occhi davano piú sul verde, i miei sull’azzurro. Non ci stancavamo mai di ispezionarci e catalogare perfino i nei o le macchie piú significative che avevamo sulla schiena, o la lunghezza del secondo dito dei piedi (il mio, piú lungo dell’alluce, il suo, piú corto). O di ripassare le varie malattie e gli incidenti che ci erano capitati fino a quel momento, come pure le rispettive riparazioni o rimozioni subite dai nostri corpi. Le tonsille le avevamo tolte tutte e due – precauzione consueta, al tempo – ed entrambe avevamo fatto morbillo e pertosse, ma non gli orecchioni. A me avevano estratto un canino superiore perché mi cresceva accavallato all’altro, e lei aveva una mezzaluna imperfetta sull’unghia del pollice, perché si era schiacciata il dito dentro una finestra.
E una volta passate in rassegna le peculiarità e la filogenesi dei nostri corpi, procedemmo con le vicende – le avventure o para-avventure, le specialità – delle nostre famiglie. Lei era la piccola di casa e l’unica femmina, mentre io ero figlia unica. Io avevo una zia che era morta di polio al liceo, e lei – Charlene – aveva un fratello maggiore in Marina. Già, perché si era in tempo di guerra e la sera, intorno al fuoco, si cantava scegliendo tra There’ll Always Be an England, e Heart of Oak, o Rule Britannia, e qualche volta The Maple Leaf Forever. Battaglie, incursioni aeree e affondamenti navali erano all’ordine del giorno, benché lontani, come sullo sfondo delle nostre esistenze. E di quando in quando l’attacco si verificava nei paraggi, tanto spaventoso quanto solenne ed emozionante, come quando veniva ucciso un giovane che abitava in paese, se non addirittura nella nostra via, e la sua vecchia casa, senza bisogno di corone a lutto né drappi speciali, sembrava comunque assumere un peso particolare e risultare oppressa dall’ineluttabilità del destino. Benché non ci fosse nulla di speciale a segnalarla, tranne forse una macchina sconosciuta parcheggiata sul bordo del marciapiede, a indicare l’arrivo dei parenti, o di un pastore, venuti a far visita ai famigliari affranti.
Una delle assistenti del campo aveva perso il fidanzato in guerra e portava il suo orologio – o quello che noi pensavamo fosse il suo orologio – appuntato sulla camicetta. Avremmo voluto provare interessamento per lei, partecipare al suo dolore, ma era purtroppo un tipo autoritario, con la voce stridula e perfino un nome sgradevole. Arva.
L’altro fondale costante delle nostre vite, in teoria di grande rilevanza al campo, era la religione. Ma poiché l’istituzione di riferimento era ufficialmente la Chiesa Unita del Canada, non si insisteva sul punto quanto sarebbe successo con battisti o metodisti, né con la stessa solennità che avrebbero ritenuto auspicabile cattolici e perfino anglicani. La maggior parte di noi aveva genitori che facevano capo alla Chiesa Unita (anche se alcune delle ragazze ospitate gratuitamente potevano non appartenere a nessuna chiesa), perciò, abituate a quello stile laico e cordiale, non ci rendevamo nemmeno conto della fortuna di potercela cavare con qualche preghiera alla sera, l’inno di ringraziamento intonato ai pasti, e una mezz’ora di conversazione particolare – che andava sotto il nome di Chiacchierata – dopo colazione. Perfino quest’ultima era relativamente al riparo da rimandi a Dio e Gesú Cristo e si concentrava di piú sull’onestà, la soave benevolenza, la purezza d’animo nella nostra vita di tutti i giorni, o sul proposito di non bere mai né fumare da grandi. Nessuno protestava per questo genere di pratiche né cercava di evitarle, perché eravamo cresciute cosí e perché era divertente stare sedute in spiaggia sotto il sole tiepido, ancora un po’ troppo infreddolite per aver voglia di correre a tuffarci in acqua.
Anche le donne adulte si comportano come facemmo Charlene e io. Non si conteranno i nei sulla schiena e non confronteranno le dita dei piedi, magari. Ma quando si conoscono e provano una particolare simpatia reciproca, sentono il bisogno di comunicarsi i dati importanti e gli eventi cruciali sia pubblici sia segreti, per poi procedere a completare ogni residuo vuoto di informazione. Se sono in preda a un simile ardore impetuoso è praticamente impossibile che si vengano a noia. Rideranno della irrilevanza stessa e dell’idiozia di quanto si vanno raccontando, come pure alla rivelazione di casi di sconcertante egoismo, doppiezza, meschinità o pura e semplice cattiveria.
Occorre grande fiducia reciproca, naturalmente, ma tale fiducia può nascere subito, all’istante. È un fenomeno che ho osservato. Si presume risalga alle lunghe ore trascorse intorno a un fuoco da campo a rimestare pastone di manioca o quello che era, mentre gli uomini battevano la boscaglia senza poter conversare, perché il suono delle loro voci avrebbe messo in fuga gli animali. (Sono antropologa per formazione, anche se non particolarmente appassionata). Ho osservato questo genere di scambi tra donne, ma senza parteciparvi. Non fino in fondo, insomma. Qualche volta ho finto, perché mi sembrava richiesto, ma la persona con cui in teoria avrei dovuto stringere amicizia sventava sempre l’inganno e si faceva dubbiosa e prudente.
Di norma, ho agito con minore circospezione con gli uomini. Perché non si aspettano scambi di questo genere, ai quali peraltro di rado sono interessati.
L’intimità di cui parlo – tra donne – non è erotica, né pre-erotica. Ho sperimentato pure quella, prima della pubertà. Anche in quei casi si procedeva per confidenze e probabili bugie che conducevano a volte al gioco amoroso. Un’accesa eccitazione temporanea, con o senza toccamenti intimi. Seguita da rancori, rifiuto, avversioni.
Charlene mi raccontò di suo fratello, ma con sincera repulsione. Si trattava del fratello arruolato in Marina. Lei era entrata nella sua stanza a cercare il gatto e lui era lí che lo stava facendo con la sua ragazza. Non avevano mai saputo che li aveva visti.
Mi disse che mentre lui andava su e giú faceva rumore.
Vuoi dire che sbatteva sul letto, domandai.
No, disse lei. Era il suo coso che faceva quel risucchio mentre entrava e usciva. Che schifo. Da vomitare.
E aveva il sedere bianco pieno di pustole. Da vomitare.
Io le raccontai di Verna.
Fino a quando compii sette anni, i miei avevano abitato in una cosiddetta bifamiliare. Il termine «duplex» forse non era ancora entrato nell’uso, e comunque la casa non era suddivisa in parti uguali. La nonna di Verna affittava le stanze sul retro, e noi quelle anteriori. L’edificio era alto, brutto e disadorno, dipinto di giallo. Il paese in cui abitavamo era troppo piccolo per registrare differenze residenziali significative, ma a volerne trovare, direi che quella casa stava giusto al confine tra il decoroso e l’alquanto fatiscente. Mi riferisco a come stavano le cose poco prima della seconda guerra mondiale, verso la fine della Depressione. (Parola che, secondo me, ci era ignota).
Essendo insegnante, mio padre aveva un impiego fisso ma pochi soldi. La via si assottigliava, perdendosi tra le case di chi non aveva invece né l’uno né gli altri. La nonna di Verna doveva disporre di qualche risparmio, perché parlava con sdegno di chi viveva di sussidi statali. Credo che mia madre discutesse con lei, inutilmente, dicendole che Non Era Colpa Loro. Le due donne non si stavano molto simpatiche, ma avevano intese cordiali riguardo all’uso dei fili per stendere.
La nonna si chiamava Mrs Home. Di quando in quando, veniva un tale a trovarla. Mia madre parlava di lui come dell’amico di Mrs Home.
Non voglio vederti parlare con l’amico di Mrs Home.
Ma se non mi lasciava nemmeno uscire a giocare quando arrivava lui, quante occasioni potevo avere per rivolgergli la parola? Non me lo ricordo neanche, fisicamente, però ricordo la sua automobile, che era blu scura, una Ford, modello V8. Mi interessavo parecchio alle macchine, probabilmente perché noi non l’avevamo.
Poi arrivò Verna.
Mrs Home ne parlava come di sua nipote e non c’è ragione di pensare che non fosse vero, ma non si fece mai il minimo riferimento alla generazione intermedia. Non so se Mrs Home andò via e poi tornò insieme a Verna, o se la bambina le fu recapitata a casa dall’amico con la V8. Fece la sua comparsa l’estate prima che io cominciassi la scuola. Non ricordo che mi abbia detto come si chiamava: non era estroversa nel senso comune del termine, e io non credo che glielo avrei chiesto. Sin dal primo momento provai per lei un’avversione che non somigliava ai sentimenti suscitati in me da nessun altro, allora. Dissi che la odiavo, e mia madre mi chiese, Ma perché, che cosa può averti mai fatto?
Poverina.
I bambini attribuiscono al verbo «odiare» significati diversi. Può voler dire che hanno paura. Non che si sentano in pericolo di un’eventuale aggressione – come mi succedeva, ad esempio, con certi bambini grandi e grossi che, in bicicletta, si divertivano a tagliarmi la strada strillando come indemoniati, mentre passeggiavo sul marciapiede. Non è una minaccia fisica che si teme – o che io temevo nel caso di Verna – quanto piuttosto un sortilegio, una malevolenza. È una sensazione che, da molto piccoli, si può provare anche riguardo alle facciate di certi edifici, o a dei tronchi d’albero e, spessissimo, a cantine umide o armadi a muro profondi.
Verna era ben piú alta di me e non so quanto piú grande – due anni, tre? Era pelle e ossa, anzi talmente sottile e con la testa cosí piccina da ricordarmi una serpe. I capelli neri e finissimi le stavano piatti sul capo, piovendole sulla fronte. Di carnagione mi sembrava smorta, come il lembo di tela della nostra vecchia tenda, e le sue gote si dilatavano proprio come faceva la tenda gonfiata dal vento.
Guardava sempre strizzando gli occhi.
Credo tuttavia che non ci fosse nulla di particolarmente sgradevole nel suo aspetto fisico, per come la vedevano gli altri. Anzi, mia madre la definiva carina, o quasi (in frasi tipo, peccato però, potrebbe perfino essere carina). E, sempre stando a mia madre, non c’era niente che non andasse neanche nel suo comportamento. È un po’ piccola per gli anni che ha. Un modo impreciso e tortuoso per dire che Verna non sapeva leggere né scrivere né giocare a palla e che, dalla sua voce rauca e non modulata, uscivano parole alla rinfusa, come grumi di discorso che le fossero rimasti impigliati in gola. Il suo modo di intromettersi nei miei giochi solitari, rovinandoli, era quello di una bambina piú grande, non piú piccola. Ma di una piú grande senza alcun titolo né attitudine, nulla, a parte una instancabile determinazione e l’incapacità di comprendere che non era desiderata.
I bambini, si sa, sono mostruosamente convenzionali, subito pronti a respingere ciò che è sbilenco, mal funzionante, ingestibile. Io poi, essendo figlia unica, ero stata parecchio viziata (oltre che rimproverata). Ero goffa, precoce, timida, dominata dai miei rituali segreti e dalle mie avversioni. Odiavo perfino il fermaglio di plastica che scivolava continuamente dai capelli di Verna, e le mentine a strisce rosse o verdi che si ostinava a offrirmi. In realtà non si limitava a offrirmele, cercava di acchiapparmi e di infilarmi in bocca una di quelle caramelle, senza mai smettere di sghignazzare nel suo modo sconnesso. Ancora oggi detesto il sapore della menta piperita. E il nome Verna, detesto pure quello. Non mi ricorda affatto la primavera, né l’erba verde o ghirlande di fiori o bambine vestite di tulle. Mi fa pensare piuttosto a una scia di bava verde e collosa al gusto di menta piperita.
Ero convinta che neanche a mia madre Verna piacesse davvero. Ma a causa di una certa ipocrisia caratteriale, a mio giudizio, per presa di posizione, quasi per farmi dispetto, fingeva di provare compassione per lei. Mi diceva di essere gentile. Da principio, diceva che Verna non si sarebbe trattenuta a lungo perché, a vacanze estive concluse, sarebbe tornata dove stava prima. Poi, quando fu chiaro che non c’era nessun posto al quale Verna dovesse fare ritorno, il messaggio rassicurante divenne che presto ci saremmo trasferiti noi. Bastava che fossi gentile ancora per un po’. (La verità è che sarebbe passato un altro anno, prima del nostro trasloco). Alla fine, quando perse la pazienza, mi disse che le avevo dato una delusione e che non avrebbe mai immaginato che fossi di indole tanto cattiva.
– Come fai a prendertela con qualcuno perché è nato cosí? Non è certo colpa sua, no? Non mi capacitavo. Se solo fossi stata piú abile ad argomentare, le avrei detto che non ce l’avevo con Verna; semplicemente, non volevo che mi stesse attorno. Ma la verità è che ce l’avevo con lei, eccome. Ero certa che in qualche modo fosse proprio colpa sua. In questo senso, nonostante tutto quello che poteva dire mia madre, interpretavo almeno in parte il tacito verdetto del tempo e del luogo in cui ero cresciuta. Perfino gli adulti abbozzavano sorrisi particolari; c’era un irreprimibile compiacimento, uno scontato senso di superiorità che ai miei occhi risultava palese, nel modo in cui si parlava delle persone «semplici», quelle «un po’ dure di comprendonio». E a mio parere, sotto sotto la pensava cosí anche mia madre.
Cominciai la scuola. La cominciò anche Verna. Fu sistemata in una classe differenziale, dentro uno speciale edificio su un angolo del cortile. In realtà quella era stata la prima scuola del paese, ma allora nessuno aveva tempo da perdere con la storia locale, e qualche anno dopo, si decise di demolire la costruzione. In cortile c’era una zona cintata nella quale i bambini ospitati nella scuola trascorrevano la ricreazione. Entravano in classe mezz’ora dopo di noi, la mattina, e uscivano mezz’ora prima, il pomeriggio. In teoria, nessuno avrebbe dovuto tormentarli nell’intervallo, ma dato che stavano sempre appesi alla staccionata a guardare cosa succedeva nel cortile della scuola normale, capitavano dei tumulti improvvisi, a base di urla e bastoni branditi per spaventarli. Io non mi avvicinavo mai a quell’angolo, vedevo Verna molto di rado. Era a casa che mi toccava comunque fare i conti con la sua presenza.
In principio, se ne stava in piedi all’angolo della casa gialla, a fissarmi, e io facevo finta di non sapere che c’era. Poi si spostava nel cortile antistante l’edificio e si piazzava sui gradini d’ingresso della metà di casa dove abitavo io. Se volevo entrare per andare in bagno o perché avevo freddo, ero costretta a passarle talmente vicino da sfiorarla o da correre il rischio che fosse lei a toccarmi. Era capace di rimanere ferma in un posto piú a lungo di qualsiasi persona avessi mai conosciuto; ferma a fissare la stessa cosa. Di solito, me.
Avevo un’altalena appesa a un acero, e potevo scegliere se sedermi faccia alla casa o faccia alla strada. In altre parole, potevo rivolgermi verso di lei o sapere che lei era lí, a fissarmi la schiena, e che poteva avvicinarsi per darmi una spinta. Dopo un poco, in effetti, si decideva a farlo. Mi spingeva sempre sbilenca, ma il peggio non era quello. Il peggio era sentire le sue dita premute contro la schiena. Le sentivo attraverso il cappotto e tutti gli altri vestiti, come tanti grugni gelati. Un’altra delle mie attività era costruirmi una casa di foglie. Le rastrellavo e le portavo a bracciate da sotto l’acero che reggeva l’altalena, poi le scaricavo, disponendole secondo un progetto di casa. Di qua il soggiorno, di là la cucina, qui un gran mucchio soffice per fare il letto, e cosí via. Non l’avevo inventato io quel gioco: case di foglie ben piú spaziose e perfino in un certo senso arredate, venivano allestite dalle bambine nel cortile della scuola ogni giorno, durante la ricreazione, finché la bidella non si decideva a rastrellare tutto il fogliame e a dargli fuoco.
Dapprima Verna si limitò a osservare quel che facevo, guardandomi di traverso con un’espressione che mi pareva di sbigottita superiorità (come osava ritenersi superiore?) Ma poi venne la volta in cui si avvicinò e prese una bracciata di foglie che le cadevano da tutte le parti, perché era goffa nei movimenti, indecisa. Oltretutto, le foglie non erano del mucchio di quelle avanzate, bensí proprio quelle del muro della casa. Verna le raccolse, le trasportò poco piú in là e le lasciò cadere – rovesciandole – nel bel mezzo di una delle mie linde stanze.
Le urlai di smetterla, ma lei si chinò a riprendere il suo carico disperso e, non riuscendo a tenerlo insieme, lo sparpagliò ovunque, dopodiché, quando ebbe tutte le foglie per terra, si mise a prenderle a calci qua e là senza motivo. Io continuavo a gridarle di smetterla, ma non serviva a niente, anzi sembrava che scambiasse le mie urla per incoraggiamento. A quel punto, le corsi incontro a testa bassa e la incornai nella pancia. Ero a capo scoperto, perciò con i capelli entrai in contatto con il cappotto o la giacca di lana che aveva addosso ed ebbi la sensazione di aver proprio sfiorato le setole di un ributtante pancione duro. Corsi su per le scale strepitando la mia protesta e, quando mia madre sentí la storia, mi fece infuriare ancora di piú dicendo: – Vuole solo giocare. Non è capace a giocare. L’autunno successivo abitavamo già in una villetta nuova e non dovevo piú passare davanti alla casa gialla che mi ricordava moltissimo Verna, come se avesse direttamente assorbito la sua ottusa malizia, il suo cipiglio ostile. Il giallo stesso dell’intonaco sembrava contenere il senso di un’offesa, mentre la porta d’ingresso, essendo scentrata, aggiungeva un tocco di deformità.
La villetta era a tre soli isolati da quella casa, vicino alla scuola. Ma avevo ancora un’idea riguardo alle dimensioni e alla struttura del paese che mi permetteva di sentirmi completamente al riparo da Verna. Mi resi conto che le cose non stavano cosí, o almeno non del tutto, il giorno in cui, con una compagna di scuola, mi imbattei faccia a faccia con lei, sulla via centrale. Una delle nostre madri doveva averci mandate a fare una commissione. Io non alzai neanche gli occhi, ma credetti di aver sentito un verso di saluto o di riconoscimento, mentre passavamo.
L’altra bambina mi disse una cosa terrificante.
Disse: – Una volta pensavo che fosse tua sorella.
– Cosa?
– Be’, sapevo che stavate nella stessa casa, perciò pensavo che foste parenti. Tipo cugine, almeno. Invece no? Non siete cugine?
– No.
Il vecchio edificio che ospitava le Classi differenziali era in attesa di demolizione, e gli allievi vennero trasferiti nella sede della Bible Chapel, che il Comune affittava nei giorni feriali. Il caso volle che la Bible Chapel si trovasse proprio di fronte al villino dove allora abitavamo mio padre, mia madre e io. Per andare a scuola Verna poteva percorrere due tragitti a piedi, ma sceglieva sempre quello che passava davanti a casa nostra. Ora, dato che la casa stava a pochissima distanza dal marciapiede, questo significava che l’ombra di Verna poteva quasi lambire i gradini del nostro ingresso. Volendo, avrebbe potuto prendere a calci i ciottoli e spedirli sul nostro prato e, a meno che tenessimo le tapparelle abbassate, poteva sbirciare dentro l’entrata e il soggiorno.
L’orario delle Classi differenziali ormai coincideva con quello regolare, almeno al mattino – gli
Speciali continuavano a rincasare prima di pomeriggio. Visto che ormai erano anche loro alla Bible Chapel, probabilmente si era pensato non fosse piú necessario tenerli separati da noi durante il tragitto a scuola. Il che voleva dire che adesso poteva capitarmi di incontrare Verna sul marciapiede.
Controllavo sempre dalla parte da cui poteva arrivare e, se la vedevo, mi ricacciavo dentro con la scusa che avevo dimenticato qualcosa, o che una scarpa mi sfregava contro il tallone e dovevo mettermi un cerotto, o che non mi stava a posto un nastro dei capelli. Non sarei mai stata tanto ingenua da fare il nome di Verna, per sentire mia madre che diceva: «E qual è il problema? Di cosa hai paura, che ti mangi?»
Già, qual era il problema? Che fosse contagiosa, infettiva? Verna era in realtà abbastanza sana e pulita. E risultava assai poco probabile che avesse intenzione di aggredirmi, prendermi a pugni o tirarmi i capelli. In compenso, soltanto un adulto poteva essere tanto stupido da credere che non fosse potente. E decisa, per di piú, a utilizzare il proprio potere in particolare su di me. Ero io la persona che aveva preso di mira. O cosí credevo. Come se tra noi due ci fosse un’intesa tanto indefinibile quanto indissolubile. Un attaccamento, analogo all’amore, anche se dalla mia prospettiva somigliava in tutto e per tutto all’odio.
Probabilmente la odiavo come certi odiano i serpenti, i vermi, le lumache, i topi. Per nessuna ragione valida. Non perché potesse farmi del male, ma per il modo in cui riusciva a turbarmi le viscere e a farmi provare ribrezzo per la mia vita.
Quando dissi di lei a Charlene ormai ci eravamo addentrate nei recessi remoti dei nostri discorsi; discorsi che parevano interrompersi solo quando facevamo il bagno o andavamo a dormire. Verna non era certo un regalo altrettanto consistente e osceno quanto l’immagine del sedere pustoloso e stantuffante del fratello di Charlene, e ricordo che la definii mostruosa in un modo che non si poteva descrivere. Poi però descrissi sia lei, sia le mie sensazioni sul suo conto, e dovetti fare un lavoretto discreto perché un giorno, verso la fine delle nostre due settimane di villeggiatura al campo, Charlene entrò di corsa in refettorio a mezzogiorno, con la faccia accesa di orrore misto a uno strano piacere.
– È qui. È qui. Quella bambina. Il mostro. Verna. Ti dico che è qui.
Avevamo finito di pranzare. Stavamo rigovernando, accatastando piatti e boccali sul ripiano in cucina, a portata di mano delle ragazze di turno al lavaggio quel giorno. Subito dopo ci mettevamo in fila per andare allo Spaccio, che apriva all’una. Charlene era solo tornata un momento in camerata a prendere dei soldi. Essendo ricca, con un padre impresario di pompe funebri, Charlene non badava a certe cose, e teneva i soldi nella federa del cuscino. Io, i miei, li avevo sempre addosso, tranne quando ero in acqua a fare il bagno. Tutte quelle di noi che, in un modo o nell’altro, potevano permetterselo, dopo pranzo andavano allo Spaccio a prendere qualcosa che ci levasse di bocca il gusto dei dolci che detestavamo ma assaggiavamo comunque, per vedere se facevano proprio schifo come ci aspettavamo. Budino di tapioca, poltiglia di mele cotte, crema gelatinosa. Vedendo l’espressione di Charlene, in un primo tempo pensai che le avessero rubato i soldi. Poi però mi resi conto che per quella disgrazia non avrebbe fatto una faccia cosí, perché il suo stupore era carico di gioia.
Verna? Com’era possibile che fosse lí? Un errore, senz’altro.
Doveva essere venerdí. Altri due giorni al campo, ancora due giorni prima del ritorno. Si venne a sapere che un contingente di Speciali – li chiamavano cosí anche da quelle parti – ci aveva raggiunto per trascorrere insieme a noi il sabato e la domenica. Non erano tante – forse una ventina – e non tutte venivano dal mio paese, ma anche da centri vicini. In effetti, mentre Charlene tentava di comunicarmi la notizia, sentimmo l’assistente Arva dar fiato al fischietto, scattando in piedi su una panca, per impartirci un discorso.
Si disse certa che avremmo fatto del nostro meglio per accogliere le nostre amiche – le nuove campeggiatrici, le quali si erano portate le proprie tende e la propria assistente. Insieme tuttavia avremmo mangiato, fatto il bagno, giocato e partecipato alla Chiacchierata del Mattino. Era inoltre sicura, disse con la consueta nota di severo ammonimento nella voce, che avremmo considerato l’esperienza come un’occasione per fare nuove amicizie.
Ci volle un po’ di tempo per montare il campo delle nuove arrivate e sistemare le loro cose. Alcune sembravano disinteressarsi completamente ai preparativi e tendevano ad allontanarsi, perciò bisognava cacciare un urlo per richiamarle e riportarle indietro. Per noi era l’ora di pausa, o di riposo, perciò andammo allo Spaccio a prenderci le solite tavolette di cioccolata, bastoncini di liquirizia, o caramelle morbide al latte e tornammo a goderceli in santa pace, sdraiate in cuccetta.
Charlene continuava a ripetere: – Ma pensa. Pensa solo. È qui. Non ci posso credere. Secondo te ti ha seguita?
– È probabile, – dissi.
– Credi che riuscirò sempre a nasconderti cosí?
Mentre facevamo la coda davanti allo Spaccio, avevo chinato la testa e avevo chiesto a
Charlene di mettersi tra me e il gregge delle Speciali. Intanto, avevo sbirciato di nascosto e riconosciuto Verna da dietro. Il suo capino ciondolante, da serpe.
– Dobbiamo farci venire in mente un modo per travestirti.
Da quanto le avevo raccontato, Charlene pareva essersi fatta l’idea che Verna mi avesse proprio tormentata. E lo credevo anch’io, solo che si trattava di molestie piú insidiose e segrete di quanto fossi riuscita a descrivere. Io comunque lasciai credere a Charlene quel che voleva, perché era piú emozionante cosí.
Verna non mi individuò subito, primo, per le complicate mosse di aggiramento realizzate da me e Charlene, e secondo, forse, perché doveva essere un po’ frastornata, come la maggior parte delle sue compagne, nel tentativo di mettere a fuoco che ci facesse in quel posto. Poco dopo vennero accompagnate alla lezione di nuoto, in fondo alla spiaggia.
A cena, entrarono in fila marciando, mentre noi cantavamo. Piú insieme noi staremo, piú insieme noi staremo, piú felici in cuor saremo.
Furono separate apposta per essere distribuite in mezzo a noi. Ciascuna aveva la targhetta con su scritto il suo nome. Di fronte a me ce n’era una che si chiamava Mary Ellen qualcosa; non del mio paese. Ma non feci neanche in tempo a rallegrarmene, perché vidi Verna al tavolo vicino, piú alta delle bambine che aveva intorno ma grazie a Dio rivolta nella mia stessa direzione, perciò durante il pasto non mi vide.
Era la piú alta in assoluto, eppure non cosí allampanata, non cosí notevole fisicamente come la ricordavo. Nel corso dell’ultimo anno, io dovevo aver avuto uno scatto di crescita, mentre lei forse si era fermata del tutto.
Dopo cena, quando ci alzammo per sparecchiare, restai a testa bassa, senza mai guardare dalla sua parte e ciononostante seppi d’istinto quando lei mi mise gli occhi addosso, quando mi riconobbe, quando sfoderò il suo mesto sorriso o produsse quello strano verso di gola.
– Ti ha vista, – disse Charlene. – Non guardare. Non guardare. Mi metto in mezzo io. Muoviti. Non ti fermare.
– Viene di qua?
– No. È ferma impalata. Ti sta fissando.
– Sorride?
– Una specie.
– Non posso voltarmi. Mi viene da vomitare.
Quanto mi perseguitò nel restante giorno e mezzo? Charlene e io continuammo a usare quel termine – perseguitare – anche se in realtà Verna non ci si avvicinò neppure. Ci pareva un concetto da grandi, che faceva pensare a un termine legale. Ci mantenemmo sempre all’erta, come se qualcuno stesse dando la caccia a tutte e due, o a me sola. Cercammo di non perdere d’occhio gli spostamenti di Verna, e Charlene mi teneva informata sui suoi atteggiamenti e sulle sue espressioni. Un paio di volte in effetti mi arrischiai a voltarmi a guardarla, perché Charlene mi aveva rassicurata dicendo: – Adesso, sí. Non se ne accorge, adesso.
Quando lo feci, Verna mi parve piuttosto avvilita, stupefatta o imbronciata, quasi che, come la maggior parte delle Speciali, fosse stata mandata allo sbaraglio e non capisse fino in fondo né dove si trovava né perché. Alcune di loro – a dire il vero non lei – avevano causato scompiglio, allontanandosi nel bosco di pioppi, pini e cedri sulla pendice dietro la spiaggia, o lungo la strada sabbiosa che conduceva alla statale. In seguito a ciò, fu indetta una riunione e a tutte noi fu chiesto di dare un’occhiata alle nostre nuove amiche che non conoscevano bene la zona. A quelle parole, Charlene mi rifilò una gomitata tra le costole. Va da sé che lei non poteva aver registrato alcun cambiamento, in Verna, né la sua minore protervia e nemmeno il rimpicciolimento del suo corpo, e continuò a descrivermi le facce astute e cattive che faceva, i suoi sguardi malevoli. E forse aveva ragione – forse Verna riconosceva in Charlene, mia nuova amica o guardia del corpo, una sconosciuta, il segno di quanto lí tutto fosse incerto e diverso, cosa che la metteva di cattivo umore, sebbene io non lo vedessi. – Non mi avevi mai detto di come ha le mani, – disse Charlene.
– Che cos’hanno?
– Ha le dita piú lunghe che abbia mai visto. Se te le attorciglia intorno al collo ti strozza come niente. Dico sul serio. Non sarebbe mostruoso dormire in tenda con lei?
