venerdì 13 marzo 2020


IL PASSEGGERO
Estratto da "Una bellezza russa e altri racconti"
Vladimir Nabokov
«Sì, la Vita ha più talento di noi» sospirò lo scrittore, battendo il bocchino di cartone della sigaretta russa sul coperchio del portasigarette. «Quali trame escogita a volte! Com'è possibile competere con quella divinità? Le sue opere sono intraducibili, indescrivibili».
«I diritti appartengono all'autore» suggerì il critico, sorridendo; era una persona umile, miope, dalle dita sottili e irrequiete.
«E allora l'ultima nostra risorsa è barare» proseguì lo scrittore, gettando soprappensiero un fiammifero nel bicchiere vuoto del critico. «Non ci resta che trattare le sue creazioni come un produttore cinematografico fa con un romanzo famoso. Lo scopo del produttore cinematografico è impedire che le servette si annoino il sabato sera; e quindi altera il romanzo fino a renderlo irriconoscibile; lo tagliuzza, lo rivolta come un calzino, elimina centinaia di episodi, introduce nuovi personaggi e nuovi avvenimenti frutto della sua fantasia – e tutto all'unico scopo di ottenere un film piacevole che scorra senza intoppi, punendo all'inizio la virtù e alla fine il vizio, un film assolutamente logico dal punto di vista delle convenzioni e, soprattutto, provvisto di un finale inatteso ma che risolve ogni cosa per il meglio. E noi scrittori ci comportiamo esattamente allo stesso modo, alteriamo i temi della Vita per adattarli ai nostri sforzi volti a trova re una sorta di armonia convenzionale, una specie di concisione artistica. Rendiamo gustosi i nostri plagi insipidi inventandoci degli stratagemmi. Giudichiamo lo spettacolo della Vita troppo vasto, troppo diseguale, di una genialità troppo disordinata. Per compiacere i lettori ritagliamo dagli scorrevoli romanzi della Vita le nostre accurate favolette ad usum delphini Mi permetta, a questo proposito, di rivelarle la seguente esperienza.
«Mi trovavo in viaggio, nella carrozza letto di un treno espresso. Adoro sistemarmi in quell'alloggio viaggiante – la biancheria fresca della cuccetta, lo scorrere lento delle luci della stazione che si allontanano mentre cominciano a muoversi dietro i vetri bui. Ricordo il piacere che avevo provato nel constatare che nessuno occupava la cuccetta sopra la mia. Mi svestii, mi distesi supino con le mani intrecciate sotto la nuca, e la corta coperta in dotazione, così leggera, era una delizia in confronto ai gonfi piumini d'albergo. Dopo aver riflettuto su cose mie – in quei giorni desideravo ardentemente scrivere una storia sulla vita delle addette alla pulizia delle carrozze ferroviarie – spensi la luce e in breve mi addormentai. E qui mi permetta di ricorrere a un trucco che salta fuori con desolante frequenza nel genere di storie al quale, molto probabilmente, la mia apparterrà. Eccolo, il vecchio trucco che certo conosce benissimo: "Nel mezzo della notte, all'improvviso, mi svegliai". Il seguito, però, non è così trito. Mi svegliai e vidi un piede».
«Scusi, un cosa?» interruppe l'umile critico, sporgendosi in avanti e alzando un dito.
