Vladimir Nabokov
Ecco che cosa mi succedeva a volte: dopo aver passato alla scrivania la prima parte della notte – quella in cui la notte avanza faticosamente in salita –, emergevo dallo stato ipnotico del mio lavoro nel momento preciso in cui la notte, raggiunta la vetta, pencola sulla cresta, in procinto di rotolare giù nella foschia dell'alba; mi alzavo dalla sedia, infreddolito ed esausto, accendevo la luce in camera da letto e all'improvviso mi vedevo nello specchio. La faccenda proseguiva come segue: nel periodo di tempo in cui ero totalmente assorbito dal lavoro, mi andavo disabituando a me stesso e provavo una sensazione simile a quella che si avverte nell'incontrare un amico intimo dopo anni di lontananza: per alcuni istanti sospesi, nitidi eppure inebetiti, lo vediamo sotto una luce completamente diversa, pur rendendoci conto che il velo di ghiaccio di quella misteriosa anestesia svanirà ben presto e la persona che stiamo guardando riacquisterà vita, risplenderà di calore, riprenderà il posto di un tempo, tornerà a esserci tanto familiare che, per quanti sforzi facciamo, non riusciremo a catturare un'altra volta quella fugace sensazione di estraneità. Proprio questo provavo guardando la mia immagine riflessa nello specchio non riconoscendola per mia. E quanto più intensamente esaminavo il mio viso – quegli impassibili occhi alieni, quei peletti lucenti sulla mandibola, quell'ombra lungo il naso –, e quanto più insistentemente dicevo a me stesso: «Questo sono io, questo è il Tal dei Tali», tanto meno chiaro diventava ilperché «questo» dovesse per forza essere «Io», e tanto più difficile risultava fondere il viso riflesso nello specchio con quell'«Io» di cui non riuscivo ad afferrare l'identità. Quando parlavo delle mie strane sensazioni, la gente a buon diritto osservava che quella strada mi avrebbe portato al manicomio. E in verità, un paio di volte, a notte fonda, scrutai tanto a lungo la mia immagine riflessa che mi sentii accapponare la pelle e mi affrettai a spegnere la luce. Eppure, la mattina dopo, nel radermi, non mi accadde di dubitare della realtà della mia immagine.
Un'altra cosa: di notte, a letto, tutt'a un tratto mi ricordavo di essere mortale. Allora nella mia mente avveniva qualche cosa di assai simile a quanto capita in un grande teatro quando le luci si spengono inaspettatamente e qualcuno lancia un urlo lacerante nell'oscurità che piomba fulminea, e altre voci si uniscono, provocando una tempesta cieca in cui monta il nero tuono del panico – finché le luci non si riaccendono all'improvviso e la rappresentazione riprende imperturbata. Così la mia anima si sentiva soffocare per un attimo mentre io supino, a occhi spalancati, cercavo con tutte le forze di vincere la paura, di razionalizzare la morte, di venire progressivamente a patti con essa, senza ricorrere a un credo o a una filosofia. Si finisce con il convincersi che la morte è ancora assai lontana, che ci sarà un sacco di tempo per riflettere a fondo sulle cose e trovare le risposte, pur sapendo che non lo faremo mai; e di nuovo, nel buio, dai posti più economici del proprio teatro privato, dove caldi pensieri vitali intorno a care quisquilie terrene sono stati colti dal panico, sale un urlo lacerante – che si spegne all'istante, non appena ci giriamo nel letto e cominciamo a pensare ad altro.
Presumo che molte persone abbiano provato sensazioni simili – la perplessità davanti allo specchio, di notte, o quella fitta improvvisa che è un assaggio di morte; se mi ci soffermo è soltanto perché in esse è racchiusa una particella di quel terrore supremo che era destino provassi. Terrore supremo, terrore eccezionale – brancolo alla ricerca del termine esatto, ma la scorta di parole confezionate che invano continuo a sperimentare non ne contiene neppure una adatta.
