venerdì 13 marzo 2020


PNIN
Vladimir Nabokov


CAPITOLO PRIMO 

1

 L’attempato passeggero seduto accanto al finestrino sul lato nord di quella carrozza ferroviaria inesorabilmente in corsa, con un posto vuoto a fianco e due posti vuoti di fronte, altri non era che il professor Timofej Pnin. Mirabilmente calvo, abbronzato e rasato con cura, aveva un inizio piuttosto imponente, con la gran cupola brunita del cranio, gli occhiali cerchiati di tartaruga (che mascheravano un’infantile assenza di sopracciglia), il labbro superiore da primate, il collo solido e il torso muscoloso serrato in una giacca di tweed attillata, ma una fine un po’ deludente, con due gambette sottili (al momento rivestite di flanella e accavallate) e due piedi dall’apparenza fragile, quasi femminei. Le calze, cascanti, erano di lana scarlatta a losanghe lilla; le scarpe nere, tradizionali, gli erano costate più o meno quanto tutto il resto dell’abbigliamento (compresa la sgargiante cravatta da gorilla). Prima degli anni ’40, durante la compassata fase europea della sua vita, aveva sempre indossato mutande lunghe, con gli orli accuratamente infilati dentro quelli di impeccabili calzini di seta con la baguette, dai colori sobri, fermati da giarrettiere ai polpacci inguainati nel cotone. In quei giorni, lasciar trapelare una fugace visione di quel candido indumento intimo tirando su più del dovuto una gamba dei calzoni sarebbe parso a Pnin non meno sconveniente che apparire davanti a una signora senza solino e cravatta; perfino quando accadeva che la malandata Mme Roux – concierge dello squallido caseggiato del XVIe Arrondissement di Parigi dove Pnin, dopo essere fuggito dalla Russia leninizzata e aver completato gli studi universitari a Praga, aveva vissuto per quindici anni – saliva a riscuotere l’affitto in un momento in cui lui non indossava il faux-col, il verecondo Pnin ricopriva con mano pudica il bottone della camicia. Tutto questo era mutato radicalmente nell’impetuosa atmosfera del Nuovo Mondo. Oggi, a cinquantadue anni, Pnin andava pazzo per i bagni di sole, portava camicie e pantaloni sportivi, e quando accavallava le gambe esibiva studiatamente, deliberatamente, sfrontatamente un’ingentissima estensione di stinco nudo. Così sarebbe potuto apparire a un compagno di viaggio; ma, se si eccettuano un soldato che dormiva a un’estremità e due donne completamente assorbite da un bambino all’estremità opposta, Pnin aveva la carrozza tutta per sé. A questo punto è necessario rivelare un segreto. Il professor Pnin si trovava sul treno sbagliato. Lui non lo sapeva, e non lo sapeva neanche il controllore, che già, percorrendo il convoglio, si stava avvicinando al suo vagone. In effetti, al momento Pnin si sentiva perfettamente soddisfatto di se stesso. Quando lo aveva invitato a tenere una conferenza ai Venerdì sera di Cremona – circa duecento verste a ovest di Waindell, trespolo accademico di Pnin dal 1945 –, la vicepresidente del Cremona Women’s Club, una certa Miss Judith Clyde, aveva detto al nostro amico che il treno più comodo partiva da Waindell alle 13.52 e arrivava a Cremona alle 16.17; ma Pnin – il quale, come tanti russi, nutriva una passione smodata per tutto quanto avesse a che fare con orari, mappe e tabelle, e li collezionava, ne faceva man bassa senza ritegno con il corroborante piacere di accaparrarsi qualcosa gratis, ed era particolarmente fiero di organizzare da solo i propri spostamenti – aveva scoperto, dopo qualche indagine, un microscopico rimando a un treno ancora più comodo (Waindell 14.19 – Cremona 16.32); la nota segnalava che il venerdì, e il venerdì soltanto, il treno in questione, diretto a una città lontana e molto più grande a sua volta gratificata da un dolce nome italiano, fermava a Cremona. Disgraziatamente per Pnin, il suo orario era vecchio di cinque anni e in parte obsoleto. Pnin insegnava russo al Waindell College, un istituto provincialotto con un lago artificiale al centro di un parco all’inglese, gallerie ricoperte di edera che collegavano i vari edifici, affreschi in cui membri riconoscibili della facoltà erano rappresentati nell’atto di passare la fiaccola del sapere dalle mani di Aristotele, Shakespeare e Pasteur a quelle di una frotta di contadinotti e contadinotte di mostruosa robustezza, nonché un