Concordai. Mostruoso.
– Solo che le altre in tenda con lei sono troppo sceme per accorgersene.
Avvenne una trasformazione durante quegli ultimi giorni: calò sul campo un’atmosfera del tutto diversa. Niente di sensazionale. I pasti continuavano a essere annunciati dal gong della sala da pranzo alla solita ora, e il menu non fu né meglio né peggio di sempre. C’era l’ora del riposino, quella dei giochi e quella del bagno. Lo Spaccio non cambiò orari di apertura, e noi fummo regolarmente radunate al momento della Chiacchierata. Eppure si era diffusa un’aria di crescente irrequietezza e distrazione. Lo si percepiva anche tra le assistenti, che parevano aver scordato le immancabili formule di rimprovero e di incoraggiamento e ci guardavano attonite per un istante come se cercassero di farsele tornare in mente. Tutto ciò sembrava aver avuto inizio con l’arrivo delle Speciali. Era stata la loro presenza a trasformare il campo. Prima ne era esistito uno vero, con le sue regole, le sue miserie e i suoi spassi, ineluttabili come la scuola o qualunque altra porzione di vita infantile, ma poi tutto aveva cominciato ad accartocciarsi intorno ai bordi, a manifestare la propria provvisorietà. Come una recita. Sarà stato perché di fronte a quelle bambine speciali ci capitava di pensare che, se anche loro potevano dirsi campeggiatrici, allora la parola campeggiatrice non aveva alcun senso? In parte doveva essere cosí. Ma in parte era il fatto che di lí a poco sarebbe finito tutto, le abitudini sarebbero state interrotte e i nostri genitori sarebbero venuti a prenderci per riconsegnarci alle vite di prima, mentre le nostre assistenti avrebbero ripreso posto tra le file delle persone comuni, nemmeno tra le maestre. Occupavamo un palcoscenico che presto avremmo smantellato insieme a tutte le amicizie, le discordie e le rivalità fiorite nel corso di quelle due settimane. A proposito, non era incredibile che fossero state soltanto due settimane?
Nessuno sapeva come dirlo, ma tra noi si diffuse un’apatia, un malumore annoiato, che perfino il clima prese a rispecchiare. Probabilmente non era vero che avessimo avuto sole caldo e cieli sereni per i quindici giorni precedenti, ma quasi tutte noi ce ne saremmo andate con quella impressione. La domenica mattina, il tempo cambiò. Durante la cosiddetta Preghiera all’Aria Aperta (che sostituiva la Chiacchierata, nel giorno di festa) le nuvole si addensarono. La temperatura non scese – anzi, il caldo aumentò, durante la giornata – ma c’era nell’aria quello che certi chiamano odore di temporale. E un’assoluta immobilità. Le assistenti e perfino il pastore, che arrivava ogni domenica in macchina dal paese vicino, di quando in quando osservavano il cielo con preoccupazione.
Qualche goccia in effetti cadde, ma niente di piú. La funzione si concluse, senza l’arrivo di nessun temporale. Le nuvole si alzarono un poco, non tanto da promettere il sole, ma quanto bastava a non privarci della nostra ultima nuotata. Non avremmo piú pranzato lí; la cucina aveva cessato il servizio dopo colazione. Le ante dello Spaccio sarebbero rimaste chiuse. Poco dopo mezzogiorno, i nostri genitori avrebbero cominciato ad arrivare alla spicciolata per riportarci a casa, mentre per le Speciali sarebbe venuto l’autobus. I bagagli erano perlopiú già pronti, le lenzuola tolte dalle brande e le ruvide coperte marroni eternamente umide stavano ripiegate di traverso al fondo delle cuccette. Anche quando ci cambiammo per metterci il costume, ciarlando come al solito, il dormitorio, seppure affollato, aveva il sapore di una malinconica messinscena.
Lo stesso accadde con la spiaggia. Pareva che ci fossero meno sabbia e piú sassi. E quella poca sabbia, sembrava grigia. L’acqua dava l’idea di essere fredda, pur essendo tiepida, in realtà. In ogni caso, il nostro entusiasmo per il nuoto si era affievolito e ci limitavamo a camminare nell’acqua senza meta. Le assistenti istruttrici – Pauline e la signora di mezza età responsabile delle Speciali – dovettero richiamarci battendo le mani.
– Su, veloci, che vi prende? È l’ultima occasione dell’estate.
Tra noi c’era qualche provetta nuotatrice che di solito partiva di volata in direzione della zattera. E a tutte quelle che nuotavano appena decentemente – comprese Charlene e la sottoscritta – era richiesto di arrivare almeno una volta fino alla boa e ritorno, per dimostrare di saper fare come minimo un paio di metri con la testa sotto. D’abitudine, Pauline si lanciava subito al largo e poi si fermava nell’acqua profonda a tener d’occhio eventuali bagnanti in difficoltà e anche ad assicurarsi che tutte quelle che dovevano nuotare non si tirassero indietro. Quel giorno però, meno bambine del solito parevano decise a rispettare l’obbligo della nuotata e Pauline stessa, dopo qualche stanco richiamo e qualche incoraggiamento – necessario anche solo per farci entrare tutte in acqua –, si limitò a girare intorno alla zattera, ridendo e scherzando con le fedelissime nuotatrici esperte. La gran parte di noi sguazzava ancora a riva, dava qualche bracciata, poi metteva giú i piedi e cominciava a schizzare le altre o a fare il morto, come se praticamente nessuna avesse piú voglia di nuotare. La responsabile delle Speciali stava in piedi con l’acqua appena alla cintura (le bambine del resto se ne stavano perlopiú dove l’acqua arrivava alle ginocchia) e la metà superiore del suo costume da bagno a fiori con gonnellino non era nemmeno bagnata. China in avanti, schizzava gentilmente le sue assistite con le mani, ridendo ed esclamando, È bello, no? Vi divertite?
Charlene e io stavamo dove l’acqua poteva arrivarci piú o meno al petto, non di piú.
Ingrossavamo i ranghi delle bagnanti citrulle, facendo un poco il morto e alternando qualche bracciata a dorso e qualcuna a stile libero, senza nessuno che ci dicesse di piantarla di giocare. Volevamo scoprire per quanto tempo saremmo riuscite a tenere gli occhi aperti sott’acqua, saltavamo fuori e ci montavamo a turno sulla schiena. Intorno a noi, era tutto uno schiamazzare e ridere di altre bambine che facevano altrettanto.
Durante il bagno, qualche genitore o parente arrivato in anticipo informava di non aver tempo da perdere, perciò le villeggianti richiamate venivano fatte uscire dall’acqua. Il che aggiungeva altro vociare e trambusto alla scena.
– Guarda. Guarda, – disse Charlene. Anzi, sbruffò, perché l’avevo spinta sott’acqua ed era appena schizzata fuori annaspando grondante.
Guardai, e vidi Verna procedere nella nostra direzione, con una cuffia di gomma celeste, schiaffeggiando l’acqua con le mani lunghe e sorridendo, come se avesse recuperato all’improvviso ogni diritto sulla mia persona.
Ho perso i contatti con Charlene. Non ricordo neppure come ci salutammo. Se ci salutammo. Ho idea che i nostri rispettivi genitori arrivarono piú o meno alla stessa ora e che noi due montammo in tutta fretta su auto separate, pronte a riconsegnarci – che altro potevamo fare? – alle nostre solite vite. I genitori di Charlene avranno senz’altro avuto una macchina meno rumorosa, inaffidabile e malconcia di quella che avevano i miei, ma quand’anche non fosse stato cosí, non ci sarebbe mai passato per la mente di far conoscere le nostre famiglie. Come tutte le altre, anche noi avevamo furia di andarcene, di lasciarci alle spalle i piccoli putiferi di chi aveva perso qualcosa, di chi aveva o non aveva trovato i propri parenti o era salito sull’autobus.
Anni dopo, per caso, mi capitò di vedere una foto del matrimonio di Charlene. Parliamo di quando ancora le foto di nozze venivano pubblicate sui giornali, non soltanto nei piccoli centri, ma anche nelle grandi città. La vidi su un quotidiano di Toronto che stavo sfogliando, mentre aspettavo un’amica in un caffè di Bloor Street.
Il matrimonio aveva avuto luogo a Guelph. Lo sposo era nato a Toronto e si era laureato a Osgoode Hall. Era abbastanza alto, a meno che non fosse Charlene a essere rimasta piccola di statura. Gli arrivava sí e no alla spalla, nonostante i capelli raccolti in un lustro caschetto cotonato secondo la moda di allora. L’acconciatura le faceva sembrare la faccia schiacciata e scialba, ma ebbi comunque l’impressione che avesse gli occhi molto truccati, alla Cleopatra, e le labbra pallide. Oggi sarebbe grottesco, ma era proprio lo stile in gran voga, ai tempi. L’unico particolare che mi ricordasse la bambina che avevo conosciuto era il piccolo, buffo gonfiore sul mento.
La sposa, diceva l’articolo, si era diplomata al St Hilda’s College di Toronto. Perciò doveva essere stata studentessa al St Hilda, mentre anch’io, nella stessa città, frequentavo lo University College. Magari avevamo passeggiato alla stessa ora sulle stesse strade o sui viottoli del campus. Senza mai incontrarci. Non penso che vedendomi avrebbe deciso di evitarmi per non rivolgermi la parola. Io non l’avrei fatto. Certo mi sarei considerata una studentessa di livello superiore, scoprendo che era iscritta al St Hilda. Le mie amiche e io lo reputavamo un collegio per signorine.
Ormai ero una laureanda in antropologia. Avevo stabilito che non mi sarei mai sposata, senza tuttavia escludere la possibilità di avere degli amanti. Portavo i capelli lunghi e lisci, anticipando con le mie amiche la moda degli hippy. I miei ricordi d’infanzia risultavano di gran lunga piú lontani, sbiaditi e insignificanti di quanto non sembrino ora.
Avrei potuto scrivere a Charlene inviando una lettera ai suoi, dal momento che il giornale riportava il loro indirizzo di Guelph. Ma non lo feci. Mi sarebbe sembrato il colmo dell’ipocrisia congratularmi con una donna perché si era sposata.
Fu lei invece a scrivere a me, una quindicina di anni dopo. Presso la casa editrice.
«Cara Marlene, vecchia amica mia, – scrisse, – che emozione e che gioia leggere il tuo nome sulla “Maclean’s”. E che bella sorpresa scoprire che hai scritto un libro. Non l’ho ancora comprato, perché eravamo in vacanza, ma intendo farlo – e anche leggerlo – al piú presto. Mentre sfogliavo le riviste che si erano accumulate durante la nostra assenza, mi sono imbattuta nella tua splendida foto accanto alla recensione interessante. E mi sono detta, devi scriverle e farle i complimenti.
Forse ti sei sposata, ma firmi le cose che scrivi usando il cognome da signorina? Forse hai figli? Ti prego, rispondi e raccontami tutto di te. Io purtroppo non ho bambini, ma mi tengo impegnata con il volontariato, il giardinaggio e la vela (che pratico insieme a Kit, mio marito). Direi che ho sempre da fare, insomma. Al momento presto servizio nel direttivo della Biblioteca e sta’ pur certa che mi sentiranno, se non hanno ancora ordinato il tuo libro.
Brava davvero. Devo dire che un poco me l’aspettavo, perché ho sempre avuto il sospetto che potessi fare qualcosa di speciale».
Neanche quella volta mi misi in contatto con lei. Mi pareva assurdo. In un primo tempo, non feci caso alla parola «speciale» che concludeva la lettera, ma ripensandoci dopo mi colpí. Pur essendo sicura, allora come oggi, che Charlene non intendesse niente di particolare.
Il libro di cui parlava era il frutto di una tesi di laurea che mi avevano sconsigliato di scrivere. Accolsi il suggerimento e compilai una tesi diversa, ma tornai poi alla precedente trasformandola in una specie di passatempo. Da allora, ho pubblicato articoli su un paio di testi, in ottemperanza ai miei doveri accademici, ma quel libro scritto da sola fu l’unico a procurarmi una folata di notorietà nel mondo reale (e, manco a dirlo, una certa disapprovazione da parte dei colleghi). Attualmente è fuori catalogo. Si intitolava Idoli e idioti: al giorno d’oggi non accetterebbero mai un titolo simile e anche allora, pur dovendo ammettere che era orecchiabile, l’editore fece un po’ di storie.
L’oggetto della mia ricerca era l’atteggiamento di membri di varie culture – che non ci si azzarderebbe mai a definire «primitive» – nei riguardi di creature mentalmente o fisicamente particolari. Da quando, s’intende, termini come «handicappato», «deficiente» o «ritardato» sono stati, senz’altro a buon diritto, archiviati, e non solo perché tendono a segnalare una posizione di superiorità e una inveterata indelicatezza, ma anche perché inefficaci a livello descrittivo. Certe parole infatti trascurano qualità ragguardevoli, per non dire formidabili, o comunque straordinariamente potenti di queste persone. L’aspetto interessante fu scoprire che a comportamenti persecutori si accompagnava anche una certa venerazione, oltre all’attribuzione – non del tutto infondata – di una vasta gamma di poteri, interpretati come magici, sacri, pericolosi o insostituibili. Provai a fare del mio meglio a livello di ricerca storica e contemporanea, senza trascurare poesia, narrativa e, naturalmente, anche i costumi religiosi. Come c’era da aspettarsi, nel mio ambiente mi criticarono per essere stata troppo letteraria e per aver ricavato tutte le informazioni dai libri, ma al tempo non potevo permettermi di girare il mondo, non essendo riuscita a farmi concedere una sovvenzione.
Va da sé che un legame lo vidi, un legame che mi parve plausibile potesse cogliere anche
Charlene. È curioso, tuttavia, che il fatto mi apparisse remoto e ininfluente, poco piú di uno spunto.
Come ogni elemento collegato all’infanzia, dopotutto. E questo perché da allora avevo compiuto un lungo percorso, cioè ero approdata all’età adulta. Alla salvezza.
«Il cognome da signorina», aveva scritto Charlene. Ecco un’espressione che non sentivo da un pezzo. Andava a braccetto con «ragazza da marito»: altrettanto casta, altrettanto triste. E straordinariamente inadeguata, nel mio caso. Non ero vergine nemmeno al tempo in cui avevo guardato la foto di nozze di Charlene, e d’altra parte suppongo valesse lo stesso anche per lei. Non che abbia avuto una pletora di amanti – sarei perfino cauta nel definire tali molti di loro. Come quasi tutte le donne della mia età che non hanno avuto esperienza di un matrimonio monogamico, ricordo il numero esatto. Sedici. Sono sicura che tante donne piú giovani di me avranno raggiunto quella quota entro i trenta, se non i vent’anni. (Quando ricevetti la lettera di Charlene, naturalmente, il totale era piú basso. Al momento, dico la verità, non ho voglia di mettermi a fare i conti). Tre sono stati importanti e tutti e tre risalgono cronologicamente alla prima mezza dozzina. Per importanti voglio dire che con quei tre – anzi, no, solo due, perché il terzo era una cosa seria per me, ma assai meno per lui –, con quei due, allora, sarebbe arrivato un momento in cui avremmo voluto aprirci del tutto, abbandonare nelle mani dell’altro ben piú del corpo soltanto, buttare la vita intera in una cesta sola, insieme a quella di lui, senza paura.
Mi trattenni dal farlo, ma a stento.
Perciò, a quanto pare, non ero poi tanto convinta di averla raggiunta sul serio, la salvezza. Non molto tempo fa ho ricevuto un’altra lettera. Mi venne inoltrata dal college nel quale lavoravo prima di andare in pensione. La trovai ad attendermi al ritorno da un viaggio in Patagonia.
(Sono diventata una viaggiatrice indefessa). Risaliva a un mese prima.
La lettera era battuta a macchina e l’autore se ne scusava subito.
«La mia grafia è penosa», scriveva, presentandosi come il marito «della sua amichetta d’infanzia Charlene». Poi si diceva rincresciuto, rincresciutissimo, di dovermi dare una brutta notizia. Charlene era ricoverata al Princess Margaret Hospital di Toronto. Il suo tumore ai polmoni si era esteso al fegato. Purtroppo aveva fumato per tutta la vita. Non le restava piú molto da vivere. Non aveva fatto il mio nome tanto spesso, ma ogni volta nel corso degli anni, era sempre stato con gioia per i miei ragguardevoli successi. Sapeva quanto mi avesse a cuore e, ora che si avvicinava alla fine, pareva desiderasse tanto rivedermi. Gli aveva chiesto di rintracciarmi. Forse ormai i ricordi d’infanzia erano la cosa piú importante, disse. Gli affetti di quando si è bambini. Piú forti di tutti gli altri.
Be’, pensai, a quest’ora probabilmente sarà morta.
Ma in tal caso – ecco come ragionai in proposito –, in tal caso non avrei corso alcun rischio andando all’ospedale a chiedere informazioni. E cosí la mia coscienza, o comunque la si voglia chiamare, sarebbe stata pulita. Potevo scrivergli un biglietto spiegando che, purtroppo, ero stata via, ma che ero tornata il prima possibile.
No. Meglio non un biglietto. E se poi quello si presentava nella mia vita, per ringraziarmi? Era stata la parola «amichetta» a mettermi a disagio. E, per altre ragioni, anche l’espressione «ragguardevoli successi».
Il Princess Margaret Hospital sorge a pochi isolati dal mio condominio. Una bella mattina di primavera mi ci avviai a piedi. Non so perché non mi limitai a telefonare. Forse volevo potermi dire di aver fatto tutto il possibile.
All’accettazione, scoprii che Charlene era ancora viva. Come rispondere di no, quando mi chiesero se desiderassi vederla?
Salii in ascensore, continuando a pensare che forse sarei riuscita ad andarmene prima di raggiungere il banco delle infermiere di reparto. O a girare semplicemente sui tacchi e prendere l’ascensore che scendeva. L’impiegata dell’accettazione non si sarebbe mai accorta che uscivo. A dire il vero, non l’avrebbe notato nemmeno l’attimo in cui la sua attenzione si fosse rivolta alla persona successiva in coda; senza contare che, se anche ci avesse fatto caso, che importanza avrebbe avuto?
Immagino che mi sarei vergognata. Non tanto per la mia scarsa compassione, quanto per la mancanza di forza d’animo.
Mi fermai al banco e le infermiere mi dissero il numero della stanza.
Era una singola, piuttosto piccola, sgombra della consueta baraonda di fiori e palloncini. In un primo momento non riuscii a vedere Charlene. C’era un’infermiera china sul suo letto, e questo dava l’impressione di ospitare solo un mucchio di coperte, e nessun paziente. Il fegato ingrossato, pensai, e rimpiansi di non essere scappata quando ero ancora in tempo.
L’infermiera si tirò su e, voltandosi, mi sorrise. Era una nera grassoccia dalla voce calda e suadente, forse originaria delle Indie Occidentali.
– Allora è lei Marlene, il marlin, – disse.
Qualcosa di quella parola a quanto pare la divertiva. – Ci teneva cosí tanto che lei venisse. Si può avvicinare.
Obbedii e calai lo sguardo su quel corpo rigonfio e una faccia spigolosa e distrutta, il cui collo da uccellino navigava dentro la camicia da notte dell’ospedale. Sullo scalpo un ciuffo di capelli crespi – ancora castani – lunghi piú o meno un centimetro. Di Charlene, nessuna traccia.
Non era la prima volta che vedevo da vicino un moribondo. Mia madre, mio padre, perfino l’uomo che avevo avuto paura di amare. Non ero sorpresa.
– Adesso dorme, – disse l’infermiera. – Sperava tanto che lei venisse.
– Non è incosciente?
– No. Ma dorme.
Sí, ecco, ora riconoscevo qualcosa di Charlene. Che cos’era? Un fremito, forse, quel modo sicuro e malizioso di mordersi l’angolo del labbro.
L’infermiera intanto mi parlava nel suo tono suadente e allegro. – Non so se la riconoscerebbe, – diceva. – Ma sperava proprio che venisse. C’è una cosa per lei.
– Crede che si svegli?
Si strinse nelle spalle. – Dobbiamo fare iniezioni continue per il dolore.
Stava aprendo il tavolino da notte.
– Ecco. Eccolo. Mi ha detto di darglielo se fosse stato troppo tardi per lei. Non voleva che fosse suo marito a farlo. Sarebbe contenta di sapere che lei è qui.
Era una busta sigillata, con il mio nome scritto in uno stampatello maiuscolo un po’ incerto. – Non suo marito, – ripeté l’infermiera, illuminandosi in un largo sorriso. Che subodorasse qualcosa di illecito, un segreto tra donne, un vecchio amore? – Torni domani, – disse. – Chissà! Se è possibile, glielo dirò.
Lessi il biglietto appena arrivai sotto, nell’atrio. Charlene era riuscita a scriverlo quasi normalmente, a differenza delle lettere sconclusionate e storte sulla busta. Certo, magari prima aveva scritto il testo e l’aveva ritirato nella busta, pensando di consegnarmelo di persona. E solo piú tardi era stata costretta a metterci sopra il mio nome.
Marlene. Ti scrivo, nel caso fossi ormai troppo in là per parlare. Ti prego fa’ quel che ti chiedo. Devi andare a Guelph, in cattedrale, e domandare di padre Hofstrader. Nostra Signora del Perpetuo Ausilio, è la cattedrale. Ma è talmente grande che il nome non ti serve. Lui sa già cosa fare. Questa è una cosa che non posso chiedere a C. e non voglio che venga mai a saperla. Padre H. sa tutto e, quando gliel’ho chiesto, mi ha detto che mi poteva aiutare. Ti scongiuro Marlene, Dio ti benedica. Su di te, niente. C. deve essere il marito. Non sa nulla. È naturale.
Padre Hofstrader.
Su di me, niente.
Ero libera di accartocciare tutto e gettare via appena fuori, per strada. E cosí feci, buttai via la busta e lasciai che il vento la spazzasse in un tombino su University Avenue. Poi mi resi conto che il biglietto non era nella busta; ce l’avevo ancora in tasca.
All’ospedale non sarei tornata. E nemmeno sarei andata a Guelph.
Kit non era il nome del marito. Adesso ricordavo. Andavano in barca a vela. Christopher. Kit.
Christopher. C.
Tornata a casa mi sorpresi a schiacciare il tasto dell’ascensore per scendere in garage, anziché per salire al mio appartamento. E senza neanche cambiarmi, presi la macchina e mi avviai verso la Gardiner Expressway.
Gardiner Expressway, Statale 427, Statale 401. Era l’ora di punta, la peggiore per uscire dalla città. Detesto guidare in queste condizioni; lo faccio troppo poco, per sentirmi sicura. Mi restava meno di metà serbatoio di benzina e, soprattutto, dovevo andare in bagno. Nei pressi di Milton, pensai, potevo uscire e fermarmi a fare il pieno, andare alla toilette e riconsiderare il da farsi. Per il momento non avevo scelta, dovevo andare avanti, prima verso nord, poi verso ovest.
Non uscii dall’autostrada. Superai l’uscita per Mississauga, e quella per Milton. Vidi un cartello che mi informava su quanti chilometri mancavano a Guelph; li tradussi mentalmente grossomodo in miglia, come devo fare ogni volta, e calcolai che la benzina sarebbe bastata. La scusa che mi diedi per non fermarmi fu che il sole calando mi avrebbe dato dei fastidi, ora che uscivo dalla foschia che avvolge la metropoli anche nelle giornate piú limpide.
Alla prima stazione dopo l’uscita di Guelph, scesi e raggiunsi il bagno delle signore con le gambe anchilosate e tremanti. Poi feci il pieno e, pagando, chiesi indicazioni per la cattedrale. Ne ricevetti di non molto precise, ma mi si disse che la chiesa stava in cima a un grosso colle e che ci sarei potuta arrivare da qualunque punto del centro cittadino.
Non era vero, ovviamente, benché la vedessi da quasi ovunque. Un grappolo di guglie leggere svettanti da quattro belle torri. Un edificio splendido, non solo imponente come mi ero aspettata. Ma aveva anche del grandioso, s’intende: una cattedrale maestosa per una cittadina relativamente piccola (anche se in seguito qualcuno mi spiegò che in realtà non era una cattedrale).
Che fosse la chiesa dove si era sposata Charlene?
No. Impossibile. L’avevo conosciuta in un campeggio estivo della Chiesa Unita, non frequentato da bambine cattoliche, a dispetto della varietà di confessioni protestanti presenti. E poi c’era la faccenda di C. che non sapeva nulla.
Magari si era convertita di nascosto. Nel frattempo.
A furia di fare, trovai la strada fino al parcheggio della cattedrale e restai seduta in macchina a riflettere sulla mia prossima mossa. Indossavo pantaloni sportivi e una giacca. Avevo un’idea talmente anacronistica delle regole di abbigliamento imposte in una chiesa cattolica – anzi, in una cattedrale cattolica – da non essere neppure certa di poter essere accolta vestita com’ero. Cercai di ricordarmi visite fatte in grandi chiese europee. C’era qualcosa riguardo alle braccia nude, giusto? Il capo andava coperto, ci voleva la gonna?
Che silenzio profondo e luminoso, su quel colle. Aprile, non una foglia sui rami per il momento, ma il sole ancora abbastanza alto in cielo. Un cumulo basso di neve grigia come l’asfalto, nel parcheggio.
La giacca che indossavo era troppo leggera per la sera, o forse lí faceva piú freddo, il vento era piú forte che a Toronto.
L’edificio poteva senz’altro essere chiuso a quell’ora, chiuso e deserto.
Il portone solenne non lasciava dubbi in proposito. Non mi presi neanche la pena di salire i gradini e provare, perché decisi di accodarmi a un paio di vecchie – vecchie come me, intendo – che erano appena arrivate dalla rampa lunga della strada e, ignorando affatto gli scalini, si erano dirette subito a un altro ingresso piú agevole sul lato dell’edificio.
Dentro c’era altra gente, una trentina di persone, ma non si sarebbe detto che fossero lí per seguire una funzione. Occupavano i banchi alla spicciolata, chi inginocchiato chi impegnato in chiacchiere. Le donne avanti a me intinsero le mani in una conca di marmo senza badare a quello che facevano e salutarono – abbassando appena la voce – un tale che intanto disponeva dei cestini su un tavolo.
– Fa un bel freddo fuori, anche se non sembra, – disse una di loro, e l’uomo commentò che c’era un vento da mozzarti il naso.
Riconobbi i confessionali. Come tanti minuscoli villini, o una città giocattolo in stile gotico, con una profusione di legno scuro intagliato, di cupe tende marroni. Tutto il resto era uno sfavillio, un bagliore. La volta alta del soffitto, di un azzurro ultracelestiale, le piú basse, quelle che si collegavano alle pareti laterali, decorate con immagini sacre inscritte in mandorle d’oro. Le vetrate a piombo colpite dal sole a quell’ora del giorno diventavano colonne di pietre preziose. Procedetti timidamente lungo una delle navate, cercando di dare un’occhiata all’altare, ma poiché il coro era esposto a ovest, c’era troppa luce per guardare. Sopra le finestre, tuttavia, vidi degli angeli dipinti. Sciami di angeli candidi, freschi e lievi come luce.
Era un luogo molto intenso, ma nessuno sembrava sopraffatto da tanta intensità. Le vecchie ciarliere continuavano a parlare sottovoce, ma senza sussurrare. E gli altri, dopo un cenno del capo e un segno di croce sbrigativo, si inginocchiavano e davano inizio alla consueta prassi.
Anch’io avrei dovuto badare al motivo per il quale ero lí. Mi guardai intorno in cerca di un prete, ma non ce n’era neanche uno, in vista. Anche i preti, come tutti, dovevano avere un orario di lavoro. Magari tornavano a casa in macchina, si infilavano in soggiorno, in studio o nella loro stanzetta e si accendevano il televisore, slacciandosi il colletto. Si versavano qualcosa da bere e si auguravano che ci fosse qualcosa di buono per cena. Quando mettevano piede in chiesa, assumevano il loro ruolo istituzionale. Venivano vestendo i paramenti liturgici, pronti per officiare una funzione. Una messa? Oppure per ascoltare confessioni. Ma in quel caso come si faceva a sapere se c’erano o no? Non si servivano di una porta privata per entrare e uscire dal loro scanno a griglia?
Avrei dovuto domandare a qualcuno. Il tale che aveva sistemato i cestini sembrava trovarsi lí per motivi non solo personali, pur non dando l’impressione di essere un usciere. Non ce n’era bisogno. La gente si sedeva – o inginocchiava – dove voleva e talvolta decideva di alzarsi e cambiare di posto, forse infastidita dal bagliore accecante del sole che incendiava i vetri preziosi. Per una vecchia abitudine acquisita in chiesa, mi rivolsi a lui mormorando, tanto che dovette chiedermi di ripetere. Sorpreso o imbarazzato, ciondolò la testa piú volte indicandomi uno dei confessionali. Fui costretta a diventare molto convincente e precisa.
– No, no. Vorrei solo parlare con un sacerdote. Mi hanno incaricata di parlare con un sacerdote.
Un certo padre Hofstrader.
L’uomo dei cestini scomparve nella navata opposta per tornare dopo un po’, con un giovane prete svelto e robusto, in abito talare nero.
Questi mi introdusse in una stanza che non avevo notato in fondo alla chiesa, non una stanza vera e propria anzi, un vano che raggiungemmo superando un arco, non una porta.
– Qui almeno ci possiamo parlare, – disse, offrendomi una sedia.