«Vidi un piede» ripeté lo scrittore. «Nello scompartimento ora la luce era accesa. Il treno era fermo a una stazione. Si trattava di un piede maschile, un piede di misure notevoli, dentro un calzino dozzinale nel quale l'unghia bluastra dell'alluce aveva fatto un buco. Era saldamente piazzato sul gradino della scaletta del letto a castello, vicino alla mia faccia, e il proprietario, che la cuccetta superiore celava alla vista, era in procinto di fare l'ultimo sforzo per issarsi oltre il bordo. Ebbi tutto il tempo di esaminare quel piede con il suo calzino grigio a scacchi neri e anche parte della gamba: la vu violetta della giarrettiera sul lato del polpaccio robusto e la peluria che sporgeva sgradevolmente tra le maglie delle mutande lunghe. Tutto considerato, era un arto molto repellente. Mentre lo guardavo, si tese, e l'alluce aggrappato al gradino si mosse un paio di volte; poi, finalmente, tutta l'estremità, con una spinta vigorosa, si sollevò e scomparve. I grugniti e i respiri rumorosi che provenivano da sopra inducevano a credere che l'individuo si disponesse a dormire. La luce si spense, e pochi istanti dopo il treno con uno scossone si rimise in movimento.
«Non so come spiegarglielo, ma quella gamba mi angosciava in modo davvero opprimente. Un elastico rettile variopinto. Mi turbava il fatto che dell'uomo conoscessi soltanto quella gamba dall'aspetto maligno. Non gli vidi mai il viso, e neppure la figura per intero. La sua cuccetta, che formava un soffitto basso e buio sopra di me, ora pareva essere scesa ulteriormente; ne sentivo quasi il peso. Per quanti sforzi facessi cercando di immaginare l'aspetto del mio compagno di viaggio notturno, non riuscivo a visualizzare altro che l'unghia vistosa che esibiva una bluastra lucentezza madreperlacea attraverso il buco nella calza. In generale può sembrare strano che simili inezie mi infastidissero; ma, d'altra parte, lo scrittore non è forse proprio colui che dà importanza alle inezie? Comunque sia, il sonno non veniva. Restavo in ascolto: il compagno sconosciuto cominciava forse a russare? Più che russare, pareva che gemesse. Tutti sappiamo che, di notte, il rumore delle ruote del treno favorisce le allucinazioni uditive, e tuttavia non potevo scrollarmi di dosso l'impressione che da lassù, sopra di me, provenissero suoni insoliti. Mi sollevai su un gomito. I suoni divennero più chiari. L'individuo della cuccetta superiore stava singhiozzando».
«Come?» interruppe il critico. «Singhiozzando? Ah! Scusi… non avevo afferrato bene quello che aveva detto». E lasciando nuovamente ricadere le mani in grembo, la testa inclinata di lato, il critico tornò ad ascoltare il narratore.
«Proprio così, singhiozzava, e quei singhiozzi erano atroci. Lo soffocavano; espirava rumorosamente come se avesse bevuto un litro d'acqua tutto d'un fiato, poi seguivano alcuni rapidi sussulti di pianto a bocca chiusa – una parodia terrificante del chiocciare – e poi di nuovo inspirava, e di nuovo buttava fuori l'aria con brevi espirazioni a singhiozzo, con la bocca aperta adesso, a giudicare dal suonoha-ha-ha. E il tutto con il sottofondo instabile dì ruote martellanti, che in tal modo si trasformava in una specie di scala in movimento lungo la quale i singhiozzi salivano e scendevano.
Stavo immobile, in ascolto – e mi resi conto, per inciso, che nel buio il mio viso aveva un'espressione terribilmente sciocca, perché è sempre imbarazzante sentire piangere uno sconosciuto. E d'altronde, capisce, ero indissolubilmente incatenato a lui dato che condividevamo il medesimo scompartimento, sul medesimo treno che sfrecciava indifferente. E l'uomo non smetteva di piangere; quei convulsi, spaventosi singhiozzi mi incalzavano: entrambi – io, l'ascoltatore, di sotto, e lui, quello che piangeva, di sopra – eravamo lanciati lateralmente, alla velocità di ottanta chilometri l'ora, nei remoti abissi della notte, e soltanto uno scontro ferroviario avrebbe potuto recidere il nostro involontario legame.