enorme, efficiente, giocondamente florido dipartimento di germanistica che il preside, il dottor Hagen, definiva con compiacimento (e spiccando bene ogni sillaba) «un’università dentro l’università». Nel semestre autunnale di quel particolare anno (il 1950), l’insieme degli iscritti ai corsi di lingua russa era costituito da uno studente, la grassoccia e volenterosa Betty Bliss, nel Transitional Group, uno puramente nominale (Ivan Dub, che non si era mai materializzato) nello Advanced, e tre nel rigoglioso Elementary: Josephine Malkin, i cui nonni erano nati a Minsk; Charles McBeth, dotato di una memoria prodigiosa che aveva già fagocitato dieci lingue ed era pronta a seppellirne altre dieci; e la languida Eileen Lane, cui qualcuno aveva detto che una volta imparato l’alfabeto russo si era praticamente in grado di leggere «Anna Karamazov» in lingua originale. Come insegnante, Pnin era lungi dal poter competere con quelle meravigliose dame russe, disseminate in tutta l’America accademica, che senza alcuna preparazione specifica riuscivano in qualche modo, per virtù di intuizione, loquela e una sorta di slancio materno, a infondere una prodigiosa conoscenza della loro lingua bella e difficile a un gruppo di allievi dagli occhi innocenti, in un’atmosfera fatta di canzoni sulla Madre Volga, di caviale rosso e di tè; né Pnin, come insegnante, aveva mai avuto la presunzione di accostarsi alle nobili aule della moderna linguistica scientifica, quell’ascetica confraternita di fonemi, quel tempio in cui volenterosi giovani apprendevano non già la lingua, ma il metodo per insegnare ad altri a insegnare quel metodo; il quale metodo, come una cascata scrosciante di roccia in roccia, non costituisce più un veicolo di navigazione razionale, ma potrà forse diventare, in chissà quale favoloso futuro, utile allo sviluppo di dialetti esoterici – il basco essenziale e così via – parlati soltanto da certe elaborate apparecchiature. Non vi è dubbio che Pnin affrontasse il suo lavoro in modo piuttosto dilettantesco e disinvolto, come prova il fatto che per gli esercizi si affidava a una grammatica compilata dal preside del dipartimento di slavistica di un’università molto più importante di Waindell – un venerabile impostore la cui conoscenza del russo era risibile, ma che prestava generosamente il proprio onorato nome ai prodotti di anonime fatiche. Nonostante le sue numerose manchevolezze, Pnin emanava un fascino disarmante, vecchio stile, che il dottor Hagen, suo convinto protettore, vantava ai recalcitranti membri del consiglio direttivo come un raffinato articolo di importazione che valeva il pagamento in valuta nazionale. Mentre la laurea in sociologia ed economia politica conseguita da Pnin con un certo lustro all’università di Praga intorno al 1925 era diventata alla metà del secolo un dottorato in desuetudine, come insegnante di russo non era del tutto inadeguato al ruolo. Veniva apprezzato non tanto per una qualche sostanziale competenza, quanto per quelle sue indimenticabili digressioni, durante le quali si toglieva gli occhiali per gettare uno sguardo radioso al passato strofinando nel contempo le lenti del presente. Escursioni nostalgiche in un inglese sconnesso. Prelibatezze autobiografiche. Come Pnin era giunto negli Soedinënnye Štaty (gli Stati Uniti). «Interrogatorio sulla nave prima di sbarcare. Molto bene! “Niente da dichiarare?”. “Niente”. Molto bene! Poi domande politiche. Lui chiede: “Lei è anarchico?”. Io rispondo» – e qui, pausa del narratore per un istante di beata, silenziosa ilarità – «“Prima di tutto, che cosa intendiamo per ‘anarchismo’? Anarchismo pratico, metafisico, teorico, mistico, astratto, individuale, sociale? Quand’ero giovane,” dico “tutto questo per me aveva un significato”. Così abbiamo avuto una discussione interessantissima, in conseguenza della quale ho passato due intere settimane a Ellis Island» – primi sussulti dell’addome; intensificarsi dei medesimi; riso convulso del narratore. Ma vi erano appuntamenti ancora migliori sul piano della comicità. Con un’aria di ritrosa segretezza, il benevolo Pnin, predisponendo gli allievi al piacere mirabile di cui a suo tempo aveva goduto egli stesso, e già palesando in un irrefrenabile sorriso un’incompleta ma formidabile chiostra di denti fulvi, apriva un decrepito volume russo là dove aveva accuratamente inserito un elegante se