– Padre Hofstrader…
– Oh no, devo subito chiarire, non sono padre Hofstrader. Padre Hofstrader non c’è. È in ferie.
Per un attimo, non seppi come proseguire.
– Farò del mio meglio per rendermi utile.
– C’è una donna, – dissi, – una signora che sta morendo al Princess Margaret Hospital di Toronto…
– Sí, sí. Il Princess Margaret Hospital lo conosciamo.
– Mi ha chiesto… ho qui un suo appunto scritto… vuole vedere padre Hofstrader.
– È membro di questa parrocchia?
– Non lo so. Non so neanche se è cattolica o no. È di qui. Di Guelph. È un’amica che non vedevo da molto tempo.
– Quando le ha parlato?
Dovetti spiegargli che non le avevo parlato, perché dormiva, ma che mi aveva lasciato un biglietto.
– Però lei non sa se è cattolica?
Aveva una piccola ulcera aperta all’angolo della bocca. Doveva fargli male, quando parlava.
– Penso di sí, ma suo marito non è cattolico e non sa di lei. È lei che non vuole farglielo sapere. Dissi tutto questo nella speranza di chiarire meglio le cose, ma non ero nemmeno sicura che fosse vero. Mi ero fatta l’idea che il prete potesse di lí a poco perdere interesse nella storia. – Padre Hofstrader doveva essere al corrente di tutto, – dissi.
– Però lei non le ha parlato?
Ribadii che la mia amica era sotto farmaci, ma non costantemente e che ero certa avesse momenti di lucidità. Volli insistere anche su questo punto, perché lo ritenevo indispensabile. – Lo sa che, se si vuole confessare, trova sacerdoti a sua disposizione anche al Princess Margaret.
Non sapevo che altro dire. Estrassi il biglietto, lisciai il foglio e glielo passai. Mi accorsi che la grafia era meno ferma di quanto avessi pensato. Risultava leggibile solo in confronto alle lettere scritte sulla busta.
La faccia del prete si accigliò.
– Chi è questo C.?
– Il marito –. Temevo che potesse chiedermi il cognome per mettersi in contatto con lui, invece mi domandò quello di Charlene. Come fa di cognome, la signora, disse.
– Charlene Sullivan –. Era già un miracolo che ricordassi quello. E per un attimo mi rassicurai, perché a orecchio il cognome sembrava cattolico. Il che ovviamente significava che il cattolico era il marito. Ma il prete poteva arrivare alla conclusione che lui non frequentasse piú la Chiesa, rendendo assai piú comprensibile la segretezza di Charlene, e piú urgente il suo messaggio.
– Perché proprio padre Hofstrader?
– Immagino si tratti di qualcosa di speciale.
– Ogni confessione è speciale.
Fece l’atto di alzarsi, ma io restai dov’ero. Si risedette.
– Padre Hofstrader è in ferie, ma non è fuori città. Potrei telefonargli e chiedergli che ne pensa. Se insiste.
– Sí. La prego.
– Non mi va di disturbarlo. Non è stato bene negli ultimi tempi.
Se non si sentiva di guidare fino a Toronto, dissi, potevo accompagnarlo io.
– Al viaggio penseremo noi, se sarà necessario.
Si guardò intorno senza trovare quello che cercava, tolse il cappuccio a una penna estratta dalla tasca e alla fine decise che poteva scrivere sul retro del biglietto. – Mi ripeta solo bene il nome. Charlotte… – Charlene.
Nessuna tentazione da parte mia, durante tutto quel discorso? Neanche per un attimo? Di fronte all’intravista promessa di un perdono vasto, sebbene non facile, verrebbe da credere che avrei potuto aprirmi, che sarebbe stato saggio farlo. E invece no. Non fa per me. Quello che è fatto è fatto.
Indipendentemente da frotte di angeli e lacrime di sangue.
Sedetti in macchina senza pensare di accendere il motore, anche se ormai faceva un freddo cane. Non sapevo piú che fare. O meglio, sapevo quali erano le mie alternative: ritrovare la strada verso la statale e unirmi al flusso continuo di auto dirette a Toronto. Oppure cercarmi un posto per passare la notte, se non me la sentivo di mettermi al volante. Quasi ovunque, uno spazzolino te lo davano, o ti dicevano dove potevi procurartene uno a un distributore. Sapevo cosa dovevo e potevo fare, ma al momento mi mancava la forza di procedere.
Le barche a motore sul lago in teoria dovevano mantenersi a buona distanza dalla riva. E in particolare dalla zona del campo, di modo che le onde sollevate non disturbassero il nostro bagno. L’ultima mattina, tuttavia, quella domenica mattina, un paio di motoscafi si misero a gareggiare e finirono per avvicinarsi parecchio; non fino alla boa, ovviamente, ma quanto bastava per alzare l’acqua. La boa fu sballottata e la voce di Pauline si impennò in un urlo di indignazione e sgomento. Le barche facevano troppo baccano perché chi stava a bordo potesse sentirla, e comunque ormai avevano prodotto un’onda notevole che, procedendo verso riva, costrinse tutte noi, in piedi nell’acqua bassa, a scegliere se saltare per assecondarla o farci travolgere e perdere la presa sul fondo.
A Charlene, come a me, mancò l’appoggio. Davamo le spalle alla boa per tenere d’occhio Verna che veniva verso di noi. L’acqua ci arrivava piú o meno alle ascelle e ci sentimmo sollevate e travolte proprio mentre udivamo il grido di Pauline. Forse urlammo anche noi, come molte altre, prima di paura e poi di piacere, appena recuperammo la terra sotto i piedi, e l’onda procedette oltre. Le onde successive si dimostrarono meno violente e riuscimmo a contrastarle.
Nell’attimo in cui fummo travolte, Verna si era slanciata verso di noi. Quando tornammo a galla con le facce grondanti e agitando le braccia, lei stava tutta sotto il pelo dell’acqua. Intorno era un gran parapiglia di strepiti e schiamazzi, che andò crescendo con il diminuire della forza delle onde quando, quelle di noi che si erano perse il primo assalto, finsero chissà perché di essere sopraffatte dal secondo. La testa di Verna non sbucò in superficie benché il suo corpo non fosse inerte ma ruotasse piano, leggero come una medusa a fior d’acqua. Charlene e io le tenevamo una mano addosso, sulla cuffia di gomma.
Poteva essere un fatto accidentale. Come se, cercando di recuperare equilibrio, ci fossimo aggrappate a quel grosso oggetto gommoso a portata di mano, senza renderci conto di cos’era e di cosa stavamo facendo. Ci ho pensato bene. Credo che ci avrebbero assolte. Due bambine. Terrorizzate.
Ma sí, ma sí. Non sapevano quel che facevano.
C’è del vero in tutto ciò? Può essere vero nel senso che non decidemmo nulla, in principio. Non ci guardammo negli occhi né decidemmo di agire consapevolmente come poi avvenne.
Consapevolmente, sí, perché i nostri sguardi si incontrarono quando la testa di Verna cercò di salire in superficie. La sua testa voleva venire su, come uno gnocco nell’acqua che bolle. Il resto del suo corpo eseguiva movimenti deboli e sconclusionati sotto la superficie, ma la testa sapeva cosa fare.
Non fosse stato per il disegno in rilievo che la rendeva meno scivolosa, avremmo potuto perdere la presa sulla testa, sulla cuffia di gomma. Ricordo perfettamente il colore, quel celeste pallido insulso, ma non riuscii mai a decifrare il disegno – un pesce? una sirena? un fiore? –, le cui frastagliature mi premevano contro i palmi.
Charlene e io ci guardammo fisse, anziché abbassare lo sguardo su quello che facevano le nostre mani. Aveva gli occhi aperti e sovreccitati, come credo fossero anche i miei. Non penso che ci sentissimo malvagie, trionfanti nella nostra perfidia. Era piuttosto come se rispondessimo, sorprendentemente, a una specie di chiamata, come se quello fosse il punto piú alto, il culmine esistenziale del nostro essere noi stesse.
Eravamo andate troppo in là per poter tornare indietro, mi direte. Non avevamo piú scelta. Ma io vi giuro che noi non avevamo mai contemplato né mai contemplammo l’idea di una scelta. L’intera vicenda si risolse probabilmente in un paio di minuti al massimo. Tre? Un minuto e mezzo?
Può sembrare eccessivo dire che proprio allora le nubi deprimenti si aprirono, ma a un certo punto – sarà stato quando i motoscafi violarono il divieto, o quando urlò Pauline, o alla prima ondata, o quando l’oggetto di gomma sotto le nostre mani cessò di manifestare una volontà propria – il sole esplose nel cielo, la spiaggia si affollò di altri genitori e l’aria si riempí di voci che ci richiamavano in massa a uscire dall’acqua e a smettere di fare le sciocche. Il bagno era finito. Per tutta l’estate, almeno per coloro che non abitavano vicini al lago o nei pressi di una piscina comunale. Le piscine private erano roba da rotocalchi sulle stelle del cinema.
Come ho già detto, la memoria non mi soccorre se cerco di ricordare come mi separai da Charlene, quando montai sull’auto dei miei genitori. Perché non aveva importanza. A quell’età, le cose erano destinate a finire. Te lo aspettavi comunque.
Sono sicura però che nessuna delle due disse all’altra una cosa tanto ovvia, inutile e offensiva come Non dirlo a nessuno.
Riesco a immaginare l’insorgere della tensione che tuttavia non si diffuse velocemente come avrebbe potuto, se non avesse dovuto competere con altre piccole tragedie. Una bambina che ha perso un sandalo, una delle piú piccine che piange perché le è entrata la sabbia negli occhi, con le onde. Quasi di sicuro c’è qualcuno che vomita per il trambusto in acqua o per l’emozione causata dall’arrivo delle famiglie o per il consumo troppo frettoloso di dolciumi proibiti.
E poco dopo, ma non subito, prende a insinuarsi dentro tutto questo l’angoscia di una bambina che è scomparsa.
– Chi?
– Una delle Speciali.
– Accidenti. C’era da saperlo.
La responsabile delle Speciali corre avanti e indietro, ancora nel suo costume da bagno a fiori, le grosse gambe e le braccia tremule come budini. La voce è in falsetto, rotta dal pianto.
Qualcuno vada a guardare nei boschi, su per il sentiero, la chiami per nome.
– A proposito, come si chiama?
– Verna.
– Aspetta.
– Cosa?
– Vedi anche tu qualcosa laggiú, in acqua?
Ma sono sicura che a quel punto noi eravamo già andate via.
Legna
Roy fa il tappezziere e il restauratore di mobili. Qualche volta gli capita anche di rimettere in sesto sedie e tavoli che hanno perso un piolo, una gamba, o che per qualsiasi motivo sono malridotti. Non c’è piú tanta gente che faccia questo genere di lavori, perciò ha piú commesse di quante riesca a smaltirne. Non sa come risolvere il problema. La sua giustificazione per non assumere qualcuno che gli dia una mano è che il governo gli imporrebbe un mucchio di scartoffie burocratiche, ma forse la ragione vera è che si è abituato a lavorare da solo – fa questo mestiere da quando ha lasciato l’esercito – e fatica a immaginare di avere una persona intorno tutto il tempo. Se lui e sua moglie Lea avessero avuto un figlio maschio, il bambino, crescendo, avrebbe potuto manifestare interesse per l’attività e, quando fosse stato grande abbastanza, magari entrare in bottega. Forse sarebbe successo anche con una femmina. Una volta Roy aveva pensato di addestrare Diane, la nipote di sua moglie. Da piccola passava ore a osservarlo e, subito dopo essersi sposata – improvvisamente, all’età di diciassette anni –, era venuta ad aiutarlo qualche volta perché lei e il marito avevano bisogno di soldi. Purtroppo era incinta, e gli odori di prodotti svernicianti, vernici impregnanti, olio di lino, smalto e fumi del legno le davano la nausea. O cosí disse a Roy. A Lea confidò il motivo vero, e cioè che, secondo suo marito, quello non era un mestiere adatto a una donna.
Adesso ha quattro figli e lavora nella mensa di un ricovero per anziani. A quanto pare il marito lo trova un mestiere adattissimo.
Il laboratorio di Roy è sistemato in un capanno alle spalle della casa. Per riscaldarlo c’è una stufa a legna e la necessità di procurarsi il combustibile per la stufa ha favorito un secondo interesse, molto personale senza essere segreto. Vale a dire che tutti ne sono al corrente, ma nessuno sa quanto Roy ci pensi né quanto significhi per lui.
Tagliare legna.
Possiede un furgone a quattro ruote motrici e una sega a catena e un’accetta da otto libbre. Passa sempre piú tempo nel bosco, a tagliare legna. Piú di quanta gliene serva per uso personale, in effetti, perciò ha cominciato a venderla. Nelle case moderne c’è spesso un camino in salotto, uno in sala da pranzo e una stufa in soggiorno. E la gente vuole il fuoco acceso in continuazione, non solo se dà una festa o per Natale.
Nei primi tempi, quando andava nel bosco, Lea si preoccupava. Temeva che potesse avere un incidente là fuori da solo, ma anche che trascurasse il lavoro. Non era la qualità dei risultati a preoccuparla, ma il controllo delle scadenze. «Non devi deludere la clientela, – ripeteva. – Se uno dice che una cosa gli serve per una certa data, c’è un perché».
A suo modo di vedere, il lavoro di Roy era un obbligo morale, una cosa che faceva per aiutare gli altri. Quando aumentava i prezzi lei si vergognava – del resto anche lui – e non sapeva piú che cosa inventare per spiegare a tutti quanto gli costassero i materiali, ultimamente.
Finché Lea mantenne il suo impiego, a Roy non fu difficile andarsene nel bosco dopo che lei era uscita, e cercare di essere di ritorno prima che rincasasse. Lea faceva la segretaria di studio e la ragioniera per uno dei dentisti del paese. Era un posto adatto a lei, perché le piaceva parlare con la gente, e vantaggioso per il dentista, perché Lea apparteneva a una grande famiglia ligia al dovere, i cui membri non si sarebbero mai sognati di farsi curare i denti da altri che dal suo datore di lavoro. Quei suoi parenti, i Bole e i Jetter e i Poole, giravano spesso per casa, quando non era Lea a voler andare da loro. Erano un clan e, sebbene non sempre gradissero la reciproca compagnia, si assicuravano di averne in perenne abbondanza. A Natale e per il Ringraziamento si accalcavano in venti o trenta in un’unica casa, ma potevano tranquillamente raggiungere la dozzina in una domenica qualunque, guardando la tv, chiacchierando, cucinando e mangiando. A Roy non dispiace guardare la tv, e nemmeno chiacchierare, o mangiare, ma non ama la combinazione di due di queste attività e sicuramente non di tutte e tre. Perciò, quando sceglievano di radunarsi da lui la domenica, prese l’abitudine di alzarsi, ritirarsi in laboratorio e accendersi un fuoco di acacia o di melo – entrambi, ma soprattutto il melo, bruciando, producono un odore dolce e gradevole. Appena fuori del capanno, sullo scaffale delle vernici e degli oli, teneva una bottiglia di whiskey di segale. Ne aveva anche in casa e non si faceva pregare a offrirne ai suoi ospiti, ma quello che si concedeva quando era solo in laboratorio sembrava piú buono, esattamente come piú buono era l’odore del fumo se intorno non c’era nessuno a dire, Oh, che bello, no? Roy non beveva mai mentre lavorava a un mobile, né quando andava nel bosco; soltanto in quelle domeniche piene di parenti in visita.
Il fatto che se ne andasse per conto proprio non creava problemi. I parenti non si offendevano: nutrivano un interesse modesto nei riguardi di gente come Roy, che era entrato in famiglia solo sposandosi, che non aveva accresciuto il clan nemmeno di un figlio e che era di un tipo completamente diverso. Loro erano di stazza notevole, ciarlieri, espansivi. Lui era basso di statura, massiccio e silenzioso. Sua moglie era una donna perlopiú accomodante, alla quale Roy stava bene cosí com’era, perciò né lo rimproverava né tentava di giustificarlo.
Erano entrambi convinti di volersi piú bene, in un certo senso, di tante coppie schiacciate dal peso dei figli.
L’inverno scorso, Lea era stata quasi sempre poco bene tra influenze e bronchiti. Le pareva di prendersi tutti i germi che la gente portava nello studio del dentista. Perciò aveva lasciato l’impiego: disse che cominciava a esserne un po’ stufa comunque, e che voleva piú tempo per dedicarsi alle cose che aveva sempre desiderato fare.
Anche se Roy non riuscí mai a capire quali fossero. Le forze di Lea avevano subíto un crollo dal quale non si riprendeva piú. E che sembrò produrre un cambiamento profondo nel suo carattere. Le visite la innervosivano, quelle dei suoi parenti, soprattutto. Si sentiva troppo stanca per conversare. Non aveva voglia di uscire. Teneva la casa discretamente, ma si riposava fra un lavoro e l’altro sicché le consuete faccende le occupavano l’intera giornata. Perse quasi del tutto l’interesse per la tv, pur continuando a guardarla quando Roy l’accendeva, e perse anche la sua bella linea morbida, per diventare sottile e sgraziata. Il calore e la luce – ciò che l’aveva resa attraente, insomma – si prosciugarono dalla sua faccia, come dai suoi occhi scuri.
Il medico le prescrisse certe pastiglie, ma Lea non avrebbe saputo dire se le facessero bene. Una delle sorelle la accompagnò da un medico olistico, il cui consulto costò trecento dollari. Anche da quello Lea non avrebbe saputo dire se avesse avuto qualche miglioramento.
Roy sente la mancanza della moglie di un tempo, piena di energia e buonumore. La rivorrebbe indietro, ma non può far nulla, tranne mostrarsi paziente con questa donna apatica e mesta che ogni tanto si passa una mano davanti alla faccia come se la infastidisse una ragnatela o fosse finita in un intrico di rovi. Ma a chi le chiede se ha problemi agli occhi, risponde che ci vede benissimo.
Non guida piú. Non fa piú commenti sul fatto che Roy se ne vada nel bosco.
Può darsi che ne salti fuori, dice Diane. (Diane è praticamente l’unica persona che continui a venire in casa). Come può darsi di no.
Il che è piú o meno quel che ha detto, in termini molto piú cauti, anche il dottore. Secondo lui, le pastiglie che le ha prescritto dovrebbero impedirle di andare troppo giú. Quanto sarà, troppo giú, si domanda Roy, e come si fa a stabilirlo?
A volte gli succede di trovare un terreno dal quale gli uomini della segheria sono usciti dopo aver disboscato lasciando a terra i cimali. E altre volte ne trova uno nel quale gli addetti alla gestione forestale sono passati a cercinare gli alberi che ritengono sia meglio espiantare perché malati o storti o inutilizzabili come legname. I carpini bianchi, per esempio, non sono adatti, e neppure i biancospini e i carpini americani. Quando si imbatte in un posto del genere, Roy si mette in contatto con l’agricoltore o con il proprietario del terreno e inizia la trattativa; poi, se si accordano sul prezzo, va a prendersi la legna. Gran parte dell’attività si svolge in autunno inoltrato – come adesso, novembre, o inizio dicembre – perché quello è il periodo migliore sia per vendere legna da ardere, sia per raggiungere il bosco con il furgone. Oggigiorno non tutti i proprietari hanno piste ben battute per inoltrarsi nella vegetazione, come accadeva quando ancora tagliavano e trasportavano legname personalmente. Capita spesso di dover passare dai campi coltivati, il che è possibile soltanto in due momenti precisi dell’anno: prima dell’aratura e dopo il raccolto.
Meglio dopo il raccolto, però, quando il terreno è indurito dal gelo. E quest’autunno la richiesta di legna è maggiore del solito, perciò Roy si è ritrovato a fare anche due o tre giri la settimana. Molta gente riconosce gli alberi dalle foglie o da dimensioni e forma della chioma, ma camminando nel fitto del bosco sfrondato, Roy li distingue dalla corteccia. Il carpino bianco, un legno pesante e ottimo da ardere, ha la corteccia bruna e fessurata sul tronco robusto, ma liscia sui rami e decisamente rossiccia alle estremità. Il ciliegio è l’albero piú nero del bosco, e la sua corteccia si screpola in un bel mosaico di scaglie. La maggior parte delle persone si stupirebbe di quanto possano diventare alti i ciliegi nel bosco; non somigliano certo a quelli coltivati nei frutteti. I meli sono piú simili ai loro esemplari da frutto: non tanto alti, corteccia non cosí scura e squamosa come quella del ciliegio. Il frassino è un albero dal portamento marziale e dal tronco rugoso come un velluto a coste. La corteccia grigia dell’acero ha una superficie irregolare il cui gioco di ombre disegna striature nere che possono a volte unirsi in rozzi rettangoli, e a volte no. C’è una sorta di rassicurante noncuranza in quella corteccia, adatta a una pianta cosí comune e domestica, quasi per tutti l’idea stessa di albero che abbiamo in mente.
Ben altra faccenda sono i faggi e le querce: c’è qualcosa di insigne e di solenne in quegli alberi, benché né l’uno né l’altro raggiunga la bellezza dei grandi olmi ormai pressoché scomparsi. Il faggio ha la corteccia liscia e di colore grigio, a pelle d’elefante, quella di solito preferita per l’incisione delle iniziali. Con il trascorrere degli anni e dei decenni, gli intagli si dilatano passando dalle sottili scanalature del coltello a quegli sgorbi piú larghi che lunghi che alla fine rendono le lettere illeggibili. Un faggio può superare i trenta metri di altezza nel bosco. In uno spazio aperto la chioma si espande anche in larghezza, mentre nel bosco cresce verso l’alto, e i rami apicali assumono angolature estreme, come corna di cervo. Eppure, quest’albero dall’aspetto altero può nascondere la debolezza di venature storte, identificabili da certe ondulazioni nella corteccia. Si tratta di un segnale che l’albero potrebbe cedere o essere abbattuto, in caso di vento forte. Quanto alle querce, non sono molto diffuse in questa zona del paese, non come i faggi, insomma, ma risultano altrettanto facili da individuare. Se l’acero è l’albero piú comune, quello che si deve per forza avere nel giardino dietro casa, la quercia è l’albero delle fiabe, come se tutte le storie che iniziano con «C’era una volta, in un bosco» si riferissero a boschi pieni di querce. Le loro foglie scure, lucide e dentellate contribuiscono a completare l’immagine, ma le querce restano leggendarie anche da spoglie, quando se ne possono vedere bene sia la corteccia spessa e sugherosa, di colore grigio-nerastro e di superficie ruvida, sia il diabolico gioco di curve dei rami ritorti.
Roy pensa che non sia affatto rischioso andare da solo nel bosco a tagliare legna; basta sapere quel che si fa. Se si decide di abbattere un albero, per prima cosa si deve individuarne il baricentro, quindi praticare una tacca cuneiforme con un’angolatura di settanta gradi, subito sotto il baricentro del tronco. Il lato della tacca determinerà, ovviamente, la direzione di caduta. Si effettua il taglio di abbattimento, sul lato opposto, e non in linea con la base della tacca a cuneo, bensí con il suo punto piú alto. L’idea è quella di tagliare il tronco trasversalmente, lasciando intatto lo spessore di una cerniera di legno che coincide con il centro del peso dell’albero e che ne guiderà la caduta. La cosa migliore è che l’albero cada libero da altre chiome, ma talvolta risulta irrealizzabile. Se un albero ha i rami impigliati in quelli di un altro, e non è possibile sistemare il furgone in un punto dal quale trascinare il tronco abbattuto con una catena, occorre tagliare in sezioni a partire dal basso, finché la parte alta si libera e cade. Se l’albero abbattuto poggia sui propri rami, si procede a portare il tronco sul terreno, eliminando via via i rami fino a raggiungere quelli che lo tengono sollevato. Questi ultimi sono sotto pressione – possono risultare tesi come un arco –, perciò il trucco è tagliare in modo che l’albero rotoli in direzione opposta alla nostra, e i rami non ci frustino distendendosi. Una volta che il tronco sarà al sicuro a terra, potremo tagliarlo in ciocchi di lunghezza adatta alla stufa, che poi spaccheremo con un’accetta. A volte c’è una sorpresa. Certi blocchi di legno capricciosi che non si lasciano spaccare a colpi di scure; bisogna appoggiarli di lato e sezionarli con la sega a catena; la polvere di legno prodotta in questo modo tagliando lungo la venatura, verrà via a brandelli. Capita anche ogni tanto con gli aceri o con i faggi, di dover procedere lateralmente, mordendo nel grosso ciocco lungo gli anelli di crescita da ogni direzione fino a ridurre il tronco a una forma pressoché squadrata e piú semplice da aggredire. A volte il legno è spugnoso e tra gli anelli sono cresciuti dei funghi. Ma perlopiú la durezza del tronco è prevedibile: maggiore nel fusto che non nei rami, e maggiore nei grossi tronchi cresciuti almeno in parte su spazi aperti che non in fusti alti e sottili che svettano in mezzo al bosco.
Sorprese. Ma ci si può preparare. E se ci si prepara, il pericolo non esiste. In passato Roy avrebbe voluto spiegare tutto questo a sua moglie. Le procedure, le sorprese, l’identificazione degli alberi. Ma non riusciva a immaginare il modo per renderle interessante il discorso. In alcuni momenti rimpiangeva di non aver insegnato ciò che sapeva a Diane, quando era piú giovane. Ormai non potrebbe piú trovare il tempo di starlo a sentire.
Del resto, in certa misura, i suoi pensieri sul legno sono troppo riservati: sono morbosi, per non dire ossessivi. Non è mai stato un fanatico, in nessun altro campo. Eppure, è capace di starsene sveglio per notti a pensare a uno splendido faggio che si vuole portar via, domandandosi se si rivelerà buono come sembra o se gli riserva qualche imprevisto. Ripassa tutti i terreni boschivi della regione su cui non ha ancora nemmeno posato gli occhi, perché stanno alle spalle di fattorie, dietro coltivazioni private. Se viaggia in macchina su una strada che taglia per i boschi, volta la testa da una parte all’altra con il terrore di perdersi qualcosa. Lo interessa anche quello che non è adatto al suo scopo. Una macchia di carpini, per esempio, ancora troppo delicati, troppo stenti per poter fare al caso suo. Osserva le costole scure dei rami che spuntano sbieche dai tronchi piú chiari: si ricorderà dove sono. Gli piacerebbe farsi una mappa mentale di ogni bosco che ha visto e, anche se sarebbe in grado di giustificarsi, adducendo motivi pratici, sa che non esaurirebbero la verità.
Un paio di giorni dopo la prima neve, è fuori nel bosco a osservare alcuni alberi cercinati. Non sta commettendo nessun illecito, ha già cominciato a parlare con il proprietario del terreno, un certo Suter.
Ai margini di quel bosco si trova una discarica abusiva. La gente si disfa dei propri rottami in questa zona riparata anziché portarli nella discarica del Comune, i cui orari o la cui posizione possono risultare scomodi per qualcuno. Roy vede qualcosa che si muove. Un cane?
Poi però la sagoma si tira su e Roy riconosce un uomo con un giaccone lurido addosso. Si tratta in effetti di Percy Marshall, venuto a rovistare nella discarica con la speranza di trovare qualcosa. In passato capitava di trovare qualche vecchio coccio di valore o bottiglie o perfino caldaie di rame, ma ormai è ben poco probabile. E Percy comunque non è un gran razziatore. Sarà giusto venuto a cercare qualunque oggetto possa tornargli utile, benché non sia facile individuarne alcuno in quel mucchio di contenitori di plastica, schermi rotti e materassi con l’imbottitura che esplode dalla fodera. Percy vive da solo in un’unica stanza sul retro di una casa per il resto disabitata e sbarrata, a poche miglia da qui. Vaga per le strade, lungo i corsi d’acqua e in città, parlando da solo, alternando il ruolo del vagabondo idiota a quello del sagace indigeno. Questa esistenza all’insegna di malnutrizione, sporcizia e disagi è una sua scelta. Ha provato il Ricovero pubblico, ma non sopportava né il trantran né la compagnia di cosí tanti altri vecchi. Molto tempo fa aveva avviato una discreta fattoria, ma la vita dell’agricoltore era troppo monotona, perciò a poco a poco ha disceso la china passando dal contrabbando di alcolici a qualche maldestra effrazione e qualche periodo in galera, mentre nell’ultimo decennio, con l’aiuto di una pensione sociale, è riuscito a riguadagnarsi una certa posizione protetta.
Hanno perfino pubblicato la sua foto e un articolo su di lui, sul giornale locale.
L’ultimo di una stirpe. Storie e impressioni di uno spirito libero delle nostre campagne.
Percy risale faticosamente dalla discarica, come se si sentisse in dovere di fare un po’ di conversazione.
– Pensi di venire a tirarli via, quegli alberi?
Roy dice: – Può darsi –. Teme che Percy possa essere a caccia di un po’ di legna gratuita. – Allora è meglio che ti sbrighi, – fa Percy.
– Come mai?
– Tutto il terreno qui intorno va sotto contratto adesso.