«Dopo un po' sembrò che avesse smesso di piangere, ma non feci in tempo ad addormentarmi che i singhiozzi ricominciarono a montare e mi parve anche di udire parole inintelligibili pronunciate con voce quasi sepolcrale, come salisse dai visceri, tra sospiri convulsi. Si quietò di nuovo, tirava soltanto un po' su con il naso, mentre io, disteso a occhi chiusi, vedevo con l'immaginazione il suo piede disgustoso nel calzino a scacchi. Non so come, riuscii a prender sonno e alle cinque e mezzo il controllore aprì la porta con uno strattone per svegliarmi. Seduto sul letto, sbattendo in continuazione la testa contro il bordo della cuccetta superiore, mi vestii in fretta. Prima di uscire nel corridoio con le valigie, mi girai a guardare la cuccetta superiore, ma l'uomo mi voltava le spalle, la testa sotto la coperta. Nel corridoio faceva già chiaro, il sole era appena sorto, la fresca ombra blu del treno correva sull'erba, sui cespugli, si allungava sinuosa lungo i pendii, si increspava sui tronchi delle betulle ondeggianti, e un minuscolo stagno oblungo luccicò abbacinante al centro di un campo, poi si restrinse, scemò fino a diventare una fessura argentea, e con un rapido sferragliare una villetta scappò via di corsa, una strada agitò la coda sotto un passaggio a livello – ed ecco altre betulle, un'infinità di betulle, una palizzata ondeggiante, screziata di sole, che dava il capogiro.
«Nel corridoio vi erano soltanto due donne dal viso assonnato e dal trucco sciatto, e un vecchio, di bassa statura, che indossava guanti di camoscio e un berretto da viaggio. Detesto alzarmi presto: per quanto mi riguarda, la più incantevole delle albe non potrà mai sostituire le ore del delizioso sonno mattutino; mi limitai quindi a un cenno d'assenso scontroso quando il vecchio signore mi chiese se anch'io sarei sceso a…, e menzionò una grande città dove saremmo dovuti arrivare da lì a dieci o quindici minuti.
«All'improvviso le betulle si diradarono, cinque o sei casette rotolarono giù per la collina, alcune finendo quasi sotto il treno per la foga; poi passò veloce una grande fabbrica rosso porpora, facendo lampeggiare i vetri delle sue finestre; una tazza di cioccolata ci salutò da un cartellone di dieci metri; seguì un'altra fabbrica con vetri lucenti e ciminiere; in breve, accadeva ciò che di solito accade nell'avvicinarsi a una città. Ma di colpo, a sorpresa, il treno frenò convulsamente e si fermò in una stazioncina desolata, dove con ogni evidenza un espresso non aveva alcun motivo di gingillarsi. Mi stupii anche nel vedere numerosi poliziotti fermi sul marciapiede. Abbassai un finestrino e mi sporsi fuori. "Lo chiuda, per piacere" disse educatamente uno di loro. I passeggeri che stazionavano nel corridoio davano segni di agitazione. Passò un controllore e gli chiesi che cosa stesse succedendo. "C'è un criminale sul treno" rispose, spiegandoci in breve che nella città in cui ci eravamo fermati nel cuore della notte, la sera stessa era avvenuto un omicidio: un marito tradito aveva sparato alla moglie e al di lei amante. Le signore esclamarono "akh!", il vecchio signore scosse la testa. Nel corridoio apparvero due poliziotti e un investigatore dalle guance rosee, paffuto, con la bombetta e l'aspetto di un allibratore. Mi chiesero di tornare alla mia cuccetta. I poliziotti si fermarono nel corridoio mentre l'investigatore controllava uno dopo l'altro gli scompartimenti. Gli mostrai il passaporto. I suoi occhi di un marrone rossiccio scivolarono sul mio viso; mi rese il passaporto. Stavamo in piedi, lui e io, nello stretto scompartimento dove, sulla cuccetta superiore, una figura dormiva avviluppata in un bozzolo scuro. "Può andare" disse l'investigatore e allungò il braccio verso l'alto, verso l'oscurità: "Documenti, prego". L'uomo avvolto nella coperta continuò a russare. Mentre mi attardavo nel vano della porta sentii ancora lo sconosciuto russare e mi parve di cogliere l'eco sibilante dei suoi singhiozzi notturni. "Si svegli, prego" disse l'investigatore, alzando la voce; e con una specie di strattone professionale tirò via l'orlo della coperta che nascondeva la nuca del dormiente. Quello si agitò ma continuò a russare. L'investigatore lo scosse per una spalla. Era uno spettacolo piuttosto sgradevole. Mi girai verso il corridoio e fissai il finestrino di fronte, ma in realtà non lo vedevo, intento com'ero ad ascoltare ciò che accadeva nello scompartimento.