Mi piaceva la vita che conducevo. Avevo una ragazza. Ricordo bene lo strazio della prima separazione. Mi ero recato all'estero per affari e al ritorno era venuta a prendermi alla stazione. La vidi ferma sul marciapiede, racchiusa, per così dire, in una gabbia di luce solare bronzea, un cuneo polveroso della quale era penetrato proprio allora dalla volta vetrata della stazione. Il suo viso continuava a girarsi ritmicamente di qua e di là al passaggio dei finestrini del treno che pian piano si fermò. Con lei mi sentivo sempre sereno e tranquillo. Una sola volta… e di nuovo mi accorgo di quale rozzo strumento sia la lingua umana. Eppure vorrei spiegare. In realtà si tratta di una sciocchezza, così effimera: siamo soli nella sua stanza, io scrivo mentre lei, a testa china, rammenda una calza di seta ben tesa sul fondo convesso di un cucchiaio di legno; un roseo orecchio semitrasparente è coperto in parte da una ciocca di capelli chiari, le minuscole perle attorno al collo luccicano in modo commovente, e dal momento che continua a sporgere assorta le labbra, la sua tenera guancia sembra incavata. All'improvviso, senz'alcuna ragione, la sua presenza mi riempie di terrore. E ciò è assai più spaventoso del fatto che inspiegabilmente, per una frazione di secondo, la mia mente non aveva registrato la sua identità nel sole polveroso della stazione. Mi terrorizza che ci sia un'altra persona nella stanza con me; mi terrorizza l'idea stessa diun'altra persona. Non c'è da meravigliarsi che i pazzi non riconoscano i propri parenti. Poi ella solleva il capo, e tutti i suoi lineamenti partecipano al rapido sorriso che mi rivolge – e ogni traccia dell'assurdo terrore provato un attimo prima scompare. Mi preme ripeterlo: è successo una sola, unica volta e l'ho considerato uno stupido scherzo che mi giocavano i nervi, dimenticando che nelle notti solitarie davanti a uno specchio solitario avevo provato una sensazione assai simile.
Fummo amanti per quasi tre anni. So che molti non capivano il nostro rapporto. Si chiedevano perplessi che cos'avesse quella piccola fanciulla ingenua per attrarre e conservare l'affetto di un poeta, ma buon Dio! quanto amavo la sua grazia modesta, la sua gaiezza, la sua affabilità, i palpiti della sua anima simili a un frullare di ali. Era proprio quella semplicità gentile a proteggermi: ai suoi occhi, ogni cosa di questo mondo possedeva una specie di limpidezza naturale, e direi perfino che ella sapesse che cosa ci aspetta dopo la morte, per cui non avevamo motivo di affrontare quell'argomento. Al termine del nostro terzo anno insieme, dovetti di nuovo assentarmi per un periodo piuttosto lungo. La vigilia della mia partenza andammo all'opera. Ella si sedette per un momento sul divanetto cremisi nel vestibolo un po' buio, e per certi versi misterioso, del nostro palco per togliersi i pesanti stivali da neve grigi, e io l'aiutai a liberare le gambe snelle calzate di seta – e mi venne da pensare alle delicate farfalle notturne che escono da ispidi bozzoli voluminosi. Ci accostammo al parapetto del palco. Allegri, ci chinammo sul roseo abisso del teatro in attesa che si alzasse il sipario, un vecchio telone rigido decorato con scene color oro pallido tratte da varie opere – Ruslan con l'elmo appuntito, Lenskij nel suo tabarro. Con il gomito nudo urtò il piccolo binocolo di madreperla e poco mancò che lo facesse cadere dal parapetto ricoperto di morbido panno.
Poi, quando tutto il pubblico ebbe preso posto e l'orchestra si fu riempita i polmoni, pronta a dar fiato alle trombe, accadde qualche cosa: nel vasto teatro rosato si spensero le luci e fummo sommersi da una tenebra tanto fitta che credetti d'essere diventato cieco. In quell'oscurità ogni cosa iniziò d'un tratto a muoversi, un brivido di panico montò e finì per sfociare in grida femminili sempre più incontrollate via via che si levavano sonore voci maschili con appelli alla calma. Risi e cominciai a parlarle, ma poi sentii che mi aveva afferrato l'estremità del braccio e silenziosamente tormentava il polsino della camicia. Quando le luci si accesero nuovamente in sala vidi che era pallida e stringeva i denti. La condussi fuori dal palco. Scosse il capo, rimproverandosi la paura infantile con un sorriso di disapprovazione, poi però scoppiò in lacrime e mi chiese di accompagnarla a casa. Soltanto quando fu nella carrozza chiusa riacquistò la padronanza di sé e, premendo il fazzoletto sgualcito sugli occhi lucidi di lacrime, cominciò a dire quanto la rendesse triste la mia partenza l'indomani e quale errore sarebbe stato passare la nostra ultima sera insieme all'opera, tra gente estranea.