segnalibro in pegamoide; apriva il volume, dopodiché molto spesso i tratti mobilissimi del suo volto si alteravano in un’espressione assolutamente costernata; a bocca aperta, febbrilmente, sfogliava avanti e indietro, e potevano passare diversi minuti prima che trovasse la pagina giusta – o si persuadesse che dopo tutto aveva inserito il segnalibro al posto giusto. In genere il brano su cui cadeva la sua scelta era tratto da qualche vecchia, ingenua commedia di ambiente mercantile abborracciata da Ostrovskij quasi un secolo prima, o da una coeva ma ancor più datata pièce di banale umorismo leskoviano, tutta giocata su contorsionismi verbali. Egli declamava queste merci stantie con lo stile enfatico della classicheggiante Aleksandrinka (un teatro di Pietroburgo) piuttosto che con l’incisiva sobrietà del Teatro d’Arte di Mosca; ma dal momento che per apprezzare quel po’ di comicità che i brani in questione ancora conservavano occorreva non solo una profonda conoscenza della lingua parlata, ma anche una notevole capacità di penetrazione letteraria, e dal momento che la sua povera piccola scolaresca non possedeva né l’una né l’altra, il lettore era il solo a godere delle sottigliezze allusive del testo. I sussulti da noi già rilevati in una diversa circostanza diventavano in questa un vero e proprio terremoto. Nel riandare con la memoria, con tutte le luci accese e tutte le maschere del mimetismo mentale in azione, ai giorni della sua fervida e ricettiva gioventù (in uno scintillante universo che appariva tanto più vivido in quanto era stato abolito da un solo colpo di vento della storia), Pnin si ubriacava dei propri vini personali via via che proponeva esempi su esempi di quello che l’uditorio educatamente deduceva essere l’umorismo russo. In breve l’ilarità lo soverchiava; lacrime a forma di pera gli rigavano le guance abbronzate. Non solo l’impressionante dentatura, ma anche una quantità sbalorditiva di roseo tessuto della gengiva superiore saltavano fuori di colpo, come se fosse scattato il fantoccio di una scatola a sorpresa, e la sua mano volava alla bocca, mentre le ampie spalle tremavano e sobbalzavano. E benché il discorso, soffocato dalla mano sfarfallante, fosse ora doppiamente inintelligibile alla classe, quella resa incondizionata al proprio tripudio personale si rivelava irresistibile. Quando Pnin ne era sopraffatto, i suoi studenti ridevano a crepapelle, con repentini latrati di ilarità che scattavano regolari come un orologio da parte di Charles e lo sgorgare abbagliante di un riso di tanto inaspettata grazia da trasfigurare Josephine, che non era carina, mentre Eileen, che lo era, si disfaceva in una gelatina di smorfiette disdicevoli. Tutto ciò non modifica il fatto che Pnin si trovava sul treno sbagliato. Quale diagnosi formulare su questa triste circostanza? Pnin, è bene sottolinearlo, non aveva niente a che vedere con il tipo di quel bonario luogo comune tedesco del secolo scorso, der zerstreute Professor. Al contrario, era forse fin troppo diffidente, fin troppo costantemente in guardia contro trappole diaboliche, fin troppo penosamente all’erta per paura che il bizzarro ambiente da cui era circondato (l’imprevedibile America) potesse indurlo a un qualche ridicolo passo falso. Era il mondo a essere distratto, e toccava a Pnin tenerlo in riga. La sua vita era una guerra senza quartiere contro oggetti insensati che cadevano in pezzi o gli si rivoltavano contro o si rifiutavano di funzionare, oppure scomparivano per pura malignità nel momento stesso in cui entravano nella sua sfera di esistenza. Ben pochi erano altrettanto inetti a usare le mani; ma poiché era capace di ricavare in un batter d’occhio da un baccello un’armonica a bocca a una sola nota, di far rimbalzare dieci volte un sasso piatto sulla superficie di uno stagno, di proiettare con le nocche l’ombra di un coniglio (con tanto di occhio ammiccante), e di eseguire una quantità di altri trucchetti insulsi che sono l’asso nella manica dei russi, Pnin era convinto di possedere una notevole abilità manuale e meccanica. Verso ogni tipo di congegno provava adorazione e una sorta di voluttà stupefatta e superstiziosa. Le apparecchiature elettriche lo incantavano. La plastica lo entusiasmava. Nutriva