«E pensi, non sentii assolutamente niente di insolito. L'individuo sulla cuccetta superiore borbottò assonnato qualche cosa, sentii distintamente l'investigatore chiedergli il passaporto, altrettanto distintamente ringraziarlo; quindi uscì per entrare in un altro scompartimento. Tutto qui. Ma pensi solo che bello – dal punto di vista dello scrittore, naturalmente – se il passeggero in lacrime con quel piede orrendo in realtà fosse risultato un assassino; che eccellente spiegazione si sarebbe potuta dare a quelle lacrime notturne e, soprattutto, come l'intera vicenda si sarebbe inquadrata bene nella cornice del mio viaggio notturno, nella cornice di un racconto. Ma, a quanto pare, il progetto dell'Autore, il progetto della Vita, era in questo caso, come in qualsiasi altro caso, assai migliore».
Lo scrittore emise un sospiro e tacque, aspirando la sigaretta spenta già da tempo e ora mangiucchiata e umida di saliva. Il critico lo guardava con occhi benevoli.
«Confessi» riprese lo scrittore «che dal momento in cui ho menzionato la polizia e la fermata imprevista, lei era certo che il mio passeggero singhiozzante fosse un criminale».
«Conosco la sua tecnica» rispose il critico, toccando la spalla dell'interlocutore con la punta delle dita e ritraendole poi di scatto, in un gesto che gli era tipico. «Se lei scrivesse un racconto poliziesco, il "cattivo" non sarebbe la persona sulla quale nessuno dei personaggi nutre dei sospetti, bensì quella che tutti sospettano fin dall'inizio, imbrogliando in tal modo il lettore esperto abituato a soluzioni che risultano essere sempre quelle nonovvie. So bene che le piace creare una sensazione di imprevedibilità ricorrendo a epiloghi del tutto naturali; ma non si lasci trasportare dal suo metodo. Molte cose della vita sono casuali, e altrettante sono insolite. Alla Parola è concesso il diritto sublime di esaltare l'intervento del caso e di fare del trascendente un qualche cosa di non accidentale. Dall'episodio di cui stiamo ora parlando, dal gioco del caso, avrebbe potuto creare una storia compiuta se avesse trasformato il passeggero in un omicida».
Lo scrittore sospirò di nuovo.
«Sì, sì, ci ho pensato. Avrei potuto arricchirla di molti particolari. Avrei potuto accennare all'amore appassionato che egli nutriva per la moglie. É possibile inventare qualunque cosa. Il fatto è che brancoliamo nel buio – forse la Vita aveva in mente un esito completamente diverso, assai più sottile e profondo. Ciò che mi secca è che non ho mai saputo, né mai saprò, perché il passeggero piangesse».
«Intercedo a favore della Parola» disse amabilmente il critico. «Lei, in quanto narratore, avrebbe come minimo escogitato una soluzione geniale: il suo personaggio piangeva, forse, perché aveva perso il portafoglio alla stazione. Una volta conoscevo un tipo, un uomo maturo dall'aspetto marziale, che quando aveva mal di denti piangeva, urlando addirittura. No, grazie, no… non me ne versi più. Basta così, davvero, basta così».