venerdì 6 marzo 2020


L'AMORE AI TEMPI DEL COLERA.
Gabriel  Márquez.
PARTE SECONDA


  Florentino Ariza, ovviamente, rinunciò alla cabina. All'inizio non gli diede fastidio, perché in quel periodo dell'anno il     corso  del  fiume era in piena,  e il battello navigò senza intoppi le     prime  due  notti.   Dopo  la  cena,   alle  cinque  del   pomeriggio,     l'equipaggio  distribuiva  ai  passeggeri  delle brande pieghevoli col     fondo di stoffa, e ognuno apriva la sua dove poteva,  la preparava con     le  lenzuola  del  suo  "petate"  e  ci sistemava sopra la zanzariera.     Quelli che avevano l'amaca, l'attaccavano nel salone, e quelli che non     avevano niente dormivano sui tavoli della sala da pranzo avvolti nelle     tovaglie che non cambiavano più  di  due  volte  durante  il  viaggio.     Florentino Ariza stava sveglio la maggior parte della notte,  credendo     di udire la voce di  Fermina  Daza  nella  brezza  fresca  del  fiume,     pascolando la solitudine con il ricordo di lei, sentendola cantare nel     respiro del battello che avanzava con passi da animale grande in mezzo     alle tenebre,  finché apparivano le prime frange rosate sull'orizzonte     e il nuovo giorno  scoppiava  improvvisamente  su  pascoli  deserti  e     paludi  brumose.  Il  viaggio  gli sembrava allora una prova ulteriore     della saggezza di sua madre,  e si  sentì  abbastanza  coraggioso  per     sopravvivere all'oblio.
    Dopo  tre  giorni  di  buone acque,  però,  la navigazione si fece più     difficile fra banchi di sabbia imprevisti e turbolenze ingannevoli. Il     fiume diventò tumultuoso e si fece sempre più  stretto  in  una  selva     aggrovigliata di alberi colossali, dove si trovava solo una volta ogni     tanto  una  capanna di paglia vicino alle pile di legna per la caldaia     dei battelli. Lo schiamazzo dei pappagalli e lo scandalo delle scimmie     invisibili sembravano aumentare l'afa del  mezzogiorno.  Ma  di  notte     bisognava  ormeggiare  il  battello  per  dormire,  e allora diventava     insopportabile persino il semplice fatto di essere vivo.  Al  caldo  e     agli insetti si aggiungeva 11 puzzo dei quarti di carne salata messi a     seccare sulle ringhiere.  La maggior parte dei passeggeri, soprattutto     gli europei,  abbandonavano il putridume delle cabine e  passavano  la     notte  a  camminare in coperta,  scacciando ogni tipo di bestia con lo     stesso asciugamano con cui si  asciugavano  il  sudore  incessante,  e     all'alba erano esausti e gonfi per le punture.
    Quell'anno,  poi,  era scoppiato un altro focolaio della guerra civile     intermittente fra liberali e conservatori,  e il capitano aveva  preso     precauzioni  molto  severe  per  l'ordine  interno  e la sicurezza dei     passeggeri.  Cercando  di  evitare  equivoci  e  provocazioni,   aveva     proibito  il divertimento preferito dei viaggi di quei tempi,  che era     sparare contro i caimani che prendevano il sole sulle grandi  spiagge.     Più  avanti,  quando  alcuni  passeggeri  si  divisero  in due fazioni     nemiche nel corso di una discussione,  fece mettere sotto sequestro le     armi  di  tutti  impegnandosi formalmente a restituirle al termine del     viaggio.  Fu inflessibile anche con il  ministro  britannico,  che  il     giorno   dopo   la  partenza  comparve  di  buon  mattino  vestito  da     cacciatore,  con un fucile di precisione e  una  doppietta  da  caccia     grossa.  Le  restrizioni si fecero ancora più drastiche sopra il porto     di Tenerife,  dove incrociarono un battello che inalberava la bandiera     gialla della peste. Il capitano non poté ottenere nessuna informazione     su  quel  segno allarmante perché l'altro battello non rispose ai suoi     segnali.  Ma quello stesso giorno ne incontrarono un altro  che  stava     portando bestiame in Giamaica,  e questo riferì che il battello con la     bandiera della peste portava a bordo due ammalati  di  colera,  e  che     l'epidemia  stava  facendo  strage  nella  parte  di  fiume che ancora     dovevano percorrere.  Allora fu  proibito  a  tutti  i  passeggeri  di     abbandonare  il  battello  non  solo nei porti successivi ma anche nei     luoghi spopolati dove accostava a caricare legna. Così,  nel resto del     viaggio  fino  al  porto  d'arrivo,  che  durò  altri  sei  giorni,  i     passeggeri  presero   abitudini   da   carcerati.   Fra   queste,   la     contemplazione  perniciosa  di un pacchetto di cartoline pornografiche     olandesi che circolò di mano in mano senza che nessuno sapesse da dove     erano saltate fuori,  anche se nessun veterano del fiume ignorava  che     erano  solo  un campionario della collezione leggendaria del capitano.     Ma perfino quella distrazione senza futuro finì per aumentare l'astio.     Florentino Ariza  sopportò  i  rigori  del  viaggio  con  la  pazienza     minerale  che  sconsolava  sua  madre ed esasperava i suoi amici.  Non     frequentò nessuno. I giorni gli si facevano facili seduto davanti alla     balaustra,  guardando i caimani immobili  a  prendere  il  sole  sulle     spiagge  con  le  fauci  aperte per acchiappare farfalle,  vedendo gli     stormi di aironi spaventati  alzarsi  improvvisamente  in  volo  dalle     paludi,  i  manati  che allattavano i piccoli con le loro grandi tette     materne e sorprendevano i passeggeri con i loro pianti  da  donna.  In     uno  stesso giorno vide passare galleggiando tre corpi umani,  gonfi e     verdi,  con diversi avvoltoi sopra.  Passarono prima i  corpi  di  due     uomini,  uno di loro senza testa, e poi quello di una bambina di pochi     anni i cui capelli da medusa si misero a  ondeggiare  nella  scia  del     battello.  Non  seppe  mai,  perché  non lo si sapeva mai,  se fossero     vittime del colera o della guerra,  ma il fetore nauseabondo contaminò     nella sua memoria il ricordo di Fermina Daza.
    Era  sempre  così:  qualsiasi  avvenimento,  buono  o cattivo,  era in     relazione con lei.  Di notte,  quando ormeggiavano il  battello  e  la     maggior  parte  dei  passeggeri  camminava sconsolata in coperta,  lui     ripassava quasi a memoria i romanzi d'appendice  illustrati  sotto  la     lampada  a  carburo della sala da pranzo,  che era l'unica accesa fino     all'alba,  e i drammi tante volte riletti recuperavano la  loro  magia     originale  quando  sostituiva i protagonisti immaginari con persone da     lui conosciute nella vita reale,  e teneva per sé e per Fermina Daza i     ruoli   di   amori  impossibili.   Altre  notti  le  scriveva  lettere     angosciose,  i cui frammenti spargeva poi nelle  acque  che  correvano     incessantemente  verso  di  lei.  Così  gli passavano le ore più dure,     incarnato a volte in un principe timido o in un paladino dell'amore, e     altre volte nella sua stessa  pelle  scottata  di  amante  nell'oblio,     finché  si  alzavano  le  prime  brezze  e se ne andava a dormicchiare     seduto sulle poltrone della veranda.
    Una notte in cui interruppe la lettura  prima  del  solito,  si  stava     dirigendo  distratto verso i gabinetti quando una porta si aprì mentre     passava dalla sala da pranzo deserta, e una mano da falco lo prese per     la manica della camicia e lo  chiuse  in  una  cabina.  Nelle  tenebre     riuscì appena a sentire il corpo senza età di una donna nuda,  bagnata     di un sudore caldo e con il respiro  tumultuoso,  che  lo  spinse  sul     letto,  gli  aprì la fibbia del cinturone,  gli slacciò i bottoni e si     squartò  lei  stessa  a  cavalcioni  su   di   lui,   e   lo   spogliò     ingloriosamente  della verginità.  Tutti e due caddero agonizzanti nel     vuoto di un abisso senza fondo che odorava di maremma di gamberi.  Lei     giacque poi per un istante su di lui, ansimando senza aria, e smise di     esistere nell'oscurità.
    «Ora, vattene e dimenticalo» gli disse. «Non è mai successo.»     L'assalto  era  stato così rapido e trionfale da non potersi intendere     come un'improvvisa pazzia per la noia,  ma come il frutto di un  piano     elaborato  con  tutto  il  suo tempo e nei suoi particolari minuziosi.     Questa certezza lusinghiera aumentò l'ansia di Florentino  Ariza,  che     al  culmine del godimento aveva sentito una rivelazione cui non poteva     credere e che si rifiutava persino di ammettere,  ed era  che  l'amore     illusorio  di  Fermina  Daza  poteva essere sostituito da una passione     terrena.  Fu così che si impegnò a scoprire l'identità  della  maestra     stupratrice  nel  cui  istinto  da  pantera  avrebbe  trovato forse il     rimedio alla  sua  sventura.  Ma  non  ci  riuscì.  Anzi,  quanto  più     approfondiva l'esame, tanto più lontano si sentiva dalla verità.     L'assalto era avvenuto nell'ultima cabina, ma questa comunicava con la     penultima  mediante  una  porta  intermedia  in  modo  che  le  due si     trasformavano in una camera da letto da famiglia con quattro cuccette.
    Lì viaggiavano due donne giovani,  un'altra abbastanza più vecchia  ma     di bellissimo aspetto e un bambino di pochi mesi. Si erano imbarcate a     Barranco  de  Loba,  il  porto  dove  si  raccoglievano  le  merci e i     passeggeri della città di Mompos  da  quando  questa  era  rimasta  ai     margini  degli  itinerari  dei  vapori per le incostanze del corso del     fiume,  e Florentino Ariza le aveva guardate solo perché portavano  il     bambino addormentato dentro una gran gabbia da uccelli.
    Viaggiavano vestite come sui transatlantici di moda, con sellini sotto     le  gonne  di  seta,  con  gorgiere di pizzo e cappelli a larghe falde     ornati con fiori di  tessuto  di  crine,  e  le  due  più  giovani  si     cambiavano  completamente  d'abito parecchie volte al giorno,  in modo     che sembravano portare con sé il loro aspetto primaverile,  mentre gli     altri  passeggeri  soffocavano  dal  caldo.  Le  tre  erano  abili nel     maneggiare gli ombrellini e i ventagli di piume,  ma con  i  propositi     indecifrabili delle "momposinas" (6) dell'epoca.  Florentino Ariza non     riuscì a stabilire neanche i rapporti tra  di  loro,  anche  se  senza     dubbio appartenevano alla stessa famiglia. All'inizio pensò che la più     vecchia  potesse  essere la madre delle altre ma poi si rese conto che     non aveva abbastanza età per esserlo,  e in più portava un mezzo lutto     che le altre non condividevano con lei. Non capiva come una di loro si     fosse  azzardata  a  fare  quello  che  aveva  fatto  mentre  le altre     dormivano nelle cuccette vicine,  e l'unica  supposizione  ragionevole     era che avesse approfittato di un momento casuale, o forse concertato,     in  cui  era  rimasta  sola  nella  cabina.  Verificò  che a volte due     uscivano a prendere il fresco fino  a  molto  tardi  mentre  la  terza     restava ad accudire il bambino,  ma una notte più calda uscirono tutte     e tre insieme con il  bambino  addormentato  nella  gabbia  di  vimini     coperta da un pezzo di garza.
    Nonostante  quel  pasticcio di indizi,  Florentino Ariza si affrettò a     scartare la possibilità che la più vecchia delle tre  fosse  l'autrice     dell'assalto,  e  poi assolse anche la minore,  che era la più bella e     sfacciata.  Lo fece senza valide ragioni,  solo  perché  la  vigilanza     ansiosa  delle  tre lo aveva indotto a dare per certo il suo desiderio     sviscerato  che  l'amante  momentanea  fosse  la  madre  del   bambino     ingabbiato.  Tanto lo sedusse questa ipotesi, che incominciò a pensare     a lei  con  maggior  intensità  che  a  Fermina  Daza,  senza  curarsi     dell'evidenza che quella giovane madre viveva solo per il bambino. Non     aveva  più  di  venticinque  anni,  ed era snella e bionda,  con delle     palpebre portoghesi che la rendevano più distante,  e a qualsiasi uomo     sarebbero  bastate  le  briciole  della tenerezza che lei prodigava al     figlio. Dalla prima colazione fino all'ora di coricarsi si occupava di     lui nel salone,  mentre le altre giocavano a  dama  cinese,  e  quando     riusciva  a  farlo  addormentare  attaccava  al  soffitto la gabbia di
    vimini nel lato più fresco della veranda.  Neanche quando  dormiva  si     disinteressava  di  lui,  ma  dondolava  la  gabbia cantando sottovoce     canzoni da innamorata,  mentre i suoi pensieri volavano  al  di  sopra     delle penurie del viaggio.  Florentino Ariza si aggrappò all'illusione     che presto o tardi sarebbe stata denunciata anche solo  da  un  gesto.     Stava  attento perfino ai minimi cambiamenti del suo respiro dal ritmo     del  reliquario  che  portava  attaccato  alla   blusa   di   batista,     guardandola senza dissimulazioni da sopra il libro che faceva finta di     leggere,  e  incorse  nell'impertinenza calcolata di cambiare di posto     nella sala da pranzo per rimanere di fronte a lei.  Ma  non  riuscì  a     ottenere  neanche  un  minimo  indizio  di  chi  fosse  in  realtà  la     depositaria dell'altra metà del suo  segreto.  L'unica  cosa  che  gli     restò  di  lei,  perché  la sua compagna minore la chiamò,  fu il nome     senza cognome: Rosalba.
    L'ottavo giorno il battello navigò a  fatica  attraverso  uno  stretto     turbolento  incassato  fra  dirupi di marmo,  e dopo pranzo ormeggiò a     Puerto  Nare.   Lì  dovevano  fermarsi  i  passeggeri  che   avrebbero     proseguito  il  viaggio  verso l'interno della provincia di Antioquia,     una di quelle più colpite dalla nuova  guerra  civile.  Il  porto  era     formato  da  una  mezza  dozzina  di  capanne  coi tetti di palma e un     magazzino di legno col tetto di zinco,  ed  era  protetto  da  diverse     pattuglie di soldati scalzi e mal armati, perché si sapeva di un piano     degli insorti per saccheggiare i battelli.  Dietro alle case si alzava     fino al cielo un promontorio di montagne incolte  con  una  cornice  a     ferro  di  cavallo  incisa  sul bordo del precipizio.  A bordo nessuno     dormì tranquillo,  ma l'attacco non si verificò durante  la  notte,  e     all'alba il porto apparve trasformato in una fiera della domenica, con     indios  che vendevano amuleti di avorio vegetale e filtri d'amore,  in     mezzo alle file di mule preparate per intraprendere la salita  di  sei     giorni fino alle foreste di orchidee della cordigliera centrale.     Florentino  Ariza si era soffermato a guardare lo scarico del battello     a dorso di negro, aveva visto scendere le tazze di maiolica cinese,  i     pianoforti  a coda per le zitelle di Envigado,  e solo troppo tardi si     accorse che fra i passeggeri che  si  fermavano  c'era  il  gruppo  di     Rosalba.  Le  vide  quando già erano salite di fianco,  con stivali da     amazzoni e ombrellini di colori equatoriali,  e allora fece quello che     non  si  era azzardato a fare nei giorni precedenti: fece a Rosalba un     gesto di addio con la mano,  e le tre gli risposero allo stesso  modo,     con  una  familiarità che gli fece male nei visceri per la sua audacia     tardiva.  Le vide girare  dietro  al  magazzino,  seguite  dalle  mule     cariche dei bauli, delle casse di cappelli e della gabbia del bambino,     e  poco  dopo le vide arrampicarsi come una fila di formichine operaie     sul bordo dell'abisso,  e sparirono dalla sua vita.  Allora  si  sentì

    solo  al  mondo,  e  il  ricordo  di Fermina Daza,  che era rimasto in     agguato negli ultimi giorni, gli assestò la zampata mortale.
    Sapeva che si sarebbe  sposata  il  sabato  dopo,  con  un  matrimonio     sfarzoso,  e  l'essere  che più l'amava e doveva amarla per sempre non     avrebbe avuto neanche il diritto di morire per lei. La gelosia, finora     affogata nel pianto, si fece padrona della sua anima.  Pregava Dio che     la  scintilla della giustizia divina fulminasse Fermina Daza quando si     fosse disposta a giurare amore e obbedienza a un uomo  che  la  voleva     per  sposa  come  un  ornamento sociale,  e si estasiava nella visione     della promessa  sposa,  sua  o  di  nessuno,  stesa  per  terra  sulle     piastrelle  della  cattedrale  con  i fiori d'arancio imbiancati dalla     rugiada della morte,  e il torrente di spuma  del  velo  sulle  statue     funerarie  di quattordici vescovi sepolti davanti all'altare maggiore.     Tuttavia,  una volta consumata  la  vendetta,  si  pentiva  della  sua     malvagità,  e  allora  vedeva  Fermina  Daza  alzarsi  con  il respiro     intatto, estranea ma viva, perché non gli era possibile immaginarsi il     mondo senza di lei.  Non dormì più,  e se a volte si sedeva a mangiare     qualcosa era per l'illusione che Fermina Daza fosse al tavolo, o anzi,     per  negarle l'omaggio di digiunare per lei.  A volte si consolava con     il pensiero che nell'ubriachezza della festa di nozze,  e anche  nelle     notti  febbrili della luna di miele,  Fermina Daza dovesse soffrire un     istante, almeno uno, ma uno in ogni modo,  in cui si levasse nella sua     coscienza il fantasma del fidanzato burlato,  umiliato, disprezzato, e     le facesse perdere la felicità.
    Il giorno prima di arrivare al porto di Caracolí,  che era il  termine     del  viaggio,  il  capitano offrì la festa tradizionale di addio,  con     un'orchestra di fiati formata dai  membri  dell'equipaggio,  e  fuochi     d'artificio colorati dalla plancia di comando.  Il ministro della Gran     Bretagna era sopravvissuto all'odissea con  uno  stoicismo  esemplare,     cacciando  con  la  macchina  fotografica  gli  animali  che  non  gli     permettevano di uccidere con la doppietta, e non ci fu una sera in cui     non lo si vide in abito da cerimonia nella sala da pranzo.  Alla festa     finale,  però,  comparve con il costume scozzese del clan MacTavish, e     suonò a piacere la cornamusa e insegnò a chiunque lo volesse a ballare     le sue danze nazionali,  e prima dell'alba dovettero portarlo quasi di     peso  in  cabina.  Florentino Ariza,  prostrato dal dolore,  se ne era     andato  nell'angolo  più  appartato  della  coperta   dove   non   gli     arrivassero neanche le notizie della festa,  e si era messo addosso il     soprabito di Lotario Thugut cercando di  resistere  ai  brividi  delle     ossa.  Si  era  svegliato alle cinque del mattino,  come si sveglia il     condannato a morte all'alba dell'esecuzione,  e in tutto il sabato non     aveva  fatto  altro  che immaginare minuto per minuto ogni momento del     matrimonio di Fermina Daza. Più tardi, una volta ritornato a casa,  si     accorse  di  aver sbagliato le ore e che tutto era andato diversamente     da come lui se lo immaginava,  ed ebbe perfino il buonsenso di  ridere     della sua fantasia.
    In ogni caso, però, fu un sabato di passione che culminò con una nuova     crisi  di  febbre,  quando gli sembrò che fosse arrivato il momento in     cui i novelli  sposi  stavano  scappando  segretamente  da  una  porta     nascosta per abbandonarsi alle delizie della prima notte. Qualcuno che     lo  vide tremante di febbre avvisò il capitano,  e questi abbandonò la     festa con il medico di bordo temendo che fosse un caso di colera, e il     medico lo mandò per precauzione nella cabina  di  quarantena  con  una     buona  dose  di bromuro.  Il giorno dopo,  però,  quando avvistarono i     faraglioni di Caracolí,  la  febbre  era  scomparsa  e  aveva  l'animo     esaltato,  perché  nel marasma dei sedativi aveva deciso una volta per     tutte e senza altri tramiti di mandare al diavolo  il  radioso  futuro     del  telegrafo  e  di ritornare sullo stesso battello alla sua vecchia     Calle de las Ventanas.
    Non gli fu difficile farsi portare indietro in cambio della cabina che     aveva ceduto al rappresentante  della  regina  Vittoria.  Il  capitano     cercò  di  dissuaderlo anche con l'argomentazione che il telegrafo era     la scienza del futuro.  Era tanto così,  gli disse,  che si stava  già     inventando  un  sistema  per  installarlo  anche  sulle  navi.  Ma lui     resistette a ogni argomento, e il capitano finì per portarlo indietro,     non per il debito della cabina, ma perché conosceva i suoi veri legami     con la Compagnia Fluviale del Caribe.
    Il viaggio di ritorno fu fatto in meno di  sei  giorni,  e  Florentino     Ariza  si sentì di nuovo a casa sua da quando entrarono all'alba nella     laguna de las Mercedes,  e vide le scie luminose delle canoe da  pesca     ondeggiare  nella  risacca  del  battello.  Era  ancora  notte  quanto     attraccarono nell'insenatura del Nino Perdido,  che era l'ultimo porto     dei vapori fluviali,  a nove leghe dalla baia,  prima che dragassero e     rimettessero  in  uso  l'antico  passaggio  spagnolo.   I   passeggeri     avrebbero  dovuto aspettare fino alle sei del mattino per abbordare la     flottiglia  di  scialuppe  a  noleggio   che   dovevano   portarli   a     destinazione.  Ma  Florentino Ariza era così ansioso che era andato da     molto  prima  nella  scialuppa  della  posta,   i  cui  impiegati   lo     riconoscevano come uno di loro.  Prima di lasciare il battello cedette     alla tentazione di un atto simbolico: gettò in acqua il "petate", e lo     seguì con lo sguardo fra le torce  dei  pescatori  invisibili,  finché     uscì  dalla laguna e sparì nell'oceano.  Era sicuro che non ne avrebbe     più avuto bisogno per il resto dei suoi giorni.  Mai più,  perché  mai     più avrebbe lasciato la città di Fermina Daza.
    La  baia  all'alba  era  un  ristagno.  Nonostante  la  bruma sospesa,
    Florentino Ariza vide la cupola della cattedrale  dorata  dalle  prime     luci,  vide  le  piccionaie  sulle  terrazze,  e orientandosi con loro     localizzò il balcone del palazzo  del  Marchese  de  Casalduero,  dove     supponeva  che  la  donna  della  sua  sventura  dormicchiasse  ancora     appoggiata alla spalla  dello  sposo  sazio.  Questa  supposizione  lo     lacerò,  ma non fece nulla per reprimerla,  bensì esattamente tutto il     contrario: si compiacque nel dolore. Il sole incominciava a riscaldare     quando la scialuppa della posta si fece strada nel labirinto di barche     a vela ancorate,  dove gli innumerevoli odori  del  mercato  pubblico,     mescolati  con  il  marciume  del  fondo,  si confondevano in un unico     fetore.  La goletta di Riohacha era appena arrivata,  e le squadre  di     stivatori con l'acqua alla cintola ricevevano i passeggeri alla murata     e li portavano in braccio fino a riva.  Florentino Ariza fu il primo a     saltare a terra dalla scialuppa della posta, e da allora non sentì più     il fetore della baia ma l'odore personale di Fermina Daza  nell'ambito     della città. Tutto odorava di lei.
    Non  tornò  all'ufficio  del  telegrafo.  La  sua unica preoccupazione     sembravano essere i romanzi d'appendice e i  volumi  della  Biblioteca     Popolare  che  sua madre continuava a comprargli,  e che lui leggeva e     rileggeva sdraiato in un'amaca fino a impararli a memoria. Non domandò     neanche dove era il violino.  Riprese i contatti con i suoi amici  più     stretti,  e  a  volte giocavano a biliardo o chiacchieravano nei caffè     all'aria aperta sotto gli archi di Piazza  della  Cattedrale,  ma  non     tornò ai balli del sabato: non riusciva a immaginarli senza di lei.     La  mattina  stessa in cui ritornò dal viaggio incompiuto fu informato     che Fermina Daza stava passando la luna di miele in Europa,  e il  suo     cuore  stordito  diede per scontato che si sarebbe fermata a vivere là     se non per sempre almeno per molti anni.  Questa certezza gli diede le     prime speranze di dimenticarla.  Pensava a Rosalba,  il cui ricordo si     faceva più ardente a mano a mano che si  placavano  gli  altri.  Fu  a     quell'epoca che si lasciò crescere i baffi con le punte impomatate che     non si sarebbe tolti per il resto della sua vita,  e cambiò il modo di     essere,  e l'idea della sostituzione dell'amore  lo  mise  su  cammini     imprevisti.  L'odore  di  Fermina  Daza  si  fece  a  poco a poco meno     frequente e intenso e alla fine rimase solo nelle gardenie bianche.     Andava alla deriva, senza sapere dove continuare la vita, una notte di     guerra in cui la celebre vedova di Nazaret  si  rifugiò  atterrita  in     casa  sua,  perché  la  propria  era  stata distrutta da una cannonata     durante l'assedio  del  generale  ribelle  Ricardo  Gaitán  Obeso.  Fu     Tránsito  Ariza a cogliere l'occasione al volo e mandò la vedova nella     camera da letto del figlio, con la scusa che nella sua non c'era posto     ma in realtà con la speranza che un altro amore lo curasse  di  quello     che non lo faceva vivere. Florentino Ariza non aveva più fatto l'amore     da quando era stato sverginato da Rosalba nella cabina del battello, e
    gli sembrò naturale,  in una notte d'emergenza, che la vedova dormisse     nel letto e lui nell'amaca.  Ma lei aveva già deciso per  lui.  Seduta     sul  bordo  del  letto dove Florentino Ariza era coricato senza sapere     che cosa fare, incominciò a parlargli del suo dolore inconsolabile per     il marito morto tre anni prima,  e intanto  si  toglieva  di  dosso  e     buttava  per aria i veli della vedovanza,  finché non le restò addosso     neanche la fede di nozze.  Si tolse la blusa di  taffetà  con  perline     ricamate  e  la tirò per la stanza sulla poltrona d'angolo,  lanciò il     corpetto da sopra la spalla verso l'altro lato  del  letto,  si  tolse     tutta  in  una volta la gonna talare con il gonnellino di volants,  la     fascia di raso del reggicalze e le calze di  seta  funeree,  e  sparse     tutto  sul  pavimento  finché  la  stanza fu tappezzata con gli ultimi     resti del suo dolore.  Lo fece con tanta gioia e con  pause  così  ben     misurate  che  ogni suo gesto sembrava celebrato dalle cannonate delle     truppe d'assalto,  che spaventavano la  città  fino  alle  fondamenta.     Florentino  Ariza  cercò  di  aiutarla  a  sganciare  il fermaglio del     corpetto ma lei lo anticipò con  una  manovra  esperta,  dato  che  in     cinque   anni  di  devozione  matrimoniale  aveva  imparato  a  essere     autosufficiente  in  tutti  i  tramiti  dell'amore,  compresi  i  suoi     preamboli  senza l'aiuto di nessuno.  Alla fine si tolse le mutande di     pizzo facendole scivolare lungo le gambe con un  movimento  rapido  da     nuotatrice, e restò completamente nuda.
    Aveva  ventotto  anni  e  aveva partorito tre volte,  ma la sua nudità     conservava intatta  la  vertigine  da  nubile.  Florentino  Ariza  non     avrebbe  mai  capito  come  degli  abiti  da penitente avessero potuto     dissimulare gli impeti di quella  puledra  selvaggia  che  lo  spogliò     soffocata dalla sua stessa febbre, come non poteva farlo con il marito     perché  non  la  credesse una depravata,  e che cercò di saziare in un     solo assalto  l'astinenza  ferrea  del  lutto  con  lo  stordimento  e     l'innocenza  di  cinque  anni  di  fedeltà coniugale.  Prima di quella     notte, e dall'ora di grazia in cui sua madre la partorì, non era stata     neanche nello stesso letto con un uomo diverso dal marito morto.     Non si permise il cattivo gusto di un rimorso.  Anzi.  Sveglia per  le     cannonate  che  passavano  ronzando sopra i tetti,  continuò a evocare     fino all'alba le qualità del marito senza rimproverargli altra slealtà     che quella di essere morto senza di lei,  e redenta dalla certezza che     non  fosse  mai stato tanto suo come lo era allora,  dentro a una bara     inchiodata con chiodi da tre pollici e due metri sottoterra.
    «Sono felice» disse,  «perché solo adesso so con certezza dov'è quando     non è in casa.»
    Quella  notte  si tolse il lutto,  d'un colpo solo,  senza passare per     l'intermezzo odioso delle bluse a fiorellini grigi,  e la sua vita  si     riempì  di  canzoni  d'amore  e di vestiti provocanti con pappagalli e     farfalle dipinte,  e incominciò a  distribuire  il  corpo  a  chiunque     avesse  voglia  di  chiederglielo.  Sconfitte  le  truppe del generale     Gaitán Obeso dopo sessantatré giorni di assedio, lei ricostruì la casa     sfondata dalla cannonata e fece una bella terrazza sugli scogli,  dove     in tempo di burrasca si accaniva la furia delle mareggiate.  Quello fu     il suo nido d'amore,  come lo chiamava senza  ironia,  dove  ricevette     solo  chi  le piaceva,  quando volle e come volle,  e senza chiedere a     nessuno neanche un centesimo perché considerava che fossero gli uomini     a farle il favore. In casi molto rari accettava un regalo,  sempre che     non  fosse  d'oro,  ed  era  talmente abile che nessuno avrebbe potuto     mostrare  una  prova  determinante  della  sua   condotta   impropria.     Solamente  in  un'occasione  fu  sull'orlo  di  uno scandalo pubblico,     quando corse voce che l'arcivescovo Dante  de  Luna  non  fosse  morto     accidentalmente per un piatto di funghi sbagliati,  ma che se li fosse     mangiati volontariamente perché lei l'aveva minacciato di sgozzarsi se     lui avesse continuato nei suoi assedi sacrileghi.  Nessuno le  domandò     se  era vero,  né parlò mai di questo,  né mutò niente nella sua vita.     Lei era,  secondo quanto raccontava morta dal  ridere,  l'unica  donna     libera della provincia.
    La  vedova  di  Nazaret  non mancò mai agli appuntamenti di Florentino     Ariza,  neanche nei suoi tempi più  indaffarati,  e  fu  sempre  senza     pretese  di amare né di essere amata,  anche se sempre con la speranza     di trovare qualcosa  che  fosse  come  l'amore  ma  senza  i  problemi     dell'amore.  Certe  volte era lui che andava a casa sua,  e allora gli     piaceva soffermarsi bagnati di spuma di salino sulla terrazza sul mare     a contemplare l'alba del mondo intero all'orizzonte. Lui ci mise tutto     l'impegno a insegnarle gli imbrogli che  aveva  visto  fare  ad  altri     attraverso  i  buchi  della  locanda,  così  come  le formule teoriche     annunciate  pubblicamente  da  Lotario  Thugut  nelle  sue  notti   di     baldoria.  La  incitò  a  lasciarsi vedere mentre facevano l'amore,  a     cambiare la posizione convenzionale del missionario con  quella  della     bicicletta di mare, o del pollo alla brace, o dell'angelo squartato, e     stettero quasi per rovinarsi la vita quando si ruppero le corde mentre     cercavano di inventare qualcosa di diverso in un'amaca. Furono lezioni     sterili.  Perché  la  verità è che lei era un'apprendista temeraria ma     priva del minimo talento per la fornicazione guidata. Non capì mai gli     incanti della serenità nel letto, né ebbe un momento di ispirazione, e     i suoi orgasmi erano inopportuni ed epidermici:  una  polvere  triste.     Florentino Ariza visse parecchio tempo nell'inganno di essere l'unico,     e  lei si compiaceva che lui lo credesse,  finché ebbe la malasorte di     parlare nel sonno.  A poco a  poco,  sentendola  mentre  dormiva,  lui     ricompose  pezzo  per  pezzo  la  carta  nautica dei suoi sogni,  e si     intromise fra le numerose isole della sua vita segreta.  Venne così  a     sapere  che  non era intenzionata a sposarsi con lui ma che si sentiva     legata alla sua vita dall'immensa gratitudine  di  averla  pervertita.     Glielo disse spesso: «Ti adoro perché mi hai fatto diventare puttana»     Detto  in  un  altro modo,  non aveva torto.  Florentino Ariza l'aveva     spogliata della verginità di un matrimonio convenzionale,  che era più     perniciosa della verginità congenita e dell'astinenza della vedovanza.     Le  aveva  insegnato che niente di quello che si fa a letto è immorale     se contribuisce a perpetuare l'amore.  E qualcosa che  avrebbe  dovuto     essere  da  allora la ragione della sua vita: l'aveva convinta che uno     viene al mondo con le sue polveri contate,  e quelle che  non  vengono     usate per qualsiasi motivo,  proprio o estraneo, volontario o forzato,     si perdono per sempre.  Il suo merito fu di  prenderlo  alla  lettera.     Tuttavia,  poiché  credeva  di  conoscerla  meglio  di chiunque altro,     Florentino Ariza non riusciva a capire perché fosse così ricercata una     donna dalle risorse così puerili,  che oltre a tutto a  letto  non  la     smetteva  di  parlare della sua angoscia per il marito morto.  L'unica     spiegazione che trovò, e che nessuno poté smentire, fu che alla vedova     di Nazaret cresceva  in  tenerezza  quello  che  le  mancava  in  arti     marziali.  Incominciarono  a  vedersi  con  minor  frequenza  più  lei     allargava i suoi dominii,  e più lui esplorava i suoi alla ricerca  di     un  sollievo  ai  vecchi mali in altri cuori sperduti,  e alla fine si     dimenticarono senza dolore.
    Fu il primo amore lettereccio di Florentino Ariza.  Ma invece di  aver     fatto con lei un'unione stabile,  come sua madre sognava,  tutti e due     ne approfittarono per lanciarsi nella vita.  Florentino Ariza sviluppò     metodi  che  sembravano inverosimili in un uomo come lui,  taciturno e     squallido, e per di più vestito come un vecchio d'altri tempi.  Aveva,     però,  due  vantaggi  a  suo  favore.  Uno  era  un  occhio sicuro per     conoscere subito la donna che lo aspettava,  perfino se era in mezzo a     una folla, e anche così la corteggiava con cautela, perché sentiva che     niente  dava più vergogna né era più umiliante di un rifiuto.  L'altro     vantaggio era  che  loro  lo  identificavano  immediatamente  come  un     solitario  bisognoso d'amore,  un bisognoso della strada con un'umiltà     da cane bastonato  che  le  rendeva  arrendevoli  incondizionatamente,     senza  chiedere  nulla,  senza  aspettarsi  niente da lui,  a parte la     tranquillità di coscienza di avergli fatto il  favore.  Erano  le  sue     uniche  armi,  e  con  loro  fece  battaglie storiche ma assolutamente     segrete,  che registrò volta per volta con un rigore da notaio  in  un     quaderno  cifrato,  riconoscibile  fra  tanti per un titolo che diceva     tutto: "Loro".  La prima annotazione la fece con la vedova di Nazaret.     Cinquant'anni  dopo,  quando  Fermina  restò libera dalla sua condanna     sacramentale,  aveva circa venticinque quaderni  con  seicentoventidue     annotazioni  di  amori  continuati,  a parte le innumerevoli avventure     fugaci che non si erano meritate neanche una nota di carità.
    Anche Florentino Ariza era convinto dopo sei mesi di amori smodati con     la vedova di Nazaret di essere riuscito a sopravvivere al tormento  di     Fermina  Daza.  Non  solo lo credette ma lo commentò diverse volte con     Tránsito Ariza durante i quasi due anni che durò il viaggio di  nozze,     e  continuò a crederlo con un senso di liberazione sconfinata,  fino a     una domenica di cattiva stella in cui la  vide  improvvisamente  senza     nessun annuncio del cuore mentre usciva dalla messa solenne al braccio     di  suo  marito  e  assediata dalla curiosità e dalle lusinghe del suo     nuovo  mondo.  Le  stesse  signore  di  lignaggio  che  all'inizio  la     disprezzavano  e  si burlavano di lei perché era un'avventuriera senza     nome si facevano in quattro perché si sentisse come una di loro, e lei     le ubriacava col suo incanto. Aveva assunto con tanta proprietà la sua     condizione di sposa mondana che Florentino Ariza ebbe  bisogno  di  un     attimo di riflessione per riconoscerla. Era un'altra: il portamento da     persona  più matura,  gli stivaletti alti,  il cappello con la veletta     con una piuma coi colori di qualche uccello orientale,  tutto  in  lei     era distinto e facile,  come se tutto fosse stato suo fin dall'inizio.     La trovò più bella e giovanile che mai,  ma  irrecuperabile  come  non     mai,  anche  se non ne capì il motivo finché non vide la curva del suo     ventre sotto il vestito di seta: era incinta di sei mesi. Però, quello     che lo impressionò di più fu che lei e suo marito formavano una coppia     mirabile,  e ambedue maneggiavano il mondo  con  tanta  fluidezza  che     sembravano galleggiare sugli scogli della realtà. Florentino Ariza non     provò  invidia  né rabbia ma un gran disprezzo di se stesso.  Si sentì     povero, brutto,  inferiore,  e non solo indegno di lei ma di qualsiasi     altra donna sulla terra.
    E  così  era  tornato.  Ritornava senza nessun motivo per pentirsi del     brusco cambiamento che aveva dato alla sua vita.  Anzi: ogni volta  ne     ebbe  di  meno,  soprattutto dopo essere sopravvissuto alla salita dei     primi anni.  Più meritorio ancora nel caso di lei,  che  era  arrivata     alla  notte  di  nozze  ancora  nelle  nebbie  dell'innocenza.   Aveva     incominciato a perderla nel corso  del  suo  viaggio  nella  provincia     della cugina Hildebranda.  A Valledupar aveva capito finalmente perché     i galli corteggiavano le galline,  aveva assistito al rituale  brutale     degli asini,  aveva visto nascere i vitelli, e aveva sentito le cugine     parlare con naturalezza di quali coppie della famiglia continuavano  a     fare  l'amore  e quali e quando e perché avevano smesso di farlo anche     se continuavano a vivere insieme.  Fu allora che si avviò  agli  amori     solitari,  con  la  rara  sensazione  di  scoprire qualcosa che i suoi     istinti conoscevano  da  sempre,  prima  nel  letto,  con  il  respiro     imbavagliato  per non denunciarsi nella camera da letto divisa con una     mezza dozzina di cugine,  e poi a due mani sdraiata come un maiale sul     pavimento  del  bagno,  con  i  capelli sciolti e fumando i suoi primi     sigarini di tabacco  nero.  Lo  fece  sempre  con  qualche  dubbio  di     coscienza che riuscì a superare solo dopo essersi sposata, e sempre in     assoluta segretezza, mentre le cugine ostentavano fra di loro non solo     la  quantità  di volte in un giorno,  ma anche il modo e la dimensione     dei  loro  orgasmi.  Tuttavia,   nonostante  l'incanto  di  quei  riti     iniziatici,  continuò  a  trascinarsi  dietro  la  convinzione  che la     perdita della verginità fosse un sacrificio sanguinoso.