una profonda ammirazione per la chiusura lampo. Ma se un temporale nel cuor della notte paralizzava la centrale elettrica locale, la sveglia debitamente collegata alla presa di corrente mandava a rotoli le sue mattinate. La montatura degli occhiali gli si spezzava nel mezzo, lasciandolo con due metà identiche che lui cercava goffamente di riunire, forse nella speranza che un qualche prodigioso restauro organico intervenisse in suo soccorso. La cerniera su cui soprattutto fa assegnamento un gentiluomo si inceppava nella sua mano malcerta in momenti da incubo di affanno e disperazione. E ancora non sapeva di trovarsi sul treno sbagliato. Una particolare zona di pericolo, nel caso di Pnin, era la lingua inglese. Fatta eccezione per alcuni ammennicoli non particolarmente utili, come «il resto è silenzio», «mai più», «weekend», «who’s who», e per poche parole di uso comune quali «mangiare», «strada», «penna stilografica», «gangster», «Charleston», «utilità marginale», quando aveva lasciato la Francia per gli Stati Uniti l’inglese gli era del tutto ignoto: Si era dunque dedicato caparbiamente al compito di imparare la lingua di Fenimore Cooper, di Edgar Poe, di Edison e di trentuno presidenti. Nel 1941, a conclusione di un anno di studio, aveva fatto progressi sufficienti a consentirgli di usare con disinvoltura termini quali «wishful thinking» e «OK». Nel 1942 era in grado di intercalare nel discorso l’espressione «per farla breve». All’inizio del secondo mandato di Truman, Pnin poteva parlare, in pratica, di qualsiasi argomento; ma per il resto, nonostante tutti i suoi sforzi, ogni ulteriore progresso appariva bloccato, e nel 1950 il suo inglese era ancora pieno di magagne. In quell’autunno aveva affiancato ai corsi di russo una serie di conferenze settimanali nell’ambito di un cosiddetto simposio («L’Europa senza ali: rassegna della cultura continentale contemporanea») diretto dal dottor Hagen. Tutte le conferenze del nostro amico, comprese le varie che teneva fuori città, venivano rivedute da uno dei membri più giovani del dipartimento di germanistica. La procedura era piuttosto macchinosa. Il professor Pnin traduceva faticosamente il proprio fluviale eloquio russo, pullulante di espressioni idiomatiche, in un inglese rabberciato. Questo veniva rivisto dal giovane Miller. Poi la segretaria del dottor Hagen, una certa Miss Eisenbohr, batteva a macchina il tutto. Quindi Pnin cassava i passi che non riusciva a capire. Infine ne dava lettura al suo uditorio settimanale. Senza il testo predisposto sarebbe stato assolutamente perduto, né era in grado di dissimulare questa sua debolezza usando il vecchio sistema che consiste nell’alzare e abbassare gli occhi, cogliendo al volo con lo sguardo un certo numero di parole, snocciolandole agli astanti e tirando in lungo la conclusione di una frase mentre ci si tuffa nella successiva. L’occhio inquieto di Pnin avrebbe fatalmente perso l’orientamento. Per questo preferiva leggere le sue conferenze, lo sguardo incollato al foglio, la voce baritonale, lenta e monotona, che sembrava inerpicarsi su per una di quelle interminabili rampe di scale usate da chi ha paura degli ascensori. Al controllore – un tipo paterno, dai capelli grigi, con gli occhiali cerchiati di acciaio piuttosto bassi sul naso semplice e funzionale e un pezzo di sudicio nastro adesivo sul pollice – rimanevano solo tre carrozze prima di arrivare all’ultima, su cui viaggiava Pnin. Questi nel frattempo aveva ceduto al soddisfacimento di una peculiare brama pniniana. Si stava arrovellando in uno pniniano dilemma. Fra i vari articoli indispensabili per una notte pniniana in una città sconosciuta, quali forme per le scarpe, mele, dizionari e così via, la sua valigia a soffietto conteneva un abito nero relativamente nuovo – che egli si proponeva di indossare quella sera, per la conferenza («È comunista il popolo russo?») che avrebbe tenuto alle signore di Cremona –, il testo per il simposio del lunedì successivo («Don Chisciotte e Faust») – che Pnin intendeva studiare il giorno dopo, durante il viaggio di ritorno a Waindell – e una relazione della studentessa laureanda, Betty Bliss («Dostoevskij e la Gestaltpsychologie») – che doveva leggere per il dottor Hagen, mentore intellettuale della ragazza. Il dilemma era il seguente: se avesse custodito il manoscritto di Cremona – un mannello di fogli formato macchina da scrivere, accuratamente piegato a metà – sulla sua persona, al sicuro tepore del suo corpo, era possibile, in linea teorica, che poi dimenticasse di trasferirlo dalla giacca che indossava a quella che avrebbe indossato. D’altra parte, se avesse infilato subito il testo nella giacca dell’abito che si trovava in valigia, sarebbe stato, lo sapeva, torturato dall’eventualità che gli venisse rubato il bagaglio. Terzo punto (questi stati mentali non fanno che emettere nuovi tentacoli), nella tasca interna della giacca che portava in quel momento erano riposti un prezioso portafogli contenente due banconote da dieci dollari, un ritaglio di giornale recante una lettera da lui scritta, con il mio aiuto, al «New York Times» nel 1945 a proposito della Conferenza di Jalta, e il suo certificato di naturalizzazione; ed era materialmente possibile estrarre il portafogli, in caso di bisogno, in modo tale da provocare la fatale fuoriuscita del testo della conferenza. Il nostro amico era sul treno da venti minuti, e già aveva aperto la valigia due volte per trafficare con le sue carte. Quando il controllore raggiunse il vagone, il diligente Pnin stava esaminando con difficoltà l’ultima fatica di Betty, che cominciava così: «Se consideriamo il clima mentale in cui tutti viviamo, non possiamo non rilevare...». Il controllore entrò; non svegliò il soldato; promise alle donne che le avrebbe avvisate quando fossero state prossime ad arrivare; e scosse la testa osservando il biglietto di Pnin. La sosta a Cremona era stata abolita due anni prima. «Conferenza importante!» strillò Pnin. «Cosa fare? È una cata-strofe!». Con gravità, pacatamente, il controllore dai capelli grigi si lasciò cadere sul sedile di fronte e consultò in silenzio un orario ciancicato pieno di orecchie alle pagine. Di lì a pochi minuti, precisamente alle 15.08, Pnin sarebbe dovuto scendere a Whitchurch; ciò gli avrebbe consentito di prendere l’autobus delle sedici che lo avrebbe depositato, intorno alle diciotto, a Cremona. «Pensavo che guadagnavo dodici minuti, e adesso ho perduto quasi due intere ore» disse amaramente Pnin. Dopodiché, schiarendosi la gola e ignorando le parole di conforto offerte dalla gentile testa grigia («Vedrà che ce la fa»), si tolse gli occhiali da lettura, afferrò la valigia che pesava come un macigno e si rifugiò in fondo al vagone, in attesa che il confuso verde in fuga venisse cancellato e sostituito dal ben definito tipo di stazione che egli aveva in mente. 2 Whitchurch si materializzò come previsto. Una calda, torpida distesa di cemento e di sole adagiata oltre solidi geometrici di varie ombre dai contorni netti. Il tempo locale era incredibilmente estivo per il mese di ottobre. Sul chi vive, Pnin entrò in una specie di sala d’aspetto, con una inutile stufa al centro, e si guardò intorno. In una nicchia solitaria si poteva scorgere la parte superiore di un giovanotto sudato intento a riempire moduli sull’ampio banco di legno che aveva davanti. «Informazione, prego» disse Pnin. «Dove ferma autobus delle quattro per Cremona?». «Dall’altra parte della strada» rispose in modo spiccio l’impiegato, senza alzare gli occhi. «E dove possibile lasciare bagaglio?». «Quella valigia? Ci penso io». E con quella disinvoltura, tipica dei suoi compatrioti, che non mancava mai di sconcertare Pnin, il giovanotto spinse la valigia in un angolo del suo bugigattolo. «Quietanza?» chiese Pnin, inglesizzando la parola russa per «ricevuta» (kvitancija). «Che cos’è?». «Numero?» ritentò Pnin. «Non serve nessun numero» disse l’altro, e si rimise a scrivere. Pnin uscì dalla stazione, si assicurò che la fermata dell’autobus ci fosse davvero, ed entrò in un caffè. Mangiò un panino al prosciutto, ne ordinò un altro, e mangiò anche quello. Alle quattro meno cinque precise, dopo aver pagato i panini ma non un ottimo stuzzicadenti scelto con cura tra quelli contenuti in una graziosa coppetta a forma di pigna accanto al registratore di cassa, Pnin tornò alla stazione per ritirare la valigia. L’impiegato in servizio era un altro. Quello di prima era stato chiamato a casa per caricare in macchina la moglie e portarla in fretta e furia alla maternità. Sarebbe tornato di lì a pochi minuti. «Ma