giovedì 12 marzo 2020



 L’ALTARE DEI MORTI
Henry James
Adelphi

I
 Lui non le poteva soffrire, povero Stransom, le celebrazioni scialbe, e ancor più detestava quelle pretenziose. Le commemorazioni lo affliggevano non meno dell’oblio, e una sola trovava spazio nella sua vita: a modo suo, aveva sempre osservato la ricorrenza della morte di Mary Antrim. Ma forse sarebbe più esatto dire che era quella ricorrenza a osservare lui, a tenerlo d’occhio, anzi, al punto da sottrarlo a ogni altra cura. Anno dopo anno lo ghermiva col suo piglio mitigato dal tempo, ma non per questo meno imperioso, e ogni volta, per quel festino di rimembranze, Stransom si destava pronto e consapevole come fosse stato il mattino delle sue nozze. Non che le nozze, tanto tempo prima, gli avessero fornito un termine di paragone: la fanciulla che doveva diventare la sua sposa non ne aveva mai conosciuto il suggello. Era morta di febbre perniciosa dopo che la data era stata fissata, e con lei Stransom aveva perduto, prima ancora di assaporarlo veramente, un affetto che prometteva di colmare di sé tutta la sua vita. Ma dire che di questa grazia la sua vita potesse essere del tutto svuotata non avrebbe corrisposto a verità: era governata, ancora adesso, da un fantasma pallido, da una presenza sovrana e ordinatrice. Stransom non era mai stato un uomo di molte passioni, e in tutti quegli anni l’unico sentimento che era andato crescendo dentro di lui era quello del suo lutto. A renderlo vedovo, e per sempre, non era stato necessario né il sacerdote né l’altare. Aveva fatto tante cose, a questo mondo; le aveva fatte quasi tutte, tranne una: non aveva mai dimenticato. Aveva cercato, sì, di riempire la propria esistenza di tutto ciò che potesse trovarvi posto, ma era riuscito soltanto a farne una casa dalla quale era eternamente assente la padrona. E più che mai assente era in quel ciclico giorno di dicembre che la sua tenacia staccava da tutti gli altri. Lui non si era mai prefisso di celebrarla, quella ricorrenza; erano i suoi nervi, semmai, a farla loro, e a sospingerlo ogni volta per quel lungo tragitto – perché molta strada lo separava dalla meta del suo pellegrinaggio. Lei era stata sepolta in un sobborgo di Londra, un luogo a quel tempo quasi intatto, ma che sotto gli occhi di Stransom era andato via via perdendo ogni parvenza di freschezza. E i suoi occhi, in realtà, mai lo vedevano così poco come quando si recava laggiù: contemplavano un’altra immagine, si aprivano a un’altra luce. Era un futuro credibile, o un incredibile passato? Qualsiasi cosa fosse, era comunque una incomparabile fuga dal presente. Se è vero che nella vita di George Stransom non c’erano altre date oltre a questa, c’erano però altri ricordi, e ora che aveva compiuto cinquantacinque anni si erano moltiplicati a dismisura. Mary Antrim non era l’unico fantasma della sua vita. Forse, rispetto alla maggioranza degli uomini, non erano molte le persone che gli erano mancate, ma per lui queste perdite avevano contato di più. Anche se non l’aveva toccato così da vicino, in un certo modo la morte aveva lasciato nel suo animo un’impronta più profonda. A poco a poco egli aveva preso l’abitudine di soffermarsi sui suoi morti ad uno ad uno, e piuttosto presto nella vita aveva cominciato a pensare che andasse fatto qualcosa per loro. E loro erano lì, accanto a lui, forti di quell’essenza semplificata, più intensa, di quell’assenza consapevole, di quella pazienza eloquente, così corporei e presenti che pareva avessero soltanto perduto l’uso della parola. Quando non li si percepiva più, quando ogni suono cessava, era come fosse ancora lì, in terra, il loro purgatorio; chiedevano così poco, poveretti, che ricevevano ancor meno, e morivano di nuovo, morivano ogni giorno del duro trattamento che riservava loro la vita. Per loro nulla era stato predisposto: non avevano prerogative né onori, nessun rifugio, nessuna salvaguardia. A provvedere ai vivi c’erano pur sempre anche i più egoisti tra gli uomini; ma nessuno, nemmeno chi era ritenuto più generoso, faceva nulla per quegli altri. E così, col passare degli anni, andò maturando in George Stransom una risoluzione: lui sì, almeno, avrebbe fatto qualcosa, l’avrebbe fatto cioè per i suoi morti; e nell’adempiere a quel sommo atto di misericordia sarebbe stato ineccepibile. Ogni uomo aveva i propri morti, e ogni uomo, per adempiere a quell’atto, poteva attingere alle copiose risorse della propria anima. Mary Antrim era certo la loro portavoce più convincente; e in ogni modo, col tempo, accadde a Stransom sempre più spesso di trovarsi in intima comunione con quei suoi eletti compagni, quelli che in cuor suo chiamava sempre gli Altri. Per loro trovava sempre un momento, per loro organizzava la sua opera di carità. Come le cose fossero arrivate a quel punto non avrebbe saputo dirlo, probabilmente, ma era accaduto che nelle lande del suo spirito fosse andato ergendosi un altare – un altare, in fin dei conti, alla portata di chiunque, fulgido di ceri perpetui e consacrato a quei suoi riti segreti. C’era stato un tempo in cui si era domandato, non senza un certo disagio, se avesse una religione; poiché era certissimo, e se ne rallegrava, che non era comunque quella che volevano per lui alcune delle persone che aveva conosciuto. A poco a poco la questione si era risolta da sé, e gli era divenuto chiaro che la religione infusagli sin dal principio dalla sua coscienza altro non era che la religione dei Morti. Quella sì assecondava le sue inclinazioni, appagava il suo animo, dava sbocco alla sua pietà. Quella sì esaudiva il suo anelito a grandiose liturgie, a rituali solenni e magnifici: e quale santuario poteva mai essere più adorno, quale cerimoniale più maestoso di quelli che servivano a officiare il suo culto? Non che di tutto questo lui avesse un’immagine precisa; sapeva soltanto che si trattava di cose accessibili a chiunque ne avesse mai sentito il bisogno. Anche i più poveri potevano edificare quei templi dello spirito: potevano farli sfolgoranti di candele, velati di fumi d’incenso, fervidi di immagini e di fiori. Le spese, per usare l’espressione corrente, sarebbero state completamente a carico della munificenza del cuore.