    In modo che la sua festa di nozze, una delle più strepitose della fine     del secolo passato,  trascorse  per  lei  nella  vigilia  dell'orrore.     L'angoscia  della  luna  di miele la afflisse molto più dello scandalo     sociale per il matrimonio con un uomo elegante come non ce n'erano due     in quegli anni. Da quando incominciarono a fare le pubblicazioni nella     messa  solenne  della  cattedrale,   Fermina  Daza  tornò  a  ricevere     biglietti anonimi,  alcuni con minacce di morte,  ma li vedeva passare     soltanto,  perché tutta la paura di cui era capace la teneva  occupata     per  l'imminenza della violazione.  Era il modo corretto di trattare i     biglietti anonimi,  anche se lei non lo aveva fatto di  proposito,  in     una  classe  abituata  dalle  burle della storia ad abbassare la testa     davanti ai fatti compiuti.  Cosicché tutto quanto le  era  avverso  si     andava mettendo dalla sua parte a mano a mano che le nozze si sapevano     irrevocabili. Lei lo notava nei mutamenti graduali della gentilezza da     parte di donne livide,  degradate dall'artrite e dai risentimenti, che     un giorno si convincevano della vanità dei loro intrighi e comparivano     senza preavviso nel giardinetto de Los Evangelios,  come se fosse casa     loro,  cariche di ricette di cucina e di doni augurali. Tránsito Ariza     conosceva quel mondo,  anche se solo  quella  volta  lo  soffrì  nella     propria  carne,  e sapeva che le sue clienti riapparivano alla vigilia     delle grandi feste a chiederle  il  favore  di  dissotterrare  le  sue     anfore  e  di  prestargli i gioielli impegnati,  solo per ventiquattro     ore, mediante il pagamento di un interesse in più. Era parecchio tempo     che non succedeva come quella volta,  che  le  anfore  rimasero  vuote     affinché le signore di gran nome potessero abbandonare i loro santuari     di  ombre e apparire raggianti,  con le loro stesse gioie in prestito,     in un matrimonio come non se ne vide un altro di tanto  splendore  nel     resto  del  secolo,  e la cui gloria finale fu il padrinato del dottor     Rafael Núñez, tre volte presidente della repubblica, filosofo, poeta e     autore del testo dell'Inno Nazionale,  da quanto si poteva  apprendere     già da allora in certi nuovi dizionari. Fermina Daza arrivò all'altare     maggiore della cattedrale sottobraccio a suo padre,  cui il vestito da     cerimonia diede per un giorno un'aria ambigua  di  rispettabilità.  Si     sposò  per  sempre davanti all'altare maggiore della cattedrale in una     messa concelebrata da tre vescovi, alle undici del mattino del venerdì
    di gloria della Santissima Trinità,  e senza un pensiero  caritatevole     per Florentino Ariza,  che in quel momento delirava di febbre, morendo     per lei,  nelle intemperie di un battello che non lo  avrebbe  portato     all'oblio.  Durante  la  cerimonia,  e  dopo nella festa,  mantenne un     sorriso che sembrava fissato con la biacca,  un gesto  senz'anima  che     qualcuno  interpretò  come il sorriso di scherno della vittoria ma che     in realtà era una povera risorsa per  nascondere  il  suo  terrore  di     vergine appena sposata.
    Per  fortuna le circostanze impreviste,  insieme alla comprensione del     marito, trovarono una soluzione indolore alle sue tre prime notti.  Fu     provvidenziale.  La nave della Compagnie Générale Transatlantique, con     l'itinerario scombussolato dal maltempo del Caribe,  annunciò solo tre     giorni prima l'anticipo della partenza entro ventiquattr'ore, così che     non sarebbe salpata per La Rochelle il giorno dopo le nozze,  come era     previsto da sei mesi,  ma la notte stessa.  Nessuno credette che  quel     cambiamento  non  fosse una in più delle tante sorprese eleganti delle     nozze,   perché  la  festa  terminò  dopo  mezzanotte  a   bordo   del     transatlantico illuminato,  con un'orchestra di Vienna che provava per     la prima volta in quel viaggio i valzer più recenti di Johann Strauss.     Cosicché i vari padrini fradici di champagne furono trascinati a terra     dalle loro mogli afflitte,  quando già andavano chiedendo ai camerieri     se  non  c'erano  delle cabine disponibili per seguire la festa fino a     Parigi.  Gli ultimi che sbarcarono videro Lorenzo  Daza  davanti  alle     osterie  del porto,  seduto per terra in piena strada e con l'abito da     cerimonia a pezzi. Piangeva a squarciagola, come piangono i loro morti     gli arabi,  seduto su un rigagnolo di  acque  marce  che  avrebbe  ben     potuto essere una pozza di lacrime.
    Neanche  nella  prima  notte  di mare cattivo,  né nelle successive di     navigazione tranquilla, né mai nella sua lunghissima vita matrimoniale     accaddero gli atti di barbarie che  Fermina  Daza  temeva.  La  prima,     nonostante  la  grandezza  della  nave e i lussi della cabina,  fu una     replica orribile della goletta di Riohacha,  e suo marito fu un medico     servizievole che non dormì un momento per consolarla,  che era l'unica     cosa che un medico troppo eminente sapeva fare contro il mal di  mare.     Ma  la burrasca cessò il terzo giorno,  dopo il porto di La Guayra,  e     già a quel punto erano stati insieme tanto  tempo  e  avevano  parlato     tanto da sentirsi amici di vecchia data. La quarta notte, quando tutti     e  due  ripresero  le loro solite abitudini,  il dottor Juvenal Urbino     restò sorpreso dal fatto che la sua giovane moglie non pregasse  prima     di  dormire.  Lei  fu  sincera:  la  doppiezza  delle monache le aveva     provocato una resistenza ai riti,  ma la sua fede era intatta e  aveva     imparato  a  mantenerla  in  silenzio.  Disse:  «Preferisco intendermi     direttamente con Dio».  Lui capì le sue  ragioni  e  da  quel  momento     ognuno  praticò  la  stessa  religione  a  modo suo.  Avevano avuto un     fidanzamento breve,  ma abbastanza informale per  l'epoca,  perché  il     dottor Urbino andava a trovarla a casa sua,  senza vigilanza,  tutti i     giorni all'imbrunire.  Lei non avrebbe permesso che  lui  le  toccasse     neanche il polpastrello delle dita prima della benedizione episcopale,     ma  neanche  lui ci si era provato.  Fu durante la prima notte di mare     calmo, già a letto ma ancora vestiti, che lui iniziò le prime carezze,     e lo fece con tanto garbo che a lei parve naturale il suggerimento  di     mettersi  la  camicia da notte.  Andò a cambiarsi nel bagno,  ma prima     spense tutte le luci della cabina, e quando uscì con il camicione mise     degli  stracci  nelle  fessure  della  porta  per  tornare   a   letto     nell'oscurità assoluta. Mentre lo faceva, disse di buon umore:     «Che vuoi, dottore. E' la prima volta che dormo con uno sconosciuto.»     Il  dottor  Juvenal  Urbino  la  sentì  scivolare vicino a lui come un     animaletto spaventato,  cercando di rimanere il più lontano  possibile     in  una  cuccetta  dove era difficile stare in due senza toccarsi.  Le     prese la mano, fredda e contratta di terrore, le intrecciò le dita,  e     quasi con un sussurro incominciò a raccontarle i suoi ricordi di altri     viaggi  per  mare.  Lei era ancora tesa perché tornando a letto si era     accorta che lui si era spogliato completamente  mentre  lei  stava  in     bagno,  e  questo  le  aveva  fatto  rivivere  il  terrore  del  passo     successivo.  Ma il passo successivo ritardò  diverse  ore,  perché  il     dottor  Urbino  continuò a parlare molto piano,  mentre si impadroniva     millimetro per millimetro della confidenza del suo corpo.  Le parlò di     Parigi,  dell'amore  a  Parigi,  degli  innamorati  di  Parigi  che si     baciavano per la strada,  sugli autobus,  sulle  verande  fiorite  dei     caffè  aperti  al  respiro  di  fuoco  e  alle  fisarmoniche  languide     dell'estate,  e facevano l'amore in piedi sulle rive della Senna senza     che  nessuno  li  infastidisse.   Mentre  parlava  nell'oscurità,   le     accarezzò la curva del collo con la punta delle dita,  le accarezzò la     peluria setosa delle braccia,  il ventre sfuggente, e quando senti che     la tensione aveva ceduto fece un  primo  tentativo  di  sollevarle  la     camicia  da notte,  ma lei glielo impedì con un impulso tipico del suo     carattere. Disse: «Lo so fare da sola». Se la tolse, in effetti, e poi     restò così immobile che il dottor Urbino avrebbe  potuto  credere  che     non  era più lì se non fosse stato per la solarità del suo corpo nelle     tenebre.
    Un attimo dopo le riprese  la  mano,  e  allora  la  sentì  tiepida  e     sciolta,  ma  ancora  umida di una tenera rugiada.  Restarono un altro     attimo in silenzio e immobili, lui aspettando l'occasione per il passo     successivo, e lei aspettandolo senza sapere da dove, mentre l'oscurità     si allargava con il suo respiro sempre  più  intenso.  Lui  la  liberò     improvvisamente  e  fece  il  salto nel vuoto: si inumidì la punta del     medio e le sfiorò il capezzolo impreparato e lei senti una scarica  di     morte,  come se le avesse toccato un nervo vivo. Fu contenta di essere     nell'oscurità perché lui non le vedesse il rossore  bruciante  che  la     scosse  fino  alle  radici  della testa.  «Calma» le disse lui,  molto     piano. «Non dimenticarti che li conosco.» La sentì sorridere, e la sua     voce fu dolce e nuova fra le tenebre.
    «Me ne ricordo molto bene» disse,  «e  ancora  non  mi  è  passata  la     rabbia.»
    Allora lui seppe che avevano doppiato il capo di buona speranza,  e le     riprese la mano grande e soffice,  e gliela copri di  bacetti  orfani,     prima  il  metacarpo aspro,  le lunghe dita chiaroveggenti,  le unghie     diafane,  e poi il geroglifico del suo destino nel palmo  sudato.  Lei     non  seppe come fu che la sua mano arrivò al petto di lui,  e inciampo     in qualcosa che non poté decifrare.  Lui le disse: «E' uno scapolare».     Lei  gli  accarezzò  i peli del petto,  e poi afferrò tutto il terreno     incolto con le cinque dita per strapparlo dalla  radice.  «Più  forte»     disse lui.  Lei ci provò, fin dove sapeva di non fargli male, e poi fu     la sua mano quella che cercò la mano di lei persa nelle tenebre.  Lui,     però,  non si lasciò intrecciare le dita ma la prese per il polso e le     portò la mano lungo il suo corpo con una forza invisibile ma molto ben     diretta finché lei sentì il soffio ardente  di  un  animale  di  carne     viva,  senza forma corporea, ma ansioso e inalberato. Contrariamente a     quanto lui immaginò,  compreso il contrario di quello che  lei  stessa     avrebbe immaginato,  non tolse la mano né la lasciò inerte dove gliela     aveva messa lui,  ma si  raccomandò  anima  e  corpo  alla  Santissima     Vergine,  strinse  i  denti  per  paura di mettersi a ridere della sua     stessa follia,  e incominciò a identificare con  il  tatto  il  nemico     impennato,   conoscendone   la   grandezza,   la  forza  dell'affusto,     l'estensione  delle  ali,   spaventata  dalla  sua  determinazione  ma     commossa  dalla  sua  solitudine,  facendolo  suo  con  una  curiosità     minuziosa che qualcuno meno esperto di suo marito avrebbe confuso  con     le carezze.  Lui fece appello alle sue ultime forze per resistere alla     vertigine dello scrutinio mortale finché lei lo lasciò con una  grazia     infantile, come se lo avesse tirato nella spazzatura.
    «Non sono mai riuscita a capire come è quell'apparato» disse.     Allora  lui  glielo  spiegò  seriamente  con il suo metodo magistrale,     mentre le portava la mano nei luoghi  che  menzionava,  e  lei  se  la     lasciava portare con un'obbedienza da allieva esemplare. In un momento     propizio  lui  suggerì  che  tutto  quello  era più facile con la luce     accesa.  Stava per  accenderla,  ma  lei  gli  trattenne  il  braccio,     dicendo:  «Io vedo meglio con le mani».  In realtà voleva accendere la     luce, ma voleva farlo lei e senza che nessuno gliel'ordinasse,  e così     fu.  Lui la vide allora in posizione fetale,  e per di più coperta con
    il lenzuolo, nell'improvviso chiarore. Però la vide afferrare di nuovo     senza moine l'animale della sua curiosità,  lo girò  al  dritto  e  al     rovescio,  lo osservò con un interesse che già incominciava a sembrare     più che scientifico,  e alla fine disse: «Ma quanto è  brutto,  è  più     brutto  di  quello  delle  donne».  Lui fu d'accordo,  e segnalò altri     inconvenienti più gravi della bruttezza.  Disse: «E'  come  il  figlio     maggiore, per cui uno passa la vita a lavorare, sacrificando tutto per     lui,  e  all'ora  della  verità  lui finisce per fare quello di cui ha     voglia».  Lei continuò a esaminarlo,  chiedendo a  che  cosa  servisse     questo e a che cosa servisse quello, e quando si ritenne ben informata     lo soppesò con le due mani per provarsi che neanche per il peso valeva     la pena, e lo lasciò cadere con una smorfia di disprezzo.
    «E poi, credo che abbia troppe cose in più» disse.
    Lui rimase perplesso.  La proposta originale per la sua tesi di laurea     era stata quella: la convenienza di  semplificare  l'organismo  umano.     Gli  sembrava  antiquato,  con  molte  funzioni inutili o ripetute che     erano state imprescindibili per altre età del genere umano ma non  per     la nostra.  Sì: poteva essere più semplice e per lo stesso motivo meno     vulnerabile. Concluse: «E' qualcosa che solo Dio può fare,  certo,  ma     in ogni modo sarebbe bene lasciarlo stabilito in termini teorici». Lei     se  la  rise  divertita,  in  un modo così naturale che lui approfittò     dell'occasione per abbracciarla e le diede il primo bacio sulla bocca.     Lei lo corrispose,  e lui continuò a darle baci molto  delicati  sulle     guance,  sul  naso,  sulle  palpebre,  mentre faceva scivolare la mano     sotto il lenzuolo,  e le accarezzò il pube tondo e liscio: un pube  da     giapponese. Lei non gli allontanò la mano, ma mantenne la sua in stato     d'allerta, nel caso lui fosse andato più avanti.     «Basta con le lezioni di medicina» disse.
    «No» disse lui. «Questa sarà d'amore.»
    Allora le tolse il lenzuolo di dosso,  e lei non solo non si oppose ma     lo spinse lontano dalla cuccetta con un colpo rapido dei piedi  perché     non  ce  la  faceva  più  a  sopportare  il  caldo.  Il  suo corpo era     serpeggiante ed elastico,  molto più  serio  di  quanto  sembrasse  da     vestita,  e con un odore proprio di animale di montagna che permetteva     di distinguerla fra tutte le donne del mondo.  Indifesa in piena luce,     una vampata di sangue bollente le salì al volto, e l'unica cosa che le     venne  in  mente per nasconderlo fu attaccarsi al collo del suo uomo e     baciarlo a fondo, molto forte, fino a consumare nel bacio tutta l'aria     da respirare.
    Lui sapeva di non amarla.  Si era sposato perché gli piacevano la  sua     alterigia,  la  sua serietà,  la sua forza,  e anche per un pizzico di     vanità sua, ma mentre lei lo baciava per la prima volta era sicuro che     non ci sarebbe stato nessun ostacolo per inventare un buon amore.  Non     ne  parlarono  quella  prima  notte  in  cui  parlarono  di tutto fino     all'alba, e non ne avrebbero mai parlato.  Però alla lunga nessuno dei     due si sbagliò.
    All'alba,  quando si addormentarono, lei era ancora vergine, ma non lo     sarebbe stata per molto tempo. La notte successiva,  in effetti,  dopo     che  lui  le ebbe insegnato a ballare i valzer viennesi sotto il cielo     siderale del Caribe, lui dovette andare in bagno dopo di lei, e quando     tornò in cabina la trovò che lo aspettava nuda sul  letto.  Allora  fu     lei  a  prendere  l'iniziativa,  e gli si concesse senza paura,  senza     dolore,  con l'allegria di  un'avventura  d'altomare,  e  senza  altre     tracce  di  cerimonia  sanguinosa  della rosa dell'onore sul lenzuolo.     Tutti e due lo fecero bene,  quasi come un miracolo,  e continuarono a     farlo bene di notte e di giorno e sempre meglio nel resto del viaggio,     e  quando  arrivarono  a  La  Rochelle  si  intendevano come amanti di     vecchia data.
    Rimasero sedici mesi in Europa,  con base a Parigi,  e  facendo  brevi     viaggi nei paesi vicini.  In quel tempo fecero l'amore tutti i giorni,     e più di una  volta  le  domeniche  invernali  quando  restavano  fino     all'ora  di  pranzo  a divertirsi nel letto.  Lui era un uomo di buoni     impeti e oltre a tutto ben allenato,  e lei  non  era  tipo  da  farsi     prendere  vantaggio  da nessuno,  e così dovettero abituarsi al potere     condiviso a letto.  Dopo tre mesi di amori febbrili lui capì  che  uno     dei  due  era  sterile,  e  ambedue  si  sottoposero  a  esami  severi     all'Hospital de la Salêtrière,  dove lui aveva fatto il suo internato.     Fu  una  cura  ardua  ma  infruttuosa.  Tuttavia,  quando  meno  se lo     aspettavano  e  senza  nessuna  mediazione  scientifica,  successe  il     miracolo.  Alla fine dell'anno dopo,  quando tornarono a casa, Fermina     era incinta di sei mesi, e si credeva la donna più felice della terra.     Il figlio tanto desiderato da tutti e due,  che nacque senza  sorprese     sotto  il segno dell'Acquario,  fu battezzato in onore del nonno morto     di colera.
    Era impossibile sapere se fosse  stata  l'Europa  o  l'amore  a  farli     diversi,  perché le due cose accaddero nello stesso tempo. Tutti e due     lo erano,  e a fondo,  non solo con loro stessi  ma  con  tutti,  come     percepì  Florentino  Ariza  quando  li vide all'uscita dalla messa due     settimane dopo il ritorno, quella domenica della sua disgrazia.  Erano     ritornati  con una concezione nuova della vita,  carichi di novità del     mondo e pronti a comandare. Lui con le novità letterarie, musicali,  e     soprattutto quelle della sua scienza. Aveva fatto un abbonamento a "Le     Figaro",  per non perdere il filo della realtà, e un altro alla "Revue     des Deux Mondes" per non perdere il filo della poesia. Aveva fatto poi     anche un accordo col suo libraio di  Parigi  per  ricevere  le  novità     degli scrittori più letti, fra i quali Anatole France e Pierre Loti, e
    di  quelli  che  più  gli  piacevano,  fra cui Remy de Gourmont e Paul     Bourget,   ma  in  nessun  caso   Emile   Zola,   che   gli   sembrava     insopportabile,  nonostante  la  sua  coraggiosa  irruzione  nel  caso     Dreyfus.  Lo stesso libraio si impegnò a mandargli per posta le novità     più  affascinanti  del  catalogo  Ricordi,  soprattutto  di  musica da     camera,  per mantenere il titolo ben guadagnato da suo padre di  primo     promotore di concerti nella città.
    Fermina Daza,  sempre contraria ai rigori della moda,  portò sei bauli     con vestiti da tempi diversi,  perché non l'avevano convinta le grandi     marche.  Era  stata  alle Tuileries,  in pieno inverno,  per il lancio     della collezione di Worth,  l'inevitabile tiranno  dell'alta  moda,  e     l'unica cosa che aveva ottenuto era stata una bronchite che la abbatté     per  cinque  giorni  a  letto.  Laferrière le parve meno pretenzioso e     vorace,  ma la sua saggia decisione fu di portar via quello che più le     piaceva  nei negozi di saldi,  benché il marito giurasse atterrito che     erano vestiti di morti.  Così portò quantità di scarpe italiane  senza     marca,  che preferì a quelle rinomate e stravaganti di Ferry,  e portò     un ombrellino di Dupuy rosso come le  fiamme  dell'inferno  che  diede     molto da scrivere ai nostri timorosi cronisti sociali.  Comprò solo un     cappello di Madame Reboux,  però in cambio riempì un baule di grappoli
    di  ciliege  finte,  di  mazzolini  di  quanti  fiori  di feltro le fu     possibile trovare,  ramaglie di piume di struzzo,  morioni  di  pavone     reale,  code di galli asiatici, fagiani interi, colibrì, e una varietà     innumerevole di uccelli esotici impagliati in  pieno  volo,  in  pieno     grido,  in  piena  agonia:  tutto  quanto  era  servito  negli  ultimi     vent'anni perché gli stessi  cappelli  sembrassero  altri.  Portò  una     collezione  di  ventagli  di diversi paesi del mondo,  e uno diverso e     adatto a ogni occasione. Portò un profumo conturbante scelto tra tanti     nella profumeria del "Bazar de la  Charité",  prima  che  i  venti  di     primavera disperdessero le sue ceneri; ma lo usò una volta sola perché     non  si  riconobbe lei stessa con il profumo cambiato.  Portò anche un     astuccio di cosmetici  che  era  l'ultima  novità  nel  mercato  della     seduzione,  e  fu  la  prima donna che lo portò alle feste,  quando il     semplice  atto  di  rimbellettarsi  in  pubblico  veniva   considerato     indecente.
    Avevano,  poi,  tre  ricordi incancellabili: la prima senza precedenti     dei "Racconti di Hoffmann",  a Parigi,  l'incendio spaventoso di quasi     tutte  le  gondole  di  Venezia davanti a Piazza San Marco cui avevano     assistito con il cuore addolorato dalla finestra del loro hotel,  e la     visione fugace di Oscar Wilde durante la prima nevicata di gennaio. Ma     in mezzo a quelli e a tanti altri ricordi, il dottor Juvenal Urbino ne     conservava  uno  che  sempre  lamentò  di  non  poter dividere con sua     moglie, perché veniva dai suoi tempi di studente celibe a Parigi.  Era
    il ricordo di Victor Hugo,  che godeva qui di una celebrità commovente     oltre che per i suoi libri perché qualcuno aveva detto che  lui  aveva     detto,  senza  che nessuno lo avesse sentito in realtà,  che la nostra     Costituzione non era per un paese di uomini bensì di angeli. Da allora     era stato oggetto di un culto speciale,  e la maggioranza dei numerosi     compatrioti  che  viaggiavano  in  Francia  si  faceva  in quattro per     vederlo. Una mezza dozzina di studenti, tra cui Juvenal Urbino,  aveva     montato  la guardia per un certo tempo davanti alla sua casa di Avenue     Eyleau e nei caffè dove si diceva che sarebbe certo  arrivato  e  dove     non  arrivò  mai,  e  alla fine aveva chiesto per iscritto un incontro     privato in nome degli  angeli  della  Costituzione  di  Rionegro.  Non     ricevettero  mai risposta.  Un giorno qualsiasi,  Juvenal Urbino passò     per caso davanti al Giardino del Lussemburgo  e  lo  vide  uscire  dal     Senato con una giovane donna che lo teneva sottobraccio. Lo vide molto     vecchio,  che  si  muoveva  a  stento,  con  la barba e i capelli meno     raggianti che nei suoi ritratti,  e dentro un cappotto che  pareva  di     qualcuno  più corpulento di lui.  Non volle rovinare il ricordo con un     saluto impertinente: gli bastava quella visione quasi irreale  che  lo     avrebbe seguito per tutta la vita.  Quando tornò sposato a Parigi,  in     condizione di vederlo in un modo più  formale,  Victor  Hugo  era  già     morto.
    Come  consolazione,  Juvenal e Fermina avevano il ricordo condiviso di     un pomeriggio di neve in cui li incuriosì un  gruppo  che  sfidava  la     tormenta  davanti  a una piccola libreria del Boulevard des Capucines,     ed era perché Oscar Wilde era lì dentro. Quando infine uscì, veramente     elegante ma forse troppo conscio di esserlo, il gruppo lo circondò per     chiedergli di firmare i suoi libri.  Il dottor Urbino si  era  fermato     solo  per  vederlo,   ma  sua  moglie  impulsivamente  avrebbe  voluto     attraversare il boulevard per farsi firmare l'unica cosa  che  le  era     sembrata  appropriata  non  avendo  un  libro:  il  suo  bel guanto di     gazzella,  lungo,  liscio,  soave,  e dello stesso  colore  della  sua     pelliccia  da  sposa  novella.  Era  sicura che un uomo così raffinato     avrebbe apprezzato quel  gesto.  Ma  il  marito  si  era  opposto  con     fermezza,  e quando lei cercò di farlo nonostante le sue ragioni,  lui     non si sentì capace di sopravvivere alla vergogna.
    «Se attraversi quella strada»  le  aveva  detto,  «quando  ritorni  mi     troverai morto.»
    Era  naturale  per lei.  Prima di un anno di matrimonio andava in giro     per il mondo con la stessa scioltezza con cui lo faceva da quando  era     bambina nel mortorio di San Juan de la Ciénaga, come se fosse nata già     sapendolo,  e  aveva  una  facilità  di tratto con gli sconosciuti che     lasciava perplesso il marito,  e un talento misterioso per capirsi  in     castigliano  con  chiunque  fosse  e  dappertutto.  «Le lingue bisogna     saperle quando uno va a vendere qualcosa»  diceva  ridendo  scherzosa.     «Ma  quando  uno  va  a  comprare  tutti  ti capiscono.» Era difficile     immaginare qualcuno che avesse assimilato così rapidamente e con  così     tanta  allegria la vita quotidiana di Parigi,  che imparò ad amare nel     ricordo nonostante le sue piogge eterne. Tuttavia, quando tornò a casa     oppressa da tante esperienze insieme,  stanca  di  viaggiare  e  mezzo     addormentata  per  la gravidanza,  la prima cosa che le domandarono al     porto fu come le fossero sembrate le  meraviglie  dell'Europa,  e  lei     risolse  sedici  mesi di felicità con quattro parole del suo gergo del     Caribe:
    «Il più è il baccano.»     NOTE.
    NOTA 4: Varietà di airone. (Nota del Traduttore).
    NOTA 5: Lingua indigena di Curação, un misto di spagnolo, portoghese e     olandese. (Nota del Traduttore).
    NOTA 6: Abitanti di Mompos. (Nota del Traduttore).
    Il giorno in cui Florentino Ariza vide Fermina Daza  nell'atrio  della     cattedrale,  incinta  di  sei mesi e con pieno dominio della sua nuova     condizione di donna di mondo,  prese la decisione feroce di farsi nome     e   fortuna   per   meritarla.   Non   si   mise   neanche  a  pensare     all'inconveniente che fosse sposata, perché nello stesso tempo decise,     come se dipendesse da lui, che il dottor Juvenal Urbino doveva morire.     Non sapeva né quando né come,  ma se lo prospettò come un  avvenimento     ineluttabile, che era deciso ad attendere senza fretta né furia, anche     se fosse stato alla fine dei secoli.
    Incominciò dall'inizio.  Si presentò senza preavviso all'ufficio dello     zio León Dodicesimo,  presidente della Giunta  Direttiva  e  Direttore     Generale  della Compagnia Fluviale del Caribe,  e gli manifestò la sua     disponibilità a sottomettersi ai suoi progetti.  Lo zio era  risentito     con   lui  per  come  aveva  buttato  al  vento  il  buon  impiego  di     telegrafista a  Villa  de  Leyva,  ma  si  lasciò  portare  dalla  sua     convinzione  che  gli esseri umani non nascono sempre il giorno in cui     le loro madri li danno alla luce ma che  la  vita  li  obbliga  ancora     molte  altre volte a partorirsi da loro stessi.  E poi,  la vedova del     fratello era morta l'anno prima,  con i rancori in carne viva ma senza     lasciare eredi. Così diede l'impiego al nipote errante.
    Era  una  decisione  tipica  di  don León Dodicesimo Loayza.  Sotto la     scorza di commerciante senz'anima era nascosto  un  lunatico  geniale,     tale  da  far  scaturire  una  sorgente  di limonata nel deserto di La     Guajira,  tale da inondare di pianto un funerale di gran lusso con  il     suo  canto  lacerante  di  "In questa tomba oscura".  Con la sua testa     diritta e le sue labbra sporgenti da fauno gli mancavano solo la  lira     e  la  corona d'alloro per essere identico al Nerone incendiario della     mitologia  cristiana.   Le  ore   che   gli   restavano   libere   fra     l'amministrazione  delle  sue navi decrepite,  ancora galleggianti per     pura distrazione del fato,  e i problemi ogni giorno più critici della     navigazione  fluviale,  le  consacrava ad arricchire il suo repertorio     lirico.  Niente gli piaceva di più che cantare ai funerali.  Aveva una     voce  da  galeotto,  senza  nessun  ordine  accademico,  ma  capace di     registri impressionanti.  Qualcuno gli  aveva  raccontato  che  Enrico     Caruso  poteva rompere un vaso da fiori con il solo potere della voce,     e per anni cercò di imitarlo perfino con i  vetri  delle  finestre.  I     suoi  amici  gli  portavano  i vasi più sottili che trovavano nei loro     viaggi in giro per il mondo  e  organizzavano  feste  speciali  perché     finalmente  riuscisse  a  esaudire  il  suo sogno.  Non ci riuscì mai.     Tuttavia,  nel fondo del suo tuono c'era una piccola luce di  dolcezza     che screpolava il cuore di chi lo stava ad ascoltare come le anfore di     cristallo del grande Caruso,  ed era questo quello che lo rendeva così     venerabile ai funerali.  Salvo in uno,  in cui ebbe la buona  idea  di     cantare  "When  wake  up in Glory",  un canto funebre della Louisiana,     bello e commovente,  e fu zittito dal cappellano che  non  riusciva  a     capire quell'intromissione luterana dentro alla sua chiesa.     Così,  tra bis da opera e serenate napoletane, il suo talento creativo     e il suo invincibile  spirito  imprenditoriale  lo  trasformarono  nel     magnate   della  navigazione  fluviale  nella  sua  epoca  di  maggior     splendore. Era venuto su dal nulla, come i due fratelli morti, e tutti     erano arrivati dove volevano nonostante la  macchia  di  essere  figli     naturali,  e alla fine di non essere mai stati riconosciuti.  Erano il     fiore di quello che allora si chiamava l'"aristocrazia di  banco",  il     cui  santuario era il Club del Comercio.  Però anche quando dispose di     risorse per vivere come l'imperatore romano che  sembrava  essere,  lo     zio León Dodicesimo viveva nella città vecchia per comodità di lavoro,     con  sua  moglie e tre figli,  e in un modo così austero e in una casa     così stretta da non togliersi mai di dosso un'ingiusta reputazione  di     avaro.  Ma  il  suo  unico lusso era ancora più semplice: una casa sul     mare, a due leghe dagli uffici,  senza altri mobili all'infuori di sei     sgabelli,  un  serbatoio  per l'acqua,  e un'amaca sulla terrazza dove     sdraiarsi a pensare la domenica.  Nessuno  lo  definì  meglio  di  lui     stesso quando qualcuno lo accusò di essere ricco.
    «Ricco  no»  disse,  «sono  un  povero con soldi,  che non è la stessa     cosa.»
    Quello strano modo di essere,  che  qualcuno  lodò  una  volta  in  un     discorso  come  una lucida follia,  gli permise di vedere sull'istante     quello che nessuno vedeva né prima né poi  in  Florentino  Ariza.  Dal     giorno  in  cui  questi  si  presentò  a  chiedere un impiego nei suoi     uffici,  col suo aspetto lugubre e i suoi ventisette anni inutili,  lo     mise  alla  prova  con  la  durezza  di un regime da caserma capace di     piegare il più malintenzionato.  Ma non riuscì a fargli paura.  Quello     che  non sospettò mai lo zio León Dodicesimo fu che quel carattere del     nipote non gli veniva dalla necessità di sopravvivere né da una flemma     da cretino ereditata dal  padre,  ma  da  un'ambizione  di  amore  che     nessuna  contrarietà  di questo né dell'altro mondo sarebbe riuscita a     incrinare.
    I peggiori anni furono i primi,  quando lo nominarono  scrivano  della     Direzione  Generale,  che  sembrava  un lavoro inventato su misura per     lui.  Fu Lotario Thugut,  vecchio maestro di  musica  dello  zio  León     Dodicesimo,  a  consigliargli  di  dare  al  nipote  un impiego in cui     dovesse  scrivere,   perché  era  un   consumatore   instancabile   di     letteratura  all'ingrosso,  anche  se non tanto di quella buona quanto     della peggiore. Lo zio León Dodicesimo non fece caso alla precisazione     sulla cattiva qualità delle letture del nipote,  perché anche  di  lui     Lotario  Thugut diceva che era stato il suo peggior allievo di canto e     però faceva piangere persino le  lapidi  dei  cimiteri.  Comunque,  il     tedesco  ebbe  ragione  in  quello cui meno aveva pensato,  ed era che     Florentino Ariza  scriveva  qualsiasi  cosa  con  tanta  passione  che     perfino   i  documenti  ufficiali  sembravano  d'amore.   I  manifesti     d'imbarco gli uscivano rimati per quanto si sforzasse di evitarlo e le     lettere commerciali di routine avevano un afflato lirico che  toglieva     loro  autorità.  Lo  zio  in persona gli comparve davanti un giorno in     ufficio con un pacchetto di corrispondenza  che  non  aveva  avuto  il     coraggio  di  firmare  come  sua  e  gli diede l'ultima opportunità di     salvarsi l'anima.
    «Se non sei capace  di  scrivere  una  lettera  commerciale  andrai  a     raccogliere la spazzatura del molo» gli disse.
    Florentino  Ariza  accettò  la  sfida.  Fece  uno  sforzo  supremo per     imparare la  semplicità  terrena  della  prosa  commerciale,  imitando     modelli  di  archivi notarili con tanta applicazione come prima faceva     con i poeti di moda.  Quella era l'epoca in cui  passava  le  sue  ore     libere al Portal de los Escribanos ad aiutare gli innamorati implumi a     scrivere  i loro biglietti profumati,  per scaricare il cuore di tante     parole  d'amore  che  gli  restavano  inutilizzate   nei   manoscritti     doganali.  Ma dopo sei mesi, per quanto si fosse dato da fare, non era     riuscito a torcere il collo al suo cigno indurito. Così, quando lo zio     León Dodicesimo lo riprese per la seconda  volta,  lui  si  diede  per     vinto, ma con una certa alterigia.
    «L'unica cosa che mi interessa è l'amore» disse.
    «La  cosa brutta» gli disse lo zio,  «è che senza navigazione fluviale     non c'è amore.»
    Compì la minaccia di mandarlo a raccogliere la spazzatura sul molo, ma     gli diede la sua parola che lo avrebbe fatto salire un po' alla  volta     per  la scala del buon servizio finché avesse trovato il suo posto.  E     fu così.  Nessun tipo di lavoro riuscì  a  sbaragliarlo,  per  duro  o     umiliante  che  fosse,  né  lo  demoralizzò la miseria della paga,  né     perdette per un  momento  la  sua  serenità  essenziale  davanti  alle     insolenze  dei  suoi  superiori.  Ma  non  fu neanche innocente: tutto     quello che gli attraversò  il  cammino  subì  le  conseguenze  di  una     determinazione  demolitrice,   capace  di  qualsiasi  cosa,  dietro  a     un'apparenza  derelitta.  Così  come  lo  zio  León  Dodicesimo  aveva     previsto  e  desiderato  perché  non  restasse  senza conoscere nessun     segreto  dell'impresa,   passò  attraverso  tutti  gli  incarichi   in     trent'anni  di  consacrazione  e  tenacia a prova di tutto.  Li eseguì     tutti  con  una  capacità   ammirevole,   studiando   ogni   filo   di     quell'intrigo  misterioso  che tanto aveva a che vedere con gli uffici     della poesia,  ma senza conseguire la medaglia di guerra  da  lui  più     ambita,  che  era  scrivere  una  lettera commerciale accettabile: una     sola.  Senza proporselo,  senza neanche saperlo,  dimostrò con la  sua     vita  la  ragione  di  suo  padre,  che aveva ripetuto fino all'ultimo     respiro che  non  esisteva  nessuno  con  maggior  senso  pratico,  né     tagliapietre  più  ostinati  né  gerenti  più  lucidi e pericolosi dei     poeti. Quello, almeno,  fu quanto gli raccontò lo zio León Dodicesimo,     che  era solito parlargli di suo padre durante gli ozi del cuore e che     gli diede di lui un'idea più simile a quella di  un  sognatore  che  a     quella di un uomo d'affari.
    Gli  raccontò  che  Pío  Quinto  Loayza  dava  agli  uffici un uso più     piacevole di quello del lavoro,  e che se li era sistemati sempre  per     uscire  di  casa  la  domenica con il pretesto di dover ricevere o far     partire una nave.  E ancora: aveva  fatto  installare  nel  patio  dei     magazzini  una  caldaia  inservibile,  con  una  sirena  a  vapore che     qualcuno faceva suonare con codici di navigazione nel caso sua  moglie     fosse in arrivo.  Facendo un po' di conti,  lo zio León Dodicesimo era     sicuro che Florentino Ariza fosse stato concepito sulla  scrivania  di     qualche  ufficio  mal  chiuso  in  un pomeriggio di calura domenicale,     mentre la moglie di suo padre udiva  in  casa  sua  gli  addii  di  un     battello  mai  partito.  Quando  lei  lo  scoprì  era troppo tardi per     rifarsi dell'infamia, perché il marito era morto.  Gli sopravvisse per     molti anni, distrutta dall'amarezza di non avere un figlio e chiedendo     a Dio nelle sue preghiere la maledizione eterna del bastardo.
    L'immagine  del padre turbava Florentino Ariza.  Sua madre gli parlava     di lui come di un grand'uomo  senza  vocazione  commerciale,  che  era     finito  nei  commerci del fiume perché suo fratello maggiore era stato     un collaboratore molto vicino del commodoro tedesco  Juan  B.  Elbers,     precursore  della  navigazione  fluviale.  Erano figli naturali di una     stessa madre,  cuoca di professione,  che li aveva  avuti  con  uomini     diversi,  e  tutti  portavano il suo cognome dietro al nome di un Papa     scelto a caso nel libro delle vite dei Santi,  salvo quello dello  zio     León Dodicesimo, che era il nome di quello che regnava quando era nato     lui. Chi si chiamava Florentino era il nonno materno di tutti così che     il  nome  era arrivato fino al figlio di Tránsito Ariza saltando tutta     una generazione di pontefici.
    Florentino conservò sempre un quaderno in cui suo padre scriveva versi     d'amore, alcuni ispirati da Tránsito Ariza,  e i fogli erano abbelliti     da  disegni  di  cuori  feriti.  Due  cose  lo sorpresero.  Una era la     personalità della calligrafia del padre, identica alla sua, nonostante     lui l'avesse scelta perché era quella che più gli piaceva fra le molte     di un manuale. L'altra fu di trovare una frase che lui credeva sua,  e     che  suo  padre aveva scritto in un quaderno molto prima che lui fosse     nato: "L'unica cosa di cui mi dispiace morire è che non sia d'amore".     Aveva visto anche gli unici due ritratti di suo  padre.  Uno  fatto  a     Santa Fe,  molto giovane,  all'età che aveva lui quando lo vide per la     prima volta,  con un cappotto che era come se fosse stato messo dentro     a  un  orso  e  appoggiato a un piedistallo della cui statua restavano     solo i gambali tronchi.  Il piccoletto che stava al suo fianco era  lo     zio  León  Dodicesimo  con  un  berrettuccio  da capitano di battello.     Nell'altra fotografia suo padre stava con un gruppo di  gente  armata,     in chissà quale delle tante guerre,  e aveva il fucile più lungo e dei     baffi il cui odore di polvere  da  sparo  esalava  dall'immagine.  Era     liberale e massone,  come i fratelli,  e tuttavia voleva che il figlio     entrasse in seminario. Florentino Ariza non sentiva la somiglianza che     gli attribuivano,  ma,  secondo quanto diceva lo zio León  Dodicesimo,     anche  a  Pío Quinto rimproveravano il lirismo dei suoi documenti.  In     ogni caso,  né gli assomigliava nelle fotografie,  né concordava con i     suoi   ricordi,   né  con  l'immagine  che  ne  dipingeva  sua  madre,     trasfigurata dall'amore,  né con quella  che  travisava  lo  zio  León     Dodicesimo  con  la  sua  graziosa crudeltà.  Florentino Ariza scoprì,     però, quella somiglianza molti anni dopo,  mentre si pettinava davanti     allo  specchio,  e  solo  allora  aveva  capito  che un uomo sa quando     incomincia a invecchiare  perché  incomincia  ad  assomigliare  a  suo     padre.
    Non  lo ricordava in Calle de las Ventanas.  Credeva di sapere che per     qualche tempo aveva dormito lì,  molto all'inizio dei suoi  amori  con
    Tránsito Ariza, ma che non era tornato a trovarla dopo la sua nascita.
    L'atto di battesimo fu per molti anni il nostro unico strumento valido     di identità, e quello di Florentino Ariza, riposto nella parrocchia di     San  Toribio,  diceva  solo che era figlio naturale di un'altra figlia     naturale  nubile  che  si  chiamava  Tránsito  Ariza.   Nell'atto  non     compariva  il  nome del padre,  che comunque sopperì segretamente alle     necessità del figlio fino all'ultimo giorno. Questa condizione sociale     precluse a Florentino Ariza le porte del seminario ma gli fece evitare     anche il servizio militare  nell'epoca  più  sanguinosa  delle  nostre     guerre come figlio unico di una donna nubile.