Roy non può fare a meno di gratificarlo chiedendogli a che genere di contratto si riferisca. Percy è un pettegolo ma non un bugiardo. Almeno non riguardo alle cose che lo interessano veramente, tipo vendite, eredità, assicurazioni, furti con scasso, questioni economiche di ogni genere. È un errore credere che certe persone non pensino ai soldi solo perché non ne hanno mai avuti. Che sorpresa avrebbe in proposito chi considera Percy una specie di vagabondo filosofo, tutto assorto nei suoi ricordi dei tempi andati. Benché sia anche capace di farsi qualche sparata di quel genere, in caso di bisogno. – Ho sentito di un tale, – fa Percy, compiaciuto. – Mentre ero in città. Non so. Sembra che questo tizio abbia una segheria e si sia accaparrato un contratto con la River Inn per la fornitura di tutta la legna che bruciano in un inverno. Quattro metri cubi al giorno. È quello che bruciano. Quattro metri cubi al giorno.
Roy dice: – Dove l’hai sentito?
– Birreria. Ascolta, ci vado solo di tanto in tanto. Mai piú di una pinta. Comunque c’erano dei tipi, manco li conosco, ma non erano sbronzi nemmeno loro. Parlavano del bosco, e dov’era e tutto, ed era proprio questo. Il bosco di Suter.
Roy aveva parlato all’agricoltore solo la settimana prima ed era convinto di essere già a buon punto con la trattativa, per la solita ripulitura del bosco.
– È un mucchio di legna, – dice, ostentando indifferenza.
– Altro che.
– Se pensano di portarla via tutta, dovranno procurarsi un permesso.
– Eccome. A meno che non ci sia sotto qualcosa, – dice Percy con intenso piacere.
– Non sono fatti miei. Io ho anche troppo da fare.
– Ma certo. Anche troppo.
Per tutto il tragitto verso casa Roy non riesce a pensare ad altro. Gli è capitato di vendere della legna alla River Inn, qualche volta. Devono aver deciso di prendersi un unico fornitore fisso, che non sarà lui.
Pensa alla difficoltà di tagliare tanta legna ora che ha cominciato a nevicare. L’unica soluzione sarebbe trascinare i tronchi fuori dal bosco, prima che arrivi sul serio l’inverno. Bisognerebbe portarli via il piú in fretta possibile, farne una grande catasta, segarli, e spaccarli in seguito. E per tirarli fuori, ci vorrebbe un bulldozer o almeno un grosso trattore. Si dovrebbe spianare una pista nel bosco e trascinare i tronchi con le catene. Ci vorrebbe una squadra di uomini, non sarebbe pensabile fare da soli o in due. Si tratterebbe di un lavoro su larga scala.
Perciò non sembrava un incarico da ritagli di tempo, di quelli che svolge lui. Doveva esserci di mezzo una grossa squadra, magari qualcuno che arrivava persino da fuori.
Eliot Suter non aveva fatto riferimento a questo tipo di offerta, parlando con lui. Ma era senz’altro possibile che l’abboccamento fosse avvenuto piú tardi e che lui avesse deciso di non badare affatto alla proposta di accordo informale avanzata da Roy. Che avesse deciso di dare il permesso al bulldozer.
In serata, Roy pensa di chiamarlo e di chiedergli che sta succedendo. Poi però riflette che se l’agricoltore ha in effetti cambiato idea, non c’è piú niente da fare. Inutile tirare in ballo un accordo verbale. Rischia di sentirsi suggerire di levarsi di torno.
La cosa migliore per Roy potrebbe essere comportarsi come se non avesse mai sentito la storia
di Percy, mai sentito parlare di nessun altro, e andarsi semplicemente a prendere al piú presto gli alberi che vuole, prima che arrivi sul posto il bulldozer.
Naturalmente esiste sempre la possibilità che Percy abbia frainteso tutto quanto. È poco probabile che si stia inventando quella storia solo per fare un dispetto a Roy, però potrebbe non avere capito.
Eppure, piú Roy ci pensa e piú tende a escludere questa eventualità. Continua a immaginarsi il bulldozer e i tronchi incatenati, le grandi cataste di legna nel campo, gli uomini armati di seghe a catena. È cosí che si fanno le cose al giorno d’oggi. All’ingrosso.
Il motivo per cui la storia gli ha dato tanto fastidio è in parte che la River Inn, una locanda sul Peregrine River, non gli piace. Si erge su quel che resta di una vecchia segheria non lontana dall’incrocio dove vive Percy Marshall. La locanda, anzi, possiede anche il terreno su cui sorge l’abitazione di Percy e l’abitazione stessa. C’era stato il progetto di abbattere l’edificio, ma poi si è scoperto che gli ospiti della locanda, non avendo molto da fare, gradiscono passeggiare su quella strada e scattare foto della casa decrepita, del vecchio erpice, del carro capovolto accanto, della pompa inservibile e anche di Percy, quando accetta di farsi fotografare. Alcuni villeggianti disegnano schizzi. Vengono da città lontane come Ottawa e Montreal e sono senz’altro convinti di trovarsi nel mezzo del nulla.
La gente del posto, alla locanda ci va per un pranzo o una cena speciali. Lea c’è stata una volta, con il dentista, sua moglie e l’assistente di studio con il marito. Roy non ci è voluto andare. Si è rifiutato di mangiare un pasto che costava un occhio della testa, anche se a pagare era qualcun altro. Ma non saprebbe dire esattamente perché ce l’ha con quella locanda. Non è di principio contrario all’idea che la gente spenda denaro nella speranza di divertirsi, né all’idea che altra gente si faccia i soldi alle spalle di chi vuole spenderli. È pur vero che i mobili d’epoca della locanda sono stati restaurati e tappezzati da altri e non da lui – artigiani nemmeno della zona – ma se glielo avessero chiesto avrebbe probabilmente detto di no, con la scusa che aveva già anche troppo lavoro. Quando Lea gli ha domandato che problema personale avesse con la River Inn, l’unica cosa che gli è venuta in mente di rispondere è stata che quando Diane aveva fatto domanda di assunzione come cameriera, l’avevano bocciata sostenendo che era sovrappeso.
– Be’, infatti, – disse Lea. – È cosí. Lo dice anche lei.
Vero. Roy comunque non può non pensare che quelli siano degli snob. Gente rapace e snob. Stanno tirando su altri edifici che dovrebbero ricordare il vecchio emporio, il vecchio teatro lirico, giusto per fare scena. Bruciano legna per fare scena. Quattro metri cubi al giorno. E adesso se ne arriverà un operatore con un bulldozer a spianare il bosco come se fosse un campo di granoturco. Proprio il genere di prepotenza prevedibile, il tipo di saccheggio al quale c’era da immaginare che sarebbero arrivati.
Roy racconta a Lea la storia che ha sentito. Le racconta ancora le cose – per abitudine – ma ormai non si stupisce piú che lei non gli presti attenzione e a stento si accorge se gli risponde. Questa volta Lea ripete quello che ha detto lui.
– Non importa. Hai già abbastanza lavoro cosí.
Quello che si aspettava da Lea, indipendentemente dalle sue condizioni di salute. Che non afferrasse il concetto. Non è forse questo che fanno le mogli – e mi sa, anche i mariti – piú o meno una volta su due?
Il mattino dopo, per un po’ è alle prese con un tavolo a ribalta. Intende starsene tutto il giorno al capanno e finire un paio di lavori per i quali è in ritardo. Verso mezzogiorno sente il baccano della marmitta di Diane e guarda dalla finestra. Sarà venuta a prendere Lea per accompagnarla dalla riflessologa; è convinta che le faccia bene e Lea non si oppone.
Ora però viene verso il capanno, anziché dirigersi a casa.
– Ehilà, – dice.
– Ehilà.
– Si fatica?
– Come al solito, – dice Roy. – Vuoi un lavoro?
È il loro rituale.
– Ce l’ho, un lavoro. No, senti, sono venuta a chiederti un favore. Avrei bisogno che mi prestassi il furgone. Domani devo portare Tiger dal veterinario. Non mi ci sta, in macchina. È diventato troppo grosso. Mi spiace tanto dovertelo chiedere.
Roy le dice di non preoccuparsi.
Tiger dal veterinario, pensa, chissà cosa costa.
– Non è che serviva a te il furgone, per caso? – fa lei. – Voglio dire, puoi usare la macchina, invece?
Naturalmente aveva intenzione di andare nel bosco domani, a patto di riuscire a finire i lavori entro oggi. A questo punto, decide, dovrà anticipare al pomeriggio.
– Ti faccio il pieno, – dice Diane.
Ecco, deve anche ricordarsi di fare il pieno, per evitare che ci pensi lei. È sul punto di dire: «Sai perché voglio andare laggiú? Perché è successa una cosa che continua a ronzarmi in testa…» Ma Diane è già fuori, diretta a prendere Lea.
Non appena si sono allontanate e lui ha rimesso a posto, monta sul furgone e torna dove è stato il giorno prima. Per un attimo pensa di fare una sosta da Percy e scucirgli qualche altra informazione, ma decide che non servirebbe. Mostrare tanto interesse potrebbe solo indurlo a inventare storie. Ripensa anche all’ipotesi di andare a parlare con l’agricoltore ma ci rinuncia per le ragioni che si è già dato ieri sera.
Parcheggia il furgone sulla pista che entra nel bosco. Il sentiero si interrompe poco dopo, ma Roy l’ha già lasciato prima che si concluda. Vaga qua e là osservando gli alberi che sembrano identici a quelli di ieri sera e non danno segno di partecipare ad alcuna congiura contro di lui. Si è portato l’accetta e la sega a catena, e ha la sensazione di doversi sbrigare. Se si presentasse qualcun altro, se qualcuno dovesse provocarlo, reagirà dicendo che ha avuto il permesso dal proprietario e che non sa niente di nessun altro accordo. Dirà anche che intende procedere a tagliare, a meno che non venga il proprietario in persona a dirgli di andarsene. Se succede davvero, dovrà farlo per forza. Ma è poco probabile, perché Suter è un omone sciancato che non ama girare a piedi per i suoi terreni. – … chi lo stabilisce, – dice Roy, parlando da solo come Percy Marshall, – voglio vederlo scritto, nero su bianco.
Si rivolge all’estraneo che non ha mai neanche visto.
Il suolo di qualunque bosco è di norma piú accidentato della superficie circostante. Roy ha sempre creduto dipendesse dagli alberi che, cadendo, sollevano terra con le radici e rimangono poi a marcire sul posto. In quel punto si sarebbe formato un tumulo, mentre là dove le radici avevano smosso la terra, ci sarebbe stata una fossa. Da qualche parte, però, ha letto – non è da molto e gli piacerebbe ricordarsi dove – che la vera causa è quel che accadde moltissimo tempo fa, poco dopo l’Era glaciale, quando, fra gli strati di terreno, si formò del ghiaccio che spinse fuori la terra in gobbe ineguali, esattamente come accade oggi nelle regioni artiche. Dove il terreno non è stato lavorato e spianato, le gobbe rimangono.
Quello che accade ora a Roy è la cosa piú banale e incredibile al tempo stesso. Quel che potrebbe succedere al primo sciocco svampito che cammina nel bosco con la testa tra le nuvole, a qualunque vacanziere imbambolato davanti alla natura, a chiunque pensi che il bosco sia una specie di parco dove si va a passeggiare. Uno che si mette le scarpe leggere anziché gli scarponi e che non si prende la briga di guardare sempre dove mette i piedi. A Roy non è mai successo nemmeno lontanamente in tutte le centinaia di volte che è entrato nel bosco.
Ha cominciato da un po’ a nevicare piano, perciò sul terreno e sulle foglie morte si scivola. Un
piede di Roy slitta e si storce, mentre l’altro sprofonda piú giú del previsto sotto una coltre leggera di neve e terriccio. Cioè, Roy fa il passo distrattamente – quasi si lascia andare – in uno di quei punti in cui si dovrebbe procedere con cautela e circospezione, o non procedere affatto, se si hanno alternative migliori. Comunque, che cosa succede? Non va giú di peso, non come se fosse inciampato nella tana di una marmotta. Si limita a perdere l’equilibrio, ma poi resiste, ondeggiando, quasi incredulo, e infine va giú, scivolando sul piede che resta in qualche modo intrappolato sotto l’altra gamba. Cadendo, tiene la sega distante da sé e scaglia via l’accetta. Non abbastanza lontano, però: il manico lo colpisce forte contro il ginocchio della gamba che si è storta. Il peso della sega lo ha trascinato, ma per fortuna non ci è caduto sopra.
Si è sentito andare giú quasi al rallentatore, in modo inevitabile e coerente. Si poteva rompere una costola, ma non è successo. Il manico dell’accetta poteva volargli in faccia e colpirlo, ma non è successo. Poteva tagliarsi una gamba in modo serio. Roy enumera mentalmente tutte queste possibilità, non con immediato sollievo, ma come se ancora non fosse certo che non si siano verificate. Perché il modo in cui tutto è cominciato, il modo in cui gli è mancato il piede slittando nel terriccio e facendolo cadere, è stato talmente stupido e maldestro, talmente incredibile da non escludere alcun esito assurdo. Prova a tirarsi su. Gli fanno male tutte e due le ginocchia – uno per il colpo del manico e l’altro per aver battuto forte a terra. Si aggrappa al tronco di un giovane ciliegio – nel quale avrebbe potuto andare a sbattere con la testa – e si tira su a poco a poco. Prova ad appoggiare il peso su un piede e sfiora appena il suolo con l’altro, quello che è scivolato e si è storto sotto di lui. Verificherà l’appoggio tra un attimo. Si china a raccogliere la sega e per poco non cade di nuovo. Una fitta lancinante parte da terra e gli serpeggia in corpo fino a raggiungere il cranio. Roy si scorda della sega e cerca di rizzarsi, non sapendo da dove arrivi il dolore. Dal piede: ci avrà messo sopra il peso mentre si chinava? Il dolore si è ritirato in buon ordine nella caviglia. Roy raddrizza la gamba quanto è possibile, tenendo conto delle condizioni in cui si trova, poi, con estrema cautela, prova a mettere il piede a terra, a poggiarci il peso. Non si capacita di quanto possa far male. E di come non smetta, di come abbia la meglio su di lui. La caviglia non può essere soltanto storta, deve essersi slogata. Rotta, magari? A vederla cosí, dentro lo scarpone, non si direbbe diversa dall’altra, quella che non lo ha tradito.
Sa che gli toccherà sopportarlo. Ci si dovrà abituare, se vuole uscire da qui. E infatti riprova, ma non progredisce per niente. Non riesce a metterci sopra il peso. Deve essere rotta. Una caviglia rotta: anche questo è comunque un infortunio di poco conto, da vecchia signora scivolata sul ghiaccio. Ha avuto fortuna. Una caviglia rotta, un infortunio di poco conto. Ciononostante, non è in grado di fare un passo. Non può camminare.
Alla fine capisce che, se vuole tornare al furgone, dovrà abbandonare l’accetta e la sega a catena, mettersi a quattro zampe e avanzare carponi. Si lascia cadere il piú agilmente possibile per poi issarsi in direzione della traccia delle sue stesse impronte che intanto si vanno riempiendo di neve. Ha la prontezza di spirito di controllare la tasca dove tiene le chiavi, per assicurarsi che la cerniera sia chiusa. Si fa cadere di dosso il berretto scuotendo la testa e lo lascia a terra, perché la visiera gli impedisce la vista. A questo punto gli nevica sul capo scoperto. Ma non fa tanto freddo. Una volta accettata l’idea di utilizzare il moto carponi come sistema di locomozione, le cose migliorano; vale a dire, spostarsi non risulta impossibile, pur essendo gravoso per le mani e per il ginocchio sano. Ora sí che sta attento, trascinandosi sul terriccio e fra gli arboscelli del suolo gibboso. Anche quando trova una lieve pendenza dalla quale potrebbe lasciarsi rotolare, non rischia: deve proteggere la gamba lesa. Per fortuna non si è inoltrato su un terreno fradicio, e per fortuna non ha aspettato oltre, prima di tornare indietro: si è messo a nevicare piú forte e le sue orme sono già quasi scomparse. Senza quella traccia da seguire, sarebbe complicato sapere al livello del suolo se sta avanzando dalla parte giusta. La situazione che in un primo momento gli pareva surreale comincia ad assumere tratti di maggior naturalezza. Procede su mani, gomiti e un solo ginocchio, a distanza ravvicinata da terra, verifica la tenuta di un tronco assicurandosi che non sia marcio, poi ci striscia sopra di pancia, si inzacchera le mani di foglie morte, di terra e di neve (i guanti ha dovuto toglierseli: non riesce ad avere la giusta presa né la sensibilità delle cose che tocca sul suolo, se non con le mani nude, intirizzite e graffiate), ma non si stupisce piú di se stesso. Ha smesso di pensare all’accetta e alla sega rimaste indietro, sebbene all’inizio abbia fatto fatica a staccarsene. I suoi pensieri quasi non risalgono a prima dell’incidente. È successo, non importa come. L’intera vicenda ha perso ogni sfumatura incredibile o innaturale.
C’è da risalire una scarpata piuttosto ripida e, quando la raggiunge, si concede una breve sosta, soddisfatto di essere arrivato fin qui. Si scalda le mani dentro la giacca, una per volta. Per qualche ragione, gli viene in mente Diane con quella giacca a vento rossa da sci che non le dona, ma decide che ognuno ha la propria vita e che non serve a molto preoccuparsi. Poi pensa a sua moglie, che fa finta di ridere davanti alla televisione. Al suo silenzio. Se non altro è al caldo e ha da mangiare, non deve trascinarsi in mezzo a una strada, come una sfollata. Ci sono cose peggiori, si dice. Cose peggiori. Affronta la salita, puntando bene i gomiti e, dove può, il ginocchio dolente ma utilizzabile. Continua a salire; stringe i denti come se questo lo aiutasse a non scivolare all’indietro; si aggrappa a qualsiasi radice scoperta, a tutti gli steli vagamente robusti che vede. Certe volte scivola, gli manca l’appiglio, ma in quei casi si ferma e poi riprende a salire un centimetro dopo l’altro. Non solleva mai la testa per valutare quanto gli resti da percorrere. Se finge che la pendenza duri per sempre, arrivare in cima sarà una sorpresa, un premio.
Ci vuole molto tempo. Ma alla fine raggiunge il pianoro e, attraverso gli alberi e la neve che cade riesce a vedere il furgone. Eccolo, il vecchio Mazda rosso, che miracolosamente lo aspetta, come un amico fedele. Essere in piano gli infonde nuova fiducia nelle proprie capacità perciò si mette in ginocchio, e fa estrema attenzione alla gamba malata e si rialza tremante su quella sana, lasciando penzolare quell’altra e ondeggiando come un ubriaco. Azzarda una specie di saltello. Macché: perderebbe l’equilibrio, cosí. Tenta con delicatezza di spostare un poco del peso sulla gamba malata e si rende conto che il dolore potrebbe fargli perdere i sensi. Si rimette giú come prima e riprende ad andare carponi. Ma anziché procedere in mezzo agli alberi verso il furgone, taglia ad angolo retto e si dirige dove sa di trovare la pista. Quando ci arriva, avanza piú spedito sui solchi di terra compatta, e sul fango che durante il giorno è sgelato ma che ora si va indurendo di nuovo. Per il ginocchio e i palmi delle mani è atroce, ma talmente piú agevole rispetto al tragitto percorso che quasi gli gira la testa.
Vede il furgone davanti a sé. Che lo guarda, lo aspetta.
Riuscirà a guidare. Che fortuna, essersi fatto male alla gamba sinistra. Ora che il peggio è passato lo assalgono tante domande moleste, insieme al sollievo. Chi andrà a recuperargli la sega e l’accetta, come farà a spiegare a qualcuno esattamente dove si trovano? Quanto ci metterà la neve a coprirle? Tra quanto tempo potrà camminare?
Non serve. Scaccia questi pensieri, solleva la testa e dà un’altra occhiata rassicurante al furgone. Si ferma di nuovo per riposare e scaldarsi le mani. Potrebbe rimettersi i guanti ormai, ma perché rovinarli?
Un grosso uccello si alza in volo di fianco a Roy, che allunga il collo per vedere che cos’è. Gli pare un falco, ma potrebbe anche essere una poiana. In tal caso, magari lo terrà d’occhio e valuterà la propria fortuna, vedendolo ferito.
Roy aspetta che riprenda a volteggiare sopra di lui per poter stabilire di che uccello si tratta dalla tecnica del volo, dalla posizione delle ali.
E mentre si dedica a questo, mentre aspetta e osserva le ali – è una poiana, in effetti – si va anche facendo un’idea completamente nuova della storia che lo ha impensierito per le ultime ventiquattr’ore.
Il furgone si muove. Quando ha cominciato? Mentre lui osservava l’uccello? Da principio, il movimento è minimo, un dondolio nei solchi, potrebbe quasi essere un’allucinazione. Roy però sente il motore. È acceso. Sarà salito qualcuno mentre lui era distratto, o già era a bordo ad aspettarlo da prima? È sicuro di avere chiuso, e le chiavi le ha. Si tocca di nuovo la tasca con la cerniera. Qualcuno gli sta rubando il furgone sotto il naso e senza avere le chiavi. Dalla sua postura, Roy urla e agita le braccia come se potesse servire a qualcosa. Il furgone però non sta facendo retromarcia nello spiazzo per andarsene via; sobbalza dritto verso di lui e adesso la persona alla guida suona anche il clacson, piú in segno di saluto che di avvertimento, e intanto rallenta.
Roy vede chi è.
L’unica in possesso dell’altro mazzo di chiavi. L’unica possibile. Lea.
Roy si sforza di portare il peso del corpo sulla gamba sana. Lea salta giú dal furgone e gli corre incontro, per sostenerlo.
– Sono andato giú, – le dice lui, ansimando. – È stata la cosa piú cretina che ho fatto in vita mia –. Poi gli viene in mente di chiederle come sia arrivata fin lí.
– Volare non sono volata, – risponde lei.
È arrivata in macchina, dice – a sentirla parlare si direbbe che non abbia mai smesso di guidare –, è arrivata in macchina ma poi l’ha lasciata sulla strada.
– Troppo leggera per questa pista, per carità, – dice. – E poi ho pensato che potevo impantanarmi. Ma non sarebbe successo, il fango è ghiacciato.
– Sono riuscita a vedere il furgone, – aggiunge. – Perciò ho fatto a piedi quel tratto, ho aperto e mi sono seduta. Ho pensato che non ci avresti messo tanto a tornare, visto che nevicava. Ma non avrei mai pensato di vederti arrivare a quattro zampe.
Il moto, o magari il freddo, le hanno colorito la faccia e ravvivato la voce. Lea si china a controllargli la caviglia e dice che le sembra gonfia.
– Poteva andare peggio, – dice lui.
Lea commenta che per una volta non si era preoccupata. Proprio l’unica volta in cui avrebbe dovuto. (Roy non si prende la pena di farle notare che non dà segno di preoccuparsi di niente da mesi, ormai). Non ha avuto il minimo presentimento.
– Ero solo venuta per dirti una cosa, – prosegue, – perché non vedevo l’ora di dirtela. È un’idea che mi è venuta mentre la signora mi massaggiava. Poi ti ho visto che gattonavi. E ho pensato, Oh mio Dio.
– Che idea?
– Ah, già, – fa lei. – Be’, non so che cosa ne pensi tu. Posso anche dirtelo dopo. Dobbiamo farti sistemare la caviglia.
Che idea?
L’idea è che la squadra di cui ha sentito parlare Percy non esista. Percy ha sentito delle voci in effetti, ma non riguardavano dei forestieri con il permesso di disboscare. Si parlava soltanto di lui, di Roy.
– Il vecchio Eliot Suter è uno che le spara grosse. Conosco la famiglia, sua moglie era sorella di Annie Poole. Lui va in giro a raccontare a destra e a manca la storia dell’affare concluso e ogni volta ne aggiunge un pezzo, e come va a finire? Che ci mette di mezzo la River Inn per esagerare e centinaia di metri cubi di legna al giorno. Un ubriacone pieno di birra che ne ascolta un altro, ed è bell’e fatta. D’altra parte, tu ce l’hai una specie di contratto… sí, insomma, un accordo… – Magari è una stupidaggine… – dice Roy.
– Sapevo che l’avresti detto, ma pensaci…
– Magari è una stupidaggine, però è la stessa idea che è venuta anche a me circa cinque minuti fa.
Ed è vero. È proprio questo che ha improvvisamente pensato mentre guardava la poiana in volo. – Lo vedi, è bell’e fatta, – dice Lea, ridendo compiaciuta. – Basta che una cosa sia anche lontanamente collegata alla locanda, e diventa subito chissà quale storia. Una storia di soldi a palate. È andata cosí, pensa Roy. Ha sentito parlare di se stesso. Tutto quel trambusto, riguardava soltanto lui.
Nessun bulldozer in arrivo, niente squadra di uomini armati di seghe a catena. Frassini, aceri, faggi, ciliegi e acacie sono tutti al sicuro e aspettano lui. Per adesso, sono al sicuro.
Lea è senza fiato per lo sforzo di sostenerlo, ma riesce comunque a dire: – Dio li fa e poi li accoppia.
Questo non è certo il momento adatto per sottolineare il suo cambiamento. Non piú di quanto si congratulerebbe con qualcuno in bilico su una scala a pioli.
Roy ha battuto il piede mentre si sistemava – e in parte veniva sistemato – al posto del passeggero, sul furgone. Emette un gemito che è diverso da quello che gli uscirebbe se fosse solo. Non che intenda drammatizzare il dolore, diciamo piuttosto che utilizza questa espressione per descriverlo a sua moglie.
Quasi per dedicarglielo. Perché Roy sa di non provare ciò che si aspettava di provare se Lea avesse recuperato vitalità. E il verso che emette potrebbe servire a mascherare quella insufficienza, o a giustificarla. Certo, un po’ di cautela è normale, non essendo sicuro che sia un cambiamento definitivo e non soltanto un fuoco di paglia.
Ma se anche è per sempre, se anche è per il meglio, c’è qualcos’altro. Uno svantaggio che ridimensiona il vantaggio. Uno svantaggio che si vergognerebbe ad ammettere, se avesse la forza di farlo.
Il buio e la neve sono troppo fitti per riuscire a vedere oltre i primi alberi. Roy è già stato là dentro in questo periodo, quando il buio annuncia la serrata generale d’inizio inverno. Oggi però ci fa caso, nota qualcosa che pensa di essersi perso le altre volte. Quanto sia intricato quel posto, quanto sia impenetrabile e arcano. Non è questione di un albero dopo l’altro, ma di tutti gli alberi insieme, che complici, solidali si intessono in una cosa sola. È una metamorfosi che avviene alle nostre spalle. C’è un altro modo per dire il bosco, e quel nome adesso è in agguato nella sua testa, va avanti e indietro e quasi si lascia afferrare. Ma non del tutto. È una parola illustre che suona oscura ma imperturbabile.
– Ho lasciato l’accetta, – dice Roy automaticamente. – L’accetta e la sega.
– E allora? Chiediamo a qualcuno di andartele a prendere.
– E poi c’è la macchina. Pensi di tornare a casa con quella e di farmi guidare il furgone?
– Ma sei impazzito?
Ha la voce svagata, perché intanto fa retromarcia con il furgone, verso lo spiazzo. Procede piano, ma non pianissimo, sobbalzando nei solchi, pur senza uscire di pista. Roy non è abituato a guardare negli specchietti retrovisori da quella angolazione, perciò abbassa il finestrino e allunga il collo, prendendosi in faccia la neve. Non lo fa solo per vedere dove sta andando Lea, ma anche per schiarirsi un poco la mente dal senso di vertigine che gli è calato addosso come un calore.
– Piano, – le dice. – Cosí. Piano. Ecco, ci sei. Vai bene. Vai cosí.
Lei, intanto, gli sta dicendo qualcosa riguardo all’ospedale.
– … bisogna che ti diano un’occhiata. Le cose importanti, prima di tutto.
Per quanto ne sa Roy, è la prima volta che Lea guida quel furgone.
È notevole, come se la cava.
Foresta. Ecco la parola. Tutt’altro che un termine strano, eppure è possibile che non l’abbia mai usato in vita sua. Contiene una certa solennità dalla quale lui tende a ritrarsi.
– La Foresta Deserta, – dice, come se questo mettesse fine a qualcosa.
Troppa felicità
Chi non ha studiato la matematica tende a confonderla con l’aritmetica e a considerarla una scienza arida e fredda. La verità è che la matematica richiede molta immaginazione. SOF’JA
KOVALEVSKAJA
I.
Il primo di gennaio dell’anno 1891 una donna minuta e un uomo imponente passeggiano al Cimitero monumentale di Genova. Sono entrambi sulla quarantina. Lei ha la testa grande, infantile, incoronata da fitti riccioli scuri, e un’espressione accesa, vagamente supplice. Il suo viso ha cominciato a mostrare i segni del tempo. Lui è smisurato. Pesa centotrenta chili distribuiti su una stazza possente ed essendo russo viene spesso paragonato a un orso, o anche a un cosacco. Al momento è accovacciato sopra a certe lapidi e scrive su un taccuino, nel quale raccoglie iscrizioni e si interroga su alcune abbreviature che non gli risultano subito comprensibili, benché parli russo, francese, inglese e italiano e capisca il latino classico e medievale. La sua erudizione possiede la vastità della sua corporatura e, sebbene sia specializzato in diritto amministrativo, è in grado di dissertare sullo sviluppo delle attuali istituzioni politiche americane, sulle caratteristiche dei sistemi sociali russo e occidentale, nonché su codici e pratiche legali degli imperi antichi. Ma non è un pedante. È arguto e socievole, a proprio agio con gente di vari livelli, e in grado di condurre un’esistenza agiata, grazie alle sue proprietà nei dintorni di Char’kov. Gli è stato tuttavia impedito di ricoprire l’incarico di docente universitario in Russia, a causa delle sue idee progressiste.