 II 
Quell’anno, la vigilia del suo anniversario, gli capitò di provare un’emozione non estranea a quella sfera di sentimenti. Mentre rincasava sul finire di una giornata piena di lavoro, lo colpì, nella strada londinese, l’insolito effetto di una vetrina che rischiarava del suo ammicco venale l’aria malinconica e fosca; parecchie persone si erano radunate a guardarla. Era la vetrina di una gioielleria: i suoi diamanti, i suoi zaffiri parevano ridere, con barbagli squillanti come note argentine, della mera gioia di sapere quanto più ‘valevano’ della maggior parte dei frusti passanti che li contemplavano dall’altra parte del vetro. Stransom, trasognato, indugiò il tempo necessario per cingere di un filo di perle il collo candido di Mary Antrim, e poi fu trattenuto ancora un istante dal risuonare di una voce conosciuta. Di fianco a lui c’era una vecchia che borbottava tra sé, e più in là, accanto alla vecchia, un uomo elegante che dava il braccio a una signora. Era sua, la voce – era la voce di Paul Creston: parlava con la signora di uno dei preziosi oggetti esposti in vetrina. Appena Stransom l’ebbe riconosciuto la vecchia se ne andò, ma proprio mentre gli si offriva così l’occasione di salutarlo, nell’attimo preciso in cui stava per posare la mano sul braccio dell’amico, una bizzarra sensazione venne a interrompere quel gesto. Fu questione di pochi secondi, ma pochi secondi bastarono perché gli balenasse nella mente una folle domanda: non era morta, Mrs Creston? Quell’ambiguità lo colpì mentre udiva, nella breve frase smorzata del marito, un’intonazione che non poteva essere più coniugale, anche per il modo che avevano quelle due figure di protendersi l’una verso l’altra. Creston, spostandosi di un passo per guardare qualche cosa, lo vide, trasalì e diede un’esclamazione, che in un primo momento ebbe come unico effetto di lasciare Stransom stranito, con gli occhi sbarrati a guardare a ritroso nei mesi quell’altro viso, quel diversissimo viso che il poveretto gli aveva mostrato l’ultima volta che si erano visti, quella tremula maschera devastata china sulla fossa davanti a cui erano stati insieme fianco a fianco. Non era più in lutto, adesso; lasciò il braccio della sua compagna per serrare la mano dell’amico più anziano. Quando questi, con gesto esitante, sollevò il cappello per salutare la donna, Creston, alla luce violenta del negozio, sorrise e si fece di fuoco. Stransom ebbe appena il tempo di constatare che era graziosa, e subito un dato molto più strabiliante lo lasciò di sasso: «Carissimo, voglio farti conoscere mia moglie!».