io devo avere mia valigia!» strillò Pnin. Il sostituto era spiacente ma non poteva farci nulla. «È là!» gridò Pnin sporgendosi e additandola. Fu un gesto infelice. Stava anancora additando quando si accorse che reclamava la valigia sbagliata. Il suo indice esitò. E quell’esitazione fu fatale. «L’autobus per Cremona!» strillò Pnin. «Ce n’è un altro alle otto» disse l’uomo. Che cosa poteva fare il nostro povero amico? Che situazione orribile! Lanciò uno sguardo verso la strada. L’autobus era appena arrivato. Quella conferenza significava un extra di cinquanta dollari. La mano volò al fianco. C’era, slava Bogu (grazie a Dio)! Molto bene! Non avrebbe indossato il vestito nero – vot i vsë (ecco tutto). Lo avrebbe recuperato al ritorno. Aveva perduto, abbandonato, gettato cose molto più preziose, in passato. Energicamente, quasi allegramente, Pnin salì sull’autobs. Stava pazientemente affrontando questa nuova tappa del viaggio solo da alcuni isolati quando un terribile sospetto gli balenò in mente. Dal momento in cui si era separato dalla valigia, la punta del suo indice sinistro aveva continuato ad alternarsi con l’estremità prossimale del gomito destro per verificare la preziosa presenza nella tasca interna della giacca. Tutt’a un tratto Pnin estrasse il plico. Era la relazione di Betty. Lanciando quelle che riteneva esclamazioni internazionali di ansia e di supplica, Pnin si alzò barcollando dal sedile. Malfermo sulle gambe, raggiunse l’uscita. Con una sola mano e con aria truce, l’autista munse una manciata di monete dalla sua macchinetta, gli restituì il prezzo del biglietto e fermò l’autobus. Il povero Pnin sbarcò nel bel mezzo di una città sconosciuta. Era meno robusto di quanto avrebbe potuto far credere il suo torace ampio e poderoso, e l’onda di disperata stanchezza che a un tratto sommerse il suo corpo sproporzionato, distaccandolo, per così dire, dalla realtà, fu una sensazione a lui non del tutto ignota. Si ritrovò in un giardino pubblico umido, verde e violaceo, del tipo protocollare e funereo, con una spiccata prevalenza di cupi rododendri, lucidi lauri; alberi ombrosi e prati rigorosamente rasati; e aveva appena svoltato in un viale di castagni e querce che secondo le sbrigative indicazioni dell’autista riconduceva alla stazione ferroviaria, quando quella sensazione strana, quel fremito di irrealtà, lo sopraffece completamente. Dipendeva da qualcosa che aveva mangiato? Quei sottaceti con il prosciutto? O era una malattia misteriosa che nessuno dei suoi medici aveva ancora individuato? Il mio amico se lo domandò, e me lo domando anch’io. Non so se sia mai stato rilevato prima d’ora che una delle caratteristiche principali della vita è la separazione. Se non ci avvolge una pellicola di carne, moriamo. L’uomo esiste solo in quanto è separato dal suo ambiente. Il cranio è un casco da astronauta. La morte è spoliazione, la morte è comunione. Confondersi con il paesaggio può essere meraviglioso, ma significa la fine del tenero Io. La sensazione provata dal povero Pnin fu un che di molto simile a quella spoliazione, a quella comunione. Si sentiva permeabile e vulnerabile. Sudava. Era terrorizzato. Una panchina di pietra fra i lauri gli impedì di crollare sul marciapiede. Il suo malessere era forse una crisi cardiaca? Ne dubito. Per questa volta sarò io il suo medico e, consentitemi di ripeterlo, ne dubito. Il mio paziente era uno di quei singolari e sfortunati individui che considerano il proprio cuore («un organo muscolare cavo», secondo la raccapricciante definizione del Webster’s New Collegiate Dictionary, contenuto nella valigia orfana di Pnin) con stomacato timore, con ripugnanza nervosa, con odio patologico, quasi si trattasse di un mostro poderoso, viscido e intoccabile con cui convivere, ahimè, come con un parassita. Di tanto in tanto, quando, sconcertati dalle sue pulsazioni precipitose e sconnesse, i medici lo visitavano un po’ più a fondo, il cardiografo disegnava fantastiche catene e indicava una dozzina di malattie fatali che si escludevano a vicenda. Pnin aveva paura di tastarsi il polso. Non si attentava mai a dormire sul fianco sinistro, neppure in quelle tetre ore della notte in cui l’insonne desidera ardentemente un terzo fianco dopo aver sperimentato i due che ha. E ora, nel giardino pubblico di