Dodici ore dopo ero nello scompartimento di un treno e guardavo fuori del finestrino il nebbioso cielo invernale, il minuscolo occhio infiammato del sole che andava al passo con il treno, i campi innevati che si aprivano uno dopo l'altro all'infinito, come un gigantesco ventaglio di piume di cigno. E nella città straniera in cui sarei arrivato l'indomani, avrei conosciuto il terrore supremo.
Per cominciare, dormii male per tre notti di seguito e non dormii affatto la quarta. Nel corso degli ultimi anni mi ero disabituato alla solitudine e ora quelle notti solitarie mi procuravano un'angoscia intensa e assoluta. La prima notte sognai la mia ragazza: la sua stanza era inondata dalla luce del sole e lei se ne stava seduta sul letto con indosso soltanto una camicia da notte di merletto, e rideva, rideva, senza riuscire a smettere. Mi rammentai del sogno per puro caso un paio d'ore dopo, passando davanti a un negozio di biancheria intima, e mi resi conto che tutto ciò che nel sogno mi era parso così gioioso – la trina, la sua testa gettata all'indietro, la risata – ora, nello stato di veglia, era terrorizzante. E tuttavia non riuscivo a spiegarmi per quale ragione il sogno ridente e merlettato fosse ora tanto sgradevole, tanto ripugnante. Avevo un sacco di cose di cui occuparmi e fumavo parecchio e intanto mi rendevo conto che dovevo mantenere un assoluto controllo su me stesso. Nel prepararmi ad andare a dormire nella mia stanza d'albergo, cominciai intenzionalmente a fischiettare o a canticchiare a bocca chiusa, sussultando come un bimbo timoroso al minimo rumore dietro di me come, per esempio, il tonfo della giacca che dallo schienale della sedia era scivolata sul pavimento.
Il quinto giorno, dopo una notte pessima, mi ritagliai il tempo per una passeggiata. Vorrei che questa parte del mio racconto fosse composta in corsivo; ma no, neppure il corsivo andrebbe bene: sento la necessità di un carattere tipografico nuovo, unico. L'insonnia mi aveva lasciato nella mente un vuoto straordinariamente ricettivo. Mi pareva che la testa fosse di vetro, e che persino il lieve crampo nei polpacci avesse una consistenza vitrea. Appena uscito dall'albergo… sì, ecco, ora credo di avere trovato le parole giuste. Mi affretto a scriverle prima che svaniscano. Quando uscii per strada, d'improvviso vidi il mondo come esso èin realtà. In effetti, ci conforta la convinzione che il mondo non potrebbe esistere senza di noi, che esso esiste solo in quanto noi esistiamo, in quanto possiamo rappresentarlo a noi stessi. La morte, lo spazio infinito, le galassie sono tutte cose terrorizzanti proprio perché trascendono i limiti della nostra percezione. Bene. Quel giorno terribile quando, distrutto da una notte insonne, mi ritrovai nel centro di una città qualunque e vidi le case, gli alberi, le automobili, la gente, la mia mente si rifiutò bruscamente di accettarli come «case», «alberi» e così via… come cose collegate alla normale vita umana. Si spezzò la linea di comunicazione con il mondo, io ero per mio conto e il mondo era per suo conto, e quel mondo era privo di senso. Vedevo l'essenza reale di tutte le cose. Guardavo le case ed esse avevano perso il loro significato consueto, cioè tutto ciò che nel pensiero colleghiamo a una casa quando la guardiamo: un certo stile architettonico, il tipo di stanze al suo interno, una casa brutta, una casa accogliente – tutto era svanito, non era rimasta che una conchiglia assurda, quanto assurdo è il suono che rimane dopo avere ripetuto abbastanza a lungo una parola, la più comune, senza prestare attenzione al suo significato: casa, chsa, chss. Lo stesso valeva per gli alberi, per la gente. Comprendevo l'orrore di un volto umano. L'anatomia, le distinzioni di sesso, la nozione di «gambe», «braccia», «abiti» – tutto abolito, davanti non avevo che un mero qualcosa, che non era neppure una creatura perché anche quello è un concetto umano; no, meramentequalcosa che passava oltre allontanandosi. Cercai invano di dominare il terrore richiamando alla mente un episodio della fanciullezza: una volta, svegliandomi, la nuca premuta sul basso guanciale, alzai gli occhi ancora assonnati e vidi chinarsi su di me, sopra la testiera del letto, un viso incomprensibile, privo di naso, con neri baffi da ussaro proprio sotto gli occhi da piovra e con i denti sulla fronte. Balzai a sedere urlando e subito i baffi si tramutarono in sopracciglia e il viso intero si trasformò in quello di mia madre che sulle prime avevo intravisto in una posizione inconsueta, capovolto.