Il nome che ha gli calza a pennello. Maksim. Maksim Maksimovič Kovalevskij.
Anche la donna con lui è una Kovalevskij. È stata sposata a un lontano cugino di Maksim, ma ora è vedova.
Gli si rivolge in tono scherzoso.
– Lo sai, no, che uno di noi deve morire, – dice. – Uno di noi morirà entro l’anno.
Prestandole un ascolto alquanto distratto, lui le chiede, Come mai?
– Perché abbiamo passeggiato in un cimitero a Capodanno.
– Ma pensa.
– Ci sono ancora alcune cose che non sai, – ribatte lei con quel suo tono tra l’impertinente e il preoccupato. – Io lo so da prima di compiere otto anni.
– Le femmine passano piú tempo in cucina con le cameriere, e i maschi nelle stalle; immagino sia per questo.
– E nelle stalle non si sente parlare di morte?
– Non granché. Ci si concentra su altre cose.
C’è neve quel giorno, ma è neve molle. Dove passano, lasciano impronte d’acqua nera. Il loro primo incontro avvenne nel 1888. Maksim era arrivato a Stoccolma in veste di consulente per la fondazione di un istituto di scienze sociali. La nazionalità e addirittura il cognome in comune li avrebbero fatti incontrare anche senza bisogno di una particolare attrazione. A lei sarebbe toccato il compito di intrattenerlo e piú genericamente di occuparsi di un connazionale come lei progressista, e sgradito in patria.
Il compito tuttavia si rivelò tutt’altro che gravoso. Si corsero incontro come se fossero davvero parenti che non si vedevano da molto tempo. Poi vennero un torrente di domande e battute scherzose, un’intesa immediata, un profluvio di chiacchiere in russo, quasi che le lingue dell’Europa d’Occidente fossero labili prigioni nelle quali anche troppo a lungo erano stati reclusi, o misere succedanee del solo, autentico linguaggio umano. Anche il loro comportamento ignorò presto la decenza secondo i dettami di Stoccolma. Maksim si fermava fino a tardi nell’appartamento di lei. Lei andava da sola a pranzo con lui nel suo albergo. Quando Maksim si fece male a una gamba in seguito a un incidente sul ghiaccio, lei lo aiutò a lavarsi e vestirsi e, quel che è peggio, lo raccontò in giro. Era talmente sicura di sé, al tempo, e soprattutto, talmente sicura di lui. Prendendo spunto da de Musset, spedí a un’amica una sua descrizione:
È un tipo allegro, e al tempo stesso tristissimo; vicino antipatico, compagno grandioso; frivolo all’eccesso, eppure molto ricercato; scandalosamente ingenuo, e ciononostante blasé; tremendamente sincero, e al tempo stesso sornione.
E alla fine scrisse: «E un autentico russo, per giunta».
Maksim il Grosso, lo definiva poi.
«Non ho mai avuto voglia di scrivere storie d’amore, come quando sono con Maksim il Grosso».
E ancora: «Occupa troppo spazio, sul divano come nei pensieri della gente. In sua presenza, mi è semplicemente impossibile pensare ad altro che a lui».
Era il periodo in cui avrebbe invece dovuto lavorare giorno e notte per preparare la partecipazione al Premio Bordin. – Sto trascurando non soltanto le mie Funzioni, ma anche i miei Integrali ellittici e il mio Corpo rigido, – disse scherzando col collega matematico Mittag-Leffler, il quale convinse Maksim che era venuto il momento di andarsene per un po’ a Uppsala a tenere un ciclo di conferenze. Lei se lo strappò a fatica di mente, abbandonò i sogni a occhi aperti e tornò a dedicarsi al movimento dei corpi rigidi e alla soluzione del problema della cosiddetta sirena matematica grazie all’uso di funzioni theta a due variabili indipendenti. Lavorò senza tregua, ma felice, perché lui rimaneva sullo sfondo costante dei suoi pensieri. Rientrando, Maksim la trovò stremata ma esultante. Per ben due ragioni: l’articolo pronto per gli ultimi ritocchi, prima di essere inviato in forma anonima alla commissione del premio, e il suo amante nervoso ma allegro, lieto di poter metter fine al proprio allontanamento coatto e, a suo modo di vedere, chiaramente propenso a fare di lei la donna della sua vita.
Fu il Premio Bordin a rovinarli. O cosí credette Sof’ja. Da principio, lei stessa ne fu travolta, abbagliata dallo scintillio delle luci e dello champagne. I complimenti la frastornarono, insieme alla meraviglia e ai baciamano distribuiti a profusione a copertura di certe verità tanto importune quanto immutabili. Il fatto che non le avrebbero mai concesso un incarico degno del suo talento, che poteva già reputarsi fortunata se avesse ottenuto un posto da insegnante presso un liceo femminile di provincia. Mentre lei si crogiolava nel presente, Maksim se la svignò. Mai una parola riguardo alla vera ragione, è ovvio: giusto gli articoli che aveva da scrivere, giusto il suo bisogno della pace e della tranquillità di Beaulieu.
Si era sentito trascurato. Lui, un uomo non avvezzo a esserlo, ma che al contrario, da quando era entrato nell’età adulta non doveva aver mai fatto il proprio ingresso in un salotto o a un ricevimento correndo il rischio di passare inosservato. E non era stato cosí neppure a Parigi. Non si può dire che fosse diventato invisibile quando le luci della ribalta puntarono su Sonja, ma piuttosto si era trasformato nell’ordinaria amministrazione. Un uomo di indiscusso valore e spendibile prestigio, dotato di una certa maestosità fisica e intellettuale unita a una lievità di ingegno e a un sapiente fascino virile. Lei, in compenso, rappresentava la novità assoluta, un delizioso fenomeno, la donna che disponeva di un dono per la matematica, di una timidezza femminile, di un aspetto piuttosto attraente ma, sotto i riccioli, anche di un cervello del tutto eccezionale.
Maksim le spedí da Beaulieu le proprie scuse tiepide e accigliate, rifiutando di accogliere la proposta di lei di andarlo a trovare appena il trambusto si fosse placato. Era con lui una certa signora, le disse, che non poteva di sicuro presentarle. Meglio che Sonja tornasse in Svezia, aggiunse; doveva essere lieta di incontrare gli amici che la aspettavano. Di certo gli studenti avevano bisogno di lei, come pure la sua bambina. (Una stoccata al suo scarso senso materno? L’allusione non le era nuova).
E in chiusura della lettera, quella frase isolata e tremenda.
«Se ti amassi, avrei scritto cose diverse».
La fine di tutto. Di ritorno da Parigi con il suo premio e il luccichio di quella notorietà stravagante, si ritrovò con i vecchi amici che all’improvviso significavano meno di niente per lei. Con gli studenti, di cui le importava qualcosa di piú, ma solo quando era loro di fronte nel ruolo di matematica, un ruolo stranamente ancora accessibile. E infine, con la sua piccola Fufu, teoricamente trascurata eppure sempre di una devastante allegria.
A Stoccolma ogni cosa le ricordava lui.
Sedeva nella stessa stanza, con quei mobili traslocati sul mar Baltico a un costo folle. Di fronte a lei, lo stesso divano che aveva, poco tempo addietro, stoicamente sostenuto il peso di Maksim. Nonché il suo, quando lui se la stringeva con grazia fra le braccia. A dispetto della stazza non era mai impacciato come amante.
Stesso damasco rosso sul quale si erano accomodati ospiti piú o meno illustri, nella sua vecchia casa perduta. Forse Fëdor Dostoevskij, con la sua eterna inquietudine funesta, abbagliato da Anjuta, la sorella di Sof’ja. Di certo, Sof’ja stessa, la figlia meno riuscita di sua madre, deludente come al solito. C’era il vecchio stipetto portato a sua volta dalla casa di Palibino, con i ritratti dei nonni dipinti su porcellana e incassati nel legno.
I nonni Schubert. La loro immagine non la confortava. Lui in uniforme, lei in abito da ballo, tronfi di un assurdo orgoglio. Avevano ottenuto quel che volevano, pensava Sof’ja, e sapevano mostrare solo sdegno per i meno fortunati o conniventi.
– Lo sapevi che sono per metà tedesca? – aveva domandato a Maksim.
– Certo. Se no, come saresti diventata un simile prodigio di laboriosità? E chi ti avrebbe riempito la testa di numeri mitici?
Se ti amassi.
Fufu le portò della marmellata su un piatto, chiedendole di giocare con lei un gioco a carte per bambini.
– Non mi seccare. Sei capace di non seccarmi?
Piú tardi le asciugò le lacrime e implorò il suo perdono.
Ma Sof’ja, dopotutto, non era tipo da abbattersi per sempre. Trangugiò l’orgoglio, fece appello alle proprie risorse e scrisse lettere scanzonate che, attraverso i numerosi riferimenti a futili piaceri come il pattinaggio e l’equitazione, nonché l’interessamento agli scenari politici francese e russo sarebbero potute bastare a metterlo a suo agio, forse persino a fargli capire quanto fosse stato superfluo e brutale da parte sua l’ammonimento impartito. Riuscí a carpirgli un altro invito e partí per Beaulieu non appena ebbe concluso il giro di conferenze, nell’estate.
Bei momenti. Anche qualche incomprensione, come le chiamava lei. (Prima di passare a definirle «conversazioni»). Dissapori, rotture, semi-rotture, idilli improvvisi. Un viaggio accidentato per l’Europa durante il quale si presentarono a tutti apertamente, e scandalosamente, come amanti. Talvolta Sof’ja si chiedeva se lui avesse altre donne. Lei stessa si trastullò con l’idea di sposare un tedesco che la corteggiava. Ma era un uomo troppo cerimonioso, e sospettava che fosse in cerca di una Hausfrau. Senza contare che di lui, non era innamorata. A sentirlo pronunciare le sue scrupolose parole d’amore in tedesco, il sangue le si raffreddava a poco a poco.
Quando venne a sapere di quel rispettabile corteggiamento, Maksim disse che avrebbe fatto meglio a sposare lui. A condizione, aggiunse, che sapesse accontentarsi di quel che aveva da offrire. Cosí dicendo, finse di riferirsi al denaro. Accontentarsi della sua ricchezza era ovviamente un paradosso. Tutt’altra cosa, invece, era accontentarsi di una disponibilità emotiva tiepida e formale, che escludeva scenate e contrarietà perlopiú innescate da lei.
Sof’ja si rifugiò nell’ironia, lasciandogli credere di non averlo preso sul serio, e non si decise piú nulla. Di ritorno a Stoccolma tuttavia, si sentí una stupida. Perciò, prima di tornare a sud per Natale, aveva scritto a Julia spiegandole che non sapeva se fosse diretta verso la felicità o il dolore. Voleva dire che si sarebbe dichiarata in modo esplicito e avrebbe scoperto se anche le intenzioni di Maksim erano serie. Si era preparata alla piú umiliante delle delusioni.
Che invece le era stata risparmiata. Dopotutto Maksim era un galantuomo e onorò la parola data. Si sarebbero sposati in primavera. Una volta presa la decisione, divennero piú disinvolti che mai da quando si erano conosciuti. Sof’ja si comportava bene, evitando scatti e malumori. Maksim si aspettava un certo decoro, ma non quello dell’Hausfrau. Non ebbe mai a ridire sulle sue sigarette, come avrebbe potuto fare un marito svedese, né sulle innumerevoli tazze di tè o le intemperanze politiche. E a Sof’ja non dispiaceva constatare che, quando la gotta lo affliggeva, anche Maksim poteva rivelarsi irragionevole, seccante e vittimista quanto lei. Erano compatrioti, in fondo. E pur sentendosi in colpa, Sof’ja trovava noiosi i ragionevolissimi svedesi, gli unici disposti ad affidare a una donna una cattedra presso la loro nuova università. La capitale era troppo ordinata e pulita, le usanze troppo regolari, le feste troppo beneducate. Se decidevano che una prassi era corretta, la seguivano fino in fondo, senza concedersi l’esaltazione e forse anche il pericolo di notti intere passate a discutere, come sarebbe successo a Pietroburgo o a Parigi.
Maksim non interferiva con il vero e proprio lavoro di lei, che aveva a che fare con la ricerca, piú che con l’insegnamento. Gli faceva piacere che Sof’ja si dedicasse con trasporto a un’attività, ma lei sospettava che trovasse la matematica se non proprio futile, almeno irrilevante. Come avrebbe potuto non pensarlo, un professore di giurisprudenza e di sociologia?
Il clima a Nizza è piú mite, quando lui l’accompagna al treno qualche giorno dopo.
– Come faccio a partire, con un’aria cosí dolce?
– Ah, troverai la tua cattedra e le equazioni differenziali ad aspettarti. Scommetto che in primavera non riuscirai a strapparti da lí.
– Credi di no?
Sof’ja non deve, proprio non deve pensare che si tratti di un modo tortuoso per farle sapere che preferirebbe non sposarla in primavera.
Ha già scritto a Julia, dicendole che finalmente è in arrivo la felicità. La felicità finalmente. La felicità.
Alla pensilina del treno un gatto nero sfreccia di traverso davanti a loro. Sof’ja detesta i gatti, specie quelli neri. Ma non dice niente e trattiene un brivido. Quasi a premiarla per tanto autocontrollo, lui le annuncia che viaggerà con lei fino a Cannes, se le fa piacere. Sof’ja riesce a stento a rispondere, sopraffatta dalla gratitudine. E da una tremenda voglia di piangere. Le lacrime in pubblico sono una cosa che Maksim trova riprovevole. (In realtà crede che non dovrebbe essere costretto a tollerarle neanche in privato).
Sof’ja riesce a ricacciarle indietro e, quando arrivano a Cannes, lui la cinge nell’abbraccio ampio e avvolgente degli abiti di buon taglio che odorano di uomo: un misto di animali da pelliccia e tabacco costoso. La bacia in modo decoroso ma con un breve guizzo della lingua sulle labbra, in memoria di gustose intimità.
Naturalmente, lei non gli ha fatto presente che il suo lavoro riguarda la teoria delle equazioni differenziali alle derivate parziali e che lo ha concluso ormai da qualche tempo. Trascorre grossomodo la prima ora del suo viaggio solitario come d’abitudine subito dopo essersi separata da lui: valutando i segnali d’affetto in confronto a quelli di insofferenza, o il distacco in confronto a una certa indiscussa passionalità.
«Ricordati sempre: quando un uomo esce da una stanza, si lascia alle spalle tutto quel che c’è dentro, – le ha detto la sua amica Marie Mendelson. – Una donna, invece, si porta appresso tutto quel che c’è avvenuto».
Se non altro ora ha tempo di accorgersi di avere mal di gola. Se per caso Maksim lo ha preso, spera solo che non sospetti di lei. Come scapolo in ottima salute, reputa ogni lieve contagio un’offesa, e ritiene aggressioni personali un ambiente mal ventilato o un alito infetto. Per certi aspetti è proprio un uomo viziato.
Viziato e invidioso, anche. Poco tempo prima le ha scritto per comunicarle che, a causa della coincidenza dei cognomi, certi suoi articoli sono già stati attribuiti a lei. Ha ricevuto una lettera da un agente letterario di Parigi che esordiva rivolgendosi a lui con la formula, Gentile Signora. Si era dimenticato, ahimè, che oltre a essere una matematica Sof’ja era anche autrice di romanzi. Che delusione per l’agente parigino scoprire che lui non era né l’uno né l’altro. Bensí soltanto un accademico, e un uomo.
Questa sí che è buona, in effetti.
II.
Sof’ja si addormenta prima che si accendano le luci sul treno. Gli ultimi pensieri da sveglia – pensieri spiacevoli, peraltro – riguardano Victor Jaclard, il marito della sorella morta; intende incontrarlo a Parigi. Per la verità è soprattutto Urej, il nipote, figlio di quella sorella, che è ansiosa di vedere, ma il ragazzo sta con il padre. Nella mente, continua a immaginarsi Urej com’era a cinque o sei anni, biondo come un angelo, fiducioso e tenero, ma di carattere non molto simile alla madre, Anjuta. Sof’ja si perde in un sogno su Anjuta, ma una Anjuta che risale a ben prima che Urej e Jaclard facessero la propria comparsa sulla scena. Una Anjuta non sposata, bionda, bellissima e irritabile, di nuovo nella tenuta di famiglia a Palibino, intenta ad abbellire di icone ortodosse la propria stanza nella torre, lamentandosi che non si tratti però di autentico artigianato religioso dell’Europa medievale. Ha letto di recente un romanzo di Bulwer-Lytton e se ne va in giro in un drappeggio di veli per meglio incarnare Edith dal Collo di Cigno, l’amante di Harold di Hastings. Anjuta intende scrivere un suo romanzo su Edith, ne ha già all’attivo alcune pagine nelle quali l’eroina deve riconoscere il cadavere sfigurato dell’amante attraverso certi segni particolari noti a lei sola.
Misteriosamente arrivata a sua volta sul treno, Anjuta legge quelle pagine a Sof’ja, che non ha cuore di spiegarle quanto sia tutto cambiato e che cosa sia successo dai tempi della stanza nella torre. Al risveglio, Sof’ja riflette su quanto il sogno corrisponda al vero – l’ossessione di Anjuta per la storia medievale, soprattutto inglese – e come da un giorno all’altro tutto ciò sia evaporato, veli e drappeggi inclusi, quasi non fosse mai esistito, e abbia lasciato il posto a una Anjuta seria e moderna alle prese con la storia di una ragazza che, per volontà dei genitori e nel rispetto delle convenzioni, rifiuta l’amore di un giovane intellettuale destinato a morire. Dopo la sua scomparsa, la giovane si rende conto di amarlo, e non le resta altra scelta che seguirlo nella morte.
Anjuta aveva spedito segretamente lo scritto a una rivista diretta da Fëdor Dostoevskij, e il racconto era stato pubblicato.
Suo padre aveva avuto una reazione scandalizzata.
– Ora ti sei messa a vendere storie; il prossimo passo quale sarà, vendere te stessa?
In tanto putiferio si era presentato Fëdor in persona che, pur comportandosi indecorosamente a un ricevimento, era riuscito ad addolcire la madre di Anjuta con una visita privata, e aveva finito con l’avanzare una proposta di matrimonio. La strenua opposizione del padre alle nozze aveva quasi persuaso Anjuta ad acconsentire alla fuga d’amore. Ma dopotutto in lei era forte il desiderio di notorietà personale e forse qualcosa le disse che con Fëdor sarebbe stata costretta a rinunciarvi, ragion per cui rifiutò. Lui la inserí nel romanzo L’idiota nei panni di Aglaja, e poi sposò una giovane stenografa.
Sof’ja torna ad appisolarsi e scivola in un altro sogno nel quale lei e Anjuta sono entrambe giovani ma non come quando stavano a Palibino, e si trovano insieme a Parigi, e Jaclard, l’amante di Anjuta (non ancora suo marito), ha preso il posto tanto di Harold di Hastings quanto di Fëdor il romanziere nel ruolo di eroe, un eroe genuino sebbene di modi non raffinati (mena vanto delle proprie origini contadine), e sin dal principio di condotta infedele. Jaclard combatte in una località fuori Parigi, e Anjuta teme che possa essere ucciso, vista la sua indole temeraria. Ora nel sogno di Sof’ja, Anjuta è andata a cercarlo, ma le strade per le quali vaga piangendo e chiamando il suo nome si trovano a Pietroburgo, non a Parigi, e intanto Sof’ja viene lasciata sola in un immenso ospedale parigino pieno di soldati morti e di cittadini lordi di sangue, e tra i cadaveri c’è anche quello di suo marito, Vladimir. Sof’ja fugge da quella folla di vittime, perché sta cercando Maksim il quale è al sicuro dai combattimenti, all’hotel Splendide. Ci penserà Maksim a portarla via di qui.
Si sveglia. Fuori piove ed è buio e lei non è sola nello scompartimento. Accanto alla porta siede una giovane scarmigliata, con una cartella di disegni. Sof’ja teme di aver gridato nel sonno, ma non deve essere successo, visto che la ragazza dorme tranquilla.
Supponiamo che invece fosse sveglia e che Sof’ja le avesse detto: «Scusate, stavo sognando del 1871. Io c’ero, a Parigi, e mia sorella era innamorata di un comunardo. Lui fu catturato e rischiava la fucilazione e la deportazione in Nuova Caledonia, ma poi riuscimmo a tirarlo fuori. Grazie a mio marito. Mio marito Vladimir, che non era affatto un comunardo, ma voleva soltanto osservare i fossili nel Jardin des Plantes».
La ragazza si sarebbe annoiata. Magari senza mancarle di rispetto, avrebbe comunque lasciato trapelare l’idea che, ai suoi occhi, tutto ciò poteva essere successo anche prima della cacciata di Adamo ed Eva. Probabilmente non era nemmeno francese. Una francese di quell’età che potesse permettersi il lusso di un biglietto di seconda classe, di solito non viaggiava da sola. Americana?
Strano a dirsi, ma Vladimir era davvero riuscito a trascorrere qualche giorno al Jardin des Plantes, all’epoca. Non era vero invece che l’avessero ucciso. In pieno tumulto, lui gettava le basi della sua unica carriera, quella di paleontologo. Corrispondeva alla verità anche il fatto che Anjuta aveva portato Sof’ja con sé in un ospedale nel quale tutte le infermiere professioniste erano state licenziate. In quanto giudicate controrivoluzionarie, avevano dovuto essere rimpiazzate dalle mogli e dalle compagne della Comune. Le donne imprecavano contro quelle sostitute perché non sapevano fare neanche un bendaggio, e i feriti morivano, sebbene la maggior parte sarebbe forse morta comunque. C’era la malattia da affrontare, oltre alle ferite di guerra. Correva voce che la gente si mangiasse anche i cani e i ratti.
Jaclard combatté con i suoi rivoluzionari per dieci settimane. Dopo la sconfitta fu imprigionato a Versailles, in una cella sotterranea. Parecchi uomini scambiati per lui erano stati passati per le armi. O cosí si diceva.
A quel punto il Generale, padre di Anjuta e Sof’ja, era arrivato dalla Russia. Anjuta era stata portata a Heidelberg, dove era crollata a letto. Sof’ja ritornò a Berlino e ai propri studi matematici, ma Vladimir restò, abbandonando i suoi mammiferi del Terziario per sostenere il Generale nell’impresa di liberare Jaclard. Lo scopo venne raggiunto combinando audacia e offerte di denaro. Jaclard doveva essere tradotto in un carcere parigino sotto la scorta di un unico agente e il tragitto prevedeva la percorrenza di strade che sarebbero state affollate, a causa di una fiera. Vladimir si incaricò di farlo sparire mentre la guardia, debitamente pagata, si fingeva distratta. Poi, sempre sotto la guida di Vladimir, Jaclard sarebbe stato sospinto tra la folla fino a una stanza dove lo aspettava un cambio di abiti civili. Da lí avrebbe infine raggiunto la stazione e, munito del passaporto di Vladimir, sarebbe riuscito a varcare il confine e fuggire in Svizzera.
Tutta l’operazione riuscí.
Jaclard non si preoccupò di rispedire il passaporto finché non lo raggiunse Anjuta che provvide a restituirlo. Il denaro non venne mai risarcito.
Dal suo hotel a Parigi, Sof’ja inviò messaggi a Marie Mendelson e a Jules Poincaré. La domestica di Marie rispose che la signora si trovava in Polonia. Sof’ja le fece pervenire un ulteriore messaggio nel quale diceva che avrebbe potuto avere bisogno dell’assistenza dell’amica, la primavera ventura, per «la scelta del costume piú adatto a quell’evento che la gente sembra considerare il piú importante nella vita di una donna». Tra parentesi aggiunse che per il momento i rapporti tra lei e il mondo alla moda erano «ancora piuttosto confusi».
Poincaré si presentò la mattina scandalosamente di buon’ora lamentandosi subito del comportamento del matematico Weierstraß, ex mentore di Sof’ja, il quale aveva fatto parte della giuria del recente premio di discipline matematiche istituito dal re di Svezia. Poincaré era stato insignito del premio, in effetti, ma Weierstraß aveva ritenuto opportuno precisare che il suo lavoro – il lavoro di Poincaré – poteva contenere errori da lui non rilevati per ragioni di tempo. Aveva inoltre inviato una lettera al sovrano di Svezia sottoponendogli i propri dubbi debitamente annotati, come se il personaggio in questione sapesse di cosa si stava parlando. Infine si era permesso di prospettare l’ipotesi che in futuro Poincaré venisse valutato piú per gli aspetti negativi che per quelli positivi del suo contributo.
Sof’ja lo placò dicendogli che avrebbe presto incontrato Weierstraß e che avrebbe affrontato con lui l’argomento. Finse di non averne saputo nulla, sebbene avesse scritto una lettera scherzosa al suo vecchio maestro sulla vicenda.
«Il sonno regale di sua maestà deve essere stato enormemente turbato dall’arrivo delle vostre informazioni. Pensate quanto avrete sconvolto i suoi regali pensieri fino a quel momento sereni nella loro beata ignoranza matematica. Badate a non farlo pentire della generosità dimostrata…» – E dopotutto, – disse a Jules, – dopotutto voi avete il premio, che sarà vostro per sempre. Jules concordò, aggiungendo che il suo nome avrebbe continuato a brillare, mentre quello di Weierstraß sarebbe stato dimenticato.
Saremo dimenticati tutti, pensò Sof’ja, ma non lo disse, perché gli uomini sono molto sensibili, specie in gioventú, su questo punto.
Si congedò da lui a mezzogiorno e andò a trovare Jaclard e Urej. Abitavano in una zona povera della città. Dovette attraversare un cortile con i panni stesi – la pioggia era cessata, ma il cielo era ancora scuro – e arrampicarsi su una lunga scala esterna piuttosto sdrucciolevole. Jaclard le urlò che la porta era aperta e Sof’ja, entrando, lo trovò seduto su una cassetta rovesciata, intento a lucidare un paio di stivali. Lui non fece l’atto di alzarsi a salutarla e, quando Sof’ja prese a sfilarsi il mantello, le disse: – Meglio di no. La stufa resta spenta fino a sera –. La pilotò verso l’unica poltrona, sbrindellata e bisunta.
La situazione era peggiore del previsto. Urej non c’era, non l’aveva aspettata.
Erano due le cose che avrebbe voluto scoprire sul conto del ragazzo. Se andasse assomigliando piú ad Anjuta e al ramo russo della famiglia. E se fosse cresciuto di statura. L’anno prima a Odessa, a quindici anni, non ne dimostrava piú di dodici.
Presto dovette accorgersi che la piega assunta dalle circostanze aveva reso meno rilevanti simili preoccupazioni.
– E Urej? – chiese.
– È fuori.
– A scuola?
– Può darsi. Ne so poco. E vorrei saperne anche meno.
Sof’ja pensò fosse meglio tranquillizzarlo e riprendere piú tardi l’argomento. Si informò sulla sua salute e Jaclard le rispose di avere i polmoni malandati. Disse che non si era mai ripreso dall’inverno del ’71, dagli stenti e le notti all’addiaccio. Sof’ja non ricordava che i ribelli avessero patito la fame – era loro preciso dovere nutrirsi, per poter combattere – ma lo assecondò dicendo che aveva giusto ripensato a quei tempi, durante il tragitto in treno. Le era tornato in mente Vladimir, disse, e la liberazione avvenuta come una scena da opera buffa.
Altro che opera buffa, disse lui. Ma intanto si rianimava, parlandone. Ricordò gli uomini fucilati al posto suo, e la violenza dei combattimenti tra il venti e il trenta maggio. Quando alla fine lo catturarono, il momento delle esecuzioni sommarie era passato, ma si aspettava di morire comunque a conclusione di un processo-farsa. Dio solo sapeva come fosse riuscito a scamparla. Non che credesse in Dio, precisò, come faceva ogni volta.
Ogni volta. E a ogni racconto della vicenda, il ruolo di Vladimir – e quello del denaro messo a disposizione dal Generale – si riducevano. Non una parola sul passaporto. A fare la differenza erano stati solo l’agilità e il coraggio di Jaclard in persona. In compenso, parlando, sapeva in effetti ammorbidirsi nei riguardi degli interlocutori.
Il suo nome era tuttora ricordato. La sua storia continuava a circolare.
E ne vennero altre, di storie, note a loro volta. Si alzò ed estrasse una cassaforte da sotto il letto. Conteneva il prezioso documento, quello con il quale lo avevano bandito dalla Russia, quando stava a Pietroburgo con Anjuta, qualche tempo dopo i giorni della Comune. Dovette leggerlo integralmente. «Egregio signor Konstantin Petrovič, mi preme richiamare la vostra attenzione sul fatto che il cittadino francese Jaclard, membro della smantellata Comune, durante la propria permanenza a Parigi è rimasto in costante contatto con certi rappresentanti del partito rivoluzionario del proletariato polacco, e che, grazie alle amicizie della moglie, ha contribuito al trasferimento delle lettere dell’ebreo Karl Mendelson a Varsavia. Il suddetto Jaclard risulta essere in rapporti di amicizia con numerosi eminenti estremisti francesi. Da Pietroburgo egli ha fatto pervenire a Parigi notizie false e tendenziose sulle condizioni della politica russa e, dopo il primo marzo e l’attentato ai danni dello zar, simili informazioni hanno superato il limite del tollerabile. Per tale motivo, su mia personale insistenza, il ministro ha deciso di espellerlo oltre i confini dell’impero».