Whitchurch, Pnin avvertì quel che già aveva avvertito il 10 agosto 1942, e il 15 febbraio (giorno del suo compleanno) 1937, e il 18 maggio 1929, e il 4 luglio 1920, e cioè che il ripugnante automa cui egli dava alloggio aveva sviluppato una coscienza propria, e non soltanto era abbondantemente vivo, ma gli causava dolore e panico. Appoggiò la povera testa calva alla spalliera di pietra della panchina e rievocò tutte le occasioni passate di pari sconforto e disperazione. Che si trattasse di polmonite, questa volta? Si era sentito gelare fino alle ossa, un paio di giorni prima, a causa di una di quelle vigorose correnti d’aria americane che un padrone di casa offre ai suoi ospiti dopo il secondo giro di bevande alcoliche in una notte ventosa. A un tratto Pnin (stava forse morendo?) si sorprese a scivolare all’indietro, verso l’infanzia. Questa sensazione aveva il dettagliato nitore retrospettivo che si dice sia drammatico privilegio degli individui sul punto di affogare, specie nell’ex Marina russa – un fenomeno di soffocamento che uno psicoanalista reduce di guerra, del quale mi sfugge il nome, spiegava come lo choc, evocato nel subconscio, del proprio battesimo, che scatena un esplodere di reminiscenze intercorrenti tra la prima e l’ultima immersione. Tutto accadde in un lampo, ma non è possibile descriverlo con meno di un certo numero di parole consecutive. Pnin apparteneva a una famiglia rispettabile e abbastanza agiata di San Pietroburgo. Suo padre, il dottor Pavel Pnin, un oculista di notevole reputazione, aveva avuto una volta l’onore di curare Lev Tolstoj per un caso di congiuntivite. La madre di Timofej, una donnina minuta, fragile e nervosa, con il vitino di vespa e i capelli tagliati a caschetto, era figlia del famoso, a suo tempo, rivoluzionario Umov, e di una signora tedesca di Riga. In quel semisvenimento, Pnin vide gli occhi di sua madre che si avvicinavano. Era una domenica di pieno inverno. Lui aveva undici anni. Aveva studiato le lezioni per il lunedì (frequentava la prima ginnasio), quando il suo corpo era stato pervaso da uno strano brivido. Sua madre gli aveva provato la febbre, lo aveva guardato con una sorta di stupore, e aveva chiamato immediatamente il migliore amico del marito, il pediatra Beločkin. Questi era un ometto piccolo, con le sopracciglia folte, la barbetta e i capelli a spazzola. Sollevando le falde della redingote, si era seduto sulla sponda del letto di Timofej. Una gara di corsa si era disputata tra il massiccio orologio d’oro del medico e il polso del ragazzo (che ne era uscito facile vincitore). Poi il torace di Timofej era stato scoperto, e Beločkin vi aveva applicato la gelida nudità dell’orecchio e una porzione ruvida come carta vetrata della testa. L’orecchio, simile alla pianta del piede di un monopode, aveva deambulato lungo tutta la schiena e il petto di Timofej, incollandosi a questo o quel tratto di pelle per poi trasferirsi con ritmo cadenzato al successivo. Il medico se n’era appena andato e già la madre di Timofej e una robusta domestica con delle spille di sicurezza tra i denti avvolgevano l’infelice piccolo paziente in un impacco simile a una camicia di forza: uno strato di lino zuppo, un secondo più spesso di cotone assorbente, e un altro di flanella ben tesa, con una vischiosa, diabolica tela cerata – color di urina e di febbre – interposta tra il viscido morso del lino aderente alla spalla e il tormentoso scricchiolio del cotone intorno al quale era avvolto lo strato esterno di flanella. Povera pupa nel bozzolo, Timoša (Tim) giaceva sotto un cumulo di coperte supplementari che non erano di alcun giovamento contro il brivido che si diramava serpeggiando su per le costole da entrambi i lati della diaccia spina dorsale. Tim non poteva chiudere gli occhi per il bruciore alle palpebre. Il suo campo visivo era ridotto a una sofferenza ovale con oblique pugnalate di luce; le forme familiari diventavano le fonti da cui si dipartivano allucinazioni diaboliche. Accanto al letto c’era un paravento a quattro ante di legno lucido, con incisioni in pirografia che rappresentavano un sentiero per passeggiate a cavallo ricoperto di foglie morte, uno stagno con ninfee, un vecchio ingobbito su una panchina, e uno scoiattolo che stringeva tra le zampe anteriori un oggetto rossiccio. Bambino