    Tutti  i  venerdì  dopo  la scuola si sedeva davanti agli uffici della     Compagnia Fluviale del Caribe,  a ripassare un libro con illustrazioni     di  animali  letto e riletto tante volte che cadeva a pezzi.  Il padre     entrava senza guardarlo,  vestito  con  le  finanziere  di  panno  che     Tránsito  Ariza avrebbe adattato poi per lui e con una faccia identica     a quella del San Giovanni Evangelista  degli  altari.  Quando  usciva,     dopo  parecchie ore e stando attento che non lo vedesse neanche il suo     cocchiere,  gli dava i soldi  per  le  spese  di  una  settimana.  Non     parlavano,  non  solo  perché il padre non ci provava ma perché lui ne     aveva paura. Un giorno,  dopo aver aspettato molto più del solito,  il     padre gli diede le monete, dicendogli:
    «Prendi e non tornare più.»
    Fu  l'ultima volta che lo vide.  Ma con il tempo avrebbe saputo che lo     zio León Dodicesimo, che era minore di lui di circa dieci anni,  aveva     continuato  a  portare il denaro a Tránsito Ariza,  ed era stato lui a     occuparsi di lei quando Pío Quinto morì  di  una  colica  mal  curata,     senza  lasciare  niente  di  scritto e senza tempo per prendere nessun     provvedimento a favore del suo unico figlio: un figlio della strada.     Il dramma di Florentino Ariza finché  fu  calligrafo  della  Compagnia     Fluviale del Caribe era di non poter eludere il suo lirismo perché non     la  smetteva  di  pensare  a  Fermina Daza e non imparò mai a scrivere     senza pensare a lei. Poi, quando lo passarono ad altri incarichi,  gli     avanzava  tanto  amore dentro che non sapeva che farne,  e lo regalava     agli innamorati implumi scrivendo per loro lettere d'amore gratuite al     Portal de los Escribanos.  Ci andava dopo il lavoro.  Si  toglieva  la     finanziera  con i suoi gesti parsimoniosi e l'attaccava allo schienale     della sedia, si metteva le mezze maniche per non sporcare quelle della     camicia,  si sbottonava il gilè per pensare meglio,  e a volte fino  a     molto tardi di notte rianimava i derelitti con delle lettere da matto.     Una volta ogni tanto incontrava una povera donna che aveva un problema     con  un  figlio,  un  veterano  di guerra che insisteva a reclamare il     pagamento della sua pensione,  qualcuno cui avevano rubato qualcosa  e     voleva  lamentarsi davanti al governo,  ma per quanto si sforzasse non     poteva  accontentarli,   perché  l'unica  cosa  con  cui  riusciva   a     convincere qualcuno era con lettere d'amore. Neanche faceva domande ai     clienti nuovi, perché gli bastava guardarli nel bianco degli occhi per     farsi  carico  del  loro  stato,  e  scriveva  fogli su fogli di amori     calpestati,  usando la formula infallibile di scrivere pensando sempre     a  Fermina Daza e a nient'altro che a lei.  Dopo il primo mese dovette     stabilire un ordine di riserve anticipate  per  non  farsi  travolgere     dalle ansie degli innamorati.
    Il  suo ricordo più gradito di quell'epoca fu quello di una ragazzetta     molto timida, quasi una bambina,  che gli chiese tremante di scriverle     una  risposta  a una lettera irresistibile che aveva appena ricevuto e     che Florentino Ariza riconobbe  come  scritta  da  lui  il  pomeriggio     precedente.  Rispose con uno stile diverso,  concorde con l'emozione e     l'età della bambina,  e con una calligrafia che sembrava anch'essa  di     lei,  perché sapeva fingere una scrittura per ogni occasione a seconda     del carattere di ognuno.  La scrisse immaginandosi quello che  Fermina     Daza  gli  avrebbe  risposto  se  lo  avesse amato tanto quanto quella     creatura sprovveduta amava il suo pretendente. Due giorni dopo,  senza     ritardi,  dovette  scrivere  anche  la risposta dell'innamorato con la     calligrafia,  lo stile e il tipo di amore  che  gli  aveva  attribuito     nella prima lettera,  e fu così che finì per trovarsi coinvolto in una     corrispondenza febbrile con se stesso.  Prima di un mese,  tutti e due     andarono  separatamente a ringraziarlo per quello che lui stesso aveva     proposto nella lettera dell'innamorato e accettato con devozione nella     risposta della ragazza: si sarebbero sposati.
    Solo  quando  ebbero  il  primo  figlio  si  resero   conto   da   una     conversazione  casuale  che  le  lettere  di  tutti  e due erano state     scritte dallo stesso scrivano,  e per la prima volta andarono  insieme     al  Portal  per  nominarlo  padrino  del bambino.  Florentino Ariza si     entusiasmò tanto per l'evidenza pratica dei suoi sogni  che  trovò  il     tempo  da  dove  non  lo  aveva  per  scrivere  un  "Segretario  degli     Innamorati" più poetico e ampio di quello che fino  a  quel  tempo  si     vendeva  per venti centesimi sulle porte e che mezza città conosceva a     memoria.  Catalogò le situazioni immaginabili in cui avrebbero  potuto     trovarsi  Fermina  Daza  e  lui,  e  per  ognuna di loro scrisse tanti     modelli quante alternative di andata e ritorno gli parvero  possibili.     Alla  fine  ebbe  un  migliaio  di  lettere in tre tomi tanto completi     quanto il dizionario di Covarrubias, ma nessuno stampatore della città     si arrischiò a pubblicarli e finirono in qualche abbaino  della  casa,     con  altre  carte  del  passato,  perché  Tránsito  Ariza  si  rifiutò     chiaramente di dissotterrare le anfore  per  svendere  i  risparmi  di     tutta  la  sua  vita  in  una  follia  editoriale.  Anni dopo,  quando     Florentino Ariza ebbe mezzi propri per pubblicare il libro,  gli costò     fatica  ammettere la realtà che ormai le lettere d'amore erano passate
    di moda.
    Mentre lui faceva i primi passi nella Compagnia Fluviale del Caribe  e     scriveva  lettere  gratis  al  Portal de los Escribanos,  gli amici di     gioventù di Florentino Ariza avevano la certezza di perderlo a poco  a     poco  e  definitivamente.  Ed  era  proprio  così.  Quando ritornò dal     viaggio sul fiume vedeva ancora qualcuno di loro con  la  speranza  di     attenuare i ricordi di Fermina Daza,  giocava a biliardo con loro, era     andato ai loro ultimi balli,  si prestava  all'eventualità  di  essere     riffato  tra  le ragazze,  si prestava a tutto quello che gli sembrava     buono per ritornare a essere quello che era stato. Poi,  quando lo zio     León  Dodicesimo  lo accreditò come impiegato,  giocava a domino con i     suoi colleghi d'ufficio al Club del Comercio,  e questi incominciarono     a  riconoscerlo come uno dei loro quando ormai non parlava più d'altro     se non della compagnia di navigazione, che non menzionava col suo nome     completo ma con le sole iniziali: la C.F.C.  Cambiò persino il modo di     mangiare. Da indifferente e irregolare come era stato fino ad allora a     tavola, divenne abitudinario e austero fino alla fine dei suoi giorni:     una  tazza  grande  di  caffè nero alla prima colazione,  una fetta di     pesce bollito con riso in bianco a pranzo,  e una tazza di caffellatte     con  un  pezzo  di formaggio prima di coricarsi.  Beveva caffè nero in     ogni momento, da qualsiasi parte e in qualsiasi circostanza,  e fino a     trenta  tazzine  al  giorno:  un infuso uguale al petrolio greggio che     preferiva prepararsi lui stesso,  e che aveva sempre in un  thermos  a     portata di mano.  Era un altro, contro il suo proposito fermo e i suoi     sforzi ansiosi di continuare a essere la stessa persona che era  stata     prima dell'inciampo mortale dell'amore.
    La  verità  è  che  non sarebbe mai tornato a esserlo.  Il recupero di     Fermina Daza fu l'obbiettivo unico della sua vita,  ed era così sicuro     di  averla  prima o poi,  da convincere Tránsito Ariza a proseguire il     restauro della casa perché fosse in grado di accoglierla in  qualsiasi     momento  succedesse  il  miracolo.  Diversamente  dalla  sua  reazione     davanti alla proposta editoriale del  "Segretario  degli  Innamorati",     Tránsito  Ariza  andò  allora  molto  più  lontano:  comprò la casa in     contanti,  e incominciò il suo completo rinnovamento.  Fecero una sala     da ricevimento in quella che era stata la camera da letto, costruirono     al  piano  di sopra una camera da letto per gli sposi e un'altra per i     figli che avrebbero avuto,  tutte e due molto ampie e ben luminose,  e     nello  spazio  della  vecchia  manifattura  di tabacco fecero un vasto     giardino di ogni tipo  di  rose  cui  Florentino  Ariza  personalmente     consacrò  i  suoi ozi mattutini.  L'unico a restare intatto,  come una     testimonianza di gratitudine verso il  passato,  fu  il  locale  della     merceria.  Il retrobottega dove dormiva Florentino Ariza lo lasciarono     com'era sempre stato,  con l'amaca attaccata  e  il  tavolone  su  cui     scriveva  pieno di libri in disordine,  ma lui se ne andò nella stanza     prevista come alcova matrimoniale al piano di sopra. Questa era la più     grande e fresca della casa,  e aveva una  terrazza  interna  dove  era     piacevole  stare  la  notte  per la brezza del mare e il profumo delle     rose, ma era anche quella che corrispondeva meglio al rigore trappista     di Florentino Ariza. I muri erano lisci e scabri, di calce viva, e non     aveva altri mobili oltre a un letto da ergastolano,  un tavolinetto da     notte con una candela nel collo di una bottiglia, un vecchio armadio e     un lavamano con la sua brocca e la sua catinella.
    I  lavori  durarono  quasi  tre  anni,  e  coincisero  con una ripresa     momentanea della città,  per il  momento  di  auge  della  navigazione     fluviale e del commercio di passaggio,  gli stessi fattori che avevano     fatto la sua grandezza durante la Colonia e la trasformarono  per  più     di  due secoli nella porta dell'America.  Però quella fu anche l'epoca     in cui Tránsito Ariza manifestò i primi  sintomi  della  sua  malattia     inguaribile. Le sue clienti di sempre venivano sempre più vecchie alla     merceria,  più pallide e sfuggenti, e lei non le riconosceva dopo aver     trattato con loro per mezza vita,  o confondeva le cose  dell'una  con     quelle  dell'altra.  La  qual cosa era molto grave in traffici come il     suo, in cui non si firmavano carte per proteggere l'onore,  il proprio     e quello degli altri,  e la parola d'onore si dava e si accettava come     garanzia sufficiente. All'inizio parve che stesse diventando sorda, ma     subito dopo fu evidente che era la memoria a scivolare via dai  buchi.     Così,  liquidò il banco dei pegni, e con il tesoro delle anfore riuscì     a finire e ad ammobiliare la casa,  e rimasero ancora  d'avanzo  molti     dei  gioielli  antichi più pregevoli della città i cui proprietari non     ebbero fondi per riscattarli.
    Florentino Ariza doveva attendere  allora  a  troppi  incarichi  nello     stesso  tempo,  ma non gli si infiacchì mai l'energia per accrescere i     suoi affari di cacciatore furtivo.  Dopo l'esperienza vagabonda con la     vedova di Nazaret, che gli aprì la via degli amori di strada, continuò     a  cacciare  le  comete  orfane della notte per vari anni,  ancora con     l'illusione di trovare un sollievo al dolore per Fermina Daza.  Ma poi     non  poté  più  dire  se  la sua abitudine di fornicare senza speranze     fosse una necessità della coscienza o un  semplice  vizio  del  corpo.     Andava  sempre  meno  alla  locanda,  non solo perché i suoi interessi     seguivano altri cammini  ma  anche  perché  non  gli  piaceva  che  lo     vedessero  lì  in peripezie diverse da quelle molto domestiche e caste     che ormai gli conoscevano.  Tuttavia,  in tre  casi  di  bisogno  fece     appello  alla  facile  trovata  di un'epoca che lui non aveva vissuto:     mascherava da uomini le amiche timorose  di  essere  riconosciute,  ed     entravano  insieme  nella locanda con arie da gozzovigliatori vissuti.     Non mancò chi si accorse perlomeno in due occasioni che lui e  il  suo     presunto  accompagnatore  non  andavano  al  bar  ma  in camera,  e la     reputazione già abbastanza incrinata di Florentino Ariza subì il colpo     di grazia.  Alla fine smise di andarci,  e le pochissime volte che  lo     fece  non  era  per  recuperare  gli  arretrati,   ma  esattamente  il     contrario: cercare un rifugio per rimettersi dagli eccessi.
    Non era per meno.  Non appena lasciava l'ufficio,  verso le cinque del     pomeriggio,  già  andava  nelle  sue  cacce  da  sparviero  pollaiolo.
    All'inizio si  accontentava  di  quello  che  gli  offriva  la  notte.     Reclutava  donne di servizio ai giardini,  negre al mercato,  damerine     alla spiaggia,  straniere sulle navi di New Orleans.  Le portava  agli     scogli  dove  mezza  città  faceva  lo  stesso dal calar del sole,  le     portava dove poteva,  e a volte anche  dove  non  poteva,  perché  non     furono poche le occasioni in cui dovette rintanarsi frettolosamente in     un  portone  scuro e fare quel che si poteva in qualche modo dietro il     portone.
    La torre del faro fu sempre un rifugio fortunato che lui  evocava  con     nostalgia   quando   ormai  aveva  risolto  tutto  agli  albori  della     vecchiaia, perché era un luogo buono per essere felici, soprattutto di     notte,  e pensava che qualcosa dei suoi amori di quell'epoca arrivasse     ai  naviganti  in  ogni  giro degli sprazzi di luce.  Così continuò ad     andare lì,  più che in qualsiasi altra parte,  mentre il suo amico del     faro lo riceveva incantato, con una faccia da scemo che era la maggior     prova  di discrezione per le comete spaventate.  C'era una casa sotto,     vicino al fragore delle onde che si rovesciavano contro le rocce, dove     l'amore era più intenso perché aveva un che di  naufragio.  Florentino     Ariza  però preferiva la torre della luce dopo la prima notte,  perché     si vedeva tutta la città e la scia luminosa dei pescatori sul mare,  e     perfino sulle paludi lontane.
    Risalivano a quell'epoca le sue teorie più semplicistiche sul rapporto     tra il fisico delle donne e le sue attitudini amatorie.  Diffidava del     tipo sensuale,  quelle che sembravano capaci  di  mangiarsi  crudo  un     caimano e che di solito a letto erano le più passive.  Il suo tipo era     l'opposto: quelle ranocchiette  squallide  per  le  quali  nessuno  si     prendeva  la  fatica  di  voltarsi  a  guardare  per  la  strada,  che     sembravano restare senza niente quando si toglievano  i  vestiti,  che     facevano  pena  per  lo scricchiolio delle ossa al primo impatto e che     però potevano lasciare il più chiacchierone dei  corteggiatori  pronto     per   il   secchio   dell'immondizia.   Aveva  preso  nota  di  quelle     osservazioni premature con l'intenzione  di  scrivere  un  supplemento     pratico  del  "Segretario  degli  Innamorati",  ma il progetto subì la     stessa sorte di quello  precedente  dopo  che  Ausencia  Santander  lo     rovesciò  al dritto e al rovescio con la sua saggezza da cane vecchio,     lo prese di petto, lo alzò e lo abbassò, lo ripartorì come nuovo, fece     trecce delle sue virtù teoriche e gli insegnò l'unica cosa che  doveva     imparare per l'amore: che la vita non te la insegna nessuno.
    Ausencia   Santander  aveva  avuto  un  matrimonio  convenzionale  per     vent'anni da cui le erano rimasti tre figli che a loro volta si  erano     sposati e avevano avuto figli, in modo che lei si vantava di essere la     nonna col miglior letto della città.  Non fu mai chiaro se fosse stata     lei ad abbandonare il marito o se fosse stato lui ad abbandonare  lei,     o  se tutti e due si fossero abbandonati contemporaneamente quando lui     se ne andò a vivere con la sua amante  per  sempre,  e  lei  si  sentì     libera  di  ricevere in pieno giorno dalla porta principale Rosendo de     la Rosa,  capitano di battello fluviale,  che aveva ricevuto di  notte     molte volte dalla porta sul retro.  Fu lui stesso,  senza pensarci due     volte, a portare Florentino Ariza.
    Lo portò a pranzo.  Portò anche una damigiana di  acquavite  fatta  in     casa  e  gli  ingredienti  della  miglior  qualità per fare un bollito     epico, come solo si poteva fare con le galline ruspanti,  la carne con     le  ossa  tenere,  il  maiale  di letamaio e i legumi e le verdure dei     villaggi del fiume.  Florentino  Ariza,  però,  non  si  mostrò  tanto     entusiasta  fin dal primo momento per l'eccellenza della cucina né per     l'esuberanza della padrona di casa quanto per la bellezza della  casa.     Gli piaceva di per sé,  luminosa e fresca, con quattro grandi finestre     sul mare,  e in fondo la  vista  completa  della  città  vecchia.  Gli     piacevano la quantità e lo splendore delle cose,  che davano alla sala     un aspetto confuso e nello stesso tempo rigoroso,  con tutti i tipi di     perfezioni  artigianali  che  il  capitano Rosendo de la Rosa le aveva     portato da ogni viaggio,  finché non ci fu più posto per una  di  più.     Sulla terrazza sul mare, appollaiato sul suo cerchio privato, c'era un     cacatua  della Malesia con le piume di un bianco inverosimile e la sua     tranquillità pensierosa che dava parecchio da pensare:  l'animale  più     bello che Florentino Ariza avesse mai visto.
    Il   capitano   Rosendo  de  la  Rosa  si  entusiasmò  dell'entusiasmo     dell'invitato e gli raccontò nei particolari la storia di ogni cosa. E     mentre lo faceva, beveva acquavite a piccoli sorsi ma incessantemente.     Sembrava di cemento armato: enorme, peloso in tutto il corpo salvo che     in testa,  con dei baffi da pennellessa e una voce da argano  che  non     poteva  essere  se  non  sua,  e  di  una gentilezza squisita.  Ma non     esisteva corpo capace di resistere al  suo  modo  di  bere.  Prima  di     sedersi  a  tavola si era scolato metà damigiana,  e cadde bocconi sul     gran vassoio  di  bicchieri  e  bottiglie  con  un  lento  fragore  di     demolizione.  Ausencia  Santander  dovette chiedere aiuto a Florentino     Ariza  per  trascinare  fino  al  letto  il  corpo  inerte  da  balena     incagliata e per spogliarlo ancora addormentato.  Poi,  in una vampata     di ispirazione per cui  loro  furono  grati  alla  congiunzione  degli
    astri, si spogliarono tutti e due nella stanza di fianco senza essersi     messi  d'accordo,  senza esserselo nemmeno suggerito,  senza esserselo     proposto,  e continuarono a spogliarsi non appena potevano per più  di     sette anni,  quando il capitano era in viaggio.  Non c'erano rischi di     sorprese perché lui aveva l'abitudine da buon  navigante  di  avvisare     del  suo  arrivo in porto con la sirena del battello,  anche all'alba,     prima con tre bramiti lunghi per la moglie e i loro nove figli  e  poi     con due interrotti e melanconici per l'amante.
    Ausencia Santander aveva quasi cinquant'anni e lo si notava,  ma aveva     anche un istinto così personale per l'amore che non esistevano  teorie     artigianali  né scientifiche capaci di intorpidirlo.  Florentino Ariza     sapeva dagli itinerari dei battelli  quando  poteva  visitarla,  e  ci     andava  sempre  senza  preavviso all'ora che voleva del giorno o della     notte, e non ci fu una sola volta in cui lei non stesse ad aspettarlo.     Gli apriva la porta come sua madre l'aveva fatta  per  tutti  i  sette     anni: completamente nuda, ma con un fiocco di organza sulla testa. Non     gli  lasciava  fare  neanche  un  passo  in  più prima di togliergli i     vestiti,  perché aveva sempre pensato che  fosse  di  cattivo  augurio     tenere  un uomo vestito in casa.  Questo fatto fu motivo di disaccordo     costante con il capitano Rosendo de  la  Rosa,  perché  lui  aveva  la     superstizione  che fumare nudo fosse di malaugurio e a volte preferiva     rimandare l'amore piuttosto che spegnere  il  suo  infallibile  sigaro     cubano. Florentino Ariza, invece, era molto portato agli incanti della     nudità,  e lei gli toglieva gli abiti con un diletto sicuro non appena     chiudeva la porta,  senza dargli neanche il tempo di salutarla  né  di     togliersi  il  cappello  né  gli  occhiali,  baciandolo  e lasciandosi     baciare con baci sgranati,  e slacciandogli i  bottoni  dal  basso  in     alto,  prima quelli dei calzoni,  uno per uno dopo ogni bacio,  poi la     fibbia della cintura, e infine il gilè e la camicia,  fino a lasciarlo     come un pesce vivo sventrato delle interiora.  Poi lo metteva a sedere     in sala e gli toglieva le scarpe,  gli tirava via  i  pantaloni  dalle     gambe  per  toglierglieli  contemporaneamente ai mutandoni lunghi fino     alle caviglie,  e infine gli sbottonava le giarrettiere elastiche  dei     polpacci e gli toglieva le calze.  Florentino Ariza smetteva allora di     baciarla e di farsi baciare per fare l'unica cosa che gli  toccava  in     quella    cerimonia   puntuale:   scioglieva   l'orologio   a   catena     dall'occhiello del gilè e si toglieva gli occhiali,  e metteva tutti e     due  gli  oggetti  nelle scarpe per essere sicuro di non dimenticarli.     Prese  sempre  quella  precauzione,   sempre  senza  fallo  quando  si     spogliava in casa d'altri.
    Non  sempre  riusciva  a  farlo quando lei lo assaliva senza dargli il     tempo di niente, già subito sullo stesso sofà dove aveva appena finito     di spogliarlo, e solo una volta ogni tanto a letto. Si avventava sotto
    di lui e si impadroniva di tutto lui per tutta lei,  chiusa dentro  se     stessa,  esplorando a occhi chiusi la sua assoluta oscurità interiore,     avanzando in  un  senso,  retrocedendo,  correggendo  il  suo  cammino     invisibile, cercando un'altra via più intensa, un altro modo di andare     senza  naufragare  nel marasma di mucillagine che scorreva giù dal suo     ventre, chiedendosi e rispondendo a se stessa con un ronzio da ape nel     suo gergo nativo dove stava quel qualcosa nelle tenebre che  solo  lei     conosceva e desiderava solo per lei, finché soccombeva senza aspettare     nessuno e precipitava da sola nel suo abisso con un'esplosione gioiosa     di  vittoria  totale  che  faceva  tremare il mondo.  Florentino Ariza     restava esausto,  incompleto,  galleggiante nella pozza di  sudore  di     ambedue  ma con l'impressione di non essere altro che uno strumento di     godimento. Diceva: «Mi tratti come se fossi uno in più dei tanti». Lei     rideva con un riso di femmina libera e diceva: «Al contrario: come  se     fossi  uno in meno».  Ma lui restava con l'impressione che tutto se lo     prendesse lei con una voracità meschina, e gli si rivoltava l'orgoglio     e  usciva  dalla  sua  casa  deciso  a  non  tornare   mai   più.   Ma     improvvisamente  si  svegliava senza motivo,  con la tremenda lucidità     della solitudine nel  mezzo  della  notte,  e  il  ricordo  dell'amore     astratto di Ausencia Santander gli si rivelava per quello che era: una     trappola  della felicità che lui aborriva e anelava al tempo stesso ma     dalla quale gli era impossibile scappare.
    Una domenica qualsiasi,  dopo due anni che si  conoscevano,  la  prima     cosa  che  lei  fece  quando lui arrivò,  invece di spogliarlo,  fu di     togliergli gli occhiali per baciarlo meglio, e in quel modo Florentino     Ariza seppe che lei aveva incominciato ad amarlo.  Nonostante si fosse     sentito  così bene fin dal primo giorno in quella casa che ormai amava     come sua, non ci era rimasto mai più di due ore ogni volta,  né si era     fermato  mai  a dormire,  e solo una volta a mangiare,  perché lei gli     aveva fatto un invito formale.  In realtà non andava se non per quello     per cui andava,  portando sempre l'unico dono di una rosa solitaria, e     spariva fino all'imprevedibile occasione successiva. Ma la domenica in     cui lei gli tolse gli occhiali per baciarlo,  in parte per quello e in     parte   perché   restarono  addormentati  dopo  un  amore  tranquillo,     passarono il  pomeriggio  nudi  nell'enorme  letto  del  capitano.  Al     risveglio dalla siesta,  Florentino Ariza conservava ancora il ricordo     degli urli del cacatua,  i  cui  suoni  stridenti  andavano  in  senso     contrario  rispetto alla sua bellezza.  Ma il silenzio era trasparente     nel calore delle quattro,  e dalla finestra della camera da  letto  si     vedeva  il profilo della città vecchia con il sole del pomeriggio alle     spalle,  le sue cupole  dorate,  il  suo  mare  in  fiamme  fino  alla     Giamaica.  Ausencia  Santander  tese  la  mano avventuriera cercando a     tastoni l'animale che giaceva ma Florentino  Ariza  gliela  allontanò.
    Disse:  «Adesso  no:  sento  una  cosa  strana,  come  se  ci stessero     vedendo».  Lei tornò a sconvolgere il cacatua  col  suo  riso  felice.     Disse: «Quel pretesto non lo beve neanche la moglie di Giona». Neanche     lei,  certo,  ma lo diede per buono, e ambedue si amarono per un lungo     momento in silenzio senza rifare l'amore.  Alle cinque,  con  il  sole     ancora  alto,  lei  saltò giù dal letto,  nuda per l'eternità e con il     fiocco di organza sulla testa,  e andò a cercare qualcosa da  bere  in     cucina.  Ma non riuscì a fare un passo fuori della camera da letto che     lanciò un grido di terrore.
    Non ci poteva credere.  Gli unici oggetti che restavano in casa  erano     le  lampade  attaccate  al  soffitto.  Il resto,  i mobili firmati,  i     tappeti indiani,  le statue e gli arazzi,  gli innumerevoli ninnoli di     pietre e metalli preziosi, tutto quanto aveva fatto della sua casa una     delle più gradevoli e meglio arredate della città,  tutto,  persino il     cacatua sacro,  tutto  era  sparito.  Se  l'erano  portato  via  dalla     terrazza  sul  mare senza disturbare l'amore.  Restavano solo i saloni     deserti con le quattro finestre aperte, e una scritta dipinta a grosse     lettere sul muro in fondo: "Questo  vi  succede  perché  continuate  a     scopare".  Il  capitano  Rosendo de la Rosa non poté mai capire perché     Ausencia Santander non denunciò il furto,  né prese alcun contatto con     i  trafficanti di cose rubate,  né permise che si riparlasse della sua     disgrazia.
    Florentino  Ariza  continuò  ad   andare   a   trovarla   nella   casa     saccheggiata,  il cui mobilio si ridusse a tre sgabelli di cuoio che i     ladri avevano dimenticato in  cucina  e  alla  stanza  da  letto  dove     stavano  loro.  Ma la visitò con minor frequenza di prima,  non per la     desolazione della casa,  come lei supponeva e glielo disse,  ma per la     novità del tram a mule all'inizio del nuovo secolo,  che fu per lui un     nido prodigo e originale di comete libere.  Lo prendeva quattro  volte     al giorno,  due per andare in ufficio e due per ritornare a casa,  e a     volte mentre leggeva veramente, e la maggior parte delle volte facendo     finta di leggere,  riusciva almeno a stabilire i primi contatti per un     appuntamento successivo. Più tardi, quando lo zio León Dodicesimo mise     a  sua  disposizione  una carrozza tirata da due mulette grigie con le     gualdrappe dorate, uguali a quelle del presidente Rafael Núnez, doveva     rimpiangere i tempi del tram come i più fruttiferi delle sue peripezie     da falconiere.  Aveva ragione: non c'era peggior  nemico  degli  amori     segreti  di  una  carrozza che aspettava sulla porta.  Tanto che quasi     sempre la lasciava nascosta a casa sua e se ne andava a piedi nei suoi     giri di caccia perché non restassero  neanche  i  solchi  delle  ruote     nella polvere.  Per quello evocava con tanta nostalgia il vecchio tram     con le sue mule macilente, piene di spelature, dentro al quale bastava     uno sguardo di sghembo per sapere dove  stava  l'amore.  Tuttavia,  in     mezzo a tanti ricordi commoventi, non riusciva a evitare quello di una     cometa abbandonata il cui nome non conobbe mai e con la quale riuscì a     vivere  solo  una  mezza  notte  frenetica,  che  però era bastata per     amareggiargli per il  resto  della  vita  gli  eccessi  innocenti  del     carnevale.
    Aveva  richiamato  la  sua attenzione nel tram per il coraggio con cui     viaggiava in mezzo allo scandalo  della  festa  pubblica.  Non  doveva     avere più di vent'anni e non sembrava che avesse voglie carnevalesche,     se  non fosse stato che era mascherata da matta: aveva i capelli molto     chiari, lunghi e lisci, sciolti al naturale sulle spalle,  e una veste     di  tela comune senza nessun ornamento.  Era completamente estranea al     caos di musiche delle strade,  alle manciate di polvere  di  riso,  ai     getti di anilina che tiravano ai passeggeri al passaggio del tram,  le     cui mule giravano bianche di amido e con  cappelli  di  fiori  durante     quei tre giorni di follia.  Approfittando della confusione, Florentino     Ariza la invitò a prendere un gelato,  perché non  pensò  che  potesse     dare di più.  Lei lo guardò senza sorpresa.  Disse: «Accetto con molto     piacere, ma l'avviso che sono pazza». Lui rise della cosa e la portò a     vedere la sfilata dei carri dal balcone della gelateria.  Poi si  mise     un mantello col cappuccio preso a nolo, e tutti e due si gettarono nel     giro  di  danze  di Plaza de la Aduana,  e si divertirono insieme come     fidanzati appena fatti,  ma l'indifferenza  di  lei  andò  all'estremo     opposto  del fragore della notte: ballava come una professionista,  ed     era fantasiosa e audace per la festa, e di una bellezza travolgente.     «Non sai la bella seccatura in cui ti sei messo con me» gridava  morta     di risa nella febbre del carnevale. «Sono una pazza da manicomio.»     Per  Florentino  Ariza  quella  era  una notte di ritorno ai disordini     candidi dell'adolescenza, quando ancora l'amore non lo aveva rovinato.     Ma sapeva,  più per rinsavimento che per esperienza,  che una felicità     così  facile non poteva durare molto tempo.  Così,  prima che la notte     incominciasse a venir meno,  come succedeva sempre dopo l'assegnazione     dei  premi  alle  maschere migliori,  propose alla ragazza di andare a     vedere insieme l'alba dal faro.  Lei accettò compiaciuta,  ma dopo che     avessero finito di assegnare i premi.
    A  Florentino  Ariza  restò  la  certezza  che quel ritardo gli avesse     salvato la vita.  In effetti,  la ragazza gli aveva fatto un cenno  di     andarsene  al  faro,  quando due cerberi e un'infermiera del manicomio     della Divina Pastora le si buttarono addosso.  La cercavano da  quando     era scappata, alle tre del pomeriggio, non solo loro ma tutta la forza     pubblica.  Aveva decapitato un guardiano e ferito gravemente altri due     con un machete che aveva portato  via  al  giardiniere  perché  voleva     uscire  a ballare nel carnevale.  Ma a nessuno era venuto in mente che     stesse ballando per strada,  bensì che fosse  nascosta  in  una  delle     tante case che avevano perquisito persino nelle cisterne.
    Non  fu  facile  portarla  via.  Si difese con delle cesoie che teneva     nascoste nel corpetto,  e furono necessari sei uomini per metterle  la     camicia  di  forza,  mentre  la folla che ingorgava Plaza de la Aduana     applaudiva  e  fischiava  festosamente,   credendo  che   la   cattura     sanguinosa fosse una delle tante farse del carnevale. Florentino Ariza     rimase  distrutto,  e dal Mercoledì delle Ceneri passava per la strada     della Divina Pastora con una scatola di cioccolatini inglesi per  lei.     Si  fermava  a  guardare  le  recluse  che  gli gridavano ogni tipo di     improperi e galanterie  dalle  finestre,  le  faceva  agitare  con  la     scatola  di  cioccolatini,  nel  caso fortunato che anche lei si fosse     affacciata tra le sbarre di ferro.  Ma non la  vide  mai.  Mesi  dopo,     scendendo dal tram a mule, una bambinetta che andava con suo padre gli     chiese  un  dolcino di cioccolato della scatola che aveva in mano.  Il     padre la rimproverò e chiese scusa a Florentino Ariza.  Ma  lui  diede     tutta  la  scatola  alla  bambina  pensando  che quel gesto lo avrebbe     redento da ogni amarezza,  e calmò  il  padre  con  una  manata  sulla     spalla.
    «Erano per un amore che se n'è andato al diavolo» gli disse.
    Come  una  compensazione  del  destino,  fu sempre sul tram a mule che     Florentino Ariza conobbe Leona Cassiani,  che fu la vera  donna  della     sua  vita,  anche  se  né  lui  né  lei lo seppero mai,  né fecero mai     l'amore.  Lui l'aveva sentita prima di vederla mentre stava tornando a     casa col tram delle cinque: fu uno sguardo materiale che lo toccò come     se  fosse  stato  un  dito.  Alzò  gli occhi e la vide,  all'estremità     opposta,  ma ben definita fra gli altri passeggeri.  Lei non spostò lo     sguardo.  Anzi:  lo  sostenne  con  tanta  impudenza  che lui non poté     pensare altro se non quello che pensò: negra,  giovane  e  carina,  ma     senza  ombra di dubbio puttana.  La scartò dalla sua vita,  perché non     poteva immaginare niente di più indegno che  pagare  l'amore:  non  lo     fece mai.
    Florentino  Ariza  scese a Plaza de los Coches,  che era il capolinea,     guizzò in tutta fretta attraverso il labirinto dei negozi  perché  sua     madre lo aspettava alle sei, e quando uscì dall'altro lato della folla     sentì  il  tacchettare  di  donna  allegra  sul selciato,  e si girò a     guardare per convincersi di  quello  che  già  sapeva:  era  lei.  Era     vestita come le schiave delle stampe, con una sottana a volants che si     alzava  con  un  gesto  da ballerina per superare le pozzanghere delle     strade,  una scollatura  che  le  lasciava  le  spalle  scoperte,  una     combinazione  di  collane  colorate  e  un  turbante  bianco.  Lui  le     conosceva nella locanda.  Succedeva spesso che alle sei del pomeriggio     stessero  ancora  con  la prima colazione,  e allora non avevano altra     risorsa che usare il sesso come un coltello da ladro di strada,  e  lo     mettevano  contro  la  gola  al  primo che incontravano per la strada:     l'asta o la vita.  In cerca di  una  prova  finale,  Florentino  Ariza     cambiò percorso, prese per il vicolo deserto di El Candilejo, e lei lo     seguì sempre più da vicino. Allora lui si fermò, si girò, le chiuse il     passo sul marciapiede appoggiato all'ombrello con le due mani. Lei gli     si fermò davanti.
    «Ti sbagli, carina» disse lui, «io non lo do.»
    «Certo che sì» disse lei, «te lo si legge in faccia.»
    Florentino  Ariza si ricordò di una frase che aveva sentito da bambino     dal medico  di  famiglia,  il  suo  padrino,  a  proposito  della  sua     stitichezza  cronica:  «Il mondo è diviso fra quelli che cagano bene e     quelli che cagano male». Su quel dogma il medico aveva elaborato tutta     una teoria del carattere che considerava più  giusta  dell'astrologia.     Ma  con  le  lezioni degli anni Florentino Ariza l'impostò in un altro     modo: «Il mondo è diviso tra quelli  che  scopano  e  quelli  che  non     scopano».  Diffidava di questi ultimi: quando uscivano di carreggiata,     era per loro qualcosa di così insolito  che  si  vantavano  dell'amore     come  se  l'avessero appena inventato.  Quelli che lo facevano spesso,     invece,  vivevano solo per  questo.  Si  sentivano  talmente  bene  da     comportarsi come sepolcri sigillati,  perché sapevano che la loro vita     dipendeva dalla discrezione.  Non parlavano mai delle  loro  prodezze,     non si confidavano con nessuno,  facevano i distratti fino al punto di     guadagnarsi fama di impotenti, di frigidi,  e soprattutto di invertiti     timidi,  com'era nel caso di Florentino Ariza.  Si compiacevano, però,     dell'equivoco, perché anche l'equivoco li proteggeva. Erano una loggia     ermetica i cui associati si riconoscevano fra loro  nel  mondo  intero     senza  bisogno  di  un  idioma comune.  Da qui il fatto che Florentino     Ariza non si fosse sorpreso della risposta della ragazza: era una  dei     loro, e quindi sapeva che lui sapeva che lei sapeva.
    Fu  l'errore  della  sua  vita,  come  gli  avrebbe  ricordato  la sua     coscienza a ogni ora di ogni giorno fino all'ultimo giorno. Quello che     lei voleva chiedergli non era amore, e tantomeno amore a pagamento, ma     un impiego di qualsiasi genere,  come fosse e con la paga  che  fosse,     nella Compagnia Fluviale del Caribe. Florentino Ariza si vergognò così     tanto della sua condotta che la portò dal capo del personale, e questo     le  diede  un  posto  di infima categoria nel settore generale che lei     disimpegnò con serietà, modestia e dedizione per tre anni.     Gli uffici della  C.F.C.  erano  situati  fin  dalla  loro  fondazione     davanti  al  molo  fluviale,  senza  niente in comune con il porto dei     transatlantici sul lato  opposto  della  baia  né  con  l'approdo  del     mercato  nella baia di Las Animas.  Era un edificio di legno con tetto     di zinco con due spioventi,  un solo balcone lungo con pilastri  sulla     facciata,  e  diverse  finestre  con  reti di fil di ferro sui quattro
    lati,  dalle quali si vedevano tutti i battelli al  molo  come  quadri     attaccati  alla  parete.   Quando  l'avevano  costruito  i  precursori     tedeschi,  avevano dipinto di rosso lo zinco dei  tetti  e  di  bianco     squillante le assi di legno,  in modo che lo stesso edificio avesse un     che di battello fluviale.  Poi lo avevano dipinto tutto di azzurro,  e     ai  tempi  in cui Florentino Ariza cominciò a lavorare nella ditta era     un capannone polveroso senza un colore definito,  e sul tetto ossidato     c'erano   pezze  di  lamine  nuove  sulle  lamine  originali.   Dietro     all'edificio,  in un cortile di pietruzze recintato da fil di ferro da     pollaio, c'erano due grandi magazzini di costruzione più recente, e in     fondo c'era un canale,  sporco e maleodorante, dove si imputridivano i     rifiuti di mezzo secolo di navigazione fluviale: rottami  di  battelli     storici, da quelli primitivi a una sola ciminiera, inaugurati da Simón     Bolívar, fino ad altri così recenti da avere già ventilatori elettrici     nelle  cabine.  La  maggioranza  di  loro  era  stata  smantellata per     utilizzare i materiali su altri battelli, ma molti erano in così buono     stato che sembrava possibile dargli una mano di pittura e  metterli  a     navigare,  senza  scacciare  le  iguane e senza diboscare le fronde di     grandi fiori gialli che li rendevano più nostalgici.
    Al primo piano  dell'edificio  c'era  il  settore  amministrativo,  in     uffici  piccoli  ma  comodi  e  ben  equipaggiati,  come le cabine dei     battelli,  perché non erano stati fatti da  architetti  civili  ma  da     ingegneri  navali.  Alla fine del corridoio,  come un altro impiegato,     lavorava lo zio León Dodicesimo in  un  ufficio  uguale  a  tutti  gli     altri,  con  l'unica differenza che lui trovava tutte le mattine sulla     sua scrivania un vaso di vetro con qualsiasi tipo di fiore  profumato.     Al pianterreno c'era il settore passeggeri,  con una sala d'attesa con     panche rustiche e  un  banco  per  la  vendita  dei  biglietti  e  per     l'organizzazione  degli  equipaggi.  In fondo a tutto c'era il confuso     settore generale,  il cui solo nome dava un'idea  della  vaghezza  dei     suoi attributi,  e dove andavano a morire di mala morte i problemi che     restavano senza soluzione nel resto della compagnia.  Lì  stava  Leona     Cassiani,  persa  dietro un banco da scuola fra un mucchio di colli di     mais stivati e scartoffie senza soluzione,  il giorno in  cui  lo  zio     León  Dodicesimo  in persona andò a vedere che cosa diavolo gli veniva     in mente per far sì che il settore generale servisse a qualcosa.  Dopo     tre  ore  di domande,  di ipotesi teoriche e di verifiche concrete con     tutti gli impiegati riuniti,  tornò nel suo ufficio  tormentato  dalla     certezza di non aver trovato nessuna soluzione per tanti problemi,  ma     esattamente  il  contrario:  nuovi  e  diversi  problemi  per  nessuna     soluzione.