Mentre leggeva gli era tornato il buonumore, e Sof’ja si era ricordata di quanto un tempo gli piacesse ridere e scherzare e di come lei, e perfino Vladimir, fossero quasi onorati delle sue attenzioni sebbene in veste di meri spettatori.
– Ah, peccato, – disse. – Peccato che l’informazione non sia completa. Non fa parola del fatto che i marxisti dell’Internazionale di Lione mi abbiano chiesto di rappresentarli a Parigi.
In quel momento arrivò Urej. Suo padre continuò a parlare.
– La cosa era segreta, ovvio. Ufficialmente mi inserirono nel Comitato di pubblica sicurezza –. Ormai camminava avanti e indietro, in preda a una foga irreprimibile. – Fu a Lione che scoprimmo della cattura di Napoléon le Neveu. Pittato come una prostituta.
Urej rivolse alla zia un cenno del capo, si tolse la giacca – era chiaro che non sentiva il freddo – e sedette sulla cassetta per sostituire il padre nella lucidatura degli stivali.
Sí. In effetti somigliava ad Anjuta. A quella degli ultimi tempi, però. La piega stanca e accigliata delle palpebre, la curva scettica – sprezzante, nel suo caso – delle labbra carnose. Nemmeno l’ombra della ragazza biondo grano affamata di avventure e di virtuose glorie, con le sue incontenibili tirate di ingiurie. Di quella creatura, Urej non poteva aver memoria; lui ricordava solo una donna sofferente, asmatica, debilitata, afflitta dal cancro, ansiosa di morire.
Jaclard l’aveva amata in principio, forse, sempre che fosse in grado di amare qualcuno. Di certo aveva riconosciuto l’amore che lei gli riservava. Nella lettera semplice o magari solo presuntuosa inviata al padre per comunicargli la propria decisione di sposarla, aveva spiegato come gli sembrasse ingiusto abbandonare una donna che manifestava un tale affetto per lui. Alle altre non aveva rinunciato mai, neanche all’inizio della relazione, quando Anjuta lo andava scoprendo con entusiasmo. E di sicuro non nel corso del loro matrimonio. Sof’ja pensò che potesse esercitare un certo fascino anche adesso, a dispetto della barba grigia e incolta e del fatto che di quando in quando, nella foga del dire, le parole gli uscivano tra farfugliamenti e schizzi di saliva. Un eroe consumato dalla sua battaglia, disposto a sacrificare la propria giovinezza – ecco come avrebbe potuto presentarsi, non senza efficacia. Ed era vero, in fondo. Fisicamente audace, nutriva forti ideali, ed essendo nato contadino sapeva cosa vuol dire essere disprezzati.
Anche lei, in quel momento, lo disprezzava.
La stanza era misera, ma a osservarla bene ci si accorgeva che era stata pulita al meglio. Da alcuni chiodi alla parete pendevano altrettanti tegami da cucina. La stufa spenta era lustra, come del resto il fondo di quei tegami. A Sof’ja balenò l’idea che potesse esserci una donna con lui, anche allora.
Jaclard intanto parlava di Clemenceau, dicendosi in buoni rapporti con lui. Sembrava pronto a
vantarsi dell’amicizia con un uomo che Sof’ja si aspettava di sentirgli accusare di lavorare al soldo del ministero degli Esteri britannico (benché lei personalmente credesse falsa l’imputazione).
Lo distrasse complimentandosi per l’ordine che regnava nell’alloggio.
Lui si guardò attorno, sorpreso dal cambiamento di rotta del discorso, poi si aprí in un lento sorriso, carico di una nuova malignità e disse:
– Merito della persona che ho sposato; si occupa lei delle mie necessità. Per fortuna è francese, una signora meno petulante e scansafatiche delle donne russe. Ha studiato, e ha lavorato come governante, ma ha perso il posto per le sue idee politiche. Temo che non potrò presentartela. È povera ma dignitosa, e il suo buon nome le sta ancora a cuore.
– Ah, – disse Sof’ja, alzandosi. – Volevo dirti che anch’io mi risposo. Un signore russo. – Avevo sentito che ti accompagnavi a Maksim Maksimovič. Ma non mi era giunta voce di un matrimonio.
Sof’ja tremava essendo rimasta a lungo al freddo. Si rivolse a Urej con il tono piú festoso possibile.
– Ti va una passeggiata fino alla stazione con la tua vecchia zia? Non ho avuto modo di parlarti nemmeno un po’.
– Spero di non averti offesa, – disse Jaclard, velenoso. – Sono un sostenitore convinto della verità.
– No, per niente.
Urej si infilò la giacca e Sof’ja notò che gli stava larga. Probabilmente l’avevano presa al mercato delle pulci. Pur essendo cresciuto, il ragazzo non la superava in altezza. Forse non aveva ricevuto un’alimentazione corretta in un momento importante della vita. Sua madre era stata alta di statura, e Jaclard lo era ancora.
Sebbene non avesse dato l’impressione di avere una gran voglia di accompagnarla, Urej cominciò a parlare ancor prima che arrivassero in fondo alle scale. E le aveva subito preso la borsa, senza farselo chiedere.
– È talmente spilorcio che non ti ha acceso il fuoco. La legna c’è, nella cassetta; l’ha portata lei stamattina. Quella donna è brutta come un topo di fogna: per questo non ha voluto fartela conoscere.
– Non dovresti parlare cosí di una donna.
– Perché no? Non vogliono la parità?
– Forse dovevo dire «di una persona». Ma non è né di lei né di tuo padre che mi interessa parlare. Voglio sapere di te. Come vanno gli studi?
– Li detesto.
– Non è possibile odiare tutte le materie.
– Chi l’ha detto? È facilissimo, invece.
– Potresti usare il russo, quando parli con me?
– È una lingua da barbari. Come mai il tuo francese è cosí scadente? Secondo lui parli come i barbari. Lo diceva anche di mia madre. I russi sono dei barbari.
– Dice anche questo?
– Le mie idee me le faccio da me.
Proseguirono per un tratto in silenzio.
– Parigi è un po’ triste in questo periodo dell’anno, – disse Sof′ja. – Ti ricordi quanto ci siamo divertiti quell’estate a Sèvres? Si parlava di tutto. Fufu si ricorda di te e ti nomina spesso. Si ricorda che volevi tanto trasferirti da noi.
– Bambinate. Allora non avevo idea di come stanno le cose.
– Adesso invece ce l’hai? Hai pensato a un mestiere che ti piacerebbe fare?
– Sí.
Dato il compiacimento provocatorio nella sua voce, Sof’ja non gli chiese quale fosse. Lui glielo
disse, comunque.
– Voglio fare l’assistente vetturino, quello che dice il nome delle fermate. Per un po’ l’ho fatto quando sono scappato a Natale, ma lui è venuto a riprendermi. Non potrà farlo di nuovo, quando avrò un anno in piú.
– Magari dire il nome delle fermate non ti farà felice per sempre.
– Perché no? È utilissimo. Necessario sempre. Per come la vedo io, i matematici non sono necessari.
Sof’ja tacque.
– Perderei il rispetto di me, – disse lui. – Se fossi un professore di matematica.
Intanto, erano arrivati alla pensilina del treno.
– Uno che intasca premi e denaro a palate per cose che gli altri non capiscono; roba che non interessa e non serve a nessuno.
– Grazie di avermi portato la borsa.
Gli mise in mano dei soldi, anche se meno di quanti avesse avuto intenzione di lasciargliene.
Lui li accolse con un ghigno antipatico, come a dire, Pensavi che sarei stato troppo orgoglioso, vero?
Poi la ringraziò in tutta fretta, come contro la sua volontà.
Sof’ja lo guardò allontanarsi e pensò che molto probabilmente non lo avrebbe visto mai piú. Il bambino di Anjuta. E quanto somigliava, in effetti, ad Anjuta. All’Anjuta che a Palibino scombussolava quasi ogni pasto di famiglia con le sue tirate idealistiche. All’Anjuta che marciava su e giú per i sentieri del giardino, carica di disprezzo per la sua vita presente, e di fiducia nel destino che l’avrebbe trasportata in un mondo del tutto nuovo e giusto e implacabile.
Urej avrebbe anche potuto cambiare rotta; impossibile fare previsioni. Poteva addirittura scoprire di voler bene alla zia Sof’ja, ma probabilmente non prima di avere l’età che aveva lei ora, non prima che lei fosse morta da un pezzo.
III.
Sof’ja era in anticipo di mezz’ora sulla partenza del treno. Avrebbe voluto un tè, e delle pastiglie balsamiche per la gola, ma non si sentiva di affrontare l’attesa in coda, né la conversazione in francese. Per quanto uno possa cavarsela dignitosamente quando è in buona salute, basta poco piú di un abbattimento di umore o dell’avvisaglia di un malanno per ricacciarci nell’alveo della nostra lingua madre. Sof’ja sedette su una panchina e lasciò cadere la testa. Poteva dormire un momento. Fu piú di un momento. Secondo l’orologio della stazione, era passato un quarto d’ora. Nel frattempo si era radunata una folla, c’era parecchio trambusto intorno a lei, carrelli dei bagagli che andavano e venivano.
Mentre si affrettava a raggiungere il treno, vide un uomo con un colbacco di pelliccia come quello di Maksim. Un uomo grande e grosso, in cappotto scuro. Non riuscí a vederlo in faccia. Si andava allontanando, ma le spalle larghe e il modo al tempo stesso civile e risoluto di farsi largo tra la gente, le ricordavano molto Maksim.
Passò tra loro un carrello stracarico di bagagli voluminosi, e subito dopo l’uomo era scomparso. Non poteva essere Maksim, naturalmente. Che ci avrebbe mai fatto a Parigi? A quale treno, a quale incontro si sarebbe diretto, cosí di fretta? Il cuore di Sof’ja si era messo a battere spiacevolmente fuori tempo, mentre saliva a bordo del convoglio e trovava il proprio posto accanto al finestrino. Era ragionevole pensare che ci fossero state altre donne nella vita di Maksim. C’era stata, ad esempio, quella che non le aveva potuto presentare, quando si era rifiutato di invitarla a Beaulieu. Ma non lo considerava il tipo d’uomo che tolleri complicazioni di bassa lega. Meno ancora, scenate di gelosia, lacrime e rampogne femminili. In quella precedente circostanza aveva sottolineato che Sof’ja non poteva accampare nessun diritto, nessuna pretesa su di lui.
Il che di certo significava che ora invece le avrebbe riconosciuto qualche diritto e che avrebbe perciò considerato indegno da parte sua ingannarla.
Inoltre, quando aveva creduto di vederlo, si era appena svegliata da un sonno malato e innaturale. Era stata un’allucinazione.
Il treno si assestò con i consueti cigolii e sferragliamenti, per superare a passo d’uomo la tettoia della stazione.
Quanto aveva amato Parigi, un tempo. Non la Parigi della Comune nella quale si era assoggettata agli ordini infervorati e talora incomprensibili di Anjuta, bensí la città che aveva visitato piú tardi, nella pienezza dell’età adulta, fra incontri con matematici e pensatori politici. A Parigi, aveva dichiarato, cose come noia, snobismo e disonestà non esistono.
Le avevano consegnato il Premio Bordin, in un trionfo di baciamano e discorsi e mazzi di fiori, in sale eleganti e luminosissime. In compenso, quando si trattò di affidarle un incarico, le chiusero le porte in faccia. Non l’avrebbero considerato molto diverso che offrire un impiego a uno scimpanzé ammaestrato. Le mogli dei grandi scienziati preferivano non conoscerla e non invitarla a casa. Erano le mogli a far da vedetta in cima alla barricata; loro, lo spietato esercito invisibile. I mariti si stringevano mesti nelle spalle dinanzi a quei veti, ma poi li rispettavano doverosamente. Uomini i cui cervelli facevano saltare in aria vecchie nozioni si dimostravano tuttora succubi di donne dalle teste ingombre di nient’altro che indispensabili bustini mozzafiato, biglietti da visita e discorsi che soffocavano la gola dell’interlocutore con una specie di fumo profumato.
Doveva farla finita con quella litania rancorosa. Le signore di Stoccolma la invitavano a casa, ai ricevimenti piú prestigiosi come alle cene piú intime. La coprivano di complimenti e la presentavano con orgoglio. Erano liete di accogliere sua figlia. Poteva anche darsi che la considerassero una bizzarria, ma una bizzarria di loro gradimento. Una sorta di pappagallo poliglotta o uno di quei fenomeni in grado di stabilire senza esitazione e apparentemente senza il minimo calcolo che una certa data in un anno del quattordicesimo secolo cadeva di martedí.
No, com’era ingiusta. Quelle signore avevano rispetto del suo lavoro e molte di loro pensavano che dovessero esserci piú donne a svolgere professioni come la sua e che un giorno o l’altro ci sarebbero state. Allora come mai tendeva ad annoiarsi un po’ con loro, a rimpiangere le interminabili serate di conversazioni stravaganti? Perché le dava fastidio che si vestissero o come mogli di pastori o come zingare?
Era di pessimo umore, e ciò dipendeva da Jaclard e da Urej e dalla signora perbene alla quale non aveva potuto essere presentata. Oltre che dal mal di gola e dai brividi, sicuro annuncio di un’infreddatura in piena regola.
Ad ogni buon conto, presto sarebbe stata moglie anche lei, e la moglie di un uomo ricco, intelligente e di successo, per giunta.
È arrivato il carrello del tè. Sarà un sollievo per la gola, anche se preferirebbe un tè russo. La pioggia è cominciata appena dopo Parigi, per trasformarsi, ora, in neve. Come ogni russo, Sof’ja preferisce la neve alla pioggia, i campi imbiancati alla terra fradicia e scura. Inoltre, nei posti in cui arriva la neve quasi tutti prendono l’inverno sul serio e si impegnano in modo un po’ meno svogliato a garantire un certo tepore domestico. Sof’ja pensa alla casa di Weierstraß, dove dormirà questa notte. Il professore e le sue sorelle non hanno voluto saperne di lasciarla andare in albergo.
Casa loro è sempre accogliente, con i suoi tappeti scuri, i tendoni a frange e le grandi poltrone. Tra quelle mura, la vita segue un rituale: è dedicata allo studio, soprattutto quello della matematica. Timidi allievi spesso malvestiti transitano uno dopo l’altro in salotto diretti allo studio. Le due sorelle nubili del professore li salutano cortesemente, ma quasi senza aspettarsi risposta. Sono tutte prese dai loro lavori a maglia, dal rammendo, o dai tappeti a punto smirne. Sanno di avere un fratello geniale, un grande uomo, ma sanno anche che deve consumare la dose quotidiana di prugne, a causa della sua occupazione sedentaria; che non può indossare nemmeno la lana piú fine a diretto contatto con la pelle, perché gli procura uno sfogo; che si sente ferito quando un collega non gli rende il credito dovuto in una pubblicazione scientifica (benché finga di non farci caso sia a parole che nei suoi scritti, dove ha cura di elogiare puntigliosamente proprio la persona che lo ha trascurato).
Le sorelle – Clara ed Elisa – erano rimaste sbalordite il primo giorno che Sof’ja era comparsa nel loro salotto, diretta allo studio. La domestica che l’aveva fatta entrare non aveva ricevuto istruzioni in merito alla selezione degli ospiti, perché gli abitanti della casa conducevano vite riservatissime e anche perché gli allievi in visita erano spesso talmente rozzi e dimessi da non osservare i livelli minimi di buona creanza di qualunque famiglia rispettabile. Ciononostante, un pizzico di esitazione c’era stato, nella voce della cameriera, prima di far passare quella donna minuta dalla faccia quasi del tutto nascosta sotto un cappello scuro, e dai gesti spauriti come quelli di un timido mendicante. Le sorelle non riuscirono a farsi un’idea della sua età, ma conclusero – dopo averla vista sparire nello studio – che dovesse trattarsi della madre di un allievo, venuta a contrattare o a piatire riduzioni sulle tariffe. – Santo cielo, – disse Clara, che aveva sempre le trovate piú argute, – santo cielo, pensammo, chi abbiamo qui, Charlotte Corday?
Il commento fu riferito a Sof’ja piú tardi, quando ormai erano diventate amiche. Ed Elisa aggiunse, asciutta: – Per fortuna nostro fratello non stava facendo il bagno. E noi non potemmo alzarci a proteggerlo, impegnate com’eravamo con le nostre interminabili paia di guanti.
Al tempo sferruzzavano muffole per i soldati al fronte. Era il 1870, prima che Sof’ja e Vladimir partissero per quello che doveva essere il loro viaggio-studio a Parigi. Erano talmente sprofondate in un’altra dimensione, in un altro tempo, ed era talmente labile la loro attenzione per il mondo in cui vivevano, che quasi non avevano sentito nulla a proposito della guerra in corso.
Weierstraß non ne sapeva piú delle sorelle riguardo all’età di Sof’ja o alla ragione di quella visita. Le disse in seguito di aver creduto che potesse trattarsi di una istitutrice erroneamente intenzionata a usare il suo nome per aggiungere l’insegnamento della matematica alle proprie credenziali. Pensò che avrebbe dovuto rimproverare la domestica, e le sorelle, per averle permesso quell’intrusione. Ma essendo un uomo garbato e gentile, anziché congedarla immediatamente, le spiegò che accoglieva soltanto allievi di livello avanzato, in possesso di diplomi certificati, e che quelli che aveva al momento completavano la sua disponibilità oraria. Dopodiché, vedendo che lei se ne stava lí tutta tremante, di fronte a lui, stringendosi dentro lo scialle con quel cappello ridicolo che le adombrava la faccia, gli venne in mente il sistema, per non dire il trucco, già utilizzato un paio di volte per scoraggiare studenti inadatti.
– Tutto quello che posso fare nel vostro caso – disse – è assegnarvi una serie di problemi, e chiedervi di portarmeli risolti tra una settimana. Se le soluzioni dovessero soddisfarmi, ne potremo riparlare.
La settimana dopo si era del tutto scordato di lei. Era ovviamente convinto che non l’avrebbe rivista mai piú. Quando entrò nello studio non la riconobbe, forse perché si era tolta la mantella che nascondeva la figura sottile. Doveva sentirsi piú audace, o forse era solo diverso il clima. A differenza delle sue sorelle, lui non aveva identificato il cappello; in effetti non aveva molto occhio per gli accessori femminili. Quando però Sof’ja estrasse le carte dalla borsa e gliele appoggiò sul tavolo, finalmente si ricordò e, sospirando, inforcò gli occhiali.
Fu grande la sua sorpresa – le confidò anche questo in un secondo momento – nel constatare che tutti i problemi erano stati risolti, talvolta anche con notevole originalità. Continuò tuttavia a diffidare, credendo che gli stesse presentando il lavoro di qualcun altro, magari un fratello o un amante desideroso di mantenere l’anonimato per motivi politici.
– Accomodatevi, – disse. – E ora spiegatemi tutti i passaggi delle soluzioni, senza saltarne nemmeno uno.
Lei cominciò a parlare, china in avanti, e il cappello floscio le ricadde sugli occhi, perciò se lo tolse e lo poggiò a terra. Cosí comparvero i riccioli, gli occhi luminosi, la sua giovinezza e il suo fervore tremante.
– Sí, – faceva lui. – Sí. Sí. Sí –. Il tono serio e ponderato si sforzava di mascherare la
meraviglia, specie rispetto alle soluzioni il cui sistema divergeva brillantemente dal suo.
Sof’ja lo sbalordí in tanti modi. Era cosí giovane, esile, appassionata. Si sentí in dovere di placarla, di trattarla con delicatezza, insegnandole a dominare i fuochi d’artificio del suo cervello. Era una vita – gli costava dirlo, come ebbe ad ammettere, perché si era sempre guardato dagli eccessivi entusiasmi –, era una vita che aspettava di veder entrare nel suo studio un allievo del genere. Un allievo in grado di lanciargli una sfida assoluta, di seguire non soltanto il percorso spericolato della sua mente, ma se possibile, di spiccare un volo piú alto. Doveva stare attento a non lasciarsi sfuggire quel che in effetti pensava: e cioè che per fare un grande matematico ci volesse qualcosa di simile all’intuito, come il bagliore di un lampo, per illuminare ciò che è lí da sempre. Occorreva essere rigorosi, precisi, certo, ma non vale forse lo stesso per i grandi poeti?
Quando alla fine si convinse a rivelare tutto questo a Sof’ja, aggiunse che alcuni sarebbero inorriditi al solo sentire pronunciare la parola «poeta» associandola alle scienze matematiche. Altri invece, concluse, avrebbero accolto l’idea con slancio eccessivo, per difendere confusioni e pigrizie del proprio pensiero.
Come aveva previsto, man mano che si spostavano a est la neve fuori dal finestrino si faceva piú alta. Il treno sul quale viaggiava era di seconda classe, alquanto spartano in confronto a quello che aveva preso a Cannes. Il vagone ristorante non c’era, ma nella carrozza ristoro erano disponibili panini freddi, farciti con salsicce piccanti di vario tipo. Sof’ja ne comprò uno al formaggio, grande come mezza pignatta e pensò che non sarebbe mai riuscita a finirlo, e invece poco alla volta se lo mangiò. Poi estrasse il volume di Heine tascabile per rispolverare un po’ il suo tedesco.
Ogni volta che alzava lo sguardo al finestrino pareva che la neve scendesse piú fitta e in certi punti il treno rallentava, fino quasi a fermarsi. Di quel passo, era tanto se arrivavano a Berlino entro la mezzanotte. Si pentí di essersi lasciata convincere a non andare in albergo, e a pernottare invece nell’appartamento di Potsdamer Straße.
– Farà cosí bene al povero Karl averti sotto lo stesso tetto anche solo per una notte. Per lui sei rimasta la ragazzina che si presentò a casa nostra anni fa, anche se ammira moltissimo il tuo lavoro e va fiero del tuo grande successo.
In effetti era mezzanotte passata quando suonò il campanello. Venne Clara, in vestaglia, perché la domestica era già andata a dormire. Suo fratello – disse Clara sussurrando appena – si era svegliato per il rumore della vettura ed Elisa era accorsa da lui per tranquillizzarlo assicurandogli che avrebbe visto Sof’ja la mattina dopo.
Quel termine, «tranquillizzarlo», a Sof’ja suonò infausto. Le lettere della sorella non accennavano ad altro che un certo affaticamento. Mentre quelle di Weierstraß stesso non contenevano mai notizie personali, ricche com’erano di novità su Poincaré e sul proprio dovere di matematico di chiarire le idee al sovrano di Svezia.
Ora, udendo la voce dell’anziana sorella assumere quella cadenza vagamente devota e trepidante quando nominava il fratello, e sentendo nell’aria gli odori di quella casa un tempo noti e confortevoli, ma quella sera un po’ mesti e stantii, Sof’ja ebbe la sensazione di non poter forse scherzare come una volta e di aver inconsapevolmente portato con sé non solo una folata di aria fresca, ma anche il trambusto del successo e una certa dose di energia che potevano suscitare qualche scompiglio e inquietudine. Abituata a essere accolta con abbracci ed espressioni di caloroso affetto (una delle sorprese riguardo alle sorelle era stata scoprire quanto potessero essere affabili pur mantenendosi rigorosamente formali), Sof’ja notò, sí, i consueti abbracci, ma anche le lacrime negli occhi velati e le carni tremule delle vecchie braccia.
C’era in compenso acqua tiepida nella caraffa della sua stanza, e pane imburrato sul tavolino da notte.
Mentre si spogliava, udí dei concitati sussurri provenire dal ballatoio del piano di sopra.
Potevano riguardare le condizioni del fratello, o forse lei, o la mancanza di un coprivivande sul pane imburrato, magari sfuggita all’attenzione fino a quando Clara non l’aveva introdotta nella sua camera. Al tempo in cui lavorava con Weierstraß, Sof’ja aveva abitato in un appartamentino buio, perlopiú insieme all’amica Julia, una studentessa di chimica. Non frequentavano teatri o sale da concerto – avevano finanze limitate ed erano comunque molto prese dal loro lavoro. Julia usciva di casa per recarsi a un laboratorio privato all’interno del quale era riuscita a ottenere privilegi tutt’altro che scontati per una donna. Sof’ja trascorreva le sue giornate eternamente seduta al tavolo da lavoro, talvolta fino all’ora in cui si rendeva necessario accendere una lampada. Poi si alzava per sgranchirsi le gambe e prendeva a marciare veloce su e giú per l’appartamento – la cui lunghezza era assai ridotta; magari rompeva in un passo di corsa e intanto parlava ad alta voce, sbottando in frasi senza senso, al punto che chi non l’avesse conosciuta bene quanto Julia avrebbe dubitato della sua salute mentale. Gli studi di Weierstraß, e ormai anche i suoi, riguardavano le funzioni ellittiche e abeliane, e la teoria delle funzioni analitiche fondata sulla loro rappresentazione come serie infinite. In base al teorema a lui intitolato, una successione reale limitata contiene una sottosuccessione convergente. Su questa intuizione Sof’ja lo seguí per poi rilanciargli la sfida e, a un certo punto, perfino superarlo, tanto che da maestro e allieva diventarono colleghi matematici e Sof’ja si ritrovò spesso a svolgere il ruolo di catalizzatore delle indagini di lui. La relazione tuttavia richiese tempo per consolidarsi, e alle cene domenicali – alle quali Sof’ja fu presto invitata dal momento che Weierstraß aveva consacrato a lei i pomeriggi del giorno di festa – la giovane si comportava come una parente, una appassionata protégée. Quando Julia comparve sulla scena, gli inviti furono estesi anche a lei, e alle due ragazze venivano serviti carne arrosto, purè di patate e deliziosi dolci che scombussolavano tutte le loro idee preconcette riguardo alla cucina tedesca. Dopo il pasto sedevano accanto al fuoco e ascoltavano Elisa leggere ad alta voce. Con grande ispirazione e notevole espressività declamava passi tratti dai romanzi dello scrittore svizzero Conrad Ferdinand Meyer. La letteratura era il lusso settimanale, dopo tutto quel lavoro di maglia e di rammendo.
A Natale fu allestito un albero per Sof’ja e Julia, benché da anni ormai i Weierstraß avessero smesso di addobbarne uno. C’erano bonbon avvolti nella carta lucida, e panfrutto e mele al forno.
Come dicevano loro, per le bambine.
Di lí a poco, però, giunse una sorpresa allarmante.
La sorpresa fu che Sof’ja, apparentemente l’incarnazione della giovane timida e inesperta, fosse in realtà sposata. Durante le prime settimane di lezione, prima dell’arrivo di Julia, la domenica sera arrivava a prenderla un giovanotto che nessuno presentò ai membri della famiglia Weierstraß, i quali immaginarono si trattasse di un domestico. Era alto e poco attraente, aveva il nasone, una barba rada e rossiccia, e i vestiti trasandati. In realtà, se i Weierstraß fossero stati gente piú esperta del mondo, avrebbero capito che nessuna famiglia nobile che si rispetti, come appunto quella di Sof’ja, avrebbe mai tenuto un domestico in quelle condizioni, e che pertanto il giovane doveva essere un amico.
Piú tardi arrivò Julia, e lui sparí.
Solo qualche tempo dopo, Sof’ja si decise a rivelare che il giovanotto si chiamava Vladimir Kovalevskij e che era suo marito. Proseguiva gli studi tra Vienna e Parigi pur avendo già conseguito una laurea in legge e avendo tentato di farsi strada in Russia come editore di libri di testo. Aveva parecchi anni piú di Sof’ja.
Quasi sorprendente quanto la notizia stessa fu il fatto che Sof’ja l’avesse raccontata a
Weierstraß e non alle sorelle. In famiglia erano loro ad avere contatti con la vita vera, seppure limitata a quella dei domestici o alla lettura di romanzi relativamente recenti. Sof’ja però non era stata la prediletta né di sua madre, né della governante. Non che i rapporti con il Generale fossero stati un grande successo, ma la figlia lo rispettava e non riteneva impossibile che lui ricambiasse la sua stima.
Perciò era all’uomo di casa che si rivolgeva per le confidenze importanti.
Si rese conto di avere suscitato il probabile imbarazzo di Weierstraß – non tanto mentre gliene parlava, ma quando l’uomo si vide costretto a riferire la cosa alle sorelle. La faccenda andava al di là della semplice rivelazione che Sof’ja fosse sposata. Pur trattandosi infatti di nozze assolutamente legali, il suo era un Matrimonio Bianco; espressione che a lui, come pure alle sorelle, giungeva del tutto nuova. Non solo marito e moglie non abitavano nello stesso posto, ma non convivevano affatto. Non si erano sposati per le ragioni universalmente riconosciute, ma erano legati al voto segreto di campare cosí, senza mai…
– Consumare? – Probabilmente fu Clara a dirlo. In tono brusco, quasi spazientito, per mettere fine al discorso.
Sí. Del resto, una giovane che volesse studiare all’estero era costretta ad accettare simili sotterfugi giacché nessuna cittadina russa nubile poteva lasciare il paese senza il consenso della famiglia. I genitori di Julia erano abbastanza spregiudicati da lasciarla andare, ma quelli di Sof’ja no.
Che legge barbara.
Già. Russa. Alcune giovani tuttavia riuscivano a superare l’ostacolo con l’aiuto di giovanotti armati di solidarietà e begli ideali. Talvolta perfino anarchici? Chi lo sa.