metodico, Timoša si era chiesto spesso che cosa potesse essere quell’oggetto (una noce? una pigna?), e in quel momento non avendo altro da fare si era messo d’impegno per risolvere il noioso enigma, ma la febbre che gli martellava in testa affogava ogni tentativo nella sofferenza e nel panico. Ancora più opprimente era stata la sua lotta con la carta da parati. Aveva da sempre individuato sull’asse verticale una composizione formata da tre mazzi diversi di fiori viola e da sette diverse foglie di quercia che si ripeteva un certo numero di volte con confortante precisione; ma ora lo disturbava il fatto ineludibile di non riuscire a capire quale sistema di inclusioni e delimitazioni regolasse il ripetersi del disegno in orizzontale; che si ripetesse era provato, visto che qua e là, lungo tutta la parete tra il letto e l’armadio e tra la stufa e la porta, Timoša poteva notare la ricomparsa di questo o quell’elemento della serie, ma quando cercava di procedere verso destra o verso sinistra partendo da un qualsiasi gruppo a sua scelta di tre inflorescenze o di sette foglie, immediatamente si smarriva in un groviglio senza senso di rododendri e di querce. Era evidente che se il perfido disegnatore – il distruttore di cervelli, l’amico della febbre – aveva nascosto con cura così mostruosa la chiave del disegno, quella chiave doveva essere preziosa quanto la vita stessa e, se ritrovata, avrebbe restituito a Timofej Pnin la salute di sempre, il mondo di sempre; e questo lucido – ahimè, troppo lucido – pensiero lo costringeva a perseverare nella lotta. La sensazione di essere in ritardo a un appuntamento altrettanto odiosamente rigido quanto quelli della scuola, del pranzo o dell’ora di andare a letto aggiungeva il disagio di una goffa fretta alle difficoltà di una ricerca che stava sfumando nel delirio. Il fogliame e i fiori, indisturbati in tutte le circonvoluzioni del loro ordito, sembravano distaccarsi come un unico corpo ondulante dallo sfondo azzurro pallido, il quale a sua volta perdeva la propria piattezza cartacea e si dilatava in profondità finché il cuore dell’osservatore quasi scoppiava per reazione a quell’espandersi. Timofej riusciva ancora a scorgere attraverso le singole ghirlande certe parti della sua cameretta più tenacemente vitali delle altre, come il paravento laccato, lo scintillio di un bicchiere, i pomoli di ottone ai piedi del letto, ma tutto ciò rappresentava, per le foglie di quercia e i fiori, un ostacolo ancora minore di quello che avrebbe creato alla visuale di uno scenario esterno il riflesso di un oggetto interno sui vetri di una finestra. E il testimone e la vittima di questi fantasmi, benché giacesse a letto con le coperte ben rimboccate, si trovava nel contempo, in sintonia con la duplice natura di quanto aveva intorno, seduto sulla panchina di un giardino pubblico verde e viola. In un attimo struggente, Pnin provò la sensazione di avere finalmente in mano la chiave che aveva cercato; ma, arrivando da molto lontano, un vento frusciante, il cui suono sommesso aumentò di volume via via che andava scompigliando i rododendri – ora senza fiori, ciechi –, confuse qualsiasi assetto razionale avesse avuto un tempo l’ambiente che circondava Timofej Pnin. Era vivo, e questo bastava. La spalliera della panchina contro la quale era ancora adagiato tornò reale quanto i suoi vestiti, o il portafogli, o la data del Grande Incendio di Mosca – il 1812. Uno scoiattolo grigio comodamente accovacciato a terra davanti a lui stava assaggiando un nocciolo di pesca. Il vento cadde, quindi tornò ad agitare il fogliame. La crisi lo aveva lasciato un poco spaventato e scosso, ma egli rifletté che se si fosse trattato di un vero attacco cardiaco si sarebbe sicuramente sentito molto più scombussolato e ansioso, e questo contorto abbozzo di ragionamento dissipò del tutto i suoi timori. Erano ormai le sedici e venti. Pnin si soffiò il naso e si avviò faticosamente verso la stazione. L’impiegato di prima era tornato al suo posto. «Eccole la valigia» disse allegramente. «Mi spiace che abbia perso l’autobus per Cremona». «Almeno» – e quale dignitosa ironia il nostro sfortunato amico si sforzò di immettere in quell’«almeno» – «spero tutto vada bene per sua moglie». «Andrà bene senz’altro. Credo che bisognerà aspettare fino a domani».