    Il giorno dopo,  quando Florentino Ariza entrò nel suo ufficio,  trovò     un memorandum di Leona Cassiani,  con la preghiera di studiarlo  e  di     mostrarlo poi a suo zio, se gli sembrava pertinente. Era l'unica a non     aver  detto  una parola durante l'ispezione del pomeriggio precedente.     Si era doverosamente attenuta alla sua degna condizione  di  impiegata     per  carità,  ma  nel memorandum faceva notare di non averlo fatto per     negligenza bensì per rispetto alle gerarchie del settore.  Era di  una     semplicità  allarmante.  Lo  zio  León  Dodicesimo si era proposto una     ristrutturazione generale,  ma Leona  Cassiani  la  pensava  in  senso     contrario,  per  la  semplice logica che il settore generale in realtà     non esisteva: era l'immondezzaio dei problemi noiosi ma insignificanti     che gli altri settori si scrollavano di dosso. La soluzione quindi era     di eliminare il  settore  generale  e  restituire  i  problemi  perché     fossero risolti nei loro settori di origine.
    Lo  zio  León  Dodicesimo  non aveva la minima idea di chi fosse Leona     Cassiani né si ricordava di aver visto  nessuno  che  potesse  esserlo     nella   riunione  del  pomeriggio  precedente,   ma  quando  lesse  il     memorandum la chiamò nel suo ufficio e rimase  a  parlare  con  lei  a     porte chiuse per due ore. Parlarono un po' di tutto, secondo il metodo     che  lui  usava per conoscere la gente.  Il memorandum era di semplice     buon senso e la soluzione,  in effetti,  diede il risultato richiesto.     Ma allo zio León Dodicesimo non importava: a lui importava lei. Quello     che  più  richiamò la sua attenzione fu che i suoi unici studi dopo le     elementari erano stati alla Scuola di Modisteria.  Per  di  più  stava     imparando  l'inglese a casa sua con un metodo rapido senza insegnante,     e da tre mesi seguiva corsi serali di dattilografia, un nuovo mestiere     di grande avvenire,  come prima si diceva del telegrafo e  come  prima     ancora si era detto delle macchine a vapore.
    Quando   uscì  dal  colloquio  ormai  lo  zio  León  Dodicesimo  aveva     incominciato a  chiamarla  come  l'avrebbe  chiamata  sempre:  omonima     Leona.  Aveva  deciso  di  eliminare con un tratto di penna il settore     conflittuale e di ripartire  i  problemi  perché  fossero  risolti  da     quelli  stessi  che  li  creavano,  secondo  il  suggerimento di Leona     Cassiani,  e aveva inventato per lei  un  posto  senza  nome  e  senza     funzioni  specifiche  che  in  pratica  era  quello  di sua assistente     personale.  Quel pomeriggio,  dopo il funerale senza onori del settore     generale,  lo  zio  León  Dodicesimo  domandò  a Florentino Ariza dove     avesse scovato Leona Cassiani, e lui gli rispose la verità.
    «E allora torna al tram e portami tutte quelle che trovi come lei» gli     disse lo zio. «Con due o tre così tiriamo a galla il tuo galeone.»     Florentino Ariza lo prese come  uno  scherzo  tipico  dello  zio  León     Dodicesimo,  ma  il  giorno  dopo  si  trovò senza la carrozza che gli     avevano assegnato sei mesi prima e che ora gli  toglievano  per  farlo     continuare  a cercare talenti occulti sui tram.  A Leona Cassiani,  da     parte sua, finirono molto presto gli scrupoli iniziali e tirò fuori da     dentro tutto quello che aveva nascosto con tanta astuzia i  primi  tre     anni.  In altri tre aveva assunto il controllo di tutto, e nei quattro     successivi arrivò alle porte della segreteria generale,  ma si rifiutò     di  entrarci  perché  era  solo  un gradino più in basso di Florentino     Ariza. Fino ad allora era stata ai suoi ordini,  e voleva continuare a     starci, anche se la realtà era diversa: lo stesso Florentino Ariza non     si  accorgeva di essere lui a stare agli ordini di lei.  Era così: non     aveva fatto altro che eseguire quello che lei suggeriva alla Direzione     Generale per aiutarlo a salire contro  le  trappole  dei  suoi  nemici     occulti. Leona Cassiani aveva un talento diabolico per usare i segreti     e  sapeva  sempre essere dove doveva al momento giusto.  Era dinamica,     silenziosa, di una dolcezza saggia. Ma quando era indispensabile,  con     il  dolore della sua anima,  mollava le redini a un carattere di ferro     massiccio.  Tuttavia,  non lo usò mai a suo vantaggio.  Il  suo  unico     obbiettivo fu di salire la scala a qualsiasi prezzo, col sangue se non     c'era  altro  modo,  perché Florentino Ariza salisse fin dove se l'era     proposto senza calcolare molto bene la propria forza.  Lei lo  avrebbe     fatto in ogni modo, ovviamente, per un'indomabile vocazione al potere,     ma la verità fu che lo fece a dovere per pura gratitudine. Era tale la     sua determinazione che lo stesso Florentino Ariza si perdette nei suoi     maneggi,  e  in  un  momento  sfortunato  cercò di chiuderle la strada     credendo che lei cercasse di chiuderla a lui.  Leona Cassiani lo  mise     al suo posto.
    «Non si sbagli» gli disse. «Io mi allontano da tutto questo quando lei     vorrà, ma ci pensi bene.»
    Florentino Ariza, che in effetti non ci aveva pensato, ci pensò allora     al  meglio che poté,  e le diede in mano le sue armi.  La cosa certa è     che in mezzo a quella guerra sordida in un'impresa in crisi  perpetua,     in   mezzo  ai  suoi  disastri  da  falconiere  senza  tranquillità  e     l'illusione  sempre  più  incerta  di  Fermina   Daza,   l'impassibile     Florentino  Ariza non aveva avuto un momento di pace interiore davanti     allo spettacolo affascinante di quella negra indomita  impiastrata  di     merda e di amore nella febbre della mischia. Tanto che spesso si dolse     in  cuor  suo che lei non fosse stata in realtà quella che lui credeva     che fosse il pomeriggio in cui  la  conobbe,  per  essersi  pulito  il     sedere con i suoi principi e aver fatto l'amore con lei anche se fosse     stato  pagato  pepite  d'oro puro.  Perché Leona Cassiani continuava a     essere uguale a quel pomeriggio sul tram,  con gli stessi  vestiti  da     animale spaventato, i suoi turbanti folli, i suoi orecchini pendenti e     i  braccialetti  di osso,  il suo fascio di collane e i suoi anelli di     pietre false a tutte le dita: una leonessa della strada. Il molto poco     che gli anni le avevano aggiunto esteriormente era per  il  suo  bene.     Navigava in una maturità splendida,  i suoi incanti di donna erano più     inquietanti,  e il suo focoso corpo di africana si faceva  sempre  più     sodo con la maturità. Florentino Ariza non era riuscito a introdurvisi     in  dieci  anni,  pagando  così  la  dura  penitenza  del  suo  errore     originale, e lei lo aveva aiutato in tutto salvo che in quello.     Una notte in cui si fermò a lavorare fino a molto  tardi,  come  aveva     fatto  spesso  dopo la morte di sua madre,  Florentino Ariza stava per     uscire quando vide che c'era luce nell'ufficio di Leona Cassiani. Aprì     la porta senza bussare,  e lei era  lì;  sola  nell'ufficio,  assorta,     seria,  con  degli  occhiali  nuovi  che le davano un'aria accademica.     Florentino Ariza si rese conto con un timore lieto che erano loro  due     soli nell'edificio,  i moli erano deserti,  la città addormentata,  la     notte eterna sul mare tenebroso,  il bramito triste di  una  nave  che     avrebbe  tardato  più  di  un'ora  per  arrivare.  Florentino Ariza si     appoggiò sull'ombrello con le due mani, come aveva fatto nel vicolo di     El Candilejo per chiuderle il passo,  solo che ora lo fece perché  non     gli si notasse la disarticolazione delle ginocchia.
    «Dimmi  una  cosa,   leonessa  della  mia  anima»  disse,  «quando  ne     usciremo?»
    Lei si tolse gli  occhiali  senza  essere  sorpresa,  con  un'assoluta     padronanza,  e lo abbagliò col suo riso solare. Non gli aveva mai dato     del tu.
    «Senti,  Florentino Ariza» gli disse,  «sono dieci anni che sto seduta     qui ad aspettare che tu me lo chieda.»
    Ormai era tardi: l'occasione andava con lei sul tram a mule, era stata     sempre  con lei sulla stessa sedia su cui era seduta,  ma ora se n'era     andata  per  sempre.   La  verità  era  che  dopo  tante  mascalzonate     sotterranee che aveva fatto per lui,  dopo tanta sordidezza sopportata     per lui,  lei lo aveva sorpassato nella vita ed era molto  più  avanti     dei  vent'anni  di età che lui aveva di vantaggio: era invecchiata per     lui.  Lo amava tanto che invece di ingannarlo  preferì  continuare  ad     amarlo anche se dovette farglielo sapere in un modo brutale.     «No» gli disse. «Mi sentirei come se andassi a letto con il figlio che     non ho mai avuto.»
    Florentino Ariza rimase con la pena di non aver avuto l'ultima parola.     Pensava  che  quando  una  donna  dice  di  no  resta ad aspettare che     insistano prima di prendere  la  decisione  finale,  ma  con  lei  era     diverso:  non  poteva  giocare  con  il  rischio  di sbagliarsi per la     seconda volta.  Si ritirò di buona voglia,  e perfino  con  una  certa     grazia che non gli era facile.  Da quella notte qualsiasi ombra che ci     poté essere fra di loro si dissipò senza amarezze,  e Florentino Ariza     capì  infine  che  si  può  essere  amico di una donna senza andarci a     letto.
    Leona Cassiani fu l'unico essere umano cui Florentino Ariza fu tentato     di rivelare il segreto di  Fermina  Daza.  Le  poche  persone  che  lo     conoscevano   incominciavano   a  dimenticarlo  per  motivi  di  forza     maggiore.  Tre di loro se l'erano  portato  nella  tomba  senza  alcun     dubbio:  sua  madre,  che  già  da  molto  prima  di  morire  lo aveva     cancellato dalla memoria;  Gala Placidia,  morta di buona vecchiaia al     servizio  di  quella  che  per  lei  era  stata  quasi  una figlia,  e     l'indimenticabile Escolástica  Daza,  quella  che  gli  aveva  portato     dentro a un messale la prima lettera d'amore della sua vita, e che non     poteva essere ancora viva dopo tanti anni. Lorenzo Daza, di cui allora     non sapeva se fosse vivo o morto,  poteva averlo rivelato alla sorella     Franca de la Luz per cercare di  evitare  l'espulsione,  ma  era  poco     probabile  che  lo  avessero  divulgato.  Restavano  da contare undici     telegrafisti della  provincia  lontana  di  Hildebranda  Sánchez,  che     avevano  maneggiato  telegrammi  con  i  loro  nomi  completi e i loro     indirizzi esatti, e poi Hildebranda Sánchez e la sua corte di indomite     cugine.
    Quello che ignorava Florentino Ariza era che il dottor Juvenal  Urbino     doveva  essere  incluso  nel  conto.  Hildebranda  Sánchez  gli  aveva     rivelato il segreto in una delle sue tante visite dei primi  anni.  Ma     lo  aveva  fatto  in  un  modo  così  casuale  e  in  un  momento così     inopportuno che al dottor Urbino non era entrato da un orecchio e  gli     era uscito dall'altro,  come lei aveva pensato, ma addirittura non gli     era entrato per niente.  Hildebranda,  in  effetti,  aveva  menzionato     Florentino  Ariza come uno dei poeti nascosti che secondo lei potevano     vincere i Giochi Floreali. Al dottor Urbino costò fatica ricordare chi     era, e lei gli disse senza che fosse indispensabile ma senza una punta     di malizia che era stato l'unico innamorato  che  Fermina  Daza  aveva     avuto  prima  di  sposarsi.  Glielo  disse  convinta  che  fosse stato     qualcosa di  così  innocente  ed  effimero  da  risultare  ancora  più     commovente.  Il  dottor Urbino le aveva risposto senza guardarla: «Non     sapevo che quel tipo  fosse  un  poeta».  E  lo  aveva  immediatamente     cancellato  dalla  memoria,  fra  l'altro perché la sua professione lo     aveva abituato a un uso etico dell'oblio.
    Florentino Ariza osservò che i depositari del segreto,  eccettuata sua     madre, appartenevano al mondo di Fermina Daza. Nel suo c'era solo lui,     solo  con  il peso opprimente di un carico che parecchie volte avrebbe     avuto bisogno di dividere,  ma nessuno fino ad allora si era  meritato     tanta  confidenza.   Leona  Cassiani  era  l'unica  possibile,  e  gli     mancavano solo il modo e l'occasione.  Ci stava  pensando  proprio  il     pomeriggio  di  calura  estiva  in  cui il dottor Juvenal Urbino aveva     salito le scale ripide della C.F.C.,  con una sosta a ogni gradino per     resistere  al  calore  delle tre,  era apparso ansante nell'ufficio di     Florentino Ariza bagnato di sudore fino ai pantaloni,  e  aveva  detto
    con l'ultimo respiro: «Credo che stia per venirci addosso un ciclone».     Florentino  Ariza  lo  aveva visto lì spesso,  in cerca dello zio León     Dodicesimo,  ma mai come allora aveva avuto l'impressione  così  netta     che  quell'apparizione  sgradevole avesse qualcosa a che vedere con la     sua vita.
    Era l'epoca in cui anche il dottor Juvenal Urbino aveva  superato  gli     scogli  della  professione,  e  girava quasi di porta in porta come un     mendicante col cappello in mano alla ricerca di contributi per le  sue     promozioni  artistiche.  Uno  dei  suoi contribuenti più assidui e più     prodighi era sempre stato lo zio León Dodicesimo,  che proprio in quel     momento  aveva  incominciato  a fare la sua siesta quotidiana di dieci     minuti,  seduto sulla poltrona a  molle  della  scrivania.  Florentino     Ariza chiese al dottor Juvenal Urbino la cortesia di aspettare nel suo     ufficio,  che era contiguo a quello dello zio León Dodicesimo e che in     qualche modo gli serviva da anticamera.
    Si erano visti in diverse occasioni ma non erano mai stati  così,  uno     di  fronte  all'altro,  e  Florentino  Ariza  patì ancora una volta la     nausea di sentirsi inferiore.  Furono dieci minuti eterni,  in cui  si     alzò tre volte con la speranza che lo zio si fosse svegliato prima del     tempo e si bevve un thermos intero di caffè nero. Il dottor Urbino non     ne accettò neanche una tazza. Disse: «Il caffè è veleno». E continuò a     concatenare  un  argomento  con un altro senza neanche preoccuparsi di     essere ascoltato.  Florentino  Ariza  non  poteva  sopportare  la  sua     distinzione naturale, la fluidità e la precisione delle sue parole, il     suo alito recondito di canfora, il suo fascino personale, il modo così     facile  ed  elegante  con cui riusciva a far sì che anche le frasi più     frivole,   solo  perché  le  diceva   lui,   sembrassero   essenziali.
    Improvvisamente, il medico cambiò argomento in modo brusco.
    «Le piace la musica?»
    Lo colse di sorpresa.  In realtà, Florentino Ariza assisteva a tutti i     concerti o alle rappresentazioni che si davano in  città,  ma  non  si     sentiva  in  grado  di  sostenere  una  conversazione  critica  o  ben     informata.  Aveva il sangue dolce per la musica di  moda,  soprattutto     per  i valzer sentimentali,  la cui affinità con quelli che lui stesso     componeva da adolescente, o con i suoi versi segreti,  era innegabile.     Gli  bastava  sentirli  una  volta di sfuggita perché poi non ci fosse     potere divino che gli togliesse dalla testa il filo della melodia  per     notti  intere.  Ma  quella  non sarebbe stata una risposta seria a una     domanda così seria fatta da uno specialista.
    «Mi piace Gardel» disse.
    Il dottor Urbino lo capì.  «Già» disse.  «E' di moda.» E  si  buttò  a     pesce  a  raccontare  i  suoi  nuovi  e numerosi progetti,  che doveva     realizzare come  sempre  senza  sussidi  ufficiali.  Gli  fece  notare     l'inferiorità  scoraggiante degli spettacoli che era possibile portare     allora e lo splendore di quelli del secolo precedente.  Ed era proprio     così:  era  un anno che stava vendendo abbonamenti per portare il trio     Cortot-Casals-Thibaud al Teatro della Commedia,  e non  c'era  nessuno     tra quelli del governo che sapesse chi erano,  mentre in quello stesso     mese erano esauriti i posti per la  compagnia  di  drammi  polizieschi     Ramón  Caralt,  per la Compagnia di Operette e Zarzuelas di don Manolo     de la Presa,  per  Los  Santanelas,  ineffabili  trasformisti  mimico    fantastici  che si cambiavano d'abito in piena scena nell'attimo di un     lampo fosforescente, per Denise D'Altaine,  che si presentava come una     vecchia  ballerina  delle Folies-Bergère,  e persino per l'abominevole     Ursus,  un energumeno basco che lottava corpo a corpo con un  toro  da     corrida.  Non  era però per lamentarsi,  se gli stessi europei stavano     dando ancora una volta il  cattivo  esempio  di  una  guerra  barbara,     quando  noi incominciavamo a vivere in pace dopo nove guerre civili in     mezzo secolo che ben calcolate potevano essere  una  sola:  sempre  la     stessa.  Quello  che  richiamò maggiormente l'attenzione di Florentino     Ariza di quel discorso accattivante fu la possibilità  di  rivivere  i     Giochi  Floreali,  la più risonante e durevole delle iniziative che il     dottor Juvenal Urbino aveva concepito nel passato. Dovette mordersi la     lingua per non raccontargli di essere stato un assiduo partecipante di     quel concorso annuale che era arrivato a  interessare  poeti  di  gran     nome, non solo nel resto del paese ma anche in altri del Caribe.     Appena  iniziata  la  conversazione,   l'umidità  calda  dell'aria  si     raffreddò improvvisamente e una tormenta di  venti  incrociati  scosse     porte  e  finestre con forti rombi,  e l'ufficio scricchiolò fino alle     fondamenta come un veliero alla deriva.  Il dottor Juvenal Urbino  non     sembrò  accorgersene.  Fece  qualche  riferimento  casuale  ai cicloni     lunatici di giugno, e all'improvviso, senza rendersene conto, parlò di     sua moglie. Non solo era la sua collaboratrice più entusiasta,  ma era     come l'anima stessa delle sue iniziative. Disse: «Io non sarei nessuno     senza  di  lei».  Florentino Ariza lo ascoltò impassibile,  approvando     tutto con un leggero movimento della testa,  senza osare di dire nulla     per paura che la voce lo tradisse.  Due o tre frasi in più,  però, gli     bastarono per capire che al dottor Juvenal Urbino,  in mezzo  a  tanti     impegni  che  lo  assorbivano,  avanzava  ancora tempo per adorare sua     moglie quasi quanto lui,  e quella  verità  lo  stordì.  Ma  non  poté     reagire come avrebbe voluto,  perché il cuore gli fece in quel momento     uno di quegli scherzi da prete che solo succedono al cuore: gli rivelò     che lui e quell'uomo che  aveva  sempre  considerato  come  il  nemico     personale  erano vittime di uno stesso destino e condividevano il caso     di una passione comune: una coppia di animali  attaccati  allo  stesso     giogo.  Per  la  prima  volta nei ventisette interminabili anni in cui     continuava ad aspettare,  Florentino Ariza  non  poté  resistere  alla     fitta  di  dolore  che  quell'uomo  mirabile dovesse morire perché lui     potesse essere felice.
    Il ciclone andò oltre,  ma le sue  raffiche  sfasciarono  in  quindici     minuti  i  quartieri  delle  paludi e provocarono distruzioni in mezza     città.  Il dottor Juvenal Urbino,  soddisfatto ancora una volta per la     generosità  dello  zio  León Dodicesimo,  non attese che smettesse del     tutto di piovere e si portò via per distrazione  l'ombrello  personale     che  Florentino  Ariza  gli  aveva  prestato  per  arrivare  fino alla     carrozza. Ma a lui non importò.  Anzi: fu contento di pensare a quello     che  Fermina  Daza  avrebbe  pensato  quando  avesse saputo chi era il     proprietario  dell'ombrello.   Era  ancora  turbato  dalla  commozione     dell'incontro  quando  Leona  Cassiani  passò  dal suo ufficio,  e gli     sembrò  un'occasione  unica  per  rivelarle  il  segreto  senza  altre     circonvoluzioni,  come  far sciogliere un groviglio di rondini che non     lo lasciava vivere: ora o mai più.  Incominciò a  chiederle  che  cosa     pensava   del   dottor   Juvenal   Urbino.   Lei   gli  rispose  quasi     soprappensiero: «E' un uomo che ne fa molte di cose, forse troppe,  ma     credo che nessuno sappia quello che pensa».  Poi si mise a riflettere,     facendo a pezzi la gomma  in  fondo  alla  matita  con  i  suoi  denti     affilati  e  lunghi,  da  negra  grande,  e alla fine si strinse nelle     spalle per liquidare un argomento che non le interessava.     «Forse è per questo che fa  tante  cose»  disse,  «per  non  avere  da     pensare.»
    Florentino Ariza cercò di arginarla.
    «Quello che mi dispiace è che deve morire» disse.
    «Tutti devono morire» disse lei.
    «Sì» disse lui, «ma quest'uomo più di chiunque altro.»
    Lei non capì niente: tornò a stringersi nelle spalle senza parlare,  e     se ne andò. Allora Florentino Ariza seppe che in qualche notte incerta     del futuro, in un letto felice con Fermina Daza, le avrebbe raccontato     di non aver rivelato  il  segreto  del  suo  amore  neanche  all'unica     persona  che  si  era  guadagnata  il  diritto di saperlo.  No: non lo     avrebbe rivelato mai,  neanche alla stessa Leona Cassiani,  non perché     non  volesse  aprire per lei la cassaforte in cui lo aveva tenuto così     ben custodito per mezza vita ma perché solo allora si  rese  conto  di     averne perduto la chiave.
    Non era quella, però, la cosa più sconvolgente di quel pomeriggio. Gli     restava la nostalgia dei suoi tempi giovanili,  il ricordo vissuto dei     Giochi Floreali, il cui frastuono risuonava ogni 15 aprile nell'ambito     delle Antille.  Ne era sempre stato uno dei protagonisti,  ma  sempre,     come  quasi  in tutto,  un protagonista segreto.  Vi aveva partecipato     diverse volte fin dal concorso inaugurale, ventiquattro anni prima,  e     non  aveva  mai  ottenuto  neanche  l'ultima  menzione.  Però  non gli     importava perché non lo faceva per l'ambizione del premio ma perché la     gara aveva per lui un'attrazione in più: Fermina Daza fu l'addetta  ad     aprire  le  buste  sigillate e a proclamare i nomi dei vincitori nella     prima edizione,  e da allora restò stabilito che continuasse  a  farlo     negli anni seguenti.
    Nascosto  nella  penombra  delle  poltrone  con  una  camelia viva che     palpitava all'occhiello del risvolto per la  violenza  del  desiderio,     Florentino Ariza vide Fermina Daza aprire le tre buste sigillate nello     scenario dell'antico Teatro Nazionale, la notte del primo concorso. Si     domandò che cosa sarebbe successo nel suo cuore quando avesse scoperto     che  era lui il vincitore dell'Orchidea d'Oro.  Era sicuro che avrebbe     riconosciuto la calligrafia e che in quel momento  avrebbe  evocato  i     pomeriggi di ricamo sotto i mandorli del giardinetto, il profumo delle     gardenie  appassite  nelle lettere,  il valzer confidenziale della dea     incoronata nelle albe ventose. Non successe. Peggio ancora: l'Orchidea     d'Oro, il premio più ambito della poesia nazionale,  fu assegnato a un     immigrante  cinese.  Lo scandalo pubblico che provocò quella decisione     insolita mise in  dubbio  la  serietà  della  gara.  Ma  la  decisione     definitiva  fu giusta,  e l'unanimità della giuria si giustificava per     l'eccellenza del sonetto.
    Nessuno credette che l'autore fosse il cinese premiato.  Era  arrivato     alla  fine  del  secolo prima fuggendo il flagello della febbre gialla     che si era abbattuto su Panama durante la costruzione  della  ferrovia     dei  due  oceani,  insieme  a molti altri che si erano fermati lì fino     alla morte,  vivendo alla cinese,  proliferando alla  cinese,  e  così     simili  gli  uni  agli  altri  che  nessuno  riusciva  a distinguerli.     All'inizio non erano più di dieci,  alcuni di loro con mogli e figli e     cani da mangiare,  ma in pochi anni erano straripati in quattro vicoli     dei dintorni del porto con nuovi cinesi intempestivi che entravano nel     paese senza lasciare traccia nei registri della dogana.  Qualcuno  dei     giovani  si  trasformò in patriarca venerabile con tanta sollecitudine     che nessuno si spiegava come  avessero  avuto  tempo  di  invecchiare.     L'intuizione  popolare  li  divise in due classi: i cinesi cattivi e i     cinesi buoni. I cattivi erano quelli degli alberghi lugubri del porto,     dove la stessa persona mangiava come un re  o  moriva  improvvisamente     sul  tavolo  davanti a un piatto di topo con girasoli,  e dei quali si     sospettava che fossero soltanto paraventi della tratta delle bianche e     del traffico di tutto. I buoni erano i cinesi delle lavanderie,  eredi     di  una  scienza sacra,  che restituivano le camicie più pulite che se     fossero nuove, con i colli e i polsini come cialde appena stirate.  Fu     uno  di  questi  cinesi  buoni quello che sbaragliò ai Giochi Floreali     settantadue rivali ben agguerriti.
    Nessuno capì il nome quando Fermina Daza lo lesse abbagliata. Non solo     perché era un nome insolito,  ma anche perché  in  ogni  modo  nessuno     sapeva per certo come si chiamassero i cinesi.
    Ma  non dovette pensarci molto,  perché il cinese premiato venne fuori     dal fondo della platea con quel sorriso celestiale che hanno i  cinesi     quando  arrivano presto a casa.  Era andato così sicuro della vittoria     che per ricevere il premio aveva indosso la camicetta di  seta  gialla     dei riti di primavera. Ricevuta l'Orchidea d'Oro a diciotto carati, la     baciò  di gioia in mezzo alle facezie assordanti degli increduli.  Non     si alterò.  Aspettò al  centro  dello  scenario,  imperturbabile  come     l'apostolo  di una Divina Provvidenza meno drammatica della nostra,  e     non appena ci fu silenzio lesse la poesia premiata.  Nessuno lo  capì.     Ma  quando  fu  passata  la  nuova bordata di fischi,  Fermina Daza la     rilesse  impassibile,  con  la  sua  afonica  voce  insinuante,  e  la     meraviglia  si  impose  fin dal primo verso.  Era un sonetto della più     pura  origine  parnassiana,   perfetto,   percorso  da  un  soffio  di     ispirazione  che  denunciava  la  complicità  di  una mano magistrale.     L'unica spiegazione possibile era  che  qualche  grande  poeta  avesse     escogitato  questo scherzo per burlarsi dei Giochi Floreali,  e che il     cinese si fosse prestato con la determinazione di mantenere il segreto     fino  alla  morte.   Il  "Diario  del   Comercio",   nostro   giornale     tradizionale, cercò di rappezzare l'onore civile con un saggio erudito     e  piuttosto  indigesto  sull'antichità  e  l'influenza  culturale dei     cinesi nel Caribe,  e sul loro diritto  meritorio  di  partecipare  ai     Giochi  Floreali.  L'autore  del  saggio non dubitava che l'autore del     sonetto fosse in realtà quello che diceva di essere, e lo giustificava     senza giri di parole fin dal titolo: "Tutti i cinesi  sono  poeti".  I     promotori della congiura,  se ci fu, marcirono nelle loro tombe con il     segreto.  Da parte sua,  il cinese premiato morì senza  confessione  a     un'età  orientale e fu seppellito con l'Orchidea d'Oro dentro la bara,     ma con l'amarezza di non essere riuscito ad avere in vita l'unica cosa     che desiderava, che era il suo credito di poeta. Con il pretesto della     sua morte si evocò sulla stampa  l'incidente  dimenticato  dei  Giochi     Floreali,  si  riprodusse  il  sonetto  con una vignetta modernista di     turgide donzelle con cornucopie d'oro,  e gli dei custodi della poesia     si  valsero  dell'occasione  per  mettere  le  cose  al loro posto: il     sonetto parve così brutto alla nuova generazione che nessuno mise  più     in dubbio che in realtà fosse stato scritto dal cinese morto.
    Florentino  Ariza  associò  sempre  quello  scandalo al ricordo di una     opulenta sconosciuta che gli era seduta di fianco.  L'aveva  osservata     all'inizio  della cerimonia ma poi l'aveva dimenticata per la tensione     dell'attesa.  Gli avevano richiamato l'attenzione  la  sua  bianchezza     madreperlacea,  la  sua  fragranza  da  grassa felice,  le sue immense     tettone da soprano coronate da una magnolia finta. Aveva un vestito di     velluto nero molto aderente,  nero come gli occhi ansiosi e  caldi,  e     aveva i capelli ancora più neri, raccolti sulla nuca con un pettine di     gitana.  Aveva orecchini ad anello pendenti,  una collana dello stesso     stile e anelli uguali alle diverse dita,  tutti di similoro brillante,     e un neo dipinto a matita sulla guancia destra. Nella confusione degli     applausi finali, guardò Florentino Ariza con una tristezza sincera.
    «Mi creda che me ne dispiace nel profondo dell'anima» gli disse.     Florentino Ariza si impressionò, non per le condoglianze che in realtà     meritava,  ma per la paura che qualcuno conoscesse il suo segreto. Lei     gliela dissipò: «Me ne sono accorta dal modo come le tremava il  fiore     del  risvolto  mentre  aprivano  le buste».  Gli mostrò la magnolia di     peluche che aveva in mano e gli aprì il cuore:
    «Per questo mi sono tolta la mia» disse.
    Stava per piangere per la sconfitta,  ma Florentino  Ariza  le  cambiò     l'animo col suo istinto di cacciatore notturno.
    «Andiamocene da qualche parte a piangere insieme» le disse.     L'accompagnò  a  casa  sua.  Già  sulla  porta e,  visto che era quasi     mezzanotte e non c'era nessuno per la strada,  la convinse a invitarlo     a prendere un brandy mentre vedevano gli album di ritagli e fotografie     di  più  di  dieci  anni  di avvenimenti pubblici che lei sosteneva di     avere.  Il  trucco  era  già  vecchio  allora,   ma  quella  volta  fu     involontario,  perché  era lei che aveva parlato dei suoi album mentre     se ne andavano camminando dal Teatro Nazionale.  Entrarono.  La  prima     cosa  che  Florentino  Ariza  osservò  dalla  sala  fu  che  la  porta     dell'unica camera da letto era aperta e che  il  letto  era  grande  e     sontuoso, con una trapunta di broccato e testata con fronde di bronzo.     Quella  vista  lo  turbò.  Lei dovette accorgersene,  perché avanzò in     mezzo alla sala e chiuse la  porta  della  camera.  Poi  lo  invitò  a     sedersi  su  un  divano  di  cretonne  a  fiori  su cui c'era un gatto     addormentato e mise in mezzo al tavolo la  sua  collezione  di  album.     Florentino Ariza incominciò a sfogliarli senza fretta, pensando più ai     suoi  movimenti  successivi  che  a  quello  che  stava  guardando,  e     improvvisamente alzò lo sguardo e vide che lei aveva gli  occhi  pieni     di   lacrime.   Le   consigliò   di  piangere  quanto  avesse  voluto,     spudoratamente,  perché niente allevia come il pianto,  ma le  suggerì     anche  di  allentarsi  il  corpetto  per piangere.  Lui si affrettò ad     aiutarla, perché il corpetto era stretto a forza sulla schiena con una     lunga cucitura di lacci incrociati.  Non riuscì a  finire,  perché  il     corpetto  si sciolse poi da solo per la pressione interna,  e le tette     astronomiche respirarono liberamente.
    Florentino Ariza,  che non aveva mai perso la paura della prima  volta     anche nelle occasioni più facili, arrischiò una carezza epidermica sul     collo  con  la  punta  delle dita,  e lei si contorse con un gemito da     bambina viziata senza smettere di piangere.  Allora lui la baciò nello     stesso punto, molto delicatamente, come aveva fatto con le dita, e non     poté  farlo la seconda volta perché lei si girò verso di lui con tutto     il suo corpo monumentale,  avido e caldo,  e tutti  e  due  rotolarono     abbracciati per terra. Il gatto sul divano si svegliò con un miagolio,     e  gli  saltò  addosso.  Loro si cercarono a tastoni come principianti     frettolosi e si trovarono in qualche modo,  abbattendosi  sugli  album     scompigliati, vestiti, madidi di sudore, e cercando più di schivare le     graffiate  furiose  del  gatto  che  il  disastro  d'amore che stavano     commettendo.   Ma  dalla  notte  seguente,   con  le   ferite   ancora     sanguinanti, continuarono a farlo per vari anni.
    Quando  si  accorse di aver incominciato ad amarla,  lei era già nella     pienezza dei  quarant'anni  e  lui  stava  per  compierne  trenta.  Si     chiamava Sara Noriega e aveva avuto un quarto d'ora di celebrità nella     sua  gioventù  per  aver  vinto  un  concorso  con  un  libro di versi     sull'amore  dei  poveri,  che  non  era  mai  stato  pubblicato.   Era     insegnante di Educazione e Istruzione Civica nelle scuole pubbliche, e     viveva  del suo stipendio in una casa in affitto del variopinto Pasaje     de los Novios, nel vecchio quartiere di Jetzemaní. Aveva avuto diversi     amanti occasionali,  ma nessuno con illusioni matrimoniali perché  era     difficile  che  un  uomo del suo ambiente e del suo tempo sposasse una     donna con cui era andato a letto.  Nemmeno  lei  tornò  ad  alimentare     quell'illusione  dopo  che il suo primo fidanzato formale,  quello che     aveva amato con la passione quasi  demenziale  di  cui  era  capace  a     diciotto  anni,  fuggì  dal suo impegno una settimana prima della data     prevista per le nozze e la lasciò persa in un limbo di fidanzata presa     in giro.  O di zitella usata,  come si diceva allora.  Tuttavia quella     prima esperienza,  anche se crudele ed effimera, non le lasciò nessuna     amarezza,   ma  anzi  la  convinzione  abbagliante  che  con  o  senza     matrimonio,  senza Dio o senza legge,  non valeva la pena di vivere se     non per avere un uomo nel letto.  Quello che di lei piaceva di  più  a     Florentino  Ariza  era  che  mentre faceva l'amore doveva succhiare un     ciuccio da bambino per raggiungere la gloria completa.  Arrivarono  ad     averne una sfilza di quante grandezze, forme e colori si trovavano sul     mercato,  e  Sara  Noriega  li  attaccava  alla  testata del letto per     trovarli alla cieca nei suoi momenti di estrema urgenza.
    Anche se lei era libera quanto lui,  e forse non si sarebbe opposta  a     che  i  loro  rapporti  fossero  pubblici,  Florentino  Ariza li aveva     impostati fin dall'inizio  come  un'avventura  clandestina.  Scivolava     dentro dalla porta di servizio,  quasi sempre di notte molto tardi,  e     scappava in punta di piedi poco prima dell'alba.  Tanto  lui  che  lei     sapevano  che  in  una  casa  divisa e popolata come quella in fin dei     conti i vicini dovevano essere più al corrente  di  quanto  fingevano.     Però,  benché  fosse solo una formula,  Florentino Ariza era così come     sarebbe stato con tutte per il resto della sua vita.  Non commise  mai     un  errore,  né  con  lei né con nessun altra,  non incorse mai in una     slealtà.  Non esagerava:  solo  in  un'occasione  lasciò  una  traccia     compromettente o un'evidenza scritta,  e avrebbero potuto costargli la     vita.  In realtà si comportò sempre come  se  fosse  stato  il  marito     eterno  di  Fermina  Daza,  un marito infedele ma tenace,  che lottava     senza tregua per liberarsi della sua schiavitù, ma senza provocarle il     disgusto di un tradimento.
    Un simile ermetismo non poteva prosperare senza  equivoci.  La  stessa     Tránsito  Ariza  morì  convinta  che quel figlio concepito per amore e     allevato per l'amore fosse immunizzato contro ogni forma di amore  per     la  sua  prima  contrarietà  giovanile.  Però,  parecchie persone meno     benevole che gli furono molto vicine, che conoscevano il suo carattere     misterioso e la sua inclinazione per gli abiti mistici  e  le  lozioni     strane,  condividevano  il  sospetto che non fosse immune all'amore ma     alla donna.  Florentino Ariza lo sapeva e  non  fece  mai  niente  per     smentirlo.  Tantomeno  se  ne  preoccupò  Sara Noriega.  Come le altre     innumerevoli donne che lui amò,  e anche quelle che lo compiacevano  e     si compiacevano con lui senza amarlo, lo accettò per quello che era in     realtà: un uomo di passaggio.
    Finì  per  comparire  in  casa  sua  a  qualsiasi ora,  soprattutto la     domenica mattina,  che era il momento più tranquillo.  Lei abbandonava     quello  che stava facendo,  qualunque cosa fosse,  e si consacrava con     tutto il corpo a cercare di farlo felice nell'enorme  letto  istoriato     che  era  sempre  pronto  per  lui  e  in  cui  non permise mai che si     incorresse in formalismi liturgici.  Florentino Ariza non capiva  come     una  zitella  senza  passato  potesse  essere  così saggia in fatto di     uomini,  né come potesse dirigere il suo dolce corpo  da  delfino  con     tanta leggerezza e tanta dolcezza come se si muovesse sott'acqua.  Lei     si difendeva dicendo  che  l'amore,  prima  di  tutto,  era  una  dote     naturale.  Diceva: «O si nasce sapendolo fare o non lo si impara mai».     Florentino Ariza si torceva  di  gelosie  retrospettive  pensando  che     forse  lei  fosse  più  navigata  di quello che fingeva di essere,  ma     doveva ingoiarsele tutte, perché anche lui le diceva,  come lo disse a     tutte,  che lei era stata la sua unica amante. Fra le molte altre cose     che gli piacevano meno,  dovette rassegnarsi ad  avere  sul  letto  il     gatto  infuriato  cui  Sara  Noriega  limava  le  unghie perché non li     facesse a pezzi a furia di graffi mentre facevano l'amore.     Tuttavia,   quasi   altrettanto   come   divertirsi   a   letto   fino     all'esaurimento,  a  lei  piaceva  consacrare le fatiche dell'amore al     culto della poesia.  Non solo aveva una memoria spaventosa per i versi     sentimentali  del  suo tempo,  le cui novità si vendevano su foglietti     per la strada a due centesimi,  ma attaccava perfino  con  gli  spilli     alle  pareti  le  poesie che le piacevano di più,  per leggerle a viva     voce a qualsiasi ora.  Aveva fatto una versione in endecasillabi  pari     dei  testi  di  Educazione  e  Istruzione  Civica,  come quelli che si     usavano per l'ortografia,  ma non  riuscì  a  ottenere  l'approvazione     ufficiale.  Era tale la sua estasi declamatoria che a volte continuava     a recitare gridando mentre faceva l'amore,  e Florentino Ariza  doveva     metterle il ciuccio in bocca a viva forza come si faceva con i bambini     perché smettessero di piangere.