Era stata la sorella maggiore di Sof’ja a rintracciare uno di questi giovani per poi organizzare un incontro con la complicità di un’amica. Le loro motivazioni erano forse piú di natura politica che intellettuale. Dio solo sa come mai avessero deciso di portarsi appresso anche Sof’ja, la quale non manifestava alcun entusiasmo politico, né si considerava pronta a compiere passi di quel genere. Fatto sta che, dopo un’occhiata alle due ragazze piú grandi – la sorella di nome Anjuta nonostante l’aria efficiente non riuscí a mascherare la propria bellezza –, il giovane disse di no. No, non desidero stipulare questo contratto con nessuna delle spettabili signorie vostre, ma acconsento a impegnarmi con la vostra sorella minore.
– Forse pensava che le maggiori potessero dargli del filo da torcere, – questo commento poté arrivare da Elisa, l’esperta di romanzi, – specie la bella. E si è innamorato della nostra piccola Sof’ja.
L’amore non doveva entrare nella vicenda, poté forse ricordarle Clara.
Sof’ja accetta la proposta. Vladimir fa visita al Generale per chiedergli la mano della figlia minore. Il Generale si mostra cortese, sa che il giovanotto è di buona famiglia pur non essendosi ancora distinto nel mondo. Sof’ja però è troppo giovane, dice. È almeno al corrente delle sue intenzioni?
Sí, fu la risposta di Sof’ja, al corrente e innamorata.
Il Generale dichiarò che non potevano agire sull’onda immediata dei loro sentimenti, ma che dovevano darsi il tempo, un notevole lasso di tempo, per conoscersi, a Palibino. (In quel momento si trovavano a Pietroburgo).
La vicenda era arrivata a un punto morto. Vladimir non avrebbe mai fatto buona impressione. Non si sforzava abbastanza di mascherare le proprie idee rivoluzionarie e inoltre si vestiva male, quasi di proposito, si sarebbe detto. Il Generale confidava che quanto piú Sof’ja avesse avuto occasione di frequentare quello spasimante, tanto meno avrebbe avuto voglia di sposarlo.
Sof’ja, invece, aveva in mente un suo progetto.
L’occasione si presentò un giorno in cui i genitori avevano organizzato un importante ricevimento. Alla cena erano stati invitati professori, un diplomatico e compagni d’arma del Generale dei tempi della Scuola d’artiglieria. In mezzo al trambusto, Sof’ja fu in grado di svignarsela.
Uscí da sola per le strade di Pietroburgo nelle quali non si era mai trovata a passeggiare se non in compagnia di una domestica o di una sorella. Raggiunse l’appartamento di Vladimir, in una zona della città abitata da studenti squattrinati. La porta le fu subito aperta e, appena entrata, Sof’ja sedette a scrivere una lettera a suo padre.
«Caro padre, sono venuta da Vladimir e intendo rimanere. Vi supplico di non opporvi oltre al nostro matrimonio».
Prima di accorgersi dell’assenza di Sof’ja, gli ospiti erano già tutti seduti a tavola. Una domestica trovò la stanza vuota. Si chiese ad Anjuta dove fosse Sof’ja e lei arrossí dicendo di non saperne nulla. Poi, per nascondere il viso, lasciò cadere a terra il tovagliolo.
Al Generale fu consegnato un biglietto. Lui si scusò e uscí dalla sala. Di lí a poco, Sof’ja e Vladimir udirono i suoi passi furibondi fuori dalla porta. Alla figlia ormai compromessa e all’uomo per il quale ella era disposta a rinunciare al proprio buon nome, il Generale intimò di seguirlo. I tre fecero
ritorno a casa, senza scambiare una parola e, una volta seduti a tavola, il padre annunciò: – Permettetemi di presentarvi il mio futuro genero, Vladimir Kovalevskij.
Era fatta. Sof’ja era euforica, non al pensiero di sposare Vladimir, bensí all’idea di compiacere Anjuta mettendo a segno una vittoria per l’emancipazione della donna russa. Le nozze a Palibino si svolsero nel consueto splendore della tradizione, dopodiché gli sposi andarono a vivere sotto lo stesso tetto a Pietroburgo.
E avendo ottenuto il via libera, si trasferirono all’estero, dove cessarono di convivere. Prima Heidelberg, poi Berlino per Sof’ja, Monaco per Vladimir. Lui si recava a Heidelberg a trovarla appena poteva, ma con l’arrivo di Anjuta e dell’amica Žanna, e di Julia – le quattro ragazze teoricamente sotto la sua protezione – per lo sposo non ci fu piú abbastanza spazio.
Weierstraß non confidò alle donne di aver intrattenuto rapporti epistolari con la moglie del Generale. Le aveva scritto quando Sof’ja era rientrata dalla Svizzera (in realtà da Parigi) talmente fragile e smagrita da impensierirlo sulle sue condizioni di salute. La madre aveva risposto informandolo che, nelle attuali circostanze di grave pericolo, era Parigi la responsabile dello stato in cui versava la figlia. Sembrava tuttavia meno turbata dalle rivolte politiche in mezzo alle quali le sue figliole erano vissute, che dalla rivelazione che una di loro, ancora nubile, vivesse senza farne mistero con un uomo, mentre l’altra, legalmente maritata, non vivesse affatto con il coniuge. Weierstraß perciò, quasi malgrado se stesso, si ritrovò a svolgere il ruolo di confidente della madre, ancora prima che della figlia. E in effetti non fece mai parola della cosa con Sof’ja, prima della morte della madre.
Quando glielo disse però, aggiunse che Clara ed Elisa avevano immediatamente domandato che cosa si dovesse fare.
A quanto pareva, le donne ragionano cosí, aveva detto: sono convinte che occorra fare qualcosa.
In modo alquanto categorico lui aveva risposto: – Niente.
Il mattino dopo Sof’ja tirò fuori dalla borsa un abito fresco ma sgualcito – non aveva mai imparato l’arte di fare i bagagli –, si aggiustò i riccioli cercando come poteva di nascondere le prime ciocche grigie, e scese da basso nella casa già rumorosa e in piena attività. Il suo posto era l’unico ancora apparecchiato in sala da pranzo. Elisa portò del caffè e la colazione, la prima alla tedesca che Sof’ja avesse mai consumato tra quelle mura: carni fredde e formaggio, con spesse fette di pane imburrato. Disse che Clara era salita a preparare il fratello per l’incontro con Sof’ja.
– In principio facevamo venire il barbiere, – disse. – Ma poi Clara ha imparato a cavarsela piuttosto bene. Abbiamo scoperto che è lei quella con le doti da infermiera, e per fortuna almeno una delle due le possiede.
Ancora prima di quella affermazione Sof’ja aveva intuito che erano a corto di denaro. Le tende in tulle e damasco avevano l’aria sudicia, e le posate d’argento che aveva appena usato non erano state lucidate da un pezzo. Dalla porta socchiusa del salotto si intravedeva l’attuale domestica – una ragazza d’aspetto inelegante – intenta a pulire la grata del camino sollevando nugoli di polvere. Elisa le rivolse uno sguardo, come a domandarle di chiudere la porta, poi si alzò e lo fece lei stessa. Di ritorno al tavolo aveva in faccia un’espressione avvilita, di vergogna, e Sof’ja si affrettò a chiederle, forse non troppo educatamente, di quale malanno soffrisse Herr Weierstraß.
– Prima di tutto è debole di cuore, e poi sembra non riesca a rimettersi dalla polmonite dell’autunno scorso. E ha anche un tumore agli organi riproduttivi, – disse Elisa, abbassando la voce ma parlando franco, come è abitudine delle donne tedesche.
Clara si affacciò alla porta.
– Ecco, ora vi aspetta.
Sof’ja salí le scale pensando non al professore ma a quelle due donne che avevano fatto di lui il fulcro delle loro vite. Senza smettere di sferruzzare muffole, rammendare lenzuola, preparare dolci e conserve che non potevano certo essere affidati a una domestica. E onorare come il loro fratello i dogmi della Chiesa cattolica romana – religione fredda e assai poco dilettevole secondo l’opinione di Sof’ja –, il tutto, apparentemente, senza un attimo di ribellione, o un barlume di scontento.
Io diventerei matta, pensò.
Anche a insegnare, diventerei matta. Gli allievi hanno intelligenze mediocri, di norma. Si riesce a trasmettere loro giusto i concetti piú ovvi, i piú banali.
Non avrebbe mai osato ammetterlo con se stessa, prima di Maksim.
Entrò in camera da letto sorridendo della propria fortuna, della libertà imminente, del futuro marito.
– Ah, eccovi finalmente, – disse Weierstraß, esprimendosi con una certa affaticata spossatezza.
– La discola che pensavamo ci avesse abbandonati. Siete di nuovo diretta a Parigi, tornate a divertirvi? – No, arrivo da Parigi, – disse Sof’ja. – Sto ritornando a Stoccolma. Parigi mi è sembrata ben poco divertente, anzi malinconica –. Gli consegnò le mani da baciare, una dopo l’altra.
– La vostra Anjuta non sta bene, forse?
– È morta, mein lieber professore.
– È morta in prigione?
– No, no. È passato tanto tempo da allora. E non era lei a essere in carcere ma suo marito. È morta di polmonite, però di mali ne aveva molti, e da parecchio.
– Oh, polmonite, l’ho fatta anch’io. Ma deve essere stato un gran dolore per voi. – Un dolore inconsolabile. Ma ho una bella cosa da dirvi, una buona notizia. Mi sposo in primavera.
– Divorziate dal geologo? Non mi sorprende, avreste dovuto farlo molto tempo fa. D’altra parte, un divorzio è sempre un passo spiacevole.
– È morto anche lui. Ed era un paleontologo. È una scienza nuova, molto interessante. Studiano i fossili.
– Ah, sí. Adesso mi ricordo. Ne ho sentito parlare. È morto giovane, dunque. Non mi piaceva vedervelo tra i piedi, ma non arrivavo a volerlo proprio morto. È stato a lungo malato?
– In un certo senso sí. Ricorderete di sicuro come lo lasciai e che voi mi raccomandaste a Mittag-Leffler.
– A Stoccolma. Sí? Lo lasciaste. Be’, era inevitabile.
– Infatti. Comunque ora è passato e sposerò un uomo che ha lo stesso cognome ma non è un parente stretto e comunque non gli somiglia affatto.
– Un altro russo? Studia i fossili anche lui?
– Tutt’altro. Insegna diritto. È un uomo molto allegro e pieno di energia, tranne quando è depresso. Voglio portarlo a farvelo conoscere, cosí vedrete cosa intendo.
– Saremo lieti di ospitarlo, – disse mesto Weierstraß. – Questo metterà fine al nostro lavoro. – Niente affatto. Niente affatto. Non è suo desiderio. In compenso non dovrò piú insegnare, sarò libera. E mi trasferirò in un clima splendido, al Sud della Francia, cosí sarò sempre in salute e lavorerò anche di piú.
– Vedremo.
– Mein Lieber, – disse lei. – Vi ordino, vi ingiungo di essere felice per me.
– Devo sembrarvi vecchissimo, – rispose lui. – E poi la mia è stata una vita tranquilla, non ho una natura eclettica come la vostra. Che sorpresa scoprire che scrivevate romanzi.
– Non vi è piaciuta, eh, l’idea?
– Vi sbagliate. Ho apprezzato le memorie. Una lettura molto gradevole.
– Quel libro non è un vero romanzo. L’ultimo che ho scritto non vi piacerebbe. Certe volte non piace neanche a me. Parla di una ragazza che si interessa piú di politica che d’amore. Non vi preoccupate, comunque, non lo dovrete leggere. La censura russa ne ha proibito la pubblicazione e il resto del mondo non avrà voglia di leggerlo perché è troppo russo.
– Di solito non vado pazzo per i romanzi.
– Roba da donne?
– A essere sincero mi capita di dimenticare che siete una donna. Vi penso come una… come dire?
– Una che?
– Come un regalo per me e me solo.
Sof’ja si chinò a baciargli la fronte bianca. Trattenne le lacrime fino a quando ebbe salutato le sorelle e lasciato la casa.
Non lo rivedrò mai piú, si disse.
Pensò alla sua faccia pallida come i cuscini appena inamidati che Clara doveva avergli sistemato dietro il capo quel mattino stesso. Forse ora li aveva già portati via, lasciandolo sprofondare in quelli piú soffici e cincischiati che stavano al di sotto. Forse Weierstraß si era addormentato subito, affaticato dalla visita. Doveva aver pensato che quello era il loro ultimo incontro e aver saputo che lo stesso pensiero era venuto anche a lei; quello che invece non poteva sapere – ecco la sua vergogna, il suo segreto – era quanto sollievo, che sensazione di libertà provasse lei adesso, una libertà che andava aumentando man mano che si allontanava da quella casa.
La vita di lui, si domandò Sof’ja, era poi tanto piú appagante di quella delle sue sorelle? Il suo nome sarebbe sopravvissuto per qualche tempo, sui manuali. E tra i matematici. Non cosí a lungo quanto avrebbe potuto se lui stesso avesse dedicato piú energie al consolidamento della propria reputazione, mantenendosi in vista nell’ambito della cerchia ristretta e competitiva cui apparteneva. Weierstraß teneva piú al proprio lavoro che alla fama, mentre moltissimi suoi colleghi avevano a cuore entrambi in egual misura.
Sof’ja non avrebbe dovuto dirgli che scriveva. Una frivolezza, agli occhi di lui. Aveva scritto le proprie memorie degli anni trascorsi a Palibino in una luce amorosa per tutto ciò che era andato perduto, tanto le angosce quanto le meraviglie di allora. Le aveva scritte lontano da casa, quando ormai quella casa e sua sorella non c’erano piú. La nichilista era frutto del rimpianto del proprio paese, un’esplosione di patriottismo e forse di un sentimento al quale aveva badato troppo poco, travolta dalla matematica e dal tumulto della vita.
Rimpianto del proprio paese, sí. Ma in un certo senso quel romanzo era dedicato ad Anjuta. Era la storia di una giovane donna che rinuncia alla prospettiva di un’esistenza normale per sposare un prigioniero politico confinato in Siberia. Cosí facendo ottiene che l’esperienza e il castigo gli siano in qualche misura alleviati – Siberia meridionale, anziché settentrionale – come accadeva di norma ai prigionieri accompagnati dalle mogli. La storia sarebbe piaciuta a quegli esuli russi che avessero potuto leggerla in manoscritto. Per garantirsi il plauso degli esuli politici, era sufficiente che a un libro fosse negata la pubblicazione in Russia, come Sof’ja sapeva bene. Le sorelle Raevskij – le memorie – a lei piaceva di piú, benché la censura lo avesse approvato e alcuni critici lo avessero liquidato definendolo un testo nostalgico.
IV.
Non era la prima volta che deludeva Weierstraß. Era già accaduto in occasione del suo primo successo. Lui non ne aveva mai fatto parola, ma era cosí. Aveva voltato le spalle al maestro e alla matematica contemporaneamente; non rispondeva neppure alle sue lettere. Tornò a casa, a Palibino, nell’estate del 1874, con tanto di laurea pronta per essere ritirata in un baule dentro il suo astuccio di velluto, e lí dimenticata per mesi, addirittura anni, di seguito.
L’odore dei campi di fieno e della pineta, i torridi giorni dorati d’estate e le lunghissime sere di luce della Russia settentrionale la inebriarono. Ci furono colazioni sull’erba e spettacoli amatoriali, balli, compleanni, feste di benvenuto per i vecchi amici, e la presenza di Anjuta felice con il suo figlioletto di un anno. C’era anche Vladimir e, nella spensieratezza dell’atmosfera estiva, tra il calore e il vino e le lunghe cene cordiali, i canti e le danze, risultò naturale cedergli, accordandogli dopo tanto tempo non solo il ruolo di marito, ma anche quello di amante.
E questo avvenne non perché si fosse innamorata di lui. Gli era stata riconoscente, e si era convinta che nella vita vera non esistessero sentimenti come l’amore. Avrebbe reso piú felici entrambi, pensò, concedergli quanto voleva, e per un po’ fu cosí.
Nell’autunno andarono a Pietroburgo e la giostra di svaghi chiassosi proseguí. Cene, spettacoli, ricevimenti, tutti i giornali e i periodici da leggere, tanto frivoli quanto impegnati. Weierstraß implorò Sof’ja, per lettera, di non disertare il mondo della matematica. Si adoperò per far pubblicare la sua tesi sul «Crelle’s Journal» dei matematici. Sof’ja gli diede appena uno sguardo. Lui le chiese di dedicare una settimana – giusto una settimana – alla revisione del suo lavoro sugli anelli di Saturno, per poter pubblicare anche quello. Lei non ne volle sapere. Era troppo occupata, presa da un carosello di festeggiamenti pressoché continuo. Si celebravano onomastici e onorificenze a corte, nuove opere liriche e balletti, ma in realtà si aveva l’impressione che la vera festeggiata fosse la vita.
Sof’ja imparava, con notevole ritardo, ciò che molte persone intorno a lei sembravano sapere dall’infanzia, e cioè che anche un’esistenza priva di grandi eventi può essere generosa di soddisfazioni. Traboccante di attività che non rischiano di sfinirti. Acquisire ciò che occorre per garantirsi una vita confortevole e poi dedicarsi alle relazioni sociali e agli svaghi mondani poteva proteggere dalla noia e dall’indolenza oltre che far sentire, a fine giornata, di aver fatto né piú né meno di quello che tutti desiderano. Non c’era bisogno di tormentarsi.
Fatta eccezione per come procacciarsi denaro.
Vladimir riprese la propria attività editoriale. Chiesero prestiti dove poterono. In breve, morirono entrambi i genitori di Sof’ja e la sua eredità fu investita in certi bagni pubblici adiacenti una serra, in un forno e in una lavanderia a vapore. Avevano progetti grandiosi. Disgrazia volle che il clima di Pietroburgo toccasse temperature piú basse del solito, non invogliando di certo la gente a frequentare dei bagni, seppure di vapore. I muratori, e non solo quelli, li imbrogliarono, il mercato immobiliare si fece instabile e, anziché gettare le basi per la loro sicurezza futura, Sof’ja e Vladimir sprofondarono sempre piú in un mare di debiti.
Inoltre, adeguarsi alla condotta delle altre coppie sposate ebbe il consueto dispendioso esito.
Sof’ja mise al mondo una bambina. Le diedero lo stesso nome della madre, ma la chiamarono Fufu. Fufu aveva una nutrice, una balia e un suo appartamento privato. La famiglia assunse anche una cuoca e una cameriera. Vladimir acquistò un guardaroba alla moda per Sof’ja e splendidi regali per la figlia. Ricevette il diploma di laurea conseguito a Jena e riuscí a diventare assistente di cattedra a Pietroburgo, ma non fu sufficiente. Il settore editoriale era praticamente allo sfascio.
Poi ci fu l’assassinio dello zar, il clima politico si fece avvelenato e Vladimir sprofondò per un periodo in una tale malinconia da non poter piú né lavorare né pensare.
Weierstraß aveva saputo della morte dei genitori di Sof’ja e, per alleviare un poco il suo dolore, come ebbe a dire, pensò di tenerla aggiornata riguardo al suo eccellente sistema di integrali. Ma, anziché riavvicinarsi alla matematica, Sof’ja prese a scrivere recensioni di spettacoli teatrali e articoli scientifico-divulgativi sulle riviste. Vale a dire, a mettere a frutto un talento piú spendibile della matematica e meno inquietante agli occhi degli altri, oltre che meno faticoso ai suoi. La famiglia Kovalevskij si trasferí a Mosca nella speranza che la fortuna cambiasse. Vladimir si riprese, ma non se la sentí di tornare a insegnare. Scovò una nuova possibilità di speculazione grazie all’offerta di un impiego presso una azienda che produceva nafta da un deposito di petrolio. La ditta era di proprietà dei fratelli Ragozin, i quali possedevano una raffineria e un moderno castello sul Volga. L’assunzione era condizionata alla disponibilità di investire una somma di denaro che Vladimir riuscí a farsi prestare.
A quel punto Sof’ja intuí i guai in arrivo. Tra lei e i fratelli Ragozin regnava una fiera antipatia.
Vladimir era ormai alla loro mercé. Sono uomini moderni, diceva, sanno il fatto loro. Diventò arrogante, assunse un atteggiamento ostile e sdegnoso. Fammi il nome di una sola donna che conti sul serio, le disse. Una donna che abbia davvero cambiato qualcosa nel mondo, se non seducendo o assassinando un uomo. Si tratta di creature per natura inferiori ed egocentriche che, se per caso arrivano ad avere un’idea appena decente a cui dedicarsi, diventano isteriche e la rovinano per eccesso di presunzione.
Parli come i Ragozin, disse Sof’ja.
E decise di riprendere la corrispondenza con Weierstraß. Affidò Fufu alla vecchia amica Julia e partí per la Germania. Scrisse al fratello di Vladimir, Aleksandr, informandolo di come Vladimir avesse abboccato all’amo dei Ragozin con tale prontezza da voler quasi sfidare il destino a impartirgli un’ulteriore batosta. Ciononostante, al marito scrisse dicendosi pronta a tornare. La risposta di lui non fu favorevole.
Si incontrarono ancora una volta, a Parigi, dove Sof’ja conduceva una vita molto modesta, mentre Weierstraß cercava di trovarle un lavoro. Si era di nuovo lasciata travolgere dai problemi matematici, come le persone che frequentava. Nel frattempo, Vladimir aveva cominciato a diffidare dei Ragozin ma era ormai coinvolto al punto da non potersi piú tirare indietro. Tuttavia progettava di andarsene negli Stati Uniti. E in effetti ci andò, ma solo per farne ritorno.
Nell’autunno del 1882 scrisse al fratello che si rendeva ben conto di essere ormai una persona del tutto inutile. In novembre gli riferí della bancarotta dei Ragozin. Temeva che tentassero di coinvolgerlo in certe procedure illegali. A Natale, fece visita a Fufu, che ora viveva a Odessa con la famiglia di suo fratello. Lo allietò constatare che la bambina lo riconosceva e che era sveglia e in buona salute. Dopodiché preparò lettere di addio per Julia, per suo fratello e per certi altri amici, ma niente per Sof’ja. Scrisse anche al tribunale chiarendo determinate sue azioni nella vicenda Ragozin.
Rimandò un altro poco. Fu soltanto ad aprile che si legò un sacchetto sopra la testa e inalò del cloroformio.
A Parigi, Sof’ja si chiuse in camera e smise di mangiare. Concentrò tutte le proprie energie sul rifiuto del cibo per non dover registrare ciò che sentiva.
Alla fine, fu sottoposta ad alimentazione forzata, e poté dormire. Al risveglio provò grande imbarazzo per quella reazione teatrale. E chiese carta e matita per poter riprendere a lavorare a un problema.
I soldi erano finiti. Weierstraß le scrisse offrendole di trasferirsi da lui come una terza sorella.
Intanto però continuava a brigare e, alla fine, ottenne un risultato con il suo ex studente e amico Mittag-Leffler, in Svezia. La moderna Università di Stoccolma acconsentí a essere il primo ateneo d’Europa disposto ad assumere una docente di matematica.
Sof’ja passò a prendere la figlia a Odessa con l’intenzione di portarla a vivere per il momento dall’amica Julia. Era furente con i Ragozin. Scrisse al fratello di Vladimir definendoli «astute canaglie velenose». Convinse il pubblico ministero incaricato di esaminare il caso a dichiarare che ogni prova forniva conferma dell’ingenuità di Vladimir, ma anche della sua rettitudine.
Poi prese l’ennesimo treno da Mosca a Pietroburgo per raggiungere la Svezia, dove l’attendeva il nuovo incarico molto chiacchierato e senz’altro anche ampiamente disapprovato. Da Pietroburgo proseguí il viaggio via mare. La nave fece rotta verso un irresistibile tramonto. Basta sciocchezze, pensò Sof’ja. Voglio una vita seria, d’ora in poi.
A quel punto non aveva ancora conosciuto Maksim. E nemmeno vinto il Premio Bordin.
V.
Lasciò Berlino nel primo pomeriggio, poco dopo aver rivolto quell’ultimo saluto a Weierstraß, un addio colmo di tristezza ma anche di sollievo. Il treno, vecchio e lentissimo, era pulito e ben riscaldato, come ci si poteva aspettare da un qualsiasi convoglio tedesco.
A circa metà del percorso, l’uomo seduto di fronte aprí il giornale e gliene offrí qualunque
pagina potesse aver voglia di leggere.
Sof’ja lo ringraziò, ma non accolse l’offerta.
L’uomo indicò con un cenno del capo la fitta nevicata fuori del finestrino.
– Be’, – disse, – del resto, che altro potevamo trovare?
– Già, che altro? – ribatté Sof’ja.
– Voi proseguite oltre Rostock?
Forse aveva notato un accento non propriamente tedesco. A Sof’ja non dispiacque che le rivolgesse la parola e nemmeno che giungesse a quelle conclusioni. L’uomo era parecchio piú giovane di lei, vestito in modo adeguato e leggermente ossequioso. Aveva l’impressione di averlo già visto o incontrato da qualche parte. Ma sono cose che succedono, quando si viaggia.
– Fino a Copenaghen, – disse. – E da lí, a Stoccolma. Per me la neve può soltanto aumentare. – Allora a Rostock ci saluteremo, – disse lui, forse per assicurarle che non avrebbe dovuto sostenere una lunga conversazione. – Vi piace Stoccolma?
– Odio Stoccolma in questa stagione. Non la sopporto.
Si stupí di se stessa. L’uomo in compenso si aprí in un largo sorriso e prese a parlarle in russo. – Scusatemi, – disse. – Non mi sbagliavo. Adesso sono io che vi parlo come un forestiero. Ma ho studiato in Russia in passato. A Pietroburgo.
– Avete riconosciuto il mio accento russo?
– Non proprio. Non prima che diceste quel che avete detto riguardo a Stoccolma.
– Perché, tutti i russi odiano Stoccolma?
– No, no. Ma si esprimono cosí. Odiano. Amano.
– Non avrei dovuto dirlo. Gli svedesi sono stati molto gentili con me. È gente che ha sempre qualcosa da insegnare…
A quel punto, l’uomo scosse la testa, ridendo.
– È vero, – disse lei. – Mi hanno insegnato a pattinare.
– Senza dubbio. Non avete imparato in Russia?
– I russi sono meno… insistenti degli svedesi quando si tratta di dare lezioni.
– È cosí anche a Bornholm, – disse lui. – Attualmente risiedo a Bornholm. Anche i danesi sono meno… insistenti. È la parola giusta. Del resto, a Bornholm non siamo neppure danesi. Lo diciamo sempre.
Era medico, sull’isola di Bornholm. Sof’ja si chiese se sarebbe stato molto sconveniente pregarlo di darle un’occhiata alla gola, che ormai le faceva molto male. E decise che sí, lo sarebbe stato.
Lui disse che lo aspettava ancora una traghettata lunga e probabilmente difficile, dopo aver superato il confine con la Danimarca.
Gli abitanti di Bornholm non si consideravano danesi, spiegò, ma piuttosto vichinghi annessi alla Lega anseatica intorno al sedicesimo secolo. Avevano alle spalle una storia violenta, catturavano prigionieri. Aveva mai sentito parlare del malvagio Conte di Bothwell? Secondo alcuni era morto a Bornholm, sebbene sull’isola di Selandia rivendicassero la stessa cosa.
– Assassinò il marito della regina di Scozia che poi sposò. Ma morí in catene. E pazzo, per giunta.
– Maria, regina di Scozia, – disse lei. – L’ho sentito raccontare –. Ed era proprio cosí, perché la regina scozzese era stata una delle prime eroine di Anjuta.
– Oh, perdonatemi. Quanto chiacchiero.
– Perdonarvi? – disse Sof’ja. – E di cosa?
L’uomo arrossí. Disse: – Io so chi siete.
Non in principio, disse. Ma appena l’aveva sentita parlare russo ne era stato certo.
– Voi siete la professoressa. Ho letto di voi su una rivista. C’era anche una fotografia, solo che sembravate molto piú vecchia. Mi spiace di avervi importunata, ma non ho potuto farne a meno. – Ho quell’aria severa nelle foto, perché mi pare che la gente non si fidi di me, se sorrido, – disse Sof’ja. – Non vale anche un poco per i dottori?
– Può darsi. Non mi capita spesso di essere fotografato.
A quel punto si era creata tra loro una lieve tensione; toccava a lei farlo sentire a suo agio. Stavano meglio prima che lui le dicesse di conoscerla. Sof’ja tornò sull’argomento di Bornholm. Era un posto aspro e scosceso, disse lui, non dolce e ondulato come la Danimarca. La gente ci veniva per il panorama e per l’aria buona. Se avesse mai deciso di visitare l’isola, sarebbe stato onorato di mostrargliela.
– Vi si trova una rarissima roccia azzurra, – disse. – È chiamata marmo azzurro. Viene tagliata e lucidata per farne collane per le signore. Se mai voleste averne una…
Parlava a vanvera perché voleva dirle qualcosa ma non ci riusciva. Sof’ja l’aveva capito. Si avvicinavano a Rostock. Il giovane si faceva sempre piú concitato. Sof’ja temeva che potesse chiederle di firmargli un foglio di carta o il libro che aveva con sé. Le capitava molto di rado, ma ogni volta quella richiesta la immalinconiva; non avrebbe saputo dire perché.
– Vi prego, ascoltatemi, – disse. – Vi devo dire una cosa. Una cosa che in teoria si dovrebbe tacere. Vi prego. Andando in Svezia, non passate da Copenaghen. Non spaventatevi, sono perfettamente sano di mente.