E anche adesso tentavo di «balzare a sedere» mentalmente per riportare il mondo visibile alla sua posizione normale – ma non vi riuscivo. Al contrario: più dappresso guardavo le persone, più il loro aspetto mi appariva assurdo. Sopraffatto dal terrore, cercavo sostegno in qualche idea fondamentale, una prima pietra più efficace di quella cartesiana, che mi aiutasse a ricostruire il mondo semplice, naturale, abituale che conosciamo. A quel punto credo di essermi seduto sulla panchina di un giardino pubblico. Non ricordo con esattezza le mie azioni. Come a chi è colpito da un attacco di cuore sul marciapiede non importa un fico secco dei passanti, del sole, della bellezza di un'antica cattedrale, e in lui domina un unico pensiero: respirare, anch'io non avevo che un solo desiderio: non impazzire. Sono convinto che nessuno abbia mai visto il mondo come l'ho visto io in quegli istanti, in tutta la sua terrificante nudità e terrificante assurdità. Vicino a me, un cane annusava la neve. Mi torturava lo sforzo di riconoscere che cosa si intendesse per «cane», e dato che l'avevo fissato intensamente, piano piano mi si accostò, fiducioso, e io avvertii una tale sensazione di nausea che mi alzai dalla panchina e me ne andai. Fu allora che il terrore raggiunse l'apice. Rinunciai a lottare. Non ero più un uomo, ero soltanto un puro e semplice occhio, uno sguardo che vagava senza scopo in un mondo assurdo. La sola vista di un volto umano mi induceva a urlare.
In quel momento mi ritrovai all'entrata dell'albergo. Qualcuno si avvicinò, pronunciò il mio nome e mi infilò in mano un foglio di carta piegato. Automaticamente lo aprii e il terrore svanì di colpo. Le cose attorno a me ritornarono normali e ordinarie: l'albergo, i riflessi mutevoli nelle vetrate della porta girevole, il viso familiare del fattorino dell'albergo che mi aveva consegnato il telegramma. Mi trovavo ora al centro dell'atrio spazioso. Un uomo con la pipa e un berretto a scacchi mi sfiorò nel passare e si scusò solennemente. Provavo un grande stupore e un dolore intenso, insopportabile ma umanissimo. Il telegramma diceva che lei stava morendo.
Durante il viaggio di ritorno, o anche dopo, seduto al suo capezzale, non mi venne mai in mente di analizzare il significato dell'esistere e del non esistere, né ormai mi terrorizzavano quei pensieri. La donna che amavo più di qualsiasi cosa al mondo stava morendo. Vedevo e sentivo solo quello.
Non mi riconobbe quando urtai con il ginocchio la sponda del letto. Stava appoggiata a enormi guanciali, sotto enormi coperte, lei, così minuta, e i capelli pettinati all'indietro scoprivano la cicatrice sottile sulla tempia, che ella soleva mascherare con una ciocca. Non riconobbe la mia presenza corporea, ma dal lieve sorriso che le incurvò un paio di volte gli angoli della bocca capii che mi vedeva nel suo calmo delirio, nella sua immaginazione morente – cosicché c'erano due me stesso davanti a lei: io in persona, che ella non vedeva, e il mio doppio, a me invisibile. Poi rimasi solo: il mio doppio morì con lei.
La sua morte mi salvò dalla pazzia. Il puro dolore umano riempì la mia vita al punto che non ci fu più spazio per altre emozioni. Ma il tempo passa, e l'immagine che di lei ho dentro di me diventa sempre più perfetta, sempre più esanime. I particolari del passato, i piccoli ricordi pieni di vita scompaiono a poco a poco, impercettibilmente, se ne vanno a uno a uno, o a due, tre alla volta, così come si spengono le luci, ora qui, ora là, alle finestre di una casa i cui abitanti si stanno addormentando. So bene che il mio cervello è condannato, che il terrore che ho provato una volta, l'inerme paura di esistere, prima o poi mi raggiungerà ancora, e allora non vi sarà più salvezza.