    Nella  pienezza  dei  loro  rapporti,  Florentino Ariza si era chiesto     quale  delle  due  situazioni  fosse  l'amore,  se  quella  del  letto     turbolento o quella dei calmi pomeriggi domenicali,  e Sara Noriega lo     aveva tranquillizzato con la semplice risposta che  tutto  quello  che     facevano nudi era amore.  Aveva detto: «Amore dell'anima dalla cintura     in su e amore del corpo dalla  cintura  in  giù».  Questa  definizione     parve  buona  a  Sara  Noriega  per una poesia sull'amore diviso,  che     scrissero a quattro mani,  e che lei presentò alla quinta edizione dei     Giochi  Floreali,  convinta  che nessuno vi avesse partecipato fino ad     allora con una poesia così originale. Ma perse di nuovo.
    Era furibonda mentre  Florentino  Ariza  l'accompagnava  a  casa.  Per     qualcosa  che  non  sapeva  spiegare era convinta che la manovra fosse     stata ordita contro di lei da Fermina Daza,  per non premiare  la  sua     poesia.  Florentino Ariza non le prestò attenzione.  Era di umore cupo     fin dalla consegna dei premi perché non aveva visto Fermina  Daza  per     molto tempo, e quella sera aveva avuto l'impressione che avesse subito     un  profondo  cambiamento:  per  la prima volta solo a guardarla le si     notava la sua condizione di madre. Non era una novità per lui,  perché     sapeva  che  il  figlio  andava  già  a scuola.  Tuttavia,  la sua età     maternale non gli era apparsa prima così evidente  come  quella  sera,     sia  per  il  diametro  della  sua  vita  e per la sua andatura un po'     ansimante,  sia per le incrinature della voce quando  aveva  letto  la     lista dei premiati.
    Cercando  di  documentare i suoi ricordi,  tornò a sfogliare gli album     dei  Giochi  Floreali  mentre  Sara  Noriega  preparava  qualcosa   da     mangiare. Vide illustrazioni colorate di riviste, cartoline ingiallite     di  quelle  che  si  vendevano come ricordo sui portoni,  e fu come un     ripasso di fantasma della fallacia della  sua  stessa  vita.  Fino  ad     allora  lo  aveva  sostenuto la finzione che il mondo fosse quello che     succedeva,  passavano i costumi,  la moda: tutto meno lei.  Ma  quella     sera vide per la prima volta in modo cosciente come stesse passando la     vita  a Fermina Daza,  e come passasse la sua stessa vita,  mentre lui     non faceva nient'altro che aspettare. Non aveva mai parlato di lei con     nessuno perché si sapeva incapace di dirne il nome senza  che  gli  si     notasse il pallore delle labbra. Ma quella notte, mentre sfogliava gli     album come in tante altre veglie di noia domenicale, Sara Noriega ebbe     una di quelle uscite casuali che gelavano il sangue.
    «E' una troia» disse.
    Lo  disse  mentre  passava,  vedendo  una  fotografia  di Fermina Daza     travestita da pantera nera a un  ballo  in  maschera,  e  non  dovette     menzionare  nessuno  perché  Florentino  Ariza  sapesse  di  chi stava     parlando.  Temendo una rivelazione che lo avrebbe turbato per il resto     della  vita,  affrettò  una  difesa  guardinga.  Avvertì  di conoscere     Fermina Daza solo alla lontana,  di non aver mai oltrepassato i saluti     formali e di non avere nessuna informazione sulla sua vita privata, ma     dava  per certo che fosse una donna ammirevole,  venuta su dal nulla e     innalzatasi per meriti propri.
    «Per opera e grazia di un matrimonio d'interesse con un uomo  che  non     ama»  lo  interruppe  Sara  Noriega.  «E'  il modo più basso di essere     troia.»
    Con meno crudezza, ma con uguale rigore morale,  sua madre aveva detto     la  stessa  cosa  a  Florentino Ariza cercando di consolarlo delle sue     sventure.  Turbato fino al midollo,  non trovò  una  replica  adeguata     all'inclemenza  di Sara Noriega,  e cercò di svicolare dall'argomento.     Ma Sara Noriega non glielo permise finché non ebbe finito di  sfogarsi     contro  Fermina  Daza.  Per  un colpo d'intuito che non era riuscita a     spiegarsi  era  convinta  che  fosse   stata   lei   l'autrice   della     cospirazione per farle sfuggire il premio. Non aveva nessun motivo per     crederlo: non si conoscevano,  non si erano mai viste,  e Fermina Daza     non aveva niente a che vedere con le decisioni del concorso,  anche se     certo  era  al  corrente dei suoi segreti.  Sara Noriega disse in modo     conclusivo: «Noi donne siamo indovine». E chiuse la discussione.     Da quel momento Florentino Ariza la vide con altri  occhi.  Anche  per     lei  passavano  gli  anni.  La  sua  fertile natura si avvizziva senza     gloria,  il suo amore si fermava ai  singhiozzi,  e  le  sue  palpebre     incominciavano a mostrare l'ombra delle vecchie amarezze. Era un fiore     di  ieri.  Inoltre,  nella  furia  della sconfitta aveva trascurato di     contare i suoi brandy. Non era in serata: mentre mangiavano il riso di     cocco riscaldato,  cercò di stabilire quale fosse stato il  contributo     di ognuno alla poesia sconfitta per sapere quanti petali dell'Orchidea     d'Oro  sarebbero  corrisposti a ognuno.  Non era la prima volta che si     intrattenevano in torture bizantine,  ma lui approfittò dell'occasione     per  respirare  dalla ferita appena aperta e si aggrovigliarono in una     disputa meschina che sollevò a tutti e due i rancori di  quasi  cinque     anni di amore condiviso.
    Quando  mancavano dieci minuti a mezzanotte,  Sara Noriega salì su una     sedia per caricare la pendola,  e l'aveva messa a quell'ora d'istinto,     forse  volendo  dire senza dirlo che era ora di andarsene.  Florentino     Ariza sentì allora l'urgenza di tagliare alla radice quella  relazione     senza  amore  e  cercò  di  essere  lui  a prendere l'iniziativa: come     avrebbe sempre fatto. Pregando Dio che Sara Noriega gli permettesse di     fermarsi nel suo letto per dirle di no, che tutto era finito fra loro,     le chiese di sedersi vicino a lui quando finì di caricare  l'orologio.
    Ma  lei  preferì  tenersi  a  distanza  sulla  poltrona  delle visite.     Florentino Ariza le tese allora l'indice bagnato di brandy perché  lei     lo succhiasse,  come le piaceva fare nei preamboli dell'amore di altri     momenti. Lei rifiutò.
    «Adesso no» disse. «Sto aspettando qualcuno.»
    Da quando era stato respinto da Fermina Daza,  Florentino Ariza  aveva     imparato  a  tenersi  sempre  l'ultima decisione.  In circostanze meno     amare avrebbe persistito negli assedi a Sara Noriega, sicuro di finire     la notte rotolandosi con lei nel letto,  perché era convinto  che  una     donna  che  va  a  letto  con un uomo una volta continuerà ad andare a     letto con lui  ogni  volta  che  lui  lo  voglia,  sempre  che  sappia     intenerirla  ogni  volta.  Aveva  sopportato  tutto in virtù di quella     convinzione,  era passato sopra a tutto anche negli affari più sporchi     dell'amore,   per   non  concedere  a  nessuna  donna  nata  da  donna     l'opportunità di prendere la decisione  finale.  Ma  quella  notte  si     sentì talmente umiliato che si bevve il brandy di colpo, facendo tutto     il  possibile  perché  gli  si notasse il rancore,  e se ne andò senza     salutare. Non si videro mai più.
    La relazione con Sara Noriega fu una delle più  lunghe  e  stabili  di     Florentino Ariza,  anche se non fu l'unica che lui ebbe in quei cinque     anni.  Quando capì di sentirsi bene con lei,  soprattutto a letto,  ma     che  non  sarebbe  mai  riuscito  a  sostituire  con lei Fermina Daza,     rincrudirono le sue notti da cacciatore solitario, e se le adattava in     modo da dividere il suo tempo e  le  sue  forze  fin  dove  gli  fosse     possibile.  Sara  Noriega,  però,  ottenne  il  miracolo di riuscire a     sollevarlo per un po'. Almeno poté vivere senza vedere Fermina Daza, a     differenza di prima,  quando interrompeva in qualsiasi momento  quello     che  stava  facendo  per  cercarla  lungo  i sentieri incerti dei suoi     presagi,  nelle  vie  più  impensate,   in  luoghi  irreali  dove  era     impossibile  che fosse,  vagando senza senso con delle ansie nel petto     che non gli davano tregua finché non l'avesse vista almeno un  attimo.     La rottura con Sara Noriega, invece, gli risollevò i rimpianti sopiti,     e si sentì di nuovo come nei pomeriggi del giardinetto e delle letture     interminabili,  ma  questa  volta aggravati dall'urgenza che il dottor     Juvenal Urbino doveva morire.
    Sapeva da parecchio tempo di essere  predestinato  a  far  felice  una     vedova,  e  che  lei  lo facesse felice,  e questo non lo preoccupava.     Anzi: ci era preparato.  A furia di conoscerle nelle sue incursioni di     cacciatore  solitario,  Florentino Ariza avrebbe finito per sapere che     il mondo era pieno di vedove  felici.  Le  aveva  viste  impazzire  di     dolore davanti al cadavere del marito, supplicando di seppellirle vive     dentro  alla  stessa  bara  per non affrontare senza di lui i casi del     futuro,  ma più si riconciliavano con la realtà del loro  nuovo  stato     più  le  si vedeva risorgere dalle ceneri con una vitalità rinverdita.     Incominciavano a vivere come parassiti di ombre nelle casone  deserte,     diventavano confidenti delle loro domestiche, amanti dei loro cuscini,     senza nulla da fare dopo tanti anni di prigionia sterile. Perdevano le     altre ore a cucire sui vestiti del morto i bottoni che non avevano mai     avuto tempo di sostituire, stiravano e ristiravano le loro camicie coi     polsini   e   il  collo  inamidati  perché  fossero  sempre  perfette.     Continuavano a mettere il loro sapone nel bagno, la federa con le loro     iniziali nel letto, il piatto e le posate al loro posto a tavola,  nel     caso tornassero dalla morte senza avvisare,  come erano soliti fare in     vita.  Ma in quei silenzi di  solitudine  prendevano  a  poco  a  poco     coscienza  di  essere  di  nuovo padrone del loro arbitrio,  dopo aver     rinunciato non solo al loro nome di famiglia  ma  anche  alla  propria     identità,  e  tutto  questo  in  cambio dl una sicurezza che era stata     soltanto un'altra delle loro  tante  illusioni  di  spose.  Solo  loro     sapevano  quanto pesava l'uomo che amavano con follia,  e che forse le     amava,  ma che avevano dovuto continuare ad allevare  fino  all'ultimo     respiro,  dandogli  da  poppare,  cambiandogli i pannolini imbrattati,     distraendolo con trucchetti da madre per  alleviargli  il  terrore  di     uscire  la  mattina  a vedere in faccia la realtà.  E però,  quando lo     vedevano uscire di casa istigato da loro  stesse  a  bersi  il  mondo,     allora  erano loro a temere che l'uomo non tornasse più.  Quella era l     avita. L'amore, se c'era, era una cosa a parte: un'altra vita.
    Nell'ozio riparatore della solitudine,  invece,  le vedove  scoprivano     che  il  modo  onorevole  di  vivere era secondo la volontà del corpo,     mangiando solo per fame,  amando senza mentire,  dormendo senza  dover     far  finta di dormire per sfuggire all'indecenza dell'amore ufficiale,     padrone finalmente del diritto a tutto un letto solo per loro  in  cui     nessuno gli contendesse la metà del loro lenzuolo,  la metà della loro     aria da respirare, la metà della loro notte, finché il corpo era sazio     di sognare con i loro propri sogni e si svegliava da solo.  Nelle  sue     albe di cacciatore furtivo,  Florentino Ariza le incontrava all'uscita     dalla messa delle cinque,  vestite di nero e con il corvo del  destino     appollaiato  sulla  spalla.  Da  quando  lo intravedevano nel chiarore     dell'alba attraversavano la strada e  cambiavano  di  marciapiede  con     passi piccoli e interrotti, passi da uccellino, perché il solo passare
    vicino  a  un  uomo  poteva macchiare il loro onore.  Lui,  però,  era     convinto che una vedova sconsolata,  più  di  qualsiasi  altra  donna,     potesse portare dentro di sé il seme della felicità.
    Tante vedove della sua vita,  fin dalla vedova di Nazaret, gli avevano     permesso di scorgere come fossero felici le mogli dopo  la  morte  dei     loro  mariti.  Quello  che  fino  ad allora era stato per lui una mera     illusione si trasformò grazie a loro in una possibilità che si  poteva     toccare  con mano.  Non trovava ragioni per cui Fermina Daza non fosse     una vedova uguale alle altre,  preparata dalla vita ad  accettare  lui     così  come  era,  senza  sensi di colpa per il marito morto,  decisa a     scoprire con lui l'altra felicità di essere felice due volte,  con  un     amore  di  uso  quotidiano  che avrebbe trasformato ogni istante in un     miracolo da vivere,  e con un altro amore da lei  sola  preservato  da     ogni contagio dall'immunità della morte.
    Forse  non  sarebbe  stato così entusiasta se avesse sospettato quanto     era lontana Fermina Daza  da  quei  calcoli  illusori,  quando  appena     incominciava  a  scorgere  l'orizzonte  di  un  mondo in cui tutto era     previsto meno l'avversità.  Essere ricchi a  quel  tempo  aveva  molti     vantaggi,  e anche molti svantaggi,  certo,  ma mezzo mondo lo anelava     come la possibilità più probabile di essere eterno. Fermina Daza aveva     respinto  Florentino  Ariza  in  un  baleno  di  maturità   che   pagò     immediatamente con una crisi di compassione,  ma non dubitò mai che la     sua decisione non  fosse  stata  giusta.  Sul  momento  non  riuscì  a     spiegarsi  quali  motivi occulti della ragione le avessero dato quella     lungimiranza, ma molti anni dopo, già sulla soglia della vecchiaia, li     scoprì all'improvviso e senza sapere come in una conversazione casuale     su Florentino Ariza. Tutti i presenti conoscevano la sua condizione di     delfino della Compagnia Fluviale del Caribe nel suo momento di apogeo,     tutti erano sicuri di averlo visto molte volte,  e anche di aver fatto     affari con lui, ma nessuno riusciva a identificarselo nella memoria.     Fu allora che Fermina Daza ebbe la rivelazione dei motivi inconsci che     le  avevano  impedito  di  amarlo.  Disse:  «E'  come se non fosse una     persona ma un'ombra».  Ed era proprio così: l'ombra  di  qualcuno  che     nessuno ha mai conosciuto.  Ma mentre resisteva agli assedi del dottor     Juvenal Urbino,  che era l'uomo opposto,  si  sentiva  tormentata  dal     fantasma   della   colpa:  l'unico  sentimento  che  era  incapace  di     sopportare.  Quando lo sentiva arrivare  si  impadroniva  di  lei  una     specie  di  panico  che  riusciva  a  controllare  solo quando trovava     qualcuno che le sollevasse la coscienza.  Fin da  bambina,  quando  si     rompeva un piatto in cucina, quando qualcuno cadeva, quando lei stessa     si chiudeva un dito in una porta,  si girava spaventata verso l'adulto     più vicino a lei in quel momento e si  affrettava  ad  accusarlo:  «E'     stata  colpa  tua».  Anche  se in realtà non le importava chi fosse il     colpevole né tantomeno di convincersi della sua innocenza: le  bastava     lasciarla stabilita.
    Era un fantasma così manifesto che il dottor Urbino si era accorto per     tempo fino a che punto minacciasse l'armonia di casa sua, e non appena     lo  intravedeva si affrettava a dire alla moglie: «Non ti preoccupare,     amore mio,  è stata colpa mia».  Perché non  temeva  nulla  quanto  le     decisioni  improvvise e definitive di sua moglie,  ed era convinto che     avessero sempre origine in un senso di colpa. Tuttavia,  la confusione     per  il  rifiuto  di  Florentino Ariza non si risolse con una frase di     consolazione.  Fermina Daza continuò ad aprire il balcone  al  mattino     per vari mesi,  e sempre di meno spuntava il fantasma solitario che la     spiava nel giardinetto deserto, vedeva l'albero che era stato suo,  la     panchina  meno  visibile  dove  si sedeva a leggere pensando a lei,  a     soffrire  per  lei,  e  doveva  richiudere  la  finestra,  sospirando:     «Pover'uomo».  Soffrì  anche  la  delusione  che  lui  non  fosse così     pertinace come lei aveva supposto,  quando era già  troppo  tardi  per     rappezzare  il  passato,  e non cessò di sentire qualche volta l'ansia     tardiva  di  una  lettera  che  non  arrivò  mai.  Ma  quando  dovette     affrontare  la  decisione  di sposarsi con Juvenal Urbino cadde in una     crisi ancora più grande,  accorgendosi di non avere ragioni valide per     preferirlo  dopo aver rifiutato senza ragioni valide Florentino Ariza.     In realtà, lo amava tanto poco quanto l'altro,  ma in più lo conosceva     molto  meno,  e  le  sue  lettere  non avevano la febbre delle lettere     dell'altro,  né  le  aveva  dato  tante  prove  commoventi  della  sua     determinazione. La verità è che le pretese di Juvenal Urbino non erano     mai  state basate in termini d'amore,  ed era perlomeno curioso che un     militante cattolico  come  lui  le  offrisse  solo  beni  terreni:  la     sicurezza,  l'ordine,  la  felicità,  cifre  immediate  che  una volta     sommate tra loro potevano forse assomigliare all'amore: quasi l'amore.     Ma non lo erano, e questi dubbi aumentavano la sua confusione,  perché     neanche lei era convinta che l'amore fosse in realtà quello che più le     mancava per vivere.
    In  ogni  modo,  l'elemento principale contro il dottor Juvenal Urbino     era la sua somiglianza più che sospetta con l'uomo ideale che  Lorenzo     Daza aveva desiderato con tanta ansia per sua figlia.  Era impossibile     non vederlo come il frutto di un conciliabolo  paterno,  anche  se  in     realtà non lo era stato,  e Fermina Daza era convinta che lo fosse fin     da quando lo aveva visto entrare in casa sua per la seconda volta  per     una  visita  medica  non  richiesta.  Le  chiacchiere  con  la  cugina     Hildebranda  avevano  finito  col  confonderla.   Per  la  sua  stessa     situazione  di vittima,  questa tendeva a identificarsi con Florentino     Ariza,  dimenticando tra l'altro che forse Lorenzo Daza l'aveva  fatta     venire  perché  influisse  in favore del dottor Urbino.  Dio sapeva lo     sforzo che fece Fermina Daza per non accompagnarla  quando  la  cugina     andò a conoscere Florentino Ariza all'ufficio del telegrafo. Anche lei     avrebbe  voluto  vederlo  un'altra  volta  per confrontarlo con i suoi     dubbi,  parlare con lui a quattr'occhi,  conoscerlo a fondo per essere     sicura  che la sua decisione impulsiva non l'avrebbe fatta precipitare     in un'altra più grave,  che  era  capitolare  nella  guerra  personale     contro  suo  padre.  Ma  lo fece,  nel minuto cruciale della sua vita,     senza considerare per niente la bellezza virile del pretendente, né la     sua ricchezza leggendaria, né la sua gloria prematura,  né nessuno dei     suoi tanti meriti reali,  ma stordita dalla paura dell'opportunità che     le veniva offerta e dall'imminenza dei ventun anni,  che  era  il  suo     limite  confidenziale per arrendersi al destino.  Le bastò quell'unico     minuto per prendere la decisione come era previsto nelle leggi di  Dio     e degli uomini: fino alla morte. Allora tutti i dubbi si dissiparono e     poté  fare  senza rimorsi quello che la ragione le indicò come la cosa     più decente: passò un colpo di spugna senza  lacrime  sul  ricordo  di     Florentino  Ariza,  lo  cancellò  completamente,  e  nello  spazio che     occupava nella sua memoria lasciò che  fiorisse  un  grande  prato  di     papaveri.  L'unica  cosa che si permise fu un sospiro più profondo del     solito, l'ultimo: «Pover'uomo!».
    I dubbi più terribili, però, incominciarono appena tornata dal viaggio     di nozze. Non appena finirono di aprire i bauli,  di sballare i mobili     e  di svuotare le undici casse che aveva portato per prendere possesso     da padrona e signora del vecchio palazzo del Marchese  de  Casalduero,     già  si era resa conto con una vertigine mortale di essere prigioniera     nella casa sbagliata,  e,  ancor peggio,  con l'uomo che non era tale.     Ebbe bisogno di sei anni per venirne fuori. I peggiori della sua vita,     disperata  per  l'amarezza di doña Blanca,  sua suocera,  e il ritardo     mentale delle cognate,  che se non erano andate a putrefarsi  vive  in     una cella di clausura era perché lo erano già dentro.
    Il dottor Urbino, rassegnato a rendere i tributi della stirpe, si fece     sordo alle sue suppliche,  confidando nel fatto che la saggezza di Dio     e l'infinita capacità di adattamento della moglie avrebbero  messo  le     cose al loro posto.  Gli dispiaceva il deterioramento di sua madre, la     cui gioia di vivere infondeva in altri tempi il  desiderio  di  essere     vivi  perfino  nei  più  increduli.  Era  certo:  quella  donna bella,     intelligente,  di una sensibilità umana  per  niente  comune  nel  suo     ambiente,  era stata per quasi quarant'anni l'anima e il corpo del suo     paradiso sociale.  La vedovanza l'aveva amareggiata fino al  punto  di     non  poter  riuscire a credere che fosse la stessa persona,  e l'aveva     fatta diventare molle e acida, e nemica del mondo. L'unica spiegazione     possibile del suo degrado era  il  rancore  che  il  marito  si  fosse     sacrificato  coscientemente  per una banda di negri,  come diceva lei,     quando l'unico sacrificio giusto sarebbe stato quello di  sopravvivere     per lei. In ogni modo, il matrimonio felice di Fermina Daza era durato     quanto  il  viaggio di nozze,  e l'unica persona che poteva aiutarla a     impedire il naufragio finale era paralizzata  di  terrore  davanti  al     potere  della  madre.  Era a lui,  e non alle cognate imbecilli e alla     suocera mezzo matta,  che  Fermina  Daza  attribuiva  la  colpa  della     trappola mortale in cui era accalappiata. Troppo tardi sospettava che,     dietro la sua autorità professionale e il suo fascino mondano,  l'uomo     con cui si era sposata fosse un debole  senza  redenzione:  un  povero     diavolo imbaldanzito dal peso sociale dei suoi cognomi.
    Si rifugiò nel figlio appena nato. Lei lo aveva sentito uscire dal suo     corpo  col sollievo di liberarsi di qualcosa che non era suo,  e aveva     sofferto la paura di se stessa quando si era accorta di non sentire il     minimo affetto per quel vitello di pancia che  l'ostetrica  le  mostrò     nudo,  sporco  di  sevo  e  di sangue e col cordone ombelicale avvolto     intorno al collo. Ma nella solitudine del palazzo imparò a conoscerlo,     si conobbero,  e scoprì con grande meraviglia che i figli non si amano     perché  sono  figli ma per l'amicizia dell'allattamento.  Finì per non     sopportare niente e nessuno che non fosse lui  nella  casa  della  sua     sventura.  La  deprimevano  la  solitudine,  il  giardino da cimitero,     l'incuria del tempo delle enormi stanze  senza  finestre.  Si  sentiva     impazzire  nelle  notti  dilatate dagli urli delle pazze nel manicomio     vicino.  Si  vergognava  dell'abitudine  di  preparare  la  tavola  da     ricevimento tutti i giorni, con tovaglie ricamate, servizi d'argento e     candelabri da funerale, perché cinque fantasmi cenassero con una tazza     di  caffellatte  e  frittelle.  Detestava il rosario all'imbrunire,  i     complimenti a tavola,  le continue critiche al suo modo di prendere le     posate,  di  camminare  con  quei  passi  lunghi e mistici da donna di     strada, di vestirsi come al circo, e perfino del suo sistema contadino     di trattare il marito e di dare il latte al figlio senza  coprirsi  il     seno  con  lo  scialle.  Quando fece i primi inviti per prendere il tè     alle cinque del pomeriggio,  con gallette imperiali  e  marmellate  di     fiori,  secondo  una  recente  moda inglese,  doña Blanca si oppose al     fatto che in casa sua si bevessero medicine per far sudare  la  febbre     invece  del  cioccolato con formaggio fuso e fette di pane di manioca.     Non le sfuggirono neanche  i  sogni.  Una  mattina  che  Fermina  Daza     raccontò  di  aver  sognato  uno sconosciuto che girava nudo spargendo     pugni di cenere nei saloni del  palazzo,  doña  Blanca  la  interruppe     seccamente:
    «Una donna come si deve non può fare questo tipo di sogni.»     Alla  sensazione  di trovarsi sempre in casa d'altri si aggiunsero due     disgrazie più grandi.  Una era la dieta quasi quotidiana di  melanzane     in  qualsiasi  modo,  che  doña  Blanca  si  rifiutava di cambiare per     rispetto al marito morto e che Fermina Daza si rifiutava di  mangiare.     Detestava  le  melanzane  fin  da  bambina,  prima  ancora  di  averle     assaggiate,  perché le era sempre sembrato che avessero un  colore  da     veleno.  Solo che quella volta dovette ammettere comunque che qualcosa     era cambiato in meglio nella sua vita perché a cinque anni aveva detto     la stessa cosa a tavola e suo  padre  l'aveva  obbligata  a  mangiarsi     tutto  il  tegame  previsto per sei persone.  Aveva creduto di morire,     prima per i vomiti delle melanzane masticate,  e poi per il tazzone di     olio  di  ricino  che  le  avevano  fatto bere a forza per curarla dal     castigo.  Le due cose le erano rimaste confuse nella memoria  come  un     solo purgante,  sia per il sapore sia per il terrore del veleno, e nei     pranzi abominevoli del  palazzo  del  Marchese  de  Casalduero  doveva     allontanare  lo  sguardo per non rigettare le attenzioni per la nausea     glaciale dell'olio di ricino.
    L'altra disgrazia fu l'arpa.  Un giorno,  ben conscia  di  quello  che     voleva dire,  doña Blanca aveva detto: «Non credo a donne come si deve     che non sappiano suonare il pianoforte».  Fu un ordine che perfino suo     figlio  tentò di discutere,  perché i migliori anni della sua infanzia     erano passati nelle galere delle lezioni di piano,  anche se ormai  da     adulto   lo  avrebbe  gradito.   Non  poteva  immaginarsi  sua  moglie     sottomessa alla stessa condanna, a venticinque anni e con un carattere     come il suo.  Ma l'unica cosa che ottenne da sua madre fu di  cambiare     il  piano con l'arpa,  con la scusa puerile che era lo strumento degli     angeli.  E fu così che fecero portare da Vienna  l'arpa  stupenda  che     sembrava  d'oro  e  che  suonava come se lo fosse,  e che fu una delle     reliquie più apprezzate del Museo della Città,  finché la  consumarono     le fiamme con tutto quello che aveva dentro. Fermina Daza si sottomise     a  quella  condanna  di lusso cercando di impedire il naufragio con un     sacrificio finale.  Incominciò con un maestro di  maestri  che  fecero     venire apposta dalla città di Mompos,  e che morì improvvisamente dopo     quindici giorni, e continuò per parecchi anni con il maggior musicista     del seminario, il cui fiato da becchino faceva stonare gli arpeggi.     Lei stessa era sorpresa della sua obbedienza.  Perché anche se non  lo     ammetteva nel suo statuto interno e neppure nelle liti sorde che aveva     con  suo  marito  nelle  ore che prima consacravano all'amore,  si era     ingarbugliata  molto  prima  di  quanto  credesse   nel   marasma   di     convenzioni  e  pregiudizi  del suo nuovo mondo.  All'inizio aveva una     frase rituale per affermare la sua libertà di giudizio:  «Alla  merda,     ventaglio,  è tempo di brezza».  Ma poi, gelosa dei suoi privilegi ben     ottenuti, timorosa della vergogna e delle beffe,  si mostrava disposta     a  sopportare anche l'umiliazione,  con la speranza che Dio finalmente     si muovesse a compassione di doña Blanca,  che nelle sue preghiere non     si stancava di supplicarlo di mandarle la morte.
    Il dottor Urbino giustificava la sua stessa debolezza con argomenti di     crisi,  senza  chiedersi  nemmeno se non fossero contro la sua chiesa.     Non ammetteva che i  conflitti  con  la  moglie  nascessero  nell'aria     rarefatta   della  casa,   ma  nella  natura  stessa  del  matrimonio:     un'invenzione assurda che solo poteva esistere per la grazia  infinita     di  Dio.  Era contro qualsiasi ragione scientifica che due persone che     si erano appena conosciute,  senza nessuna parentela fra di loro,  con     caratteri diversi,  con culture diverse,  e persino con sessi diversi,     si vedessero impegnate di colpo a  vivere  insieme,  a  dormire  nello     stesso  letto,  a condividere due destini che forse erano stabiliti in     sensi divergenti.  Diceva: «Il problema del matrimonio è  che  finisce     tutte  le  notti  dopo  che  si  è fatto l'amore,  e bisogna tornare a     ricostruirlo tutte le mattine prima della colazione». Peggio ancora il     loro,  diceva,  nato da due classi antagoniste  e  in  una  città  che     continuava  ancora  a  sognare il ritorno dei viceré.  L'unico cemento     possibile era qualcosa di così improbabile e volubile come l'amore, se     c'era, e nel loro caso non c'era quando si erano sposati, e il destino     non aveva fatto nient'altro che metterli di fronte alla realtà  quando     stavano proprio per inventarlo.
    Quella  era  la situazione delle loro vite all'epoca dell'arpa.  Erano     passati i casi deliziosi che lei entrasse mentre lui faceva il  bagno,     e nonostante le liti,  le melanzane velenose,  e nonostante le sorelle     dementi e la madre che le aveva partorite, lui aveva ancora abbastanza     amore per chiederle di insaponarlo.  Lei incominciava a  farlo  con  i     residui  di  amore che ancora le restavano dall'Europa,  e tutti e due     continuavano a farsi tradire dai ricordi,  addolcendosi senza volerlo,     amandosi  senza  dirlo,  e  finivano  per morirsene d'amore per terra,     impiastrati di spume fragranti,  mentre sentivano  le  domestiche  che     parlavano  di  loro nella lavanderia: «Se non hanno più figli è perché     non scopano». Una volta ogni tanto, al ritorno da qualche festa matta,     la nostalgia nascosta  dietro  la  porta  li  faceva  cadere  con  una     zampata, e allora avveniva un'esplosione meravigliosa in cui tutto era     di  nuovo come prima e per cinque minuti tornavano a essere gli amanti     sbracati della luna di miele.
    Ma a parte queste occasioni rare,  uno dei due era sempre  più  stanco     dell'altro al momento di andare a letto.  Lei si attardava in bagno ad     arrotolare le sue sigarette  di  carta  profumata,  fumando  da  sola,     ricadendo  nei  suoi  amori  di consolazione come quando era giovane e     libera a casa sua, unica padrona del suo corpo.  Le faceva sempre male     la testa,  o faceva troppo caldo,  sempre,  o faceva l'addormentata, o     aveva ancora le sue cose, le cose, sempre le cose. Tanto che il dottor     Urbino si era azzardato a  dire  durante  una  lezione,  solo  per  il     sollievo  di  uno  sfogo  senza  confessione,  che  dopo dieci anni di     matrimonio le donne avevano le loro cose tre volte alla settimana.     Disgrazie su disgrazie, Fermina Daza dovette affrontare nel peggio dei     suoi anni quello che doveva irrimediabilmente succedere prima  o  poi:     la  verità  sui  traffici  favolosi e mai conosciuti di suo padre.  Il     governatore provinciale,  che convocò Juvenal Urbino nel  suo  ufficio     per  metterlo  al corrente degli eccessi del suocero,  li riassunse in     una frase: «Non esiste legge divina né umana che quel tipo  non  abbia     superato».  Qualcuno  dei  suoi  pasticci  più  gravi  lo  aveva fatto     all'ombra del potere del genero, e sarebbe stato difficile non pensare     che questi e sua moglie  non  ne  fossero  al  corrente.  Sapendo  che     l'unica  reputazione  che  lo  potesse proteggere era la sua,  essendo     l'unica che restava in piedi,  il dottor Juvenal Urbino ci mise  tutto     il  peso  del suo potere,  e riuscì a soffocare lo scandalo con la sua     parola d'onore.  Cosicché Lorenzo Daza uscì dal paese sulla prima nave     per non tornarci più. Tornò alla sua terra d'origine come se fosse uno     di  quei  viaggetti  che  si  fanno di tanto in tanto per ingannare la     nostalgia,  e in fondo a quell'apparenza c'era un po'  di  verità:  da     parecchio  tempo saliva sulle navi della sua patria solo per prendersi     un bicchiere d'acqua delle cisterne riempite nelle  sorgenti  del  suo     villaggio  natale.  Se  ne  andò  senza  cedere,  protestando  la  sua     innocenza e cercando ancora di convincere il genero  di  essere  stato     vittima  di  una  congiura  politica.  Se  ne  andò  in lacrime per la     bambina,  come chiamava Fermina Daza da  quando  si  era  sposata,  in     lacrime per il nipote, per la terra in cui si era fatto ricco e libero     e dove aveva ottenuto la prodezza di trasformare la figlia in una dama     squisita  sulla  base  di  commerci  loschi.  Se ne andò invecchiato e     malato,  ma visse ancora molto più di quanto nessuna delle sue vittime     avrebbe  desiderato.  Fermina  Daza  non  poté reprimere un sospiro di     sollievo quando le arrivò la notizia della sua morte e  non  portò  il     lutto  per  evitare  domande,  ma  per  parecchi mesi piangeva con una     rabbia sorda senza sapere  perché  quando  si  chiudeva  nel  bagno  a     fumare, ed era che piangeva per lui.
    La  cosa più assurda della situazione di tutti e due era che non erano     mai sembrati tanto felici in pubblico come in quegli anni  sfortunati.     Perché  in  realtà  erano  stati gli anni delle loro maggiori vittorie     sull'ostilità nascosta  di  un  ambiente  che  non  si  rassegnava  ad     accettarli   così  come  erano:  diversi  e  moderni,   e,   pertanto,     trasgressori dell'ordine tradizionale.  Quella,  però,  era  stata  la     parte  più  facile  per  Fermina  Daza.  La  vita  mondana,  che tante     incertezze le provocava prima di conoscerla,  non  era  altro  che  un     sistema di patti atavici, di cerimonie banali, di parole scontate, con     cui  si  intrattenevano  in  società  gli  uni  con  gli altri per non     assassinarsi reciprocamente.  L'aspetto  dominante  di  quel  paradiso     della  frivolezza  provinciale  era  la paura del non conosciuto.  Lei     l'aveva definita  in  modo  più  semplice:  «Il  problema  della  vita     pubblica  è  imparare  a  dominare il terrore,  il problema della vita     coniugale è imparare a dominare la noia». Lei lo aveva improvvisamente     scoperto con la nitidezza di una rivelazione fin da quando era entrata     trascinando l'interminabile strascico da sposa nel grande  salone  del     Club Social,  rarefatto dagli odori mescolati di tanti fiori,  la fama     dei valzer,  la confusione di uomini sudati e donne  tremanti  che  la     guardavano  senza  sapere  ancora  come  avrebbero  scongiurato quella     minaccia sconvolgente che mandava loro il mondo esterno.  Aveva appena     compiuto  ventun  anni  ed  era appena uscita da casa sua per andare a     scuola,  ma le bastò  uno  sguardo  intorno  per  capire  che  i  suoi     avversari  non  erano  preda  dell'odio bensì paralizzati dalla paura.     Invece di spaventarli di più, come lo era lei,  fece loro la carità di     aiutarli a conoscerla. Nessuno fu diverso da come lei volle che fosse,     così come le capitava con le città, che non le sembravano né meglio né     peggio ma come lei le aveva fatte nel suo cuore. Parigi, nonostante la     sua pioggia perenne, i suoi bottegai sordidi e la grossolanità omerica     dei  suoi cocchieri,  doveva ricordarla sempre come la città più bella     del mondo non perché in realtà lo fosse o non lo fosse,  ma perché era     rimasta  legata  alla  nostalgia  dei suoi anni più felici.  Il dottor     Urbino,  da parte sua,  si impose con armi uguali a quelle che usavano     contro  di  lui,  solo  usate con più intelligenza e con una solennità     calcolata.  Non succedeva niente senza di loro: i passeggi  civici,  i     Giochi Floreali,  gli eventi artistici, le tombole di carità, gli atti     patriottici, il primo viaggio in pallone. In tutto c'entravano loro, e     quasi  sempre  all'origine  e  davanti   a   tutto.   Nessuno   poteva     immaginarsi,  nei suoi anni di disgrazie, che potesse esserci qualcuno     più felice di loro né un matrimonio così armonico come il loro.     La casa abbandonata dal padre diede a  Fermina  Daza  un  rifugio  suo     contro  l'asfissia  del palazzo di famiglia.  Non appena sfuggiva alla     vista di tutti, se ne andava di nascosto al Giardino de Los Evangelios     e lì riceveva le amiche nuove e qualcuna vecchia della scuola o  delle     lezioni di pittura: un sostituto innocente dell'infedeltà.  Viveva ore     tranquille da madre nubile con il molto che ancora le restava dei suoi     ricordi di ragazza.  Ricomprò i corvi profumati,  raccolse gatti dalla     strada  e  li mise sotto le cure di Gala Placidia,  ormai vecchia e un     po' impedita dai reumatismi ma ancora con la forza di  resuscitare  la     casa.  Riaprì  la stanza da lavoro dove Florentino Ariza l'aveva vista     per la prima volta, dove il dottor Juvenal Urbino le aveva fatto tirar     fuori la lingua per cercare di conoscerle il cuore,  e la trasformò in     un  santuario del passato.  Un pomeriggio invernale andò a chiudere il     balcone, prima che si scatenasse la tempesta,  e vide Florentino Ariza
    sulla  sua  panchina sotto i mandorli del giardinetto,  con l'abito di     suo padre ridotto per lui e il libro aperto in grembo,  ma non lo vide     come finora lo aveva visto per caso parecchie volte, bensì all'età con     cui  le era rimasto impresso nella memoria.  Ebbe il timore che quella     visione fosse un avviso della morte e ne provò dispiacere.  Si azzardò     a dirsi che forse sarebbe stata felice con lui, sola con lui in quella     casa  che  lei aveva restaurato per lui con tanto amore come lui aveva     restaurato la sua per lei,  e la  sola  idea  la  spaventò  perché  le     permise  di  accorgersi  degli estremi di infelicità cui era arrivata.     Allora fece appello alle sue  ultime  forze  e  obbligò  il  marito  a     discutere senza risposte evasive,  a confrontarsi con lei,  a litigare     con lei,  a piangere insieme di rabbia per la  perdita  del  paradiso,     finché  udirono cantare gli ultimi galli,  e si fece luce attraverso i     merletti del palazzo, e si incendiò il sole, e il marito gonfio per il     tanto parlare,  esausto per il non dormire,  con il cuore  rinvigorito     dal tanto piangere, si strinse i lacci degli stivaletti, si strinse la     cintura,  si strinse tutto quello che ancora gli restava di uomo, e le     disse sì, amore mio, sarebbero andati in cerca dell'amore che si erano     persi in Europa: la mattina stessa,  e per sempre.  Fu  una  decisione     così  sicura  che  stabilì  con il Banco del Tesoro,  che amministrava     tutti i suoi beni,  la  liquidazione  immediata  della  vasta  fortuna     familiare,  sparpagliata  fin  dagli  inizi  in  ogni  tipo di affari,     investimenti e cartacce sacre  e  lente,  e  di  cui  lui  sapeva  con     esattezza  solo  che  non  era  così smisurata come si diceva: solo il     giusto per  non  doverci  pensare.  Il  ricavato,  convertito  in  oro     marchiato,  doveva  essere  girato  a  poco  a  poco  alle  sue banche     all'estero finché non fosse rimasto a lui e a  sua  moglie  in  questa     patria inclemente neanche un palmo di terra dove caderci morti.     Ma Florentino Ariza esisteva,  in effetti, contrariamente a quanto lei     si era imposta di credere.  Era al  molo  del  transatlantico  per  la     Francia  quando  lei  arrivò  con  il marito e il figlio sul landò coi     cavalli d'oro,  e li vide scendere come tante  volte  li  aveva  visti     nelle cerimonie pubbliche: perfetti.  Andavano con il figlio,  educato     in un modo che permetteva già di sapere come sarebbe stato da  adulto:     proprio  come  fu.  Juvenal  Urbino  salutò  Florentino  Ariza con una     scappellata allegra: «Andiamo alla conquista delle  Fiandre».  Fermina     Daza gli fece un breve cenno con la testa, e Florentino Ariza si tolse     il cappello,  fece un lieve inchino, e lei lo guardò senza un gesto di     compassione per i danni prematuri della calvizie.  Era lui,  così come     lei lo vedeva: l'ombra di uno che non aveva mai conosciuto.