– Non sono spaventata, – disse lei, anche se un poco lo era.
– Dovete seguire l’altro percorso, passare dalle isole danesi. Cambiate il biglietto in stazione.
– Posso sapere perché? Qualcuno ha gettato un maleficio su Copenaghen?
A un tratto era certa che le avrebbe raccontato di chissà quale complotto, di una bomba.
Era un anarchico, dunque?
– C’è il vaiolo a Copenaghen. Un’epidemia. Hanno già abbandonato la città in molti, ma le autorità stanno cercando di mantenere il silenzio. Temono che si scateni il panico o che qualcuno dia fuoco alle sedi del governo. Il problema sono i finlandesi. Si dice che l’abbiano portato loro. Si teme che il popolo si sollevi contro i rifugiati finlandesi. O contro il governo, per averli lasciati entrare.
Il treno si fermò e Sof’ja si alzò, controllando il bagaglio.
– Promettetemelo. Non salutatemi senza questa promessa.
– D’accordo, – disse Sof’ja. – Ve lo prometto.
– Dovete prendere un traghetto per Gedser. Vi accompagnerei volentieri a cambiare biglietto, ma devo proseguire per Rutgen.
– Lo prometto.
Le ricordava forse Vladimir? Quello dei primi tempi. Non i tratti, ma quella premura sollecita nei suoi riguardi. Quella sua premura sollecita, umile e caparbia.
L’uomo le tese la mano e Sof’ja ricambiò il gesto, ma l’intenzione di lui non si fermava alla stretta di congedo. Le depositò sul palmo una pasticca. – Vi aiuterà a riposare se il viaggio dovesse diventare uggioso.
Dovrò consultare una persona affidabile su questa epidemia di vaiolo, decise Sof’ja.
Poi però non lo fece. L’impiegato che le modificò il biglietto era spazientito di dover affrontare tutte quelle complicazioni e lo sarebbe stato anche di piú se mai Sof’ja avesse cambiato idea. Dapprima sembrava che non sapesse rispondere se non nel danese dei passeggeri che erano con lei, ma quando ebbe concluso la transazione aggiunse in tedesco che il viaggio sarebbe stato molto piú lungo cosí, le era chiaro? E in quel momento Sof’ja si rese conto che si trovavano ancora in Germania, perciò l’impiegato poteva non sapere nulla di Copenaghen – come aveva fatto a non pensarci?
L’uomo aggiunse scorbutico che sulle isole nevicava.
Il vaporetto per Gedser era riscaldato a dovere anche se ci si doveva accontentare di sedili di legno. Sof’ja era sul punto di prendere la pasticca, pensando che quei seggiolini potevano ben essere ciò che il giovane medico intendeva quando le aveva parlato di un viaggio uggioso. Poi però decise di conservarla, in caso di mal di mare.
Il treno locale su cui montò aveva regolari posti di seconda classe, seppure sdruciti. In compenso faceva freddo: c’era un’unica stufa fumosa, praticamente inutile, in fondo al vagone. Il controllore si rivelò piú cordiale del bigliettaio, e anche meno sbrigativo. Sapendo di trovarsi su territorio danese, Sof’ja gli si rivolse in svedese – reputandola una lingua piú simile a quella del luogo rispetto al tedesco – per chiedergli se a Copenaghen si fosse in effetti diffusa la malattia. L’uomo rispose che no, quel treno non andava a Copenaghen.
«Treno» e «Copenaghen» dovevano essere le sole parole svedesi di sua conoscenza. Su quel convoglio naturalmente non esistevano scompartimenti, giusto le due carrozze con le panche di legno. Alcuni passeggeri si erano portati da casa cuscini, coperte e mantelli da avvolgersi addosso. Nessuno guardava Sof’ja, né tanto meno si azzardava a parlarle. A che pro del resto? Non sarebbe riuscita a capire né a rispondere.
Niente carrozza ristoro, s’intende. Vennero estratti involti di carta oleata contenenti colazioni fredde. Spesse fette di pane, formaggi odorosi, pancetta fredda già cotta, perfino un’aringa. Una donna produsse una forchetta dalle pieghe della sottana e si mise a mangiare cavolo in salamoia da un barattolo. A Sof’ja quel gesto ricordò casa, la Russia.
Questi però non sono contadini russi. Non ce n’è neanche uno ubriaco, ciarliero, ridanciano. Sono tutti rigidi come tronchi. Perfino l’adipe che rimpannuccia le ossa di alcuni sembra compatto, dignitoso, grasso luterano, insomma. Sof’ja non sa nulla di questa gente.
D’altra parte saprebbe forse di piú dei contadini di Russia, di quelli di Palibino? Sempre talmente ipocriti davanti ai loro superiori?
Tranne forse una volta, quella domenica in cui tutti i servi e i padroni dovettero recarsi in chiesa per la lettura della Proclamazione. Dopo l’evento, la madre di Sof’ja era disperata e gemendo chiedeva: «Ora che ne sarà di noi? Che ne sarà dei miei poveri bambini?» Il Generale la condusse nello studio per consolarla. Anjuta sedette a leggere uno dei soliti libri, e il piccolo Fëdor si mise a giocare con le sue costruzioni. Sof’ja, vagando per casa, arrivò in cucina dove i domestici e anche parecchi braccianti festeggiavano mangiando frittelle, ma con una certa solennità, come se si trattasse di una ricorrenza religiosa. Un vecchio il cui unico incarico era quello di spazzare il cortile, vedendola rise e la chiamò Padroncina. «Ecco, la Padroncina è venuta a farci gli auguri». E qualcuno dei presenti applaudí. Che simpatici, pensò Sof’ja, pur sapendo che quell’applauso era anche uno scherzo.
Di lí a poco comparve la governante con la faccia da temporale e la portò via.
Poi le cose tornarono piú o meno come prima.
Jaclard aveva detto ad Anjuta che non sarebbe mai stata un’autentica rivoluzionaria, che era buona solo a scucire denaro a quei criminali dei suoi genitori. Quanto a Sof’ja e Vladimir (lo stesso Vladimir che lo aveva salvato dalle grinfie della polizia), loro erano invece due presuntuosi parassiti, tutti compresi nei loro inutili studi.
L’odore di cavolo e aringa le sta procurando un velo di nausea.
Dopo un certo tratto il treno si ferma e i passeggeri ricevono l’ordine di scendere. O perlomeno è quanto Sof’ja intuisce dai latrati del controllore e dal sollevarsi svogliato ma obbediente di tutti. Si ritrovano fuori, nella neve alta fino al ginocchio, senza pensilina né centro abitato in vista, bensí circondati da colli candidi e lisci distesi sotto una nevicata a questo punto leggera. Davanti al convoglio alcuni uomini si danno da fare a liberare le rotaie dalla neve che si è accumulata nel solco. Sof’ja cammina avanti e indietro per evitare che le si gelino i piedi negli stivaletti, abbastanza caldi per la città ma non certo per questo posto. Gli altri passeggeri aspettano immobili, senza fare commenti sulla situazione.
Dopo una mezz’ora, o forse anche solo quindici minuti, la rotaia è pulita e i viaggiatori tornano sul treno. Deve essere un mistero per tutti, non soltanto per Sof’ja, perché siano dovuti scendere invece di aspettare seduti a bordo, ma naturalmente nessuno si lagna. Si procede ancora, nel buio, mentre contro i finestrini batte qualcosa che non è piú solo neve. Che produce un suono cattivo, graffiante.
Aghi di ghiaccio.
Poi, ecco le fioche luci di un villaggio, e alcuni passeggeri si alzano, si imbacuccano scrupolosamente, raccolgono bagagli e pacchi, smontano dal convoglio e scompaiono. Il viaggio riprende, ma poco dopo arriva di nuovo l’ordine di scendere. Non per via dei cumuli di neve, questa volta. Vengono trasferiti a bordo di un’imbarcazione, un altro vaporetto che li trasporta sull’acqua nera. Sof’ja ha un tale mal di gola che di certo non riuscirebbe a parlare, qualora se ne presentasse il bisogno. Non ha idea di quanto possa durare la traversata. Allo sbarco i passeggeri sono ammassati sotto una tettoia aperta che offre poco riparo e nessun posto a sedere. Dopo un’attesa che non sa calcolare, arriva un treno. Che sollievo per Sof’ja, sebbene non faccia piú caldo e le panche di legno siano come quelle del treno precedente. La nostra attitudine ad apprezzare comodità anche modeste, a quanto pare, dipende dal grado di disagio che abbiamo dovuto sopportare prima. Ma non è anche questa, avrebbe voglia di domandare a qualcuno, una predica trita?
Poco dopo si fermano in una cittadina piú grande, dotata di un buffet della stazione. Sof’ja è troppo stanca per scendere a raggiungerlo e tornare, come certi altri passeggeri, con fumanti tazze di caffè. Tuttavia, la donna che prima mangiava il cavolo risale reggendo due tazze, una delle quali risulta destinata a Sof’ja. Lei sorride e fa del proprio meglio per mostrarsi riconoscente. La donna annuisce come a dire che tutti quei convenevoli sono inutili, per non dire inopportuni. In compenso non si muove da lí fino a quando Sof’ja estrae le monete danesi che il bigliettaio le ha dato di resto. A quel punto la donna se ne prende due senza togliersi i guanti bagnati. Il prezzo del caffè, molto probabilmente. Pensiero e trasporto sono gratuiti. Funziona cosí. Poi, senza una parola, la donna ritorna al suo posto.
Sono saliti alcuni passeggeri nuovi. Una donna con un bambino sui quattro anni che ha mezza faccia bendata e un braccio al collo. Un incidente, la visita all’ospedale della zona. Da un foro nella fasciatura si intravede un triste occhio scuro. Il piccolo appoggia la guancia sana in grembo alla madre che lo copre col bordo dello scialle. Il suo gesto non è particolarmente tenero né premuroso, quanto piuttosto automatico. È successa una disgrazia, un fastidio in piú da risolvere, tutto qui. Con gli altri bambini che aspettano a casa, e magari anche uno dentro la pancia.
Che cosa terribile, pensa Sof’ja. Il fardello della donna. Chissà che cosa avrebbe da dire quella madre se Sof’ja le raccontasse delle recenti battaglie, delle lotte delle donne per ottenere il voto e incarichi universitari. Magari direbbe che non è la volontà di Dio. E se Sof’ja la incoraggiasse a liberarsi di Dio e ad aguzzare l’ingegno, non la guarderebbe forse con un certo cocciuto compatimento, con una stanchezza, dicendo, E secondo te, come campiamo poi, senza Dio?
Di nuovo attraversano l’acqua nera, su un lungo ponte questa volta, e si fermano in un villaggio dove la donna e il bambino scendono. Sof’ja ha perso interesse, neanche controlla se c’è qualcuno in stazione ad aspettarli; sta cercando di vedere l’ora sull’orologio della stazione, illuminato dal treno. Si aspettava che fosse quasi mezzanotte e invece sono da poco passate le dieci.
Sta pensando a Maksim. Chissà se in vita sua accetterebbe mai di salire su un treno cosí. Immagina di poggiargli comodamente la testa sulla grande spalla, sebbene la verità sia che in pubblico lui non gradirebbe affatto. Il suo cappotto di stoffa ricca e costosa, quel suo odore di soldi e di comodità. Cose belle che crede di avere per diritto e di dover mantenere per senso di responsabilità, benché sia un liberale malvisto in patria. La formidabile sicurezza che ha, la stessa che aveva suo padre, è del tipo che senti da piccola, quando ti prendono in braccio e sai che lo vorresti per tutta la vita. Ancora piú incantevole se chi ce l’ha ti vuole bene, naturalmente, ma confortante anche se è il risultato di un nobile patto antico, un impegno ineluttabile, se non entusiastico, a farsi carico della tua protezione.
Non sarebbero contenti se qualcuno li definisse docili, eppure in un certo senso lo sono.
Sottostanno alle leggi del comportamento virile. Vi si sottomettono con tutti i loro rischi e le crudeltà, i complicati oneri e gli imbrogli deliberati che implicano. Quelle regole dalle quali tu, in quanto donna, hai talvolta tratto vantaggio, e quelle di cui invece hai sofferto.
In questo momento ha un’immagine di lui: vede Maksim che, lungi dal difenderla, attraversa a lunghe falcate la stazione di Parigi, come si addice a un uomo con una sua vita privata.
Con quel copricapo autorevole, con la sua raffinata baldanza.
No, non era successo. Quello non era Maksim. No di certo.
Vladimir non era stato un vigliacco – bastava pensare a come aveva salvato Jaclard – ma non possedeva le stesse virili certezze. Ecco perché aveva potuto concederle un po’ di eguaglianza che gli altri non le avrebbero dato, e perché d’altra parte non poteva offrirle lo stesso calore avvolgente, lo stesso senso di protezione. Quando poi, verso la fine, sotto l’influenza dei Ragozin aveva cambiato tono – disperato com’era e convinto che l’unica via di scampo per lui fosse adeguarsi ai modi degli altri, si era messo a trattarla con una alterigia poco convincente, se non ridicola. Le aveva fornito allora un pretesto per disprezzarlo, ma forse Sof’ja lo disprezzava da sempre. Che lui la adorasse o che la insultasse, le era stato comunque impossibile amarlo.
Non come Anjuta amava Jaclard. Jaclard era egoista, brutale e infedele eppure Anjuta era innamorata di lui anche mentre lo odiava.
Che pensieri orrendi e incresciosi affioravano, a non tenerci sopra un coperchio.
Quando chiuse gli occhi, pensò di vederlo – Vladimir – seduto sulla panca di fronte a lei, ma non è Vladimir, quello è il dottore di Bornholm, solo il ricordo del dottore di Bornholm che, ansioso e ostinato, si insinua in quel modo deferente e bizzarro nella sua vita.
Arrivò il momento – di certo era quasi mezzanotte – in cui dovettero lasciare il treno una volta per tutte. Avevano raggiunto il confine danese. Elsinore. Il confine di terra, perlomeno – immaginava che quello vero fosse da qualche parte in mezzo al Kattegat.
E ad aspettarli trovarono l’ultimo traghetto, dall’aria spaziosa e accogliente, con tutte le luci accese. Ed ecco un facchino, venuto a portarle a bordo il bagaglio, ringraziarla degli spiccioli danesi e allontanarsi di fretta. Poi Sof’ja mostrò il biglietto all’ufficiale di bordo che le si rivolse in svedese. Le assicurò che arrivati a destinazione avrebbero trovato una coincidenza ferroviaria per Stoccolma. Non le sarebbe toccato passare il resto della notte in una sala d’attesa.
– Mi sembra di essere tornata alla civiltà, – gli disse lei. L’uomo la guardò con leggera apprensione. La sua voce era roca, nonostante il caffè avesse dato sollievo alla gola. Fa cosí solo perché è svedese, pensò Sof’ja. Non occorre sorridere e fare complimenti tra svedesi. Si può essere civili lo stesso.
La traversata fu un po’ burrascosa, però non le procurò il mal di mare. Ripensò alla pasticca, ma non ne sentí il bisogno. Inoltre la nave doveva essere riscaldata, a giudicare dal fatto che alcune persone si erano tolte il primo strato di indumenti invernali. Sof’ja però continuava a tremare. Forse era necessario; aveva accumulato cosí tanto freddo durante il viaggio attraverso la Danimarca. Le si era depositato dentro, quel gelo, e adesso doveva tremare fino a scuoterselo di dosso.
Come annunciato, il treno per Stoccolma aspettava nel dinamico porto di Helsingborg, assai piú ampio e vivace di quello della cittadina assonante di là dal braccio di mare. Gli svedesi magari non ti sorridono, ma se ti danno un’informazione ti puoi fidare. Un facchino le prese il bagaglio senza posarlo a terra, mentre Sof’ja cercava le monete nel borsellino. Ne estrasse una generosa quantità e gliele mise in mano, credendo che fossero danesi: non le sarebbero piú servite.
Erano danesi, infatti. L’uomo le restituí, dicendo in svedese: – Queste non vanno bene. – Non ho nient’altro, – esclamò lei, rendendosi conto di due fatti contemporaneamente. Primo, che la sua gola stava meglio e, secondo, che non aveva un soldo in valuta svedese.
L’uomo depose il bagaglio e si allontanò.
Soldi francesi, tedeschi, danesi. Si era scordata la Svezia.
La locomotiva intanto scaldava i motori e i passeggeri salivano a bordo, mentre lei restava bloccata, in difficoltà. Non poteva portarsi le borse da sola. Ma se non le prendeva, sarebbero rimaste lí.
Afferrò le varie cinghie e si mise a correre. Barcollava e ansimava con un dolore nel petto e tutto intorno alle braccia, e con le borse che le battevano contro le gambe. C’erano dei gradini. Se si fosse fermata a prendere fiato non sarebbe arrivata in tempo. Salí. Mentre gli occhi le si riempivano di lacrime di autocommiserazione, implorò il treno di non partire.
E il treno non partí. Non finché il controllore, sporgendosi fuori per chiudere lo sportello, la afferrò per un braccio e, in qualche modo, riuscí ad acchiappare il bagaglio e a issare ogni cosa a bordo. Una volta salva, Sof’ja cominciò a tossire. Cercava di espettorare qualcosa, tossendo. Il dolore: cercava di espettorare il dolore. Insieme alla tensione che le serrava la gola. Ma doveva anche seguire il controllore fino al suo scompartimento, e intanto rideva di giubilo fra un colpo e l’altro di tosse. Il controllore diede un’occhiata in un vagone dove c’erano già alcuni viaggiatori seduti, poi la scortò verso un altro che invece era vuoto.
– Avete fatto bene. A mettermi dove non posso. Dare fastidio, – disse, raggiante. – Non avevo denaro. Valuta svedese. Ne avevo di tutti i tipi, ma non svedese. Ho dovuto correre. Non avrei mai pensato di potercela…
L’uomo le disse di accomodarsi e di risparmiare il fiato. Se ne andò per tornare subito dopo con un bicchiere d’acqua. Mentre beveva, Sof’ja pensò alla pasticca che aveva ricevuto e la ingerí con l’ultimo sorso. La tosse si placò.
– Non dovevate fare una cosa del genere, – disse. – Vi si squassa il petto. Pare un mantice. Erano schietti gli svedesi, oltre che riservati e puntuali.
– Aspettate, – disse.
Perché c’era ancora qualcosa da chiarire, come se il treno non potesse condurla a destinazione, altrimenti.
– Aspettate un momento. Avete sentito della…? Avete sentito del vaiolo? A Copenaghen? – Non direi proprio, – replicò lui. Le rivolse un cenno del capo severo, sebbene educato, e se ne andò.
– Grazie. Grazie, – gli gridò lei appresso.
Sof’ja non è mai stata ubriaca in vita sua. Qualunque farmaco abbia assunto, in grado di confonderle il cervello, l’ha fatta addormentare prima che un simile disturbo potesse verificarsi. Perciò non ha nulla a cui paragonare la sensazione straordinaria – l’alterazione percettiva – che le si va diffondendo ora per tutto il corpo. In principio poteva sembrare nient’altro che sollievo, l’impressione magnifica e sciocca di un privilegio ricevuto, essendo riuscita a portare il proprio bagaglio, a salire di corsa i gradini e a raggiungere il treno. Senza contare che era sopravvissuta all’accesso di tosse e all’oppressione al petto e aveva anche potuto dimenticarsi della sua gola.
Ma c’è di piú: è come se il cuore continuasse a espandersi, mentre recupera il funzionamento normale, e si facesse, crescendo, anche piú fresco e leggero, capace di sgomberarle a soffi il cammino da tutti gli ostacoli. Perfino un’epidemia a Copenaghen può trasformarsi ora nel flagello cantato in una ballata, narrato in un vecchio racconto. Come pure la sua stessa vita, i cui accidenti e dolori diventano mere visioni. Idee e fatti assumono una forma nuova, appaiono attraverso lamine di limpida intelligenza, come un vetro trasfigurante.
C’era una sola esperienza analoga a questa che le tornasse alla mente. Vale a dire il suo primo incontro con la trigonometria, a dodici anni. Il professor Tyrtov, un vicino di casa a Palibino, aveva lasciato loro il nuovo manuale di cui era autore. Pensava potesse interessare al Generale, suo padre, esperto di artiglieria. Sof’ja vi si imbatté nello studio e lo aprí per caso al capitolo dedicato all’ottica. Cominciò a leggerlo e a studiare i diagrammi e si convinse che in breve tempo sarebbe stata in grado di capirlo. Non aveva mai sentito parlare di seni e coseni, ma sostituendo la corda di un arco con il seno e grazie alla fortunata circostanza per cui per piccoli angoli le due misure quasi coincidevano, riuscí ad aprirsi una breccia in quel linguaggio nuovo e meraviglioso. Non provò grande sorpresa, piuttosto un’intensa felicità.
Scoperte del genere accadevano. La matematica era un dono della natura, come l’aurora boreale. Non si confondeva con nient’altro al mondo, non aveva nulla a che fare con articoli, premi, colleghi e diplomi.
Il controllore la svegliò poco prima che il treno arrivasse a Stoccolma. Sof’ja chiese: – Che giorno è?
– Venerdí.
– Bene. Bene, posso tenere la mia conferenza.
– Dovreste riguardarvi, signora.
Alle due in punto era al podio e fu in grado di esporre la propria lezione con lucida coerenza, senza un dolore né un colpo di tosse. Il lieve ronzio che le attraversava il corpo come una corrente elettrica non le tradí la voce. Quanto alla gola, pareva guarita. Una volta concluso andò a casa, si cambiò d’abito e raggiunse in vettura a nolo il ricevimento al quale era stata invitata, in casa Gulden. Era di buonumore, riferí animatamente le proprie impressioni sull’Italia e la Francia meridionale, omettendo il racconto del viaggio di ritorno in Svezia. Poi lasciò la sala senza scusarsi, e uscí. Aveva in testa troppe idee luminose e strabilianti per continuare a parlare con la gente.
Fuori era già buio, nevicava, non c’era vento e i lampioni stradali parevano enormi globi natalizi. Sof’ja cercò una vettura con lo sguardo ma non ne vide. Passava un omnibus: lo fermò con un cenno della mano. Il vetturino la informò che quella non era una fermata regolamentare.
– Comunque vi siete fermato, – disse lei, placida.
Non conosceva affatto bene le vie di Stoccolma, perciò fu soltanto dopo un bel pezzo che si rese conto di aver viaggiato verso la parte sbagliata della città. Ridendo spiegò la cosa al vetturino che la fece scendere perché potesse tornare a casa a piedi sotto la neve, in abito da sera, mantella leggera e scarpine. I marciapiedi erano bianchissimi e silenziosi. Sof’ja dovette percorrere circa un miglio, ma fu lieta di constatare che ricordava la strada, dopotutto. Aveva i piedi fradici, ma non sentiva freddo. Forse dipendeva dall’assenza di vento e da quell’incantesimo di mente e corpo a lei fino ad allora sconosciuto, ma sul quale pensava di poter senz’altro contare da lí in avanti. Poteva anche essere un’espressione banale, ma Stoccolma le apparve come una città delle fiabe.
Il giorno dopo rimase a letto e fece recapitare un messaggio al collega Mittag-Leffler chiedendogli di mandarle il suo medico, dal momento che lei non ne aveva uno. Ci andò anche lui e, nel corso di una lunga visita, Sof’ja gli parlò con grande passione di un nuovo progetto matematico al quale intendeva dedicarsi. Un’idea piú ambiziosa, bella e importante di qualunque altra mai elaborata in passato.
Il dottore ritenne che il problema dipendesse dai reni, e le lasciò alcune medicine.
– Oh, mi sono dimenticata di chiederglielo, – disse Sof’ja dopo che se ne fu andato.
– Chiedergli cosa? – disse Mittag-Leffler.
– Se c’è l’epidemia. A Copenaghen.
– Sognate, – rispose gentile Mittag-Leffler. – Chi ve l’ha detto?
– Un uomo malato, – disse. Poi si corresse. – Voglio dire garbato. Un uomo garbato –. E agitò le mani, quasi cercando di costruire una forma piú adatta delle parole a chiarire il concetto. – Colpa del mio svedese… – concluse.
– Aspettate a parlare, quando vi sentirete meglio.
Sof’ja sorrise e assunse un’aria triste. Poi esclamò: – Mio marito.
– Il vostro promesso sposo? Ah, non è ancora vostro marito. Scherzo, naturalmente. Vorreste farlo venire?
Ma Sof’ja scosse il capo. E disse: – Non lui. Bothwell.
– No. No. No, – aggiunse rapidamente. – L’altro.
– Dovete riposarvi.
Teresa Gulden era arrivata con la figlia Elsa, e cosí pure Ellen Key. Dovevano darsi il cambio al suo capezzale. Dopo che Mittag-Leffler se ne fu andato, Sof’ja dormí un poco. Al risveglio era di nuovo ciarliera, ma non nominò piú nessun marito. Parlò del suo romanzo e del libro di memorie della sua giovinezza a Palibino. Si disse certa di poter fare di molto meglio ora, e prese a raccontare lo spunto per una nuova storia. Si confondeva e rideva di non riuscire a spiegarsi piú chiaramente. Parlò di un andirivieni, del ritmo cardiaco della vita. La sua speranza con quello scritto era di scoprire la verità di ciò che accadeva. Il principio di base. Una cosa inventata, ma non proprio.
Ma che voleva dire poi? Si mise a ridere.
Si sentiva traboccare di idee, disse, idee di importanza e respiro assolutamente nuovi e al tempo stesso cosí naturali e ovvie da non poter fare a meno di ridere.
La domenica peggiorò. Riusciva a stento a parlare, ma voleva a tutti i costi vedere Fufu con il costume che avrebbe indossato a una festa per bambini.
Era un costume da zingara, e Fufu danzò intorno al letto di sua madre.
Lunedí, Sof’ja chiese a Teresa Gulden di prendersi cura di Fufu.
La sera si sentí meglio, e arrivò un’infermiera per permettere a Teresa ed Ellen di riposare. Alle prime ore del mattino Sof’ja si svegliò. Teresa ed Ellen furono chiamate e fecero alzare anche Fufu affinché vedesse la madre viva un’ultima volta. Sof’ja riuscí a dire poco.
Teresa credette di sentirle dire: «Troppa felicità».
Morí verso le quattro. L’autopsia avrebbe rivelato polmoni devastati dalla polmonite e un cuore con problemi che dovevano risalire a parecchi anni prima. Il cervello, come tutti si aspettavano, era voluminoso.
Il dottore di Bornholm apprese della sua morte sui giornali e non si meravigliò. Gli capitava di avere qualche presentimento, un fenomeno inquietante nel suo mestiere e non sempre affidabile. Aveva pensato che evitare Copenaghen potesse salvarla. Si chiese se avesse preso il farmaco che le aveva dato e se le avesse procurato lo stesso sollievo che, in caso di bisogno, procurava a lui.
Sof’ja Kovalevskaja fu sepolta in quello che al tempo era definito il Cimitero nuovo, a Stoccolma, alle tre di pomeriggio di una giornata ancora fredda in cui i fiati degli amici in lutto come degli astanti restavano appesi nell’aria gelida in forma di piccole nuvole.
Da Weierstraß giunse una corona di alloro. Alle sorelle lo aveva detto; sapeva che non l’avrebbe piú vista.
Lui visse altri sei anni.
Maksim venne da Beaulieu, convocato dal telegramma che Mittag-Leffler gli aveva inviato prima del decesso. Arrivò in tempo per parlare al funerale, in francese, riferendosi a Sof’ja come se si fosse trattato solo di una docente di sua conoscenza, e ringraziando la nazione svedese da parte di quella russa per averle offerto un’occasione di guadagnarsi da vivere (di mettere a frutto il suo sapere, disse, in modo onorevole) come matematica.
Maksim non si sposò. Dopo qualche tempo gli fu concesso di fare ritorno in patria per insegnare a Pietroburgo. Fondò in Russia il partito democratico riformista, schierandosi a sostegno di una monarchia costituzionale. Gli zaristi lo bollarono di eccessivo progressismo. Lenin, in compenso, lo accusò di essere un reazionario.
Fufu svolse la professione di medico in Unione Sovietica, dove morí intorno alla metà degli anni Cinquanta. Non ebbe mai, a suo dire, alcun interesse per la matematica. A Sof’ja Kovalevskaja è stato intitolato un cratere lunare.
Ringraziamenti.
Scoprii Sof’ja Kovalevskaja sulla Britannica un giorno, mentre cercavo altro. La combinazione di matematica e romanziera mi incuriosí immediatamente, e cominciai a leggere tutto ciò che riuscii a trovare sul suo conto. Un libro mi affascinò piú di ogni altro, perciò devo riconoscere il mio debito, la mia immensa gratitudine a Don H. Kennedy, autore di Little Sparrow: A Portrait of Sophia Kovalevsky
(Ohio University Press, Athens, Ohio, 1983), e a sua moglie Nina, lontana discendente della Kovalevskaja, che mi procurò una quantità di testi tradotti dal russo, compresi brani tratti da diari, lettere e numerosi altri scritti di Sof’ja.
Il mio racconto si concentra unicamente sui giorni che precedettero la morte di Sof’ja, con alcune reminiscenze sul suo passato. Vorrei tuttavia raccomandare, a chiunque abbia interesse, la lettura del libro dei coniugi Kennedy, per la dovizia di informazioni storiche e matematiche che ha da offrire.
ALICE MUNRO
Clinton, Ontario
Canada
Giugno 2009
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