    Neanche Florentino Ariza era nel suo momento migliore.  Al lavoro ogni     giorno più intenso, ai suoi fastidi di cacciatore furtivo,  alla calma     assoluta  degli  anni,  si  era  aggiunta  la crisi finale di Tránsito
    Ariza,  la cui memoria era finita senza ricordi: quasi in  bianco.  Al     punto che certe volte si rivoltava verso di lui, lo vedeva leggere sul     seggiolone  di  sempre,  e  gli  chiedeva sorpresa: «E tu,  di chi sei     figlio?».  Lui  le  rispondeva  sempre  la  verità,   ma  lei  poi  lo     interrompeva di nuovo.
    «E dimmi una cosa, figlio» gli chiedeva, «io chi sono?»
    Era  ingrassata  tanto  da  non  potersi muovere e passava le giornate     nella  merceria  dove  ormai  non  c'era  più  nulla  da  vendere   ad     agghindarsi da quando si alzava al canto dei primi galli fino all'alba     del giorno dopo,  perché dormiva pochissime ore.  Si metteva ghirlande     di fiori sulla testa, si dipingeva le labbra,  si incipriava la faccia     e  le braccia,  e alla fine domandava a chi era con lei come stava.  I     vicini sapevano che si aspettava sempre la stessa  risposta:  «Sei  la     Cucarachita Martínez». Questa identità, usurpata al personaggio di una     favola per bambini,  era l'unica che la trovasse d'accordo. Continuava     a dondolarsi,  facendosi vento con il  ventaglio  dalle  grandi  piume     rosate,  finché ricominciava daccapo: la corona di fiori di carta,  il     muschio sulle palpebre, il rossetto sulle labbra,  lo strato di biacca     sulla  faccia.  E  di  nuovo  la  domanda a chi le stava vicino: «Come     sto?». Quando diventò la regina delle facezie del vicinato, Florentino     Ariza fece smontare in una notte  il  banco  e  le  cassettiere  della     vecchia  merceria,  fece  chiudere  la porta sulla strada,  sistemò il     locale  come  l'aveva  sentita  descrivere  la  stanza  da  letto   di     Cucarachita Martínez, e non chiese mai più chi fosse.
    Su  suggerimento dello zio León Dodicesimo aveva cercato una donna più     anziana che si occupasse di  lei,  ma  la  poveretta  era  sempre  più     addormentata  che  sveglia  e  a volte dava l'impressione anche lei di     dimenticarsi chi era.  Così Florentino Ariza restava in casa da quando     usciva  dall'ufficio finché riusciva a far addormentare la madre.  Non     tornò a giocare a domino al Club del Comercio,  né tornò a trovare per     parecchio  tempo  le  poche  vecchie  amiche  che  aveva  continuato a     frequentare perché qualcosa di molto profondo gli era mutato nel cuore     dopo l'incontro atroce con Olimpia Zuleta.
    Era stato fulminante.  Florentino Ariza aveva appena portato a casa lo     zio León Dodicesimo,  in mezzo a una di quelle tempeste di ottobre che     ci lasciavano in convalescenza, quando vide dalla carrozza una ragazza     piccola,  molto agile,  con un vestito pieno di volants di organza che     sembrava più che altro un vestito da sposa. La vide correre spaventata     qua  e là,  perché il vento le aveva strappato l'ombrellino e se l'era     portato per aria verso il mare.  Lui la fece salire nella  carrozza  e     deviò  dal  suo  tragitto  per  portarla fino a casa sua,  una vecchia     cappella adattata per vivere davanti al  mare  aperto,  il  cui  patio     pieno  di  casette  di  piccioni  si vedeva fin dalla strada.  Lei gli     raccontò durante il tragitto di essersi sposata da meno di un anno con     un venditore del mercato che Florentino Ariza aveva visto  spesso  sui     battelli della sua compagnia,  mentre scaricava casse con ogni tipo di     cianfrusaglie da vendere,  e con un sacco di piccioni in una gabbia di     vimini  come  quella  che  usavano  le madri sui battelli fluviali per     portare i bambini appena nati.  Olimpia  Zuleta  sembrava  appartenere     alla  famiglia  delle  vespe,  non  solo  per le anche alte e il busto     esiguo, ma per tutta lei: i capelli di filo di rame,  le lentiggini di     sole,  gli  occhi  rotondi e vivi più lontani del normale,  e una voce     garbata che usava solo per dire  cose  intelligenti  e  divertenti.  A     Florentino  Ariza sembrò più graziosa che attraente e la dimenticò non     appena l'ebbe lasciata a casa sua,  dove viveva con il marito e con il     suocero e altri componenti della famiglia.
    Qualche giorno dopo rivide suo marito al porto, mentre imbarcava merci     invece  di  scaricarle,  e  quando  il battello salpò Florentino Ariza     sentì molto chiara nell'orecchio la voce del diavolo. Quel pomeriggio,     dopo aver accompagnato lo zio León Dodicesimo,  passò  come  per  caso     dalla  casa  di Olimpia Zuleta,  e la vide dal di sopra dello steccato     mentre dava da mangiare ai  piccioni  spaventati.  Dalla  carrozza  le     gridò al di sopra dello steccato: «Quanto costa un piccione?».  Lei lo     riconobbe e gli rispose con voce allegra: «Non sono in  vendita».  Lui     le chiese: «Allora come si fa per averne uno?». Senza smettere di dare     da  mangiare  ai  piccioni  lei  gli rispose: «Si porta in carrozza la     padrona dei piccioni quando la si trova persa nel temporale».  E  così     Florentino   Ariza  arrivò  a  casa  quella  sera  con  un  regalo  di     gratitudine di Olimpia Zuleta: un piccione viaggiatore con  un  anello     di metallo alla zampa.
    Il pomeriggio seguente,  alla stessa ora del pranzo,  la bella padrona     dei piccioni vide il piccione  che  aveva  regalato  di  ritorno  alla     piccionaia  e  pensò  che  fosse  scappato.  Ma  quando  lo  prese per     esaminarlo si accorse che aveva un  fogliettino  di  carta  arrotolato     nell'anello:  una  dichiarazione  d'amore.  Era  la  prima  volta  che     Florentino Ariza lasciava una traccia scritta,  e  non  sarebbe  stata     l'ultima,  anche se in questa occasione aveva avuto la prudenza di non     firmare.   Stava  entrando  in  casa  sua  il  pomeriggio  successivo,     mercoledì,  quando  un  bambino  della  strada  gli consegnò lo stesso     piccione dentro una gabbia,  con il messaggio imparato a  memoria  che     qui le manda questo la signora dei piccioni, e le manda a dire che per     favore lo tenga bene nella gabbia chiusa perché non se ne riscappi via     e questa è l'ultima volta che glielo rimanda indietro.  Non seppe come     interpretarlo: o  il  piccione  aveva  perso  la  lettera  durante  il     tragitto o la padrona dei piccioni aveva deciso di fare la finta tonta     o  mandava il piccione perché lui glielo rimandasse di nuovo indietro.
    In quest'ultimo caso,  però,  la cosa naturale sarebbe stata  che  lei     restituisse il piccione con una risposta.
    Il sabato mattina,  dopo averci pensato molto,  Florentino Ariza mandò     di nuovo il piccione con un'altra lettera senza  firma.  Quella  volta     non dovette aspettare il giorno dopo.  Al pomeriggio lo stesso bambino     glielo riportò in un'altra gabbia,  con il messaggio che qui le  manda     un'altra  volta  il  piccione  che  è riscappato via,  che l'altroieri     gliel'ha rimandato per buona educazione e che stavolta glielo  rimanda     per  pena,  ma  ora  sì  che è vero che non glielo rimanderà più se le     scappa di nuovo.  Tránsito Ariza si intrattenne fino a molto tardi con     il  piccione,  lo  tirò fuori dalla gabbia,  gli sussurrò parole dolci     tenendolo fra le braccia,  cercò di farlo addormentare  con  nenie  da     bambini,  e  improvvisamente  si  accorse  che aveva nell'anello della     zampa un pezzettino di carta con una sola riga scritta:  "Non  accetto     biglietti anonimi".  Florentino Ariza lo lesse con il cuore impazzito,     come se fosse il momento culminante della sua  prima  avventura,  e  a     stento riuscì a dormire quella notte saltando di impazienza. Il giorno     dopo,  molto presto,  prima di andarsene in ufficio,  liberò ancora il     piccione con una lettera d'amore firmata col suo nome molto  chiaro  e     mise anche nell'anello la rosa più fresca,  più accesa e fragrante del     suo giardino.
    Non fu tanto facile.  Dopo tre mesi di assedi  la  bella  padrona  dei     piccioni  continuava  a rispondere la stessa cosa: «Io non sono una di     quelle».  Ma non smise mai di accettare i messaggi o di accorrere agli     appuntamenti  che  Florentino  Ariza sistemava in modo che sembrassero     incontri casuali.  Era irriconoscibile: l'amante  che  non  aveva  mai     assunto  le  proprie responsabilità,  il più avido d'amore ma anche il     più meschino,  quello che non dava niente e voleva tutto,  quello  che     non aveva permesso che nessuno gli lasciasse nel cuore una traccia del     suo  passaggio,  il  cacciatore  acquattato  si buttò per la strada in     mezzo a un'estasi di lettere  firmate,  di  regali  galanti,  di  giri     imprudenti  intorno  alla casa della padrona dei piccioni,  perfino in     due occasioni in cui il marito non era in viaggio né  al  mercato.  Fu     l'unica  volta,  fin dai primi tempi del primo amore,  in cui si sentì     trapassato da una lancia.
    Sei mesi dopo il primo incontro,  si videro finalmente nella cabina di     un battello fluviale che stavano ridipingendo ai moli fluviali.  Fu un     pomeriggio meraviglioso.  Olimpia Zuleta faceva un amore  allegro,  da     padrona  di piccioni agitata,  e le piaceva restare nuda per parecchie     ore, in un riposo lento che aveva per lei tanto amore come l'amore. La     cabina era smantellata,  dipinta a metà,  e l'odore di trementina  era     buono  per  portarselo  via  nel  ricordo  di  un  pomeriggio  felice.     Improvvisamente,  per un'ispirazione insolita,  Florentino Ariza tolse
    il  tappo  a  un  barattolo di pittura rossa che era a portata di mano     della cuccetta,  ci intinse l'indice e dipinse sul  pube  della  bella     padrona  di piccioni una freccia di sangue diretta verso il sud,  e le     scrisse una frase sul ventre: "Questa  fichina  è  mia".  Quella  sera     stessa  Olimpia  Zuleta  si spogliò davanti al marito senza ricordarsi     della scritta,  e lui non disse una  parola,  non  cambiò  neanche  il     respiro,  niente,  ma  se  ne  andò nel bagno a prendere il rasoio per     farsi la barba mentre lei si metteva la camicia da notte,  e la sgozzò     con un colpo solo.
    Florentino  Ariza  non  lo  seppe fino a molti giorni dopo,  quando il     marito che era fuggito fu catturato e raccontò ai giornali le  ragioni     e  i  modi  del delitto.  Per molti anni pensò con timore alle lettere     firmate,  fece il conto degli anni di carcere  dell'assassino  che  lo     conosceva  molto  bene  per  via dei suoi affari sui battelli,  ma non     temeva tanto la rasoiata al collo né lo scandalo  pubblico  quanto  la     malasorte  che  Fermina  Daza  venisse a conoscenza della sua slealtà.     Durante gli anni di attesa, la donna che si occupava di Tránsito Ariza     dovette fermarsi al mercato più del previsto per via di  un  temporale     fuori stagione e quando tornò a casa la trovò morta.  Era seduta nella     sedia a dondolo,  impiastricciata e floreale come sempre,  e  con  gli     occhi  così  vivi e un sorriso così malizioso che la sua guardiana non     si accorse che era morta se non dopo due ore.  Poco prima aveva diviso     fra  i  bambini  del  circondario  la  fortuna in oro e gioielli delle     anfore sepolte sotto il letto dicendo loro che se li potevano mangiare     come caramelle,  e  non  fu  possibile  recuperarne  nessuno  dei  più     preziosi.  Florentino  Ariza  la seppellì nella vecchia fattoria de La     Mano de Dios, che era anche conosciuta come il Cimitero del Colera,  e     sulla sua tomba seminò un cespuglio di rose.
    Fin  dalle  prime  visite al cimitero,  Florentino Ariza scoprì che lì     vicino era sepolta Olimpia Zuleta,  senza lapide ma con il nome  e  le     date scritti con il dito sul cemento fresco della cripta,  e pensò con     orrore che  fosse  uno  scherzo  sanguinario  del  marito.  Quando  il     cespuglio fiorì le lasciava una rosa sulla tomba, se non c'era nessuno     in  vista,  e  più  tardi le piantò un ceppo tagliato dalle rose della     madre.  Tutti e due i  cespugli  proliferavano  con  tanta  gioia  che     Florentino Ariza doveva portare le cesoie e altri attrezzi da giardino     per  tenerli  in  ordine.  Ma fu superiore alle sue forze: nel giro di     pochi anni i due cespugli di rose si erano estesi come erbacce fra  le     tombe,  e il buon cimitero della peste si chiamò da allora il Cimitero     delle  Rose  finché  qualche  sindaco  meno  realista  della  saggezza     popolare  sradicò  in  una sole notte i cespugli di rose e attaccò una     scritta repubblicana sull'arco dell'entrata: Cimitero Universale.     La morte della madre lasciò Florentino  Ariza  condannato  ancora  una     volta  ai  suoi  impegni  maniacali:  l'ufficio,  gli incontri a turni     stretti con le amanti di sempre,  le partite di  domino  al  Club  del     Comercio,  gli stessi libri d'amore, le visite domenicali al cimitero.     Era l'ossido dell'abitudine, così denigrato e temuto,  ma che lo aveva     protetto  dalla  coscienza dell'età.  Una domenica di dicembre,  però,     quando i rosai delle tombe avevano vinto le cesoie,  vide  le  rondini     sui  cavi  della  luce  da poco installata e si rese conto di colpo di     quanto  tempo  era  passato  dalla  morte  di  sua  madre,   e  quanto     dall'assassinio di Olimpia Zuleta,  e quanto da quell'altro pomeriggio     del dicembre lontano in cui Fermina Daza gli aveva mandato una lettera     in cui gli diceva di sì, che lo avrebbe amato per sempre.  Fino a quel     momento  si  era  comportato  come se il tempo non passasse per lui ma     solo per gli altri.  Solo la settimana prima aveva incontrato  per  la     strada una delle tante coppie che si erano sposate grazie alle lettere     scritte  da  lui e non aveva riconosciuto il figlio maggiore,  che era     suo figlioccio.  Aveva risolto il rossore con  la  solita  ammirazione     esagerata: «Cazzo,  sei già un uomo!». Continuava a essere così, anche     dopo che il corpo incominciò a mandargli i primi segnali  di  allarme,     perché aveva sempre avuto la salute di pietra dei malaticci.  Tránsito     Ariza era solita dire:  «L'unica  cosa  di  cui  mio  figlio  è  stato     ammalato è il colera».  Confondeva il colera con l'amore,  ovviamente,     fin da molto tempo prima che le si imbrogliasse la memoria. Ma in ogni     modo si sbagliava,  perché il  figlio  aveva  avuto  segretamente  sei     blenorragie,  anche se il medico diceva che non erano sei ma sempre la     stessa e unica che tornava ad  apparire  dopo  ogni  battaglia  persa.     Aveva  avuto  inoltre  un  bubbone,  quattro  creste  di  gallo  e sei     impetigini,  ma né  a  lui  né  a  nessun  uomo  sarebbe  capitato  di     annoverarli come malattie bensì come trofei di guerra.
    Appena  compiuti  i  quarant'anni  aveva dovuto correre dal medico con     dolori indefinibili in diverse parti del corpo.  Dopo molti  esami  il     medico  gli  aveva  detto: «Sono cose dell'età».  Lui tornava sempre a     casa senza nemmeno chiedersi se tutto  quello  aveva  qualcosa  a  che     vedere  con  lui.  Perché l'unico punto di riferimento del suo passato     erano i suoi amori effimeri con Fermina Daza,  e solo quello che aveva     avuto  qualcosa a che vedere con lei aveva qualcosa a che vedere con i     conti della sua vita.  Così,  il pomeriggio in cui vide le rondini sui     cavi della luce ripercorse il suo passato fin dal ricordo più vecchio,     ripercorse i suoi amori occasionali, gli innumerevoli scogli che aveva     dovuto  evitare per raggiungere un posto di comando,  gli incidenti di     poco conto che gli aveva provocato la sua determinazione accanita  che     Fermina  Daza  fosse  sua,  e lui di lei al di sopra di tutto e contro     tutto,  e solo allora scoprì che la vita gli stava  passando  via.  Lo     spaventò un brivido delle viscere che lo lasciò senza luce,  e dovette     mollare gli  attrezzi  da  giardinaggio  e  appoggiarsi  al  muro  del     cimitero  per  non  farsi  gettare  a  terra dalla prima zampata della     vecchiaia.
    «Cazzo» disse fra sé terrorizzato, «sono trent'anni!»
    Ed era così.  Trent'anni che erano passati  anche  per  Fermina  Daza,     ovviamente,  ma  che  erano  stati  per lei i più graditi e riparatori     della sua vita.  I giorni orrendi  del  Palazzo  de  Casalduero  erano     relegati nell'immondezzaio della memoria.  Viveva nella sua nuova casa     di La Manga,  padrona assoluta del suo  destino,  con  un  marito  che     avrebbe  ancora  preferito  fra  tutti  gli uomini del mondo se avesse     dovuto scegliere un'altra volta,  con  un  figlio  che  prolungava  la     tradizione  della  stirpe  alla  Scuola  di Medicina e una figlia così     simile a  lei  quando  aveva  la  sua  età  che  a  volte  la  turbava     l'impressione  di  sentirsi ripetuta.  Era tornata tre volte in Europa     dopo il viaggio disgraziato che aveva previsto per non tornare mai più     per non vivere nel terrore perenne.
    Dio dovette ascoltare alla fine le preghiere  di  qualcuno:  dopo  due     anni  di  permanenza  a  Parigi,  quando Fermina Daza e Juvenal Urbino     incominciavano appena a cercare quello che  fosse  rimasto  dell'amore     fra  i  rottami,  un telegramma a mezzanotte li svegliò con la notizia     che doña  Blanca  de  Urbino  era  gravemente  ammalata,  e  fu  quasi     raggiunto  da  un  altro  con  la  notizia  della  morte.  Rientrarono     immediatamente.  Fermina Daza sbarcò con una  veste  a  lutto  la  cui     ampiezza  non  riusciva  a  dissimulare  il  suo  stato.  Era di nuovo     incinta, in effetti, e la notizia diede origine a una canzone popolare     più maliziosa che maligna,  il cui ritornello rimase di  moda  per  il     resto  dell'anno:  "Che  cosa sarà che ha la bella a Parigi,  che ogni     volta che va ritorna a partorire".  Nonostante la  grossolanità  delle     parole, il dottor Juvenal Urbino la richiedeva perfino molti anni dopo     alle feste del Club Social come una prova della sua buona volontà.     Il  nobile  palazzo del Marchese de Casalduero,  della cui esistenza e     blasoni non si trovò mai una notizia  certa,  fu  venduto  prima  alla     Tesoreria  Municipale a un prezzo adeguato,  e più tardi rivenduto per     una fortuna al governo centrale  quando  un  ricercatore  olandese  si     fermò  a  fare  scavi  per  provare  che  lì  c'era  la  vera tomba di     Cristoforo Colombo: la quinta.  Le sorelle del  dottor  Urbino  se  ne     andarono  a  vivere  nel  convento delle Salesiane,  in clausura senza     voti,  e Fermina Daza rimase nella vecchia casa di suo padre finché fu     ultimata  la villa di La Manga.  Ci entrò col passo fermo,  ci entrò a     comandare,  con i mobili inglesi portati fin dal viaggio  di  nozze  e     quelli  complementari  che  aveva  fatto  arrivare  dopo il viaggio di     riconciliazione, e fin dal primo giorno incominciò a riempirla di ogni     tipo di animali esotici che lei stessa andava a comprare sulle golette
    che venivano dalle Antille. Ci entrò con il marito recuperato,  con il     figlio  ben allevato,  con la figlia che era nata quattro mesi dopo il     ritorno e che avevano battezzato col nome di Ofelia. Il dottor Urbino,     da parte sua, capì che era impossibile recuperare la moglie in un modo     così completo come l'aveva avuta nel viaggio di nozze, perché la parte     di amore che lui voleva era quella che lei aveva dato ai figli con  il     meglio del suo tempo,  ma imparò a vivere e a essere felice con quello     che ne restava.  L'armonia  tanto  desiderata  culminò  dove  meno  se     l'aspettavano in una cena di gala in cui servirono un piatto delizioso     che  Fermina Daza non riusci a identificare.  Incominciò con una bella     porzione, ma le piacque tanto che ripeté con un'altra uguale,  e stava     lamentando  di  non  potersi servire la terza per remore di educazione     quando venne a sapere che  si  era  appena  mangiata  con  un  piacere     insospettato  due  piatti  stracolmi  di purè di melanzane.  Perse con     eleganza: a partire da allora nella vita di La  Manga  furono  servite     melanzane in tutti i modi possibili quasi con tanta frequenza come nel     Palazzo de Casalduero,  ed erano così richieste da tutti che il dottor     Juvenal Urbino rallegrava i momenti liberi della  vecchiaia  ripetendo     di voler avere un'altra figlia per metterle il nome beneamato in casa:
    Melanzana Urbino.
    Fermina  Daza  sapeva  allora che la vita privata,  al contrario della     vita pubblica,  era  mutevole  e  imprevedibile.  Non  le  era  facile     stabilire  differenze  reali fra i bambini e gli adulti,  ma in ultima     analisi preferiva i bambini perché avevano giudizi più  certi.  Appena     doppiato  il  capo  della  maturità,  priva  finalmente  di  qualsiasi     miraggio,  incominciò a scorgere il disincanto di non essere mai stata     quello  che sognava di essere quando era giovane,  nel Giardino de Los     Evangelios,  bensì qualcosa che non aveva mai osato dire neanche a  se     stessa:  una  domestica  di  lusso.  In società finì per essere la più     amata, la più complimentata, e per lo stesso motivo la più temuta,  ma     nulla  le  veniva richiesto con maggior rigore né le si perdonava meno     che nella direzione della casa.  Si sentì sempre di  vivere  una  vita     prestatale dal marito: sovrana assoluta di un vasto impero di felicità     edificato  da  lui  e  solo  per  lui.  Sapeva  che lui l'amava più di     qualsiasi cosa, più di chiunque altro al mondo, ma solo per sé: al suo     santo servizio.
    Se c'era qualcosa che la mortificava era la catena perpetua dei pranzi     quotidiani.  Perché  non  solo  dovevano  essere  al  momento  giusto:     dovevano  essere  perfetti  e  dovevano  essere proprio quello che lui     voleva mangiare senza chiederglielo.  Se lei qualche volta lo  faceva,     come una delle tante inutili cerimonie del rituale domestico,  lui non     alzava neanche gli  occhi  dal  giornale  per  rispondere:  «Qualunque     cosa».  Lo diceva veramente, con il suo modo amabile, perché non ci si     poteva immaginare un marito meno dispotico.  All'ora di pranzo,  però,     non poteva essere qualunque cosa,  ma proprio quello che lui voleva, e     senza il minimo errore: che la carne non  sapesse  di  carne,  che  il     pesce non sapesse di pesce, che il maiale non sapesse di rogna, che il     pollo non sapesse di piume.  Anche quando non era stagione di asparagi     bisognava trovarli a qualunque prezzo perché lui  potesse  sollazzarsi     nel  vapore  della  sua  stessa  urina  fragrante.  Non incolpava lui:     incolpava la vita.  Ma lui era un protagonista implacabile della vita.     Bastava  l'intoppo  di  un  dubbio  perché  allontanasse il piatto sul     tavolo,  dicendo: «Questo cibo è fatto senza  amore».  In  quel  senso     raggiungeva livelli fantastici di ispirazione.  Qualche volta assaggiò     appena una tisana di camomilla e la  rimandò  indietro  solo  con  una     frase:  «Questa  foglia  sa  di  finestra».  Sia lei sia le domestiche     rimasero sorprese,  perché nessuno sapeva di  qualcuno  che  si  fosse     bevuto  una  finestra  bollita,  ma  quando assaggiarono la tisana per     cercare di capire, capirono: sapeva di finestra.
    Era un marito  perfetto:  non  raccoglieva  mai  niente  da  terra  né     spegneva  la  luce  né chiudeva una porta.  Nell'oscurità del mattino,     quando mancava un bottone  al  vestito,  lei  lo  sentiva  dire:  «Uno     avrebbe bisogno di due mogli, una per amarla e l'altra per attaccargli     i  bottoni».  Tutti  i  giorni,  al  primo  goccio di caffè e al primo     cucchiaio di minestra fumante,  lanciava un ululato lacerante che  non     spaventava più nessuno, e poi uno sfogo: «Il giorno in cui me ne andrò     da  questa casa sapranno che è stato perché mi sono stancato di andare     in giro sempre con la bocca bruciata».  Diceva che non si facevano mai     i  pranzi  così  appetitosi  e distinti come nei giorni in cui lui non     poteva mangiarli perché aveva preso la purga, ed era così convinto che     fosse una perfidia della moglie che finì per non purgarsi se  lei  non     si fosse purgata insieme a lui.
    Infastidita  della  sua  incomprensione,  lei  gli  chiese  un  regalo     insolito ai suoi compleanni: che per un giorno facesse  lui  i  lavori     domestici.  Lui  accettò divertito,  e in effetti prese possesso della     casa fin  dall'alba.  Servì  una  prima  colazione  splendida,  ma  si     dimenticò  che  a  lei  non  piacevano le uova fritte e che non beveva     caffellatte.  Poi diede le istruzioni per il pranzo di compleanno  con     otto  invitati e dispose di riordinare la casa,  e si sforzò tanto per     fare un governo della casa migliore di quello  di  lei  che  prima  di     mezzogiorno  dovette  capitolare  senza un gesto di vergogna.  Fin dal     primo momento si accorse di non avere la minima idea  di  dove  stesse     niente, soprattutto in cucina, e le domestiche lo lasciarono rigirarsi     tutto per cercare ogni cosa, perché anche loro stettero al gioco. Alle     dieci  non  erano ancora state prese le decisioni per il pranzo perché     ancora non erano finite le pulizie della casa né la sistemazione della     camera da letto,  il bagno doveva ancora essere lavato,  dimenticò  di     mettere  la carta igienica,  di cambiare le lenzuola,  e di mandare il     cocchiere a prendere i figli,  e confuse i compiti  delle  domestiche:     ordinò alla cuoca di sistemare i letti e mise le cameriere a cucinare.     Alle undici,  quando stavano ormai per arrivare gli invitati, era tale     il caos in casa che Fermina Daza riprese il comando, morta dal ridere,     però non con l'atteggiamento trionfale che avrebbe voluto,  ma  scossa     da  compassione  per  l'inutilità domestica del marito.  Lui medicò la     ferita con la solita frase: «Almeno non mi è andata  tanto  male  come     andrebbe  a  te  se  cercassi di curare dei malati».  Ma la lezione fu     utile, e non solo per lui. Nel corso degli anni tutti e due arrivarono     per cammini diversi alla conclusione  saggia  che  non  era  possibile     vivere  insieme  in un altro modo né amarsi in un altro modo: niente a     questo mondo era più difficile dell'amore.
    Nella pienezza della sua nuova vita,  Fermina Daza  vedeva  Florentino     Ariza  in  diverse occasioni pubbliche,  e tanto più spesso quanto più     lui saliva nel suo lavoro,  ma imparò a vederlo con tanta  naturalezza     che  più  di  una  volta  si  dimenticò  di salutarlo per distrazione.     Sentiva parlare spesso di lui,  perché nel mondo degli affari  era  un     tema  costante  la sua scalata guardinga ma incontenibile nella C.F.C.     Lo vedeva migliorare i suoi modi, la sua timidezza si decantava in una     certa lontananza enigmatica,  gli stava bene  un  leggero  aumento  di     peso,  gli si addiceva la lentezza dell'età,  e aveva saputo risolvere     in modo dignitoso  la  calvizie  demolitrice.  L'unica  cosa  con  cui     continuò  a  sfidare  sempre  il tempo e la moda furono i suoi vestiti     scuri, le finanziere anacronistiche, il suo straordinario cappello, le     cravatte da poeta della merceria di sua  madre,  l'ombrello  sinistro.     Fermina  Daza  a  poco  a poco venne abituandosi a vederlo in un altro     modo e finì per non collegarlo all'adolescente languido che si  sedeva     a  sospirare per lei sotto i ventacci di foglie gialle nel Giardino de     Los Evangelios.  Comunque,  non lo guardò mai con  indifferenza  e  fu     sempre  felice  delle  buone  notizie che le davano su di lui perché a     poco a poco l'alleggerivano della sua colpa.
    Tuttavia,  quando ormai lo credeva del tutto cancellato dalla memoria,     riapparve  da  dove  meno  se  lo aspettava trasformato in un fantasma     delle sue nostalgie.  Furono i primi  soffi  della  vecchiaia,  quando     incominciò  a  sentire che qualcosa di irreparabile era successo nella     sua vita ogni volta che sentiva tuonare prima della  pioggia.  Era  la     ferita  incurabile  del  tuono  solitario,  pietroso  e puntuale,  che     rimbombava tutti i giorni di ottobre alle  tre  del  pomeriggio  sulla     sierra di Villanueva e il cui ricordo si faceva sempre più recente col     passare  degli  anni.  Mentre  i ricordi recenti si confondevano nella     memoria  in  pochi  giorni,   quelli  del  viaggio  leggendario  nella     provincia  della  cugina Hildebranda continuavano a farsi così vivi da     sembrare  che  fossero  di  ieri,  con  la  nitidezza  perversa  della     nostalgia.  Si ricordava di Manaure, quello della sierra, la sua unica     strada, dritta e verde, i suoi uccelli di buon augurio,  la casa delle     paure   dove   si   svegliava  con  la  camicia  zuppa  delle  lacrime     interminabili di Petra Morales,  morta d'amore molti anni prima  nello     stesso  letto  in  cui  dormiva  lei.  Si  ricordava  del sapore delle     "guayabas" di allora che non era mai più tornato a essere  lo  stesso,     dei  presagi  così intensi che il loro rumore si confondeva con quello     della pioggia, dei pomeriggi di topazio di San Juan del César,  quando     usciva  a  passeggiare  con  la sua corte di cugine agitate e girava a     denti stretti perché non le schizzasse fuori della bocca il cuore  più     si  avvicinavano all'ufficio telegrafico.  Vendette in qualche modo la     casa  di  suo  padre  perché  non  riusciva  a  sopportare  il  dolore     dell'adolescenza,  la visione del giardinetto desolato dal balcone, la     fragranza sibillina delle gardenie nelle notti di caldo,  lo  spavento     del suo ritratto da signora d'altri tempi il pomeriggio di febbraio in     cui fu deciso il suo destino,  e verso qualsiasi cosa si rivolgesse la     sua memoria dl quei tempi inciampava nel ricordo di Florentino  Ariza.     Però,  ebbe  sempre  abbastanza  serenità  per capire come non fossero     ricordi d'amore né di pentimento,  bensì l'immagine di  un  dispiacere     che  le  lasciava una scia di lacrime.  Senza saperlo,  era minacciata     dalla stessa trappola di compassione che aveva perduto  tante  vittime     sprovvedute di Florentino Ariza.
    Si  attaccò  al marito.  E proprio nel momento in cui lui ne aveva più     bisogno,  perché andava a tastoni davanti a  lei  con  dieci  anni  di     svantaggio,  solo  fra  le  nuvole della vecchiaia e con gli svantaggi     peggiori di essere uomo e più debole.  Finirono per  conoscersi  tanto     che  prima  dei  trent'anni di matrimonio erano come uno stesso essere     diviso,  e si  sentivano  a  disagio  per  la  frequenza  con  cui  si     indovinavano  il pensiero senza volerlo o per il caso ridicolo che uno     anticipasse in pubblico quello che avrebbe  detto  l'altro.  Si  erano     destreggiati  insieme  tra  le  incomprensioni  quotidiane,   gli  odi     improvvisi, le porcherie reciproche e i favolosi lampi di gloria della     complicità coniugale.  Fu l'epoca in  cui  si  amarono  meglio,  senza     fretta  e  senza  eccessi,  e tutti e due furono più consci e contenti     delle loro vittorie inverosimili contro l'avversità.  La  vita  doveva     ancora metterli davanti a altre prove mortali, certo, ma non importava     più: erano sull'altra sponda.
    In occasione delle festività del nuovo secolo ci fu un programma pieno     di novità di celebrazioni pubbliche,  la più memorabile delle quali fu     il primo viaggio in pallone,  frutto dell'iniziativa inesauribile  del     dottor Juvenal Urbino. Mezza città si concentrò alla Playa del Arsenal     per  ammirare  l'enorme pallone di taffetà con i colori della bandiera     nazionale,  che portò la prima posta aerea a San Juan de  la  Ciénaga,     una  trentina  di  leghe a nordest in linea d'aria.  Il dottor Juvenal     Urbino e sua  moglie,  che  avevano  conosciuto  l'emozione  del  volo     all'Esposizione  Universale  di Parigi,  furono i primi a salire sulla     navicella di vimini con l'ingegnere di volo e  sei  invitati  di  alto     rango. Avevano con loro una lettera del governatore provinciale per le     autorità  municipali di San Juan de la Ciénaga in cui si stabiliva per     la storia che quella era la prima posta trasportata per via d'aria. Un     cronista del "Diario del Comercio" domandò al  dottor  Juvenal  Urbino     quali   sarebbero   state   le  sue  ultime  parole  se  fosse  perito     nell'avventura e lui non si attardò a  pensare  la  risposta  che  gli     avrebbe provocato tanti insulti:
    «Secondo me» disse «il diciannovesimo secolo cambia per tutti meno che     per noi.»
    Perso  fra  la  candida  folla  che cantava l'Inno Nazionale mentre il     pallone si sollevava, Florentino Ariza si sentì d'accordo con qualcuno     che udì commentare nella confusione che quella  non  era  un'avventura     adatta a una donna, e tantomeno all'età di Fermina Daza. Ma non fu poi     così  pericolosa,  dopo  tutto.  O  almeno non tanto pericolosa quanto     deprimente. Il pallone arrivò senza contrattempi alla sua destinazione     dopo  un  viaggio  tranquillo  attraverso  un  cielo  di  un   azzurro     inverosimile.  Volarono  bene,  molto  basso,  con  vento tranquillo e     favorevole,  prima sui contrafforti delle creste innevate  e  poi  sul     vasto pelago della Ciénaga Grande.
    Dal cielo,  come le vedeva Dio,  videro le rovine dell'antichissima ed     eroica  città  di  Cartagena  de  Indias,  la  più  bella  del  mondo,     abbandonata  dai  suoi  abitanti  per  il  panico del colera dopo aver     resistito a ogni tipo di assedio di inglesi e  angherie  di  bucanieri     per tre secoli.  Videro le mura intatte,  le erbacce delle strade,  le     fortificazioni divorate dalle viole del pensiero, i palazzi di marmo e     gli altari d'oro con i loro viceré marciti di peste dentro  alle  loro     armature.
    Volarono sopra le palafitte delle Trojas de Cataca, dipinte con colori     da pazzi,  con gabbie per allevare iguane da mangiare,  e con grappoli     di balsamina e  "astromelias"  nei  giardini  lacustri.  Centinaia  di     bambini nudi si buttavano nell'acqua spaventati dal vocio generale, si     buttavano  giù  dalle  finestre,  si buttavano giù fin dai tetti delle     case e dalle canoe che conducevano con un'abilità meravigliosa,  e  si     tuffavano come pesci per recuperare i colli di vestiti,  le ampolle di     "tabonuco" per la tosse,  le cose da mangiare di  beneficenza  che  la     bella  signora  col cappello con le piume lanciava dalla navicella del     pallone.
    Volarono sull'oceano di ombre delle  piantagioni  di  banani,  il  cui     silenzio  si  innalzava  fino a loro come un vapore letale,  e Fermina     Daza si ricordò di lei stessa a tre  anni,  a  quattro  forse,  mentre     passeggiava  per la foresta scura per mano a sua madre,  che anch'essa     era quasi una bambina in mezzo ad altre donne  vestite  di  mussolina,     proprio  come  lei,  con  ombrellini  bianchi  e  cappelli  di  garza.     L'ingegnere del pallone,  che continuava a osservare il mondo  con  un     cannocchiale, disse: «Sembrano morti». Passò il cannocchiale al dottor     Juvenal  Urbino,  e  questi vide i carri tirati dai buoi fra i terreni     seminati,  i confini della linea ferroviaria,  i canali  d'irrigazione     gelati,  e  dovunque  fissò  il  suo sguardo trovò corpi umani sparsi.     Qualcuno disse di  sapere  che  il  colera  stava  facendo  danni  nei     villaggi della Ciénaga Grande.  Il dottor Urbino,  mentre parlava, non     smise di guardare col cannocchiale.
    «Dev'essere un tipo di colera  molto  speciale»  disse,  «perché  ogni     morto ha il suo colpo di grazia alla nuca.»
    Poco  dopo  volarono  sopra un mare di spume e scesero senza novità su     una grande  spiaggia  ardente  il  cui  suolo  screpolato  dal  salino     bruciava come se fosse fuoco vivo.  Lì c'erano le autorità senza altra     protezione dal sole che gli ombrelli quotidiani,  c'erano  gli  alunni     delle  elementari  che  agitavano bandierine a tempo con gli inni,  le     reginette di bellezza con fiori secchi e corone di cartone  dorato,  e     la  banda del prosperoso villaggio di Gayra,  che era in quei tempi la     migliore della costa del Caribe.  L'unica cosa che voleva Fermina Daza     era vedere ancora una volta il suo villaggio natale,  per confrontarlo     con i suoi ricordi più vecchi,  ma non fu permesso  a  nessuno  per  i     rischi  della  peste.  Il  dottor  Juvenal  Urbino consegnò la lettera     storica, che poi si smarrì e non se ne seppe mai più nulla, e tutta la     comitiva fu sul punto di asfissiarsi nel torpore  dei  discorsi.  Alla     fine  li portarono su mule fino all'imbarcadero di Pueblo Viejo,  dove     la palude si riuniva al mare,  perché l'ingegnere non riuscì a far  in     modo che il pallone si risollevasse.  Fermina Daza era certa di essere     passata di lì con sua madre, quando era molto piccola,  su un carretto     tirato  da  una  coppia  di  buoi.  Quando  era  più  grande  lo aveva     raccontato parecchie volte a suo padre,  e lui era morto ostinato  sul     fatto che non era assolutamente possibile che lei potesse ricordarlo.     «Mi ricordo molto bene di quel viaggio, ed era vero» le disse lui, «ma     è successo almeno cinque anni prima che tu nascessi.»
    I  membri  della  spedizione in pallone ritornarono tre giorni dopo al     porto di partenza,  distrutti da una  cattiva  notte  di  tempesta,  e     furono  accolti  come eroi.  Perso tra la folla,  senza dubbio,  c'era     Florentino Ariza,  che riconobbe nell'aspetto di Fermina Daza i  segni     della   paura.   Tuttavia,   quello  stesso  pomeriggio  la  rivide  a     un'esibizione di ciclismo, anch'essa patrocinata da suo marito,  e non     aveva più nessun segno di stanchezza. Inforcava un velocipede insolito     che sembrava più una cosa da circo, con una ruota anteriore molto alta     sulla  quale  procedeva  seduta,  e  una  posteriore molto piccola che     serviva solamente da appoggio.  Era vestita con dei calzoni aperti  ai     lati  con i bordi colorati che fecero gridare allo scandalo le signore     più vecchie e sconcertarono gli uomini,  ma nessuno restò indifferente     alla sua destrezza.
    Quella, e tante altre nel corso di tanti anni, erano immagini effimere     che   apparivano   improvvisamente  a  Florentino  Ariza,   quando  si     abbandonava al caso,  e tornavano a sparire allo stesso modo lasciando     nel  suo  cuore  un solco di ansia.  Ma segnavano il modello della sua     vita, perché lui aveva conosciuto le sevizie del tempo non tanto sulla     sua pelle quanto nei cambiamenti impercettibili che notava in  Fermina     Daza ogni volta che la vedeva.
    Una  sera  entrò  nel Mesón de don Sancho,  un ristorante coloniale di     alto livello,  e occupò l'angolo più appartato,  come era solito  fare     quando  si  sedeva  da  solo  a  mangiare  i  suoi pasti da uccellino.     Improvvisamente vide Fermina Daza nel grande specchio in fondo, seduta     a tavola con il marito e altre due coppie,  e in un angolo in cui  lui     poteva  vederla  riflessa  in  tutto  il suo splendore.  Era indifesa,     mentre conduceva la  conversazione  con  una  grazia  e  un  riso  che     scoppiettavano  come  fuochi  d'artificio,  e  la sua bellezza era più     radiosa sotto gli enormi lampadari di  vetro  a  goccia:  Alice  aveva     riattraversato  lo  specchio.   Florentino  Ariza  la  osservò  a  suo     piacimento con  il  respiro  instabile,  la  vide  mangiare,  la  vide     assaggiare appena il vino,  la vide scherzare con il quarto don Sancho     della stirpe,  visse con lei un attimo della sua vita dal  suo  tavolo     solitario,  e  per  più  di  un'ora  passeggiò  non  visto nel recinto     proibito della sua intimità.  Poi bevve altre quattro tazze  di  caffè     per  tirare  più  in  lungo  finché  la  vide  uscire nel gruppo.  Gli     passarono così vicino che distinse il suo  odore  tra  le  zaffate  di     altri profumi dei suoi accompagnatori.
    Da quella notte, e per quasi un anno, tenne sotto un assedio tenace il     proprietario  del  Mesón,  offrendogli  quello  che avesse voluto,  in     denaro o in favori,  in quello che più  avesse  desiderato  nella  sua     vita,  se  gli avesse venduto lo specchio.  Non fu facile,  perché don     Sancho credeva alla leggenda che quella preziosa cornice intagliata da     ebanisti viennesi  fosse  gemella  di  un'altra  appartenuta  a  Maria     Antonietta,  e  che  era  sparita senza lasciare traccia: due gioielli     unici. Quando alla fine cedette,  Florentino Ariza attaccò lo specchio     nella  sala  di casa sua,  non per la bellezza della cornice ma per lo     spazio interno,  che era stato  occupato  per  due  ore  dall'immagine     amata.
    Quasi  sempre  quando  vide  Fermina  Daza,  andava sottobraccio a suo     marito,  in un accordo perfetto,  muovendosi ambedue  dentro  un  loro     proprio  ambito,  con  una stupenda fluidità da siamesi che discordava     solo quando salutavano lui.  In effetti,  il dottor Juvenal Urbino gli     stringeva  la  mano  con  un affetto caloroso e si permetteva in certe     occasioni perfino una manata sulla spalla. Lei,  invece,  lo manteneva     condannato  al  regime  impersonale dei formalismi,  e non fece mai un     minimo gesto che gli permettesse di immaginare che lo  ricordasse  dai     suoi tempi di nubile.  Vivevano in due mondi divergenti, ma mentre lui     faceva ogni tipo di sforzo per ridurre la distanza,  lei non  fece  un     solo  passo che non fosse in senso contrario.  Passò molto tempo prima     che lui si azzardasse a pensare che quell'indifferenza  era  solo  una     corazza  contro la paura.  Gli venne in mente all'improvviso,  al varo     del primo battello d'acqua dolce costruito nei cantieri locali, che fu     anche  la  prima  occasione  ufficiale  con   cui   Florentino   Ariza     rappresentò  lo  zio  León  Dodicesimo come primo vicepresidente della     C.F.C.  Questa coincidenza rivestì la manifestazione di una  solennità     speciale,  e  non  mancò  nessuno che significasse qualcosa nella vita     della città.
    Florentino Ariza si stava  occupando  dei  suoi  invitati  nel  salone     principale  del  battello,  che  odorava ancora di pittura fresca e di     catrame sciolto,  quando una salva di applausi scoppiò sui moli  e  la     banda  attaccò  una  marcia  trionfale.  Dovette reprimere il sussulto     ormai quasi vecchio quanto lui stesso quando vide la bella  donna  dei     suoi  sogni  sottobraccio  al  marito,  splendida  nella sua maturità,     sfilare come una regina d'altri tempi davanti alla guardia d'onore  in     alta uniforme,  sotto una tempesta di stelle filanti e petali di fiori     veri che venivano lanciati dalle finestre.  Tutti e  due  rispondevano     con  la  mano  alle ovazioni,  ma lei era così abbagliante da sembrare     l'unica in mezzo alla folla,  tutta vestita di  un  dorato  imperiale,     dalle  scarpette  coi  tacchi alti e le code di volpe al collo fino al     cappello a campana.
    Florentino  Ariza  li  aspettò  sul  ponte   insieme   alle   autorità     provinciali,  in  mezzo  al fragore della musica e dei razzi e dei tre     fischi densi del battello che lasciarono il molo  bagnato  di  vapore.     Juvenal  Urbino  salutò  la fila di accoglienza con quella naturalezza     così sua che faceva pensare a ognuno che avesse  per  lui  un  affetto     speciale:  prima  il  capitano  del battello in uniforme di gala,  poi     l'arcivescovo,  poi il governatore con sua moglie e il sindaco con  la     sua,  e  poi  ancora il capo militare della piazza,  che era un andino     appena arrivato.  Dopo le autorità c'era Florentino Ariza,  vestito di     panno scuro,  quasi invisibile fra tanti notabili.  Dopo aver salutato     il comandante della piazza,  Fermina parve vacillare davanti alla mano     tesa  di  Florentino  Ariza.  Il  militare,  pronto a presentarli,  le     domandò se non si conoscessero.  Lei non disse né sì né no ma tese  la     mano a Florentino Ariza con un sorriso da salone.  Era successo in due     occasioni del passato e sarebbe successo  altre  volte,  e  Florentino     Ariza  lo  paragonò sempre a un comportamento proprio del carattere di     Fermina Daza.  Ma quel pomeriggio  si  domandò  con  la  sua  infinita     capacità  di  illusione  se un'indifferenza così accanita non fosse un     sotterfugio per nascondere un tormento d'amore.
    La sola idea  gli  sconvolse  le  inclinazioni.  Tornò  a  gironzolare     intorno  alla  villa  di  Fermina  Daza con le stesse ansie con cui lo     faceva tanti anni prima nel giardinetto de Los Evangelios,  ma non con     l'intenzione  calcolata  che  lei  lo  vedesse,   bensì  con  la  sola     intenzione di vederla per sapere che continuava a esserci  nel  mondo.     Solo che allora gli era difficile passare inosservato. Il quartiere di     La Manga era in un'isola semidesertica, separata dal centro storico da     un  canale  di  acque  verdi e coperta da macchie di arbusti che erano     state rifugi di innamorati domenicali durante  la  Colonia.  Da  pochi     anni  avevano  demolito il vecchio ponte di pietra degli spagnoli e ne     avevano costruito uno di cemento con globi di luci per  permettere  il     passaggio  dei nuovi tram a mule.  All'inizio gli abitanti di La Manga     dovevano sopportare un supplizio che non si era  tenuto  presente  nel     progetto, e che era il dormire così vicino al primo impianto elettrico     che  ebbe  la  città,  la cui trepidazione era un tremore continuo del     terreno.  Neanche il dottor Juvenal Urbino con  tutto  il  suo  potere     aveva  ottenuto  che  lo  spostassero  dove  non  disturbava,   finché     intervenne in suo favore la sua comprovata complicità  con  la  Divina     Provvidenza.   Una   notte   scoppiò   la  caldaia  dell'impianto  con     un'esplosione  spaventosa,   volò  al  di  sopra  delle  case   nuove,     attraversò  mezza  città  per  aria  e rovinò la galleria maggiore del     vecchio convento di San Julián el Hospitalario. Il vecchio edificio in     rovina era stato abbandonato all'inizio di quell'anno,  ma la  caldaia     provocò  la  morte  di  quattro reclusi che erano scappati la sera dal     carcere locale e si erano nascosti nella cappella.
    Quel sobborgo tranquillo,  con così belle tradizioni di amore,  non fu     invece  molto  propizio  agli amori contrastati quando si trasformò in     quartiere di  lusso.  Le  strade  erano  polverose  d'estate,  fangose     d'inverno e desolate per tutto l'anno,  e le poche case erano nascoste     fra giardini frondosi,  con terrazze di mosaici al  posto  dei  ricchi     balconi  di  un  tempo,  come  se fossero state fatte di proposito per     scoraggiare gli innamorati furtivi.  Meno male che  a  quell'epoca  si     impose  la  moda  di  passeggiare  durante  i  pomeriggi sulle vecchie     vittorie a noleggio tirate da un solo cavallo, e il percorso finiva in     un'altura da dove si godevano i crepuscoli lacerati di ottobre  meglio     che  dalla  torre  del faro,  e si vedevano gli squali cauti spiare la
    spiaggia dei seminaristi e  il  transatlantico  di  tutti  i  giovedì,     immenso e bianco,  che quasi si poteva toccare con mano quando passava     dal canale  del  porto.  Florentino  Ariza  di  solito  affittava  una     vittoria dopo una giornata dura in ufficio, ma non piegava la cappotta     come  si  faceva nei mesi caldi,  bensì restava nascosto sul fondo del     sedile,  invisibile nell'ombra,  sempre  solo,  e  ordinando  percorsi     imprevisti  per  non  invogliare  i  cattivi  pensieri  del cocchiere.     L'unica cosa che in realtà gli interessava della  passeggiata  era  il     partenone  di  marmo  rosato  mezzo  nascosto  fra macchie di banani e     manghi frondosi,  replica sfortunata delle  magioni  idilliache  delle     piantagioni  di  cotone  della  Louisiana.  I  figli  di  Fermina Daza     tornavano a casa poco prima delle cinque.  Florentino Ariza li  vedeva     arrivare  sulla  carrozza  di  famiglia  e poi vedeva uscire il dottor     Juvenal Urbino per le sue solite visite mediche,  ma in quasi un  anno     di ronde non riuscì a vedere neanche il presagio che agognava.     Un pomeriggio in cui insistette nella passeggiata solitaria nonostante     stesse  venendo  giù  il  primo  acquazzone  devastante di giugno,  il     cavallo scivolò nel fango e cadde a terra. Florentino Ariza si accorse     con orrore di essere proprio davanti alla  villa  di  Fermina  Daza  e     supplicò  il  cocchiere senza pensare che la sua costernazione avrebbe     potuto denunciarlo.
    «Qui no, per favore» gli gridò. «Da qualsiasi parte ma non qui.»     Confuso dalla fretta,  il cocchiere cercò di  far  alzare  il  cavallo     senza sganciarlo,  e l'asse della carrozza si spezzò. Florentino Ariza     uscì come poté,  e subì la vergogna  sotto  il  rigore  della  pioggia     finché  altri  passanti  si  offrirono  di  portarlo  a  casa.  Mentre     aspettava,  una domestica della famiglia Urbino lo aveva visto con gli     abiti zuppi e sguazzando nel fango fino alle ginocchia, e gli portò un     ombrello  perché  si  riparasse  sulla terrazza.  Florentino Ariza non     aveva sognato tanta fortuna nel più smodato dei suoi  deliri  ma  quel     pomeriggio  avrebbe  preferito  morire  piuttosto  che farsi vedere da     Fermina Daza in un simile stato.
    Quando vivevano nella città vecchia,  Juvenal Urbino e la sua famiglia     andavano tutte le domeniche a piedi da casa loro alla cattedrale, alla     messa  delle  otto,  che  era  più un atto mondano che religioso.  Più     tardi, quando cambiarono casa, continuarono ad andarci in carrozza per     diversi anni,  e a volte indugiavano in riunioni  di  amici  sotto  le     palme  del  giardino.  Ma  quando  costruirono il tempio del seminario     conciliare a La Manga,  con spiaggia privata e cimitero  proprio,  non     tornarono  più alla cattedrale se non in occasioni molto solenni.  Non     al corrente  di  questi  cambiamenti,  Florentino  Ariza  aspettò  per     parecchie   domeniche  sulla  terrazza  del  Caffè  della  Parrocchia,     controllando l'uscita dalle tre messe.  Poi  si  rese  conto  del  suo     errore  e  andò alla chiesa nuova,  che è rimasta di moda fino a pochi     anni fa,  e lì incontrò il dottor Juvenal Urbino  con  i  suoi  figli,     puntuali alle otto nelle quattro domeniche di agosto,  ma Fermina Daza     non era con loro.  Una di quelle domeniche visitò  il  nuovo  cimitero     adiacente,  dove  i  residenti  del  quartiere  di  La  Manga  stavano     costruendo i loro panteon sontuosi,  e il  cuore  gli  saltò  in  gola     quando  si  imbatté  all'ombra  delle grandi ceibe nel più sontuoso di     tutti,  già finito,  con vetrate gotiche e angeli di marmo,  e con  le     lapidi  dorate  per tutta la famiglia a caratteri dorati.  Fra queste,     ovviamente, c'era quella di dona Fermina Daza de Urbino de la Calle, e     subito dopo quella del marito, con un epitaffio comune: "Insieme anche     nella pace del Signore".
    Nel resto dell'anno  Fermina  Daza  non  assistette  a  nessuna  delle     manifestazioni civiche né sociali,  neanche a quelle di Natale,  nelle     quali lei e suo marito erano solitamente  protagonisti  di  lusso.  Ma     dove  più  si  notò  la  sua  assenza  fu  alla  prima  della stagione     operistica.  Nell'intervallo Florentino Ariza sorprese  un  gruppo  di     persone che senza dubbio parlavano di lei senza menzionarla.  Dicevano     che qualcuno l'aveva vista salire a mezzanotte di una sera del  giugno     precedente  sul transatlantico della Cunard,  diretta a Panama,  e che     aveva un velo scuro perché non si notasse la malattia  vergognosa  che     la  stava consumando.  Qualcuno chiese che male così terribile potesse     essere per ardirsi con una donna  così  potente,  e  la  risposta  che     ricevette era piena di bile nera:
    «Una signora così distinta non può avere che la tisi.»
    Florentino  Ariza  sapeva  che  i  ricchi  della sua terra non avevano     malattie brevi. O morivano improvvisamente,  quasi sempre alla vigilia     di  una  festa  maggiore  che si rovinava per il lutto,  o si andavano     spegnendo in malattie lente e abominevoli le cui intimità finivano per     essere di dominio pubblico.  La reclusione  a  Panama  era  quasi  una     penitenza obbligata nella vita dei ricchi.  Si sottomettevano a quello     che Dio  avesse  voluto  all'Ospedale  degli  Avventisti,  un  immenso     capannone bianco perso negli acquazzoni preistorici del Darién, dove i     pazienti  perdevano  il conto della poca vita che restava loro e nelle     cui stanze solitarie con finestre di  tela  ordinaria  nessuno  poteva     sapere  con certezza se l'odore dell'acido fenico fosse della salute o     della morte.  Quelli che si ristabilivano tornavano carichi di  regali     splendidi  che  distribuivano  a piene mani con una certa angoscia per     farsi  perdonare  l'indiscrezione  di  essere  ancora  vivi.  Qualcuno     tornava con l'addome solcato da punti barbari che sembravano fatti con     spago  da calzolaio,  si sollevavano la camicia per mostrarli a chi li     veniva a trovare, li confrontavano con quelli di altri che erano morti     soffocati dagli eccessi della felicità, e per il resto dei loro giorni     continuavano a raccontare e a riraccontare  le  apparizioni  angeliche     che  avevano  visto sotto gli effetti del cloroformio.  Nessuno invece     conobbe mai l'aspetto di quelli che non tornarono,  e fra questi i più     tristi:  quelli che morirono confinati nel padiglione dei tisici,  più     per la tristezza della pioggia che per i fastidi della malattia.     Se lo avessero fatto scegliere,  Florentino Ariza non  avrebbe  saputo     cosa  preferire  per  Fermina  Daza.  Ma  prima  di tutto preferiva la     verità,  anche se insopportabile,  e per quanto la cercò non riuscì  a     trovarla. Gli sembrava inconcepibile che nessuno potesse dargli almeno     un  indizio  per  confermare  la  versione.  Nel  mondo  dei  battelli     fluviali, che era il suo, non c'era mistero che potesse conservarsi né     confidenza che si potesse tenere al sicuro. Nessuno però aveva sentito     parlare della donna dal velo nero. Nessuno sapeva niente, in una città     dove si sapeva tutto e dove molte cose si  sapevano  anche  prima  che     succedessero.  In  particolar  modo le cose dei ricchi.  Ciononostante     nessuno aveva nessuna spiegazione per la sparizione di  Fermina  Daza.     Florentino  Ariza continuava a fare la ronda a La Manga,  ad ascoltare     messe senza devozione nella basilica del  seminario,  ad  assistere  a     manifestazioni  civiche  che  non  lo  avrebbero mai interessato in un     altro stato d'animo,  ma il passare del tempo non faceva che aumentare     la credibilità della versione. Tutto sembrava normale nella casa degli     Urbino, salvo la mancanza della madre.
    Fra  tante  indagini trovò altre notizie che non conosceva,  o che non     andava cercando, fra le quali quella della morte di Lorenzo Daza nella     campagna cantabrica dove era nato. Ricordava di averlo visto per molti     anni nelle guerre irrequiete di scacchi al Caffè della Parrocchia, con     la voce roca dal tanto parlare,  e sempre più grasso  e  sgradevole  a     mano  a  mano  che  soccombeva  nelle  sabbie  mobili  di  una cattiva     vecchiaia.  Non si erano mai più scambiati una parola dalla sgradevole     prima  colazione  a  base  di "anisado" del secolo precedente,  ed era     sicuro che Lorenzo Daza continuasse a  ricordarlo  con  tanto  rancore     come  lui,  anche  dopo  essere  riuscito  a ottenere per la figlia il     matrimonio fortunato che era diventato  per  lui  l'unica  ragione  di     esistere. Ma continuava a essere così deciso a trovare un'informazione     inequivocabile  sulla  salute di Fermina Daza che era tornato al Caffè     della Parrocchia per ottenerla da suo padre  all'epoca  in  cui  venne     celebrato lì il torneo storico in cui Jeremiah de Saint-Amour affrontò     da solo quarantadue avversari.
   Fu  così  che  venne  a  sapere  che  Lorenzo Daza era morto,  e ne fu     contento  con  tutto  il  cuore,   pur  sapendo  che  il   prezzo   di     quell'allegria  poteva  essere il continuare a vivere senza la verità.     Alla fine diede per certa la versione dell'ospedale  degli  spacciati,     senza altra consolazione che un ritornello conosciuto: "Donna inferma,     donna eterna".  Nei suoi giorni di scoramento si abituava all'idea che     la notizia della morte di Fermina Daza,  nel caso fosse accaduta,  gli     sarebbe arrivata in ogni modo senza cercarla.
    Non gli sarebbe mai arrivata. Perché Fermina Daza era viva e in ottima     salute  nella  fattoria  dove  sua  cugina  Hildebranda Sánchez viveva     dimentica del mondo, a mezza lega dal villaggio di Flores de María. Se     n'era andata senza scandali,  di comune accordo col  marito,  entrambi     imbarazzati  come  adolescenti  nell'unica  crisi  seria  che  avevano     sofferto in venticinque anni di un matrimonio stabile.  Li aveva colti     di  sorpresa  nel riposo della maturità,  quando ormai si sentivano in     salvo da qualsiasi imboscata dell'avversità,  con i figli grandi e ben     educati  e  con  l'avvenire  aperto per imparare a essere vecchi senza     amarezze.  Era stato qualcosa di così imprevisto per tutti e  due  che     non  avevano  voluto  risolverlo  a strilli,  con lacrime e mediatori,     com'era abitudine naturale nel Caribe,  ma con la saggezza  dei  paesi     europei,  e  a  furia  di  non  essere né di qua né di là finirono per     affondare in una situazione che non era da nessuna  parte.  Alla  fine     lei aveva deciso di andarsene, senza nemmeno sapere perché né per chi,     per pura rabbia,  e lui non era stato capace di persuaderla,  bloccato     dal suo senso di colpa.
    Fermina Daza, in effetti, si era imbarcata a mezzanotte con la massima     segretezza e a viso coperto con uno scialle da lutto non, però,  su un     transatlantico  della  Cunard con destinazione Panama,  ma sul piccolo     battello regolare di San Juan de la Ciénaga,  la città dove era nata e     dove  aveva  vissuto  fino  alla  pubertà e la cui nostalgia si faceva     sempre più insopportabile col passare degli anni.  Contro  la  volontà     del  marito  e  le  abitudini  dell'epoca,  non  si  era portata altro     accompagnatore che una figlioccia  di  quindici  anni  che  era  stata     allevata  con  la  servitù  di  casa sua,  ma avevano avvisato del suo     viaggio i comandanti delle navi e le autorità di  ogni  porto.  Quando     prese  la  decisione  impulsiva,  annunciò ai figli che se ne andava a     calmarsi dalla zia Hildebranda,  ma era decisa a fermarsi.  Il  dottor     Juvenal  Urbino  conosceva  molto  bene  il suo carattere forte ed era     talmente afflitto da accettarlo con umiltà come un castigo di Dio  per     la  gravità delle sue colpe.  Ma non si erano ancora perse di vista le     luci della  nave  che  già  tutti  e  due  erano  pentiti  delle  loro     debolezze.
    Nonostante  avessero  mantenuto una corrispondenza formale sullo stato     dei figli e altri argomenti relativi alla casa,  passarono  quasi  due     anni  senza  che né l'uno né l'altra trovasse una via d'uscita che non     fosse minata dall'orgoglio.  I figli andarono a passare  a  Flores  de     María  le  vacanze  scolastiche del secondo anno,  e Fermina Daza fece     l'impossibile per mostrarsi adattata alla sua nuova  vita.  Quella  fu     almeno  la  conclusione  che  trasse  Juvenal Urbino dalle lettere del     figlio.  Per di più,  in quei giorni andò  da  quelle  parti  in  gita     pastorale il vescovo di Riohacha,  montando solennemente la sua famosa     mula bianca con  gualdrappe  ricamate  d'oro.  Dietro  a  lui  vennero     pellegrini  di regioni remote,  musicisti con fisarmoniche,  venditori     ambulanti di cibi e amuleti,  e la fattoria fu per tre giorni piena in     modo  strabocchevole  di  invalidi  e  di  spacciati che in realtà non     venivano per i sermoni dotti e le  indulgenze  plenarie  bensì  per  i     favori  della mula,  di cui si diceva che facesse miracoli di nascosto     dal padrone.  Il vescovo era stato molto di casa dagli  Urbino  de  la     Calle  fin  dai suoi anni di prete,  e un mezzogiorno se ne scappò via     per andare a pranzare nella fattoria di Hildebranda.  Dopo il  pranzo,     in cui si parlò solo di argomenti terreni, prese da parte Fermina Daza     e volle ascoltarla in confessione.  Lei si rifiutò, in un modo amabile     ma fermo,  con l'argomento  esplicito  di  non  avere  niente  di  cui     pentirsi.  Anche se non fu quello il suo proposito,  almeno cosciente,     restò con l'idea che la sua risposta sarebbe arrivata dove doveva.     Il dottor Juvenal Urbino era solito dire,  non senza un certo cinismo,     che  quei  due  anni  amari  della sua vita non erano stati colpa sua,     bensì della cattiva abitudine  che  aveva  sua  moglie  di  odorare  i     vestiti  che  si  toglieva  la  famiglia  e quelli che si toglieva lei     stessa,  per sapere dall'odore se bisognasse mandarli a lavare,  anche     se  a  prima  vista  sembravano  puliti.  Lo  faceva fin da quando era     bambina e non aveva mai creduto che si notasse tanto finché suo marito     se ne accorse la stessa prima notte di matrimonio.  Si  accorse  anche     che fumava almeno tre volte al giorno chiusa nel bagno,  ma questo non     gli richiamò l'attenzione perché  le  donne  della  sua  classe  erano     solite rinchiudersi a gruppi a parlare di uomini e a fumare, e anche a     bere  acquavite  a  mezzi litri fino a restare stese per terra con una     sbronza da muratore.  Ma l'abitudine  di  annusare  tutti  i  capi  di     vestiario che trovava sul suo passaggio non solo gli parve inopportuna     ma  pericolosa per la salute.  Lei lo prendeva come uno scherzo,  così     come prendeva tutto quello di cui non voleva discutere,  e diceva  che     non  era  per  semplice  ornamento che Dio le aveva messo sulla faccia     quel naso premuroso da rigogolo.  Una mattina,  mentre lei era fuori a     far  compere,  la  servitù  sconvolse  il circondario alla ricerca del     figlio di tre  anni  che  non  erano  riusciti  a  trovare  in  nessun     nascondiglio della casa. Lei arrivò in mezzo al panico, fece due o tre
    giri   come  un  mastino  che  segue  le  tracce  e  trovò  il  figlio     addormentato dentro a un  armadio,  dove  nessuno  aveva  pensato  che     potesse  nascondersi.  Quando  il  marito,  attonito,  le domandò come     avesse fatto a trovarlo, lei gli rispose:
    «Per l'odore di cacca.»
    La verità è che l'odorato non le serviva solo per lavare la biancheria     o per trovare bambini perduti: era il suo  senso  di  orientamento  in     tutti gli ordini della vita, e soprattutto della vita sociale. Juvenal     Urbino  se  n'era  accorto  diffusamente  in  tutto il suo matrimonio,     soprattutto all'inizio,  quando lei era la forestiera in  un  ambiente     predisposto  contro  di  lei da trecento anni,  e tuttavia nuotava fra     rami di coralli taglienti senza urtarne nessuno,  con un  dominio  del     mondo  che  non  poteva essere solo un istinto soprannaturale.  Quella     facoltà temibile,  che poteva ugualmente avere origine in una saggezza     millenaria  così  come  in  un  cuore  di pietra,  ebbe il suo momento     disgraziato una domenica sfortunata prima della messa,  quando Fermina     Daza  annusò  per  pura  abitudine  la  biancheria che aveva usato suo     marito il pomeriggio precedente,  e soffrì la sensazione  sconvolgente     di aver avuto un altro uomo nel letto.
    Annusò  prima  la  giacca  e  il  gilè  mentre toglieva dall'occhiello     l'orologio a catena e tirava fuori la matita  e  il  portafogli  e  le     poche  monete sciolte per le tasche e metteva tutto sulla toilette,  e     poi annusò la camicia ben rifinita mentre toglieva il fermacravatte  e     i  gemelli  di  topazio  dai  polsini  e  il  bottone  d'oro del collo     posticcio, e poi annusò i pantaloni mentre tirava fuori il portachiavi     con undici chiavi e il temperino con l'impugnatura  di  madreperla,  e     annusò alla fine le mutande e le calze e il fazzoletto di lino col suo     monogramma ricamato. Non c'era la minima ombra di dubbio: in ogni capo     di  vestiario  c'era un odore che non c'era mai stato in tanti anni di     vita in comune,  un odore impossibile a definirsi,  perché non era  di     fiori  né  di  essenze  artificiali,  bensì  di qualcosa proprio della     natura umana.  Non disse niente,  né ritrovò l'odore tutti  i  giorni,     però  non annusava più i vestiti del marito con la curiosità di sapere     se fossero da lavare ma  con  un'ansia  insopportabile  che  le  stava     tarlando le viscere.
    Fermina  Daza  non  seppe dove situare l'odore dei vestiti all'interno     delle abitudini del marito. Non poteva essere fra la lezione mattutina     e il pranzo perché pensava che nessuna donna nelle sue  piene  facoltà     mentali  andasse a fare un amore affrettato a simili ore,  e tantomeno     con una visita,  mentre aveva fretta di spazzare  la  casa,  rifare  i     letti,  fare la spesa,  preparare da mangiare,  e forse con l'angoscia     che mandassero indietro da scuola prima del tempo uno dei figli ferito     da una sassata e la trovasse nuda alle undici di mattina nella  stanza     senza far niente, e per di più con un medico sopra di lei. Sapeva, del     resto,  che  il dottor Juvenal Urbino faceva l'amore solo di notte,  e     meglio ancora nell'oscurità assoluta,  e in ultima  probabilità  prima     della colazione al tubare dei primi uccelli.  Dopo quell'ora,  secondo     quanto lui diceva,  era più la fatica di togliersi la roba di dosso  e     poi  rimettersela  del  piacere  di  un  amore  da  gallo.   Così,  la     contaminazione dei vestiti poteva  solo  accadere  in  qualcuna  delle     visite  mediche o in qualche momento rubato alle sue sere di scacchi e     di  cinema.  Quest'ultima  cosa  era  difficile  da  chiarire,  perché     contrariamente  a  tante sue amiche Fermina Daza era troppo orgogliosa     per spiare il marito o per chiedere  a  qualcuno  di  farlo  per  lei.     L'orario  delle  visite,  che  sembrava  il  più  appropriato  per  il     tradimento,  era oltre a tutto il più facile da controllare perché  il     dottor  Juvenal  Urbino  faceva  una relazione minuziosa di ognuno dei     suoi clienti,  comprese le somme degli onorari,  da quando li visitava     per  la  prima volta finché li congedava da questo mondo con una croce     finale e una frase per il benessere della loro anima.
    Dopo tre settimane, Fermina Daza non aveva trovato l'odore nei vestiti     per vari giorni ed era tornata a sentirlo improvvisamente quando  meno     se  l'aspettava,  e  lo aveva trovato poi più vago che mai per diversi     giorni consecutivi,  anche se uno di questi era stato una domenica  di     festa  familiare in cui lei e lui non si erano separati neanche per un     istante. Un pomeriggio si trovò nello studio del marito, contro la sua     abitudine e perfino contro i suoi desideri,  come se non  fosse  stata     lei  ma un'altra quella che stava facendo qualcosa che lei non avrebbe     mai fatto,  decifrando con  una  perfetta  lente  d'ingrandimento  del     Bengala  le  intricate note di visite degli ultimi mesi.  Era la prima     volta che entrava da sola  in  quello  studio  saturo  di  sentori  di     creosoto,  strapieno di libri rilegati con pelli di animali ignoti, di     fotografie sfocate di gruppi di scuole,  di pergamene  al  merito,  di     astrolabi e pugnali fantastici raccolti per anni. Un santuario segreto     che  aveva sempre considerato come l'unica parte della vita privata di     suo marito alla quale lei non aveva accesso perché  non  faceva  parte     dell'amore,  cosicché le poche volte in cui era stata lì era stato con     lui,  sempre per affari di poca durata.  Non si sentiva in diritto  di     entrarci  da  sola,  e  tantomeno per fare esami che non le sembravano     decenti.  Ma era lì.  Voleva trovare  la  verità,  e  la  cercava  con     un'ansia  appena paragonabile al terribile timore di trovarla,  spinta     da  un  vento  impetuoso  incontrollabile  più  imperioso  della   sua     alterigia  congenita,  più  imperioso  perfino  della  sua dignità: un     supplizio affascinante.
    Non poté chiarire niente,  perché i pazienti di suo marito,  salvo gli     amici  comuni,  erano  anch'essi parte del suo dominio privato,  gente     senza identità che non erano conosciuti per la loro faccia bensì per i     loro dolori,  non per il colore dei loro occhi o per le  evasioni  del     loro cuore,  quanto per la grandezza del loro fegato,  la patina della     lingua,  i grumi della loro urina,  le allucinazioni delle loro  notti     febbrili. Gente che credeva a suo marito, che credeva di vivere grazie     a  lui  quando  in  realtà vivevano per lui e che finiva ridotta a una     frase scritta da lui di suo pugno e calligrafia in calce alla  pratica     medica: "Tranquillo,  Dio ti sta aspettando alla porta".  Fermina Daza     lasciò lo studio dopo due ore inutili con  la  sensazione  di  essersi     fatta tentare dall'indecenza.
    Aizzata  dalla  sua fantasia,  incominciò a scoprire i cambiamenti del     marito.  Lo trovava evasivo,  senza  appetiti  a  tavola  e  a  letto,     propenso all'esasperazione e alle risposte ironiche, e quando stava in     casa non era l'uomo tranquillo di prima ma un leone in gabbia.  Per la     prima volta da quando si erano sposati stette attenta ai suoi ritardi,     li controllò al minuto, e gli diceva bugie per strappargli verità,  ma     poi  si sentiva ferita a morte dalle sue contraddizioni.  Una notte si     svegliò di soprassalto per uno stato fantastico, ed era che suo marito     la stava guardando  nell'oscurità  con  degli  occhi  che  le  parvero     carichi  di  odio.  Aveva  sofferto  una scossa simile nel fiore della     gioventù, quando vedeva Florentino Ariza ai piedi del letto,  solo che     la  sua apparizione non era di odio bensì di amore.  E in più,  questa     volta non era una fantasia:  suo  marito  era  sveglio  alle  due  del     mattino e si era sdraiato sul letto a guardarla dormire, ma quando lei     gli domandò perché lo faceva lui negò.  Rimise la testa sul cuscino, e     disse:
    «Devi avere sognato.»
    Dopo quella notte,  e per altri episodi simili di quell'epoca  in  cui     Fermina  Daza  non  sapeva  esattamente  dove finisse la realtà e dove     incominciasse il sogno,  ebbe la rivelazione  sconvolgente  che  stava     diventando  matta.  Infine  si  rese  conto  che  il marito non si era     comunicato il giovedì di Corpus Domini e neanche in  nessuna  domenica     delle ultime settimane,  e che non aveva trovato il tempo per i ritiri     spirituali di quell'anno.  Quando lei gli domandò a cosa si  dovessero     quei  cambiamenti insoliti nella sua salute spirituale,  ricevette una     risposta poco chiara.  Questa fu la chiave decisiva,  perché  lui  non     aveva tralasciato di fare la comunione in una data così importante fin     da  quando aveva fatto la prima comunione a otto anni.  In questo modo     si rese conto che non solo suo marito era in peccato  mortale  ma  che     aveva deciso di persisterci, dato che non ricorreva agli aiuti del suo     confessore.  Non  avrebbe mai immaginato che si potesse soffrire tanto     per qualcosa che sembrava tutto il contrario dell'amore, ma si trovava     in quella situazione e decise che l'unica soluzione per non morire era     appiccare il fuoco al nido di vipere che le avvelenava le  viscere.  E     così  fu.  Un  pomeriggio  si mise a rammendare talloni di calze sulla     terrazza, mentre suo marito ultimava la sua lettura quotidiana dopo la     siesta.  Improvvisamente interruppe il lavoro,  si alzò  gli  occhiali     sulla fronte, e lo interpellò senza il minimo segno di durezza:
    «Dottore.»
    Lui era immerso nella lettura di "L'île des pingouins", il romanzo che     tutto  il  mondo  stava  leggendo  in quei giorni,  e le rispose senza     venire a galla: "Oui". Lei insistette:
    «Guardami in faccia.»
    Lui lo fece,  guardandola senza vederla nella nebbia degli occhiali da     lettura  ma  non dovette toglierseli per bruciarsi nella brace del suo     sguardo.
    «Cosa succede?» domandò.
    «Lo sai meglio di me» disse lei.
    Non disse altro.  Si riabbassò gli occhiali e continuò a rammendare le     calze.  Il  dottor  Juvenal  Urbino  seppe allora che le lunghe ore di     ansia erano finite.  Contrariamente al modo in cui lui si  prefigurava     quel  momento  non  fu  uno  scossone sismico del cuore ma un colpo di     pace.  Era il grande sollievo che fosse successo  più  prima  che  poi     quello  che  prima o poi doveva succedere: il fantasma della signorina     Bárbara Lynch era finalmente entrato in casa.
    Il dottor Juvenal Urbino l'aveva conosciuta quattro mesi prima  mentre     aspettava   il   suo   turno   all'ambulatorio   aperto   al  pubblico     dell'Ospedale della Misericordia e si era reso conto  all'istante  che     qualcosa di irreparabile era successo nel suo destino. Era una mulatta     alta, elegante, di corporatura forte, con la pelle dello stesso colore     e della stessa natura dolce della melassa,  vestita quella mattina con     un abito rosso a puntolini bianchi e un cappello dello stesso tipo con     falde molte larghe che  le  facevano  ombra  perfino  sulle  palpebre.     Sembrava  di  un  sesso  più  definito del resto del genere umano.  Il     dottor Juvenal Urbino non si occupava di  quell'ambulatorio,  ma  ogni     volta che passava di lì con un po' di tempo libero entrava a ricordare     ai suoi alunni più grandi che non esiste miglior medicina di una buona     diagnosi.  Così,  sistemò le cose per esser presente alla visita della     mulatta imprevista, facendo in modo che i suoi discepoli non notassero     su di lui un gesto che non sembrasse casuale,  e quasi non la  guardò,     ma  annotò  molto  bene nella memoria i dati della sua identità.  Quel     pomeriggio,   dopo  l'ultima  visita,   fece   passare   la   carrozza     dall'indirizzo  che  lei  aveva  dato  all'ambulatorio,  e era lì,  in     effetti, a prendere il fresco di marzo sulla terrazza.
    Era una tipica casa antillana dipinta tutta di giallo fino al tetto di     zinco,  con finestre di tela ordinaria e  vasi  di  garofani  e  felci     attaccati  sulla  porta,  e costruita su piloni di legno sulla maremma     della Mala Crianza.  Un "turpial" (7) cantava nella  gabbia  attaccata     alla grondaia.  Sul marciapiede di fronte c'era una scuola elementare,     e i bambini che uscivano a frotte obbligarono il cocchiere a tenere le     redini ben salde per impedire che il cavallo si  spaventasse.  Fu  una     fortuna,   perché   la  signorina  Bárbara  Lynch  ebbe  il  tempo  di     riconoscere il dottore.  Lo salutò con un gesto da  vecchi  amici,  lo     invitò  a prendere un caffè finché passava la confusione,  e lui se lo     bevve  incantato,  contrariamente  alle  sue  abitudini,  ascoltandola     parlare  di  se  stessa,  che  era l'unica cosa che gli interessava da     quella mattina e l'unica cosa che  lo  avrebbe  interessato  senza  un     minuto di pace nei prossimi mesi.  Una volta, appena sposato, un amico     gli aveva detto davanti a sua moglie che presto o tardi avrebbe dovuto     affrontare una passione  folle,  capace  di  mettere  in  pericolo  la     stabilità del suo matrimonio. Lui, che credeva di conoscere se stesso,     che  conosceva  la  forza  delle  sue  radici  morali,  aveva riso del     pronostico. Molto bene: ecco che c'era.
    La signorina Bárbara Lynch, dottoressa in teologia, era l'unica figlia     del reverendo Jonathan  B.  Lynch,  un  pastore  protestante  negro  e     asciutto  che  girava  su una mula per i casali poveri della maremma a     predicare la parola di uno dei tanti dei che il dottor Juvenal  Urbino     scriveva  con  la minuscola per distinguerli dal suo.  Parlava un buon     castigliano,  con un sassolino nella sintassi i cui frequenti inciampi     ne aumentavano la grazia.  Avrebbe compiuto ventotto anni in dicembre,     aveva divorziato da poco da un altro pastore,  discepolo di suo padre,     con  cui  era stata sposata male per due anni,  e non le erano rimasti     desideri di ricadere nello stesso errore.  Aveva detto: «Non ho  altri     amori  oltre  al mio "turpial"».  Ma il dottor Urbino era troppo serio     per pensare che l'avesse  detto  intenzionalmente.  Anzi:  si  domandò     confuso  se tante agevolazioni non fossero una trappola di Dio per poi     richiederle con gli interessi,  ma scartò l'idea dalla mente  come  un     eccesso teologico dovuto al suo stato confusionale.
    Ormai  sul punto di congedarsi,  fece un commento casuale sulla visita     medica del mattino,  sapendo che niente è più gradito a un  malato  di     parlare delle sue malattie,  e lei fu così splendida nel parlare delle     sue che lui le promise di tornare il  giorno  dopo,  alle  quattro  in     punto,  per farle una visita più accurata. Lei si spaventò: sapeva che     un medico  di  quella  levatura  era  molto  al  di  sopra  delle  sue     possibilità,  ma lui la tranquillizzò: «In questa professione facciamo     in modo che i ricchi  paghino  per  i  poveri».  Poi  annotò  sul  suo     taccuino:  "signorina  Bárbara  Lynch,  maremma  della  Mala  Crianza,     sabato,  4 del pomeriggio".  Qualche mese dopo,  Fermina Daza  avrebbe     letto  quella  nota accresciuta dei particolari della diagnosi e della
    terapia,  e  del  decorso  della  malattia.  Il  nome  attirò  la  sua     attenzione,  e  improvvisamente  le  venne  in  mente che fosse una di     quelle artiste scaricate dalle navi  di  frutta  di  New  Orleans,  ma     l'indirizzo  le  fece  pensare  che  più  probabilmente  doveva essere     giamaicana e negra, ovviamente, e la scartò in modo indolore dai gusti     del marito.
    Il dottor Juvenal Urbino arrivò all'appuntamento del sabato con  dieci     minuti  di  anticipo,  quando  la  signorina Lynch non aveva finito di     vestirsi per  riceverlo.  Fin  dai  tempi  di  Parigi,  quando  doveva     presentarsi  a un esame orale,  non aveva provato una simile tensione.     Stesa sul letto di lino,  con una leggera  combinazione  di  seta,  la     signorina  Lynch  era  di  una  bellezza sconfinata.  Tutto in lei era     grande e intenso: le sue cosce da sirena,  la sua pelle a fuoco lento,     i  suoi  seni  stupiti,  le sue gengive diafane dai denti perfetti;  e     tutto il suo corpo irradiava una vertigine di  buona  salute  che  era     l'odore  umano  che  Fermina Daza trovava sulla biancheria del marito.     Era andata all'ambulatorio pubblico perché soffriva  di  qualcosa  che     lei  chiamava  con molta grazia "coliche ritorte",  e il dottor Urbino     pensava che fosse un  sintomo  da  non  prendere  alla  leggera.  Così     palpeggiò  i suoi organi interni con più intenzione che attenzione,  e     nel frattempo si dimenticava della  sua  stessa  saggezza  e  scopriva     sbigottito  che quella creatura meravigliosa era altrettanto bella sia     fuori che dentro, e allora si abbandonò alle delizie del tatto non più     come il medico più qualificato del litorale  del  Caribe  ma  come  un     povero  uomo  di  Dio torturato dal disordine degli istinti.  Solo una     volta nella sua  vita  professionale  gli  era  accaduto  qualcosa  di     simile,  ed  era  stato  il suo giorno di maggior vergogna,  perché la     paziente, indignata, gli aveva allontanato la mano,  si era seduta sul     letto e gli aveva detto: «Quello che vuole lei può succedere,  ma così     non succederà mai». La signorina Lynch, invece,  si abbandonò alle sue     mani, e quando non ebbe alcun dubbio che il medico non stesse pensando     alla sua scienza disse: «Credevo che questo fosse vietato dall'etica».     Lui era bagnato di sudore come se fosse uscito vestito da uno stagno e     si asciugò le mani e la faccia con una salvietta.
    «L'etica» disse, «si immagina che noi uomini siamo di legno.»     Lei gli tese una mano riconoscente.
    «Il  fatto  che  io  lo  credessi non vuol dire che non si possa fare»     disse. «Si immagini che cosa sia per una povera negra come me il fatto     che un uomo così famoso si accorga di me.»
    «Non ho smesso di pensare a lei un solo momento» disse lui.     Fu  una  confessione  così  tremante  che  sarebbe  stata   degna   di     compassione.  Ma  lei lo mise in salvo da ogni male con una risata che     illuminò la camera da letto.
    «Lo so da quando ti  ho  visto  all'ospedale,  dottore»  disse.  «Sono     negra, ma non stupida.»
    Non  fu niente facile.  La signorina Lynch voleva il suo onore pulito,     voleva sicurezza e amore,  in quell'ordine,  e credeva di meritarseli.     Diede  al  dottor  Urbino  l'opportunità di sedurla,  ma senza entrare     nella stanza anche se era sola in casa.  Il massimo cui arrivò  fu  di     permettergli   di   ripetere  la  cerimonia  di  palpeggiamento  e  di     auscultazione con tutte le violazioni  etiche  che  voleva,  ma  senza     spogliarla.  Lui,  da parte sua, non riuscì a mollare l'esca una volta     morsa e continuò nei suoi assedi  quasi  quotidiani.  Per  ragioni  di     ordine  pratico la relazione continuata con la signorina Lynch gli era     quasi impossibile ma lui era troppo debole per fermarsi in tempo, come     poi si sarebbe verificato anche in futuro. Fu il suo limite.
    Il reverendo Lynch non aveva  una  vita  regolare,  se  ne  andava  in     qualsiasi  momento  sulla  sua  mula  carica  da  un  lato di bibbie e     volantini di propaganda evangelica, carica di provviste dall'altro,  e     tornava  quando  meno  lo  si  pensava.  Un altro inconveniente era la     scuola di fronte, perché i bambini cantavano le loro lezioni guardando     verso la strada dalle finestre,  e quello che vedevano meglio  era  la     casa  del  marciapiede opposto,  con le porte e le finestre spalancate     fin dalle sei del mattino,  e vedevano la signorina Lynch attaccare la     gabbia alla grondaia perché il "turpial" imparasse le lezioni cantate,     la  vedevano  con  un  turbante colorato cantarle anche lei con la sua     squillante voce del Caribe mentre faceva le pulizie, e la vedevano poi     seduta nel portico cantare da sola in inglese i salmi del pomeriggio.     Dovevano scegliere  un'ora  in  cui  non  ci  fossero  i  bambini,  ed     esistevano  solo  due  possibilità:  durante la pausa del pranzo,  fra     mezzogiorno e le due, che era quando anche il dottore pranzava,  o nel     tardo pomeriggio, quando i bambini se ne andavano a casa. Quest'ultima     fu  sempre  l'ora  migliore,  perché  a quell'ora il dottore aveva già     finito le visite e disponeva di qualche minuto  prima  di  arrivare  a     cena in famiglia.  Il terzo problema,  e il più grave per lui,  era la     sua  stessa  condizione.  Non  gli  era  possibile  andarci  senza  la     carrozza,  che  era molto conosciuta e doveva stare sempre alla porta.     Avrebbe potuto farsi complice il cocchiere,  come quasi tutti  i  suoi     amici  del  Club  Social,  ma quello era al di là delle sue abitudini.     Tanto che quando le visite  alla  signorina  Lynch  si  fecero  troppo     evidenti,  lo  stesso  cocchiere  di  famiglia  in livrea si azzardò a     chiedergli se non sarebbe stato meglio se fosse  tornato  a  prenderlo     più  tardi  perché  la carrozza non restasse tanto tempo ferma davanti     alla porta.  Il dottor  Urbino,  con  una  reazione  estranea  al  suo     carattere, lo interruppe secco:
    «Da  quando ti conosco è la prima volta che ti sento dire qualcosa che     non avresti dovuto» gli disse. «E allora, bene: come non detto.»     Non c'era soluzione.  In una città come questa era impossibile  tenere     nascosta  una  malattia  fintanto  che  la  carrozza  del medico stava     davanti alla porta.  A volte lo stesso medico prendeva l'iniziativa di     andare a piedi,  se la distanza glielo permetteva, o ci andava con una     carrozza a noleggio per  evitare  supposizioni  maligne  o  premature.     Simili  trucchi  però non servivano a molto,  perché le ricette che si     ordinavano nelle farmacie permettevano  di  decifrare  la  verità,  al     punto  che  il  dottor  Urbino  prescriveva medicine inutili insieme a     quelle giuste per preservare il sacro diritto dei malati di  morirsene     in pace con il segreto delle loro malattie.  Poteva anche giustificare     con diversi modi onesti la presenza della sua  carrozza  davanti  alla     casa  della  signorina  Lynch,  ma  non avrebbe potuto farlo per molto     tempo, e tantomeno quanto avrebbe desiderato: tutta la vita.     Il mondo per lui diventò un  inferno.  Perché  una  volta  saziata  la     follia iniziale, tutti e due presero coscienza dei rischi, e il dottor     Juvenal  Urbino  non prese mai la decisione di affrontare lo scandalo.     Nei deliri febbrili prometteva tutto ma dopo  che  tutto  era  passato     tutto  veniva  rinviato a dopo.  Invece,  più aumentavano le voglie di     stare con lei,  più aumentava anche il timore di perderla,  e così gli     incontri  si fecero sempre più affrettati e difficili ogni volta.  Non     pensava ad altro.  Aspettava i pomeriggi con un'ansia  insopportabile,     si  dimenticava  di  tutti  gli  impegni,   si  dimenticava  di  tutto     all'infuori di lei,  ma più la carrozza  si  avvicinava  alla  maremma     della  Mala  Crianza  più  pregava  Dio  che un imprevisto dell'ultimo     momento lo obbligasse a girare al largo.  Era  in  un  tale  stato  di     angoscia che a volte era contento di vedere dall'angolo la testa color     cotone del reverendo Lynch che leggeva sulla terrazza,  e la figlia in     sala,  intenta a catechizzare i bambini del quartiere  con  i  Vangeli     cantati.  Allora  se  ne  andava  felice  a  casa per non continuare a     sfidare il caso, ma poi impazziva di ansia perché fossero per tutto il     giorno le cinque del pomeriggio di tutti i giorni.
    E così gli amori si fecero  impossibili  quando  la  carrozza  diventò     troppo  nota davanti alla sua porta,  e dopo tre mesi non furono altro     che ridicoli. Senza avere il tempo di dirsi niente, la signorina Lynch     andava in camera da letto non appena vedeva entrare l'amante stordito.     Aveva preso la precauzione di mettersi una gonna ampia i giorni in cui     lo aspettava,  una bella gonna giamaicana con volants a fiori colorati     ma  senza  biancheria  sotto,  senza niente,  credendo che la facilità     l'avrebbe aiutato contro la paura.  Ma lui sprecava quanto lei  faceva     per farlo felice.  La seguiva ansante fino alla stanza da letto, zuppo     di sudore,  entrava precipitosamente  gettando  tutto  per  terra,  il     bastone,  la  valigetta  da  medico,  il panama,  e faceva un amore da     panico con i pantaloni arrotolati intorno alle caviglie, con la giacca     abbottonata perché lo disturbasse di  meno,  con  la  catenella  d'oro     all'occhiello,  con le scarpe addosso,  e voglioso più di andarsene il     prima possibile che di compiere il suo piacere. Lei restava a digiuno,     entrando appena nel suo tunnel di  solitudine  quando  lui  già  stava     abbottonandosi  di  nuovo,  esausto,  come  se  avesse  fatto  l'amore     assoluto sulla linea divisoria della vita e  della  morte,  quando  in     realtà  non aveva fatto altro se non il molto che l'atto d'amore ha di     prodezza fisica.  Era però nella sua norma: il tempo giusto  per  fare     un'endovenosa  in  una  terapia  di  routine.  Allora  tornava  a casa     vergognoso della sua debolezza, con la voglia di morire, maledicendosi     per la sua mancanza di coraggio di chiedere a Fermina Daza di tirargli     giù i pantaloni e di metterlo a sedere col culo sul braciere.
    Non cenava,  pregava senza convinzione,  faceva finta di continuare  a     letto  la  lettura  della siesta mentre sua moglie faceva giri su giri     nella casa per mettere in ordine il mondo prima di coricarsi.  Più gli     crollava  la  testa sul libro più affondava a poco a poco nella laguna     inevitabile della signorina Lynch,  nella sua  esalazione  di  foresta     nascosta,  il  suo  letto di morte,  e allora non riusciva a pensare a     nient'altro che alle cinque meno cinque del pomeriggio di domani  e  a     lei che lo aspettava nel letto senza altro addosso che la sua stopposa     foresta  di  pelo scuro sotto la gonna da pazza giamaicana: il cerchio     infernale.
    Già da qualche anno aveva incominciato a essere conscio del  peso  del     suo stesso corpo.  Ne riconosceva i sintomi. Li aveva letti sui testi,     li aveva visti confermati nella vita reale,  in pazienti  più  anziani     senza gravi precedenti che improvvisamente incominciavano a descrivere     sindromi perfette che sembravano tirate fuori dai libri di medicina, e     che  tuttavia  risultavano  immaginarie.  Il  suo  maestro  di clinica     pediatrica di la Salpêtrière gli aveva consigliato la  pediatria  come     specialità  più onesta,  perché i bambini si ammalano solo quando sono     realmente malati e non possono comunicare con  il  medico  con  parole     convenzionali  bensì  con  sintomi  concreti  di  malattie reali.  Gli     adulti, invece, a partire da una certa età,  o avevano i sintomi senza     le malattie o qualcosa di peggio: infermità gravi con sintomi di altre     inoffensive.  Lui  li  curava  con  palliativi,  dando tempo al tempo,     finché imparavano a non sentire i loro acciacchi a furia di conviverci     nell'immondezzaio della vecchiaia. Quello che non aveva mai pensato il     dottor Juvenal Urbino era che un medico della sua età,  che credeva di     averle  viste  tutte,  non potesse superare l'inquietudine di sentirsi     malato quando non lo era. O, peggio: non credere di esserlo,  per mero     pregiudizio  scientifico,   quando  forse  lo  era  veramente.  Già  a     quarant'anni,  un po' sul serio e un po'  per  scherzo,  aveva  detto:     «L'unica cosa di cui ho bisogno nella vita è qualcuno che mi capisca».     Ma  quando si ritrovò perso nel labirinto della signorina Lynch non ci     pensò più per scherzo.
    Tutti i sintomi reali o immaginari dei suoi pazienti  più  anziani  si     accumularono  nel suo corpo.  Sentiva la forma del fegato con una tale     nitidezza da poterne dire la grandezza senza  palparselo.  Sentiva  il     brontolio  da  gatto addormentato dei suoi reni,  sentiva lo splendore     cangiante della sua vescica,  sentiva i colpi  del  sangue  nelle  sue     arterie.  A  volte  si svegliava come un pesce senz'aria da respirare.     Aveva acqua nel cuore.  Lo sentiva perdere  il  passo  un  attimo,  lo     sentiva  ritardare  un battito come nelle marce militari del collegio,     una volta e poi un'altra ancora,  e alla fine lo  sentiva  riprendersi     perché  Dio  è  grande.  Ma invece di ricorrere ai placebi che dava ai     suoi malati era abbagliato dal terrore.  Ne era certo: l'unica cosa di     cui aveva bisogno nella vita,  anche a cinquantotto anni, era qualcuno     che lo capisse. Fece ricorso così a Fermina Daza,  l'essere che più lo     amava e che lui più amava a questo mondo,  e con la quale aveva appena     finito di mettersi in pace la coscienza.
    Perché questo accadde dopo che lei lo  interruppe  nella  sua  lettura     pomeridiana per chiedergli di guardarla in faccia, e lui ebbe il primo     indizio  che  il suo cerchio infernale era stato scoperto.  Non capiva     come,  però,  perché gli sembrava impossibile immaginare  che  Fermina     Daza avesse scoperto la verità per puro caso.  In tutti i modi,  e fin     da molto prima, questa non era una buona città per aver segreti.  Poco     tempo  dopo  l'installazione  dei  primi  telefoni  in  casa,  diversi     matrimoni che sembravano stabili  erano  finiti  per  pettegolezzi  di     telefonate  anonime,  e  molte  famiglie  impaurite avevano sospeso il     servizio o si erano rifiutate di averlo per  anni.  Il  dottor  Urbino     sapeva  che  sua  moglie  aveva  un  tale rispetto di se stessa da non     permettere neanche un tentativo di slealtà anonima per telefono, e non     poteva immaginarsi nessuno tanto sfrontato da farla a suo nome. Temeva     invece il vecchio sistema: un foglietto fatto scivolare sotto la porta     da una mano  sconosciuta  poteva  essere  efficace,  non  solo  perché     garantiva  la  doppia  anonimità  del mittente e del destinatario,  ma     anche perché la sua  stirpe  leggendaria  permetteva  di  attribuirgli     qualche legame metafisico con i disegni della Divina Provvidenza.     Le  gelosie  non  conoscevano  casa sua: per più di trent'anni di pace     coniugale il dottor Urbino si era spesso vantato in pubblico,  e  fino     ad allora ne era stato certo, di essere come i fiammiferi svedesi, che     si accendono solo sulla loro scatola. Ma ignorava quale potesse essere     la  reazione  di  una donna con tanto orgoglio come la sua,  con tanta     dignità e  con  un  carattere  tanto  forte,  davanti  a  un'infedeltà     provata.  Così,  dopo  averla  guardata  in  faccia come lei gli aveva     chiesto, non gli accadde nient'altro che abbassare di nuovo lo sguardo     per dissimulare il suo turbamento,  e continuò a fingersi smarrito nei     dolci meandri dell'isola di Alca, mentre si chiedeva che fare. Neanche     Fermina Daza, da parte sua, aveva detto altro. Finito di rammendare le     calze,  aveva  messo le cose senza nessun ordine dentro al tavolino da     lavoro, aveva dato istruzioni in cucina per la cena e se ne era andata     in camera da letto.
    A quel punto lui era così sicuro della sua decisione che  alle  cinque     del pomeriggio non passò dalla casa della signorina Lynch. Le promesse     di  amore  eterno,  l'illusione di una casa discreta per lei sola dove     lui avrebbe potuto andarla a trovare  senza  spaventi  improvvisi,  la     felicità  senza  fretta  fino alla morte,  tutto quanto aveva promesso     nelle vampe dell'amore restò per sempre cancellato.  L'ultima cosa che     la  signorina  Lynch  ebbe  da  lui  fu  un diadema di smeraldi che il     cocchiere le consegnò senza commenti,  senza un messaggio,  senza  una     nota  scritta,  e  dentro  una  scatoletta  impacchettata con carta da     farmacia perché anche il cocchiere la credesse una  medicina  urgente.     Nel  resto  della sua vita non la rivide nemmeno per caso,  e solo Dio     seppe quanto dolore  gli  costò  questa  decisione  eroica,  e  quante     lacrime di fiele dovette spargere chiuso nel bagno per sopravvivere al     suo disastro intimo. Alle cinque, invece di andare con lei, davanti al     suo  confessore  fece  un atto di profonda contrizione,  e la domenica     dopo  fece  la  comunione  con  il  cuore  a  pezzi,  ma  con  l'animo     tranquillo.
    La  stessa  notte  della  rinuncia,  mentre  si spogliava per andare a     dormire,  ripeté a Fermina Daza l'amara  litania  delle  sue  insonnie     mattutine, le fitte improvvise, la voglia di piangere all'imbrunire, i     sintomi  cifrati  dell'amore  nascosto  che  lui le raccontava in quel     momento come se fossero le miserie della vecchiaia.  Doveva farlo  con     qualcuno  per  non  morire,  per  non essere costretto a raccontare la     verità,  e dopo tutto quegli sfoghi erano consacrati ai riti domestici     dell'amore.  Lei lo ascoltò con attenzione,  ma senza guardarlo, senza     dire nulla,  mentre prendeva tra le mani la roba che lui si  toglieva.     Odorava  ogni indumento senza compiere nessun gesto che denunciasse la     sua rabbia, lo arrotolava in qualche modo, e lo gettava nella cesta di     paglia della biancheria sporca.  Non trovò  l'odore,  però  faceva  lo     stesso: domani sarà un altro giorno. Prima di inginocchiarsi a pregare     davanti  all'altarino della camera da letto,  lui concluse il racconto     delle sue penurie con un sospiro triste,  e per di più sincero: «Credo     che morirò». Lei non batté neanche ciglio per rispondergli.     «Sarebbe  la  cosa  migliore»  disse.  «Così  saremmo  tutti e due più     tranquilli.»
    Qualche anno prima, nella crisi di una malattia pericolosa,  lui aveva     parlato  della  possibilità  di  morire e lei gli aveva dato la stessa     risposta brusca.  Il dottor Urbino l'aveva  attribuita  all'inclemenza     propria  delle  donne  grazie  alla  quale  è  possibile  che la Terra     continui a girare intorno al Sole,  perché allora  ignorava  come  lei     frapponesse  sempre una barriera di rabbia perché non le si notasse la     paura.  E in quel caso,  il più terribile di tutti,  era la  paura  di     restare senza di lui.
    Quella notte, invece, aveva desiderato la sua morte con tutto l'impeto     del  suo  cuore,  e quella certezza lo allarmò.  Poi la sentì piangere     nell'oscurità, piano piano,  mordendo il cuscino per non farsi sentire     da  lui.  Questo  fatto finì di offuscarlo,  perché sapeva che lei non     piangeva facilmente per nessun dolore del corpo o dell'anima. Piangeva     solo per una grande rabbia,  e più ancora se questa aveva  origine  in     qualche modo nel suo terrore della colpa,  e allora le dava più rabbia     quanto più piangeva,  perché non riusciva a perdonarsi la debolezza di     piangere.  Lui non si azzardò a consolarla,  sapendo che sarebbe stato     come consolare una tigre trapassata da una lancia, né ebbe il coraggio     di dirle che i motivi del suo pianto erano spariti quel pomeriggio  ed     erano  stati  estirpati  alla  radice  e  per sempre perfino dalla sua     memoria.
    La stanchezza lo vinse per qualche minuto. Quando si svegliò lei aveva     acceso la sua piccola luce e continuava a stare con gli  occhi  aperti     ma  senza piangere.  Qualcosa di definitivo le era successo mentre lui     dormiva: i sedimenti accumulati nel fondo della sua età in tanti  anni     erano  stati  agitati  dal  supplizio  delle gelosie ed erano venuti a     galla,  e l'avevano invecchiata in un attimo.  Impressionato dalle sue     rughe  improvvise,  dalle sue labbra avvizzite,  dal grigiore dei suoi     capelli,  lui si arrischiò a dirle di tentare di dormire: erano le due     passate.  Lei  gli parlò senza guardarlo ma già senza tracce di rabbia     nella voce, quasi con dolcezza:
    «Ho il diritto di sapere chi è» disse.
    E allora lui le raccontò tutto,  sentendo di  togliersi  il  peso  del     mondo,  perché  era convinto che lei lo sapesse e che le mancasse solo     di confermare i particolari. Ma non era così, ovviamente, e mentre lui     parlava lei riprese a piangere,  e  non  con  timidi  singhiozzi  come     all'inizio,  ma  con  delle  lacrime a ruota libera e salmastre che le     correvano giù per il viso e le bruciavano nella camicia da notte e  le     infiammavano  la  vita,  perché  lui  non  aveva  fatto quello che lei     sperava con l'anima ridotta a un filo,  ed era che negasse tutto  fino     alla morte, che si indignasse per la calunnia, che imprecasse gridando     contro  questa  società  di  cattiva  madre  che  non faceva la minima     attenzione  a  calpestare  l'onore  altrui,   e  che   fosse   rimasto     imperturbabile  anche  di  fronte  alle  prove  demolitrici  della sua     slealtà: come un uomo.  Poi,  quando lui le raccontò di  essere  stato     quel  pomeriggio dal suo confessore,  temette di diventare cieca dalla     rabbia.  Fin dai tempi della scuola aveva la convinzione che la  gente     di  chiesa fosse priva di qualsiasi virtù ispirata da Dio.  Questa era     una discrepanza essenziale nell'armonia della casa che erano  riusciti     a  eludere  senza  inciampi.  Ma  che  suo  marito  avesse permesso al     confessore di intrufolarsi fino a quel punto in  un'intimità  che  non     era solo sua, ma anche di lei stessa, era qualcosa che superava tutto.     «E' come raccontarlo a un cacciatore di vipere dei portoni» disse.     Per  lei  era  il  massimo.  Era sicura che il suo onore andasse sulla     bocca di tutti già da prima che il marito avesse  finito  di  fare  la     penitenza,  e  il senso di umiliazione che questo le causava era molto     meno sopportabile della vergogna e  della  rabbia  e  dell'ingiustizia     dell'infedeltà.  E  poi,  la  cosa  peggiore di tutte,  cazzo: con una     negra.  Lui la corresse:  «Mulatta».  Ma  in  quel  momento  qualsiasi     precisazione era un di più: lei aveva chiuso.
    «E' la stessa fica» disse,  «e solo adesso lo capisco: era un odore di     negra.»
    Queste cose accaddero di lunedì. Il venerdì dopo,  alle sette di sera,     Fermina Daza si imbarcò sul piccolo battello che faceva rotta regolare     per  San  Juan  de la Ciénaga,  solo con un baule,  in compagnia della     figlioccia e con la faccia coperta da uno scialle per evitare  domande     e per evitarle al marito.  Il dottor Juvenal Urbino non andò al porto,     per accordo reciproco,  dopo un colloquio spossante di tre  giorni  in     cui  decisero  che  lei  se  ne  andasse  alla  fattoria  della cugina     Hildebranda Sánchez, nel villaggio di Flores de María,  con abbastanza     tempo  per riflettere prima di prendere una decisione finale.  I figli     lo capirono,  senza conoscerne i motivi,  come  un  viaggio  parecchie     volte  rimandato  che  loro  stessi  desideravano da tempo.  Il dottor     Urbino sistemò le cose affinché nessuno nel suo piccolo mondo  perfido     potesse  fare  speculazioni  maliziose,  e  lo  fece  così bene che se     Florentino Ariza non trovò nessuna pista della sparizione  di  Fermina     Daza fu perché in realtà non ce n'erano, e non perché gli mancassero i     mezzi per verificarle.  Il marito non dubitava che lei sarebbe tornata     a casa non appena le fosse sbollita la  rabbia.  Ma  lei  se  ne  andò     sicura che la rabbia non le sarebbe sbollita mai.
    Tuttavia  avrebbe  imparato  molto  presto  che  quella determinazione     eccessiva non era  tanto  il  frutto  del  risentimento  quanto  della     nostalgia.  Dopo  il  viaggio  di  nozze era tornata spesso in Europa,     nonostante i dieci giorni di mare,  e lo aveva sempre fatto con  tempo     d'avanzo  per  essere  felice.  Conosceva  il mondo,  aveva imparato a     vivere e a pensare in altro modo, ma non era mai tornata a San Juan de     la Ciénaga dopo il vano volo in pallone.  Il  ritorno  alla  provincia     della cugina Hildebranda aveva per lei un che di redenzione,  anche se     tardiva. Non ci pensò per via del suo disastro matrimoniale: veniva da     molto prima.  Così che la sola  idea  di  recuperare  i  suoi  affetti     giovanili la consolava della sua infelicità.
    Quando sbarcò con la figlioccia a San Juan de la Ciénaga, fece appello     alle  grandi  riserve  del  suo  carattere e riconobbe la città contro     tutti gli avvertimenti.  Il capo civile e militare della  piazza,  cui     era  stata raccomandata,  la invitò sulla vittoria ufficiale fino alla     partenza del treno per San Pedro Alejandrino,  dove volle  andare  per     verificare quello che le avevano detto,  che il letto in cui era morto     il Libertador era piccolo quanto quello di un bambino.  Allora Fermina     Daza  tornò  a  rivedere il suo grande villaggio nel marasma delle due     del pomeriggio.  Rivide le  strade  che  piuttosto  sembravano  grandi     arenili  con  pozzanghere  coperte  di  muschio,  e rivide le case dei     portoghesi con i loro scudi araldici intagliati nel portico e  gelosie     di  bronzo  alle finestre,  nei cui saloni ombrosi si ripetevano senza     compassione gli stessi esercizi di pianoforte, titubanti e tristi, che     sua madre appena sposata  aveva  insegnato  alle  bambine  delle  case     ricche.   Vide   la  piazza  deserta  senza  un  albero  sulle  pietre     arroventate, la fila di carrozze con le cappotte funeree con i cavalli     addormentati in piedi,  il treno giallo di San  Pedro  Alejandrino,  e     all'angolo  della  chiesa  maggiore  vide  la casa più grande,  la più     bella,  con un corridoio di archi di pietra inverdita e un portone  da     monastero,  e  la  finestra  della  camera  da letto dove sarebbe nato     Alvaro molti anni dopo,  quando lei non avrebbe più avuto memoria  per     ricordarlo. Pensò alla zia Escolástica, che continuava a cercare senza     speranza  per  cielo  e  terra,  e  pensando a lei scoprì di pensare a     Florentino Ariza, nel suo vestito da letterato e il suo libro di versi     sotto i mandorli del giardinetto,  come molto  di  rado  le  succedeva     quando  evocava  i suoi anni ingrati della scuola.  Dopo parecchi giri     non riuscì a riconoscere la vecchia  casa  di  famiglia,  perché  dove     supponeva che fosse c'erano solo un allevamento di maiali e,  svoltato     l'angolo della via  dei  bordelli,  puttane  di  tutto  il  mondo  che     facevano  la  siesta  sulla  porta,  nel  caso passasse il postino con     qualcosa per loro. Non era il suo villaggio.
    Fin dall'inizio del giro, Fermina Daza si era coperta mezza faccia con     lo scialle,  non per paura di essere riconosciuta dove nessuno  poteva     conoscerla  bensì  per  la visione dei morti che si gonfiavano al sole     dappertutto,  dalla stazione ferroviaria fino  al  cimitero.  Il  capo     civile  e  militare  della  piazza  le  disse: «E' il colera».  Lei lo     sapeva,  perché aveva visto i grumi bianchi sulla bocca  dei  cadaveri     bruciati,  ma notò che nessuno aveva il colpo di grazia alla nuca come     all'epoca del pallone.
    «E' così» le aveva detto  l'ufficiale.  «Anche  Dio  migliora  i  suoi     metodi.»
    La  distanza da San Juan de la Ciénaga all'antico zuccherificio di San     Pedro Alejandrino era solo di  nove  leghe,  ma  il  treno  giallo  ci     impiegava  tutto  il  giorno,  perché  il  macchinista  era  amico dei     passeggeri abituali e questi gli chiedevano il favore di fermarsi ogni     momento per stirare le  gambe  camminando  sui  campi  da  golf  della     compagnia  bananiera,  e  gli  uomini facevano il bagno nudi nei fiumi     diafani e gelidi che scendevano giù dalla  sierra,  e  quando  avevano     fame  scendevano a mungere le vacche libere nei pascoli.  Fermina Daza     arrivò terrorizzata,  e fece appena in tempo ad ammirare  i  tamarindi     omerici  dove  il Libertador attaccava la sua amaca di moribondo,  e a     verificare che il letto dove mori,  così come le  avevano  detto,  non     solo  era  piccolo  per  un  uomo di così tanta gloria ma anche per un     settimino.  Tuttavia,  un altro visitatore che sembrava saperla  lunga     disse  che  il  letto  era una reliquia falsa perché la verità era che     avevano lasciato morire il Padre della Patria per terra.  Fermina Daza     era  così  depressa per quello che aveva visto e sentito da quando era     partita da casa sua,  che per il resto del viaggio non  si  compiacque     nel  ricordo  del viaggio precedente,  come tanto aveva rimpianto,  ma     evitava persino di passare nei villaggi delle sue nostalgie.  Così  li     preservò,   e  preservò  se  stessa,   dalla  delusione.   Sentiva  le     fisarmoniche  dalle  scorciatoie  attraverso  le  quali  sfuggiva   al     disincanto,  sentiva le urla del pollaio da combattimento, le salve di     piombo che potevano essere ugualmente di guerra o di festa,  e  quando     non  aveva altre risorse che attraversare il villaggio,  si copriva la     faccia con lo scialle per continuare a evocarlo com'era prima.     Una sera,  dopo molto eludere il passato,  arrivò alla fattoria  della     cugina  Hildebranda,  e  quando la vide che l'aspettava sulla porta fu     sul punto di svenire: era come vedere se stessa nello  specchio  della     verità.  Era  grassa  e decrepita,  e carica di figli indomiti che non     erano dell'uomo che continuava ad  amare  senza  speranze,  ma  di  un     militare  a  riposo  con cui si era sposata per dispetto e che l'aveva     amata follemente.  Ma dentro al corpo devastato continuava a essere la     stessa.  Fermina  Daza  si riebbe dall'impressione con pochi giorni di     campagna e buoni ricordi, ma non uscì dalla fattoria se non per andare     a messa la domenica con i nipoti delle complici discole di  un  tempo,     cavalieri su cavalli magnifici, e ragazze belle e ben vestite, come le     loro  madri alla stessa età,  che andavano in piedi sui carri di buoi,     cantando in coro, fino alla chiesa della missione a fondovalle.  Passò     solo  per  il  villaggio  di  Flores de María,  dove non era stata nel     viaggio precedente perché non pensava che potesse piacerle,  ma quando     lo  vide  ne  restò  affascinata.  La  sua  disgrazia,  o  quella  del     villaggio,  fu che poi non riusci a ricordarlo più come era in realtà,     ma come se lo immaginava prima di conoscerlo.
    Il dottor Juvenal Urbino prese la decisione di andare da lei dopo aver     ricevuto  ragguagli  dal  vescovo di Riohacha.  La sua conclusione era     stata che il ritardo della  moglie  non  fosse  dovuto  al  non  voler     tornare ma al fatto di non riuscire a trovare come eludere l'orgoglio.     Così  ci  andò  senza  avvisarla,  dopo  uno  scambio  di  lettere con     Hildebranda,  dalle quali capì chiaramente che a sua moglie  si  erano     invertite  le nostalgie: adesso pensava solo a casa sua.  Fermina Daza     era in cucina alle  undici  del  mattino,  a  preparare  le  melanzane     ripiene, quando udì gridare i "peones", i nitriti, gli spari per aria,     e poi i passi decisi nell'atrio, e la voce dell'uomo:
    «E' meglio arrivare in tempo piuttosto che essere invitato.»
    Credette  di morire d'allegria.  Senza tempo per pensarci,  si lavò le     mani in qualche modo, mormorando: «Grazie, Dio mio, grazie,  che buono     che sei»,  pensando di non aver ancora fatto il bagno per le maledette     melanzane che le aveva chiesto Hildebranda senza dirle  chi  veniva  a     pranzo, pensando di essere così vecchia e brutta, e con la faccia così     spellata dal sole,  che lui si sarebbe pentito di essere venuto quando     l'avesse vista in quello stato,  maledizione.  Ma si asciugò  le  mani     come  poté  con  il  grembiule,  si sistemò l'aspetto come poté,  fece     appello a tutta l'alterigia con cui sua madre l'aveva messa  al  mondo     per  fare  un  po'  di  ordine  nel  cuore impazzito,  e andò incontro     all'uomo con la sua dolce  camminata  da  cerva,  la  testa  alta,  lo     sguardo  lucido,  il  naso  da guerra,  e contenta del suo destino per     l'immenso sollievo di tornare a casa,  anche se  non  così  facilmente     come  credeva  lui,  ovviamente,  perché  se ne andava felice con lui,     certo, ma anche decisa a fargli pagare in silenzio le sofferenze amare     che le avevano consumato la vita.
    Quasi due anni dopo la sparizione di Fermina  Daza,  successe  uno  di     quei  casi impossibili che Tránsito Ariza avrebbe definito uno scherzo     di Dio.  Florentino Ariza non si era lasciato  impressionare  in  modo     particolare  dall'invenzione  del  cinema,  ma Leona Cassiani lo portò     senza  resistenze  alla  prima  spettacolare  di  "Cabiria",   la  cui     pubblicità   si   basava  sui  dialoghi  scritti  dal  poeta  Gabriele     D'Annunzio. Il gran patio a cielo aperto di don Galileo Daconte,  dove     certe notti si godeva più dello splendore delle stelle che degli amori     muti  sullo  schermo,  era  pieno  in  modo quasi strabocchevole di un     pubblico scelto.  Leona Cassiani seguiva le peripezie della storia con     l'anima ridotta a un filo. A Florentino Ariza, invece, cadeva la testa     dal  sonno  per la pesantezza opprimente del dramma.  Alle sue spalle,     una voce di donna sembrò leggergli nel pensiero:     «Dio mio, è più lungo di un dolore!»
    Fu l'unica cosa che disse,  frenata forse dalla  risonanza  della  sua     voce nella penombra, dato che lì non si era ancora imposta l'abitudine     di  abbellire  i film muti con accompagnamento di pianoforte,  e nella     platea in  penombra  si  sentiva  solo  il  sussurro  da  pioggia  del     proiettore.  Florentino  Ariza  non  si  ricordava di Dio se non nelle     situazioni più difficili,  ma quella volta lo ringraziò con  tutta  la     sua anima.  Perché anche venti braccia sottoterra avrebbe riconosciuto     immediatamente quella voce di metalli sordi che gli arrivava all'anima     fin dal pomeriggio in cui l'aveva sentita dire nella  scia  di  foglie     gialle di un giardino solitario: «Adesso vada,  e non torni finché non     l'avviso».  Sapeva che era seduta nel posto  dietro  il  suo,  insieme     all'inevitabile marito, e sentiva il suo respiro caldo e ben misurato,     e  aspirava  con  amore  l'aria  purificata dalla buona salute del suo     alito. Non lo sentì scavato dalla tignola della morte,  come di solito     immaginava  nell'abbattimento degli ultimi mesi,  ma la evocò di nuovo     nella sua età radiosa e felice,  con la pancia incurvata dal seme  del     primo  figlio  sotto  la  tunica da Minerva.  La immaginava come se la     stesse vedendo senza guardarsi  indietro,  completamente  estraneo  ai     disastri storici che straboccavano dallo schermo. Si dilettava con gli     olezzi del profumo di mandorle che gli arrivavano di ritorno dalla sua     intimità,   ansioso   di   sapere  come  lei  pensasse  che  dovessero     innamorarsi le donne del cinema perché i  loro  amori  facessero  meno     male  di  quelli  della vita.  Poco prima della fine,  con un lampo di     gioia,  si rese conto all'improvviso di non  essere  mai  stato  tanto     tempo così vicino a qualcuno che amava tanto.
    Aspettò  che  gli  altri si alzassero quando accesero le luci.  Poi si     alzò in fretta,  si voltò distratto  abbottonandosi  il  gilè  che  si     slacciava sempre durante lo spettacolo,  e i quattro si trovarono così     vicini  che  avrebbero  dovuto  inevitabilmente  salutarsi  anche   se     qualcuno di loro non ne avesse avuto voglia. Juvenal Urbino salutò per     primo  Leona  Cassiani,  che  conosceva bene,  e poi strinse la mano a     Florentino Ariza con la sua gentilezza abituale.  Fermina Daza rivolse     a  tutti  e due un sorriso cortese,  niente di più che cortese,  ma in     ogni modo un sorriso di chi li aveva visti parecchie volte, che sapeva     chi erano,  e che pertanto  non  dovevano  esserle  presentati.  Leona     Cassiani  le  rispose  con  la  sua grazia mulatta.  Florentino Ariza,     invece, non seppe cosa fare perché rimase attonito nel vederla.     Era un'altra.  Non c'era sul suo volto nessun  segno  della  terribile     malattia di moda, né di nessun'altra, e il suo corpo conservava ancora     il  peso e la leggiadria dei suoi tempi migliori,  ma era evidente che     gli ultimi anni erano passati per lei  con  il  rigore  di  dieci  mal     vissuti.  I capelli corti le stavano bene, con una curva a banda sulle     guance,  ma non erano più color miele bensì di alluminio,  e  i  begli     occhi  lanceolati avevano perso mezza vita di luce dietro gli occhiali     da nonna.  Florentino Ariza la vide allontanarsi al braccio del marito     fra la folla che abbandonava il cinema, e si sorprese che stesse in un     luogo pubblico con uno scialle da poveri e delle pantofole da casa. Ma     quello  che  più lo commosse fu che il marito dovette prenderla per il     braccio per indicarle la via esatta dell'uscita,  e anche così calcolò     male l'altezza e fu sul punto di cadere sul gradino della porta.     Florentino  Ariza  era  molto  sensibile  a  quegli inciampi dell'età.     Ancora giovane,  interrompeva la lettura di  versi  nei  giardini  per     osservare  le  coppie  di  anziani  che  si  aiutavano  a  vicenda  ad     attraversare la strada, ed erano lezioni di vita che gli erano servite     per intravedere le leggi  della  sua  stessa  vecchiaia.  All'età  del     dottor  Juvenal Urbino quella sera al cinema,  gli uomini fiorivano in     una specie di gioventù autunnale,  sembravano più degni con  le  prime     canizie,  diventavano ricchi di ingegno e seducenti,  soprattutto agli     occhi  delle  donne  giovani,   mentre  le  mogli  appassite  dovevano     attaccarsi  al  loro  braccio  per  non  inciampare persino nella loro     ombra.  Pochi anni dopo,  però,  i mariti cadevano all'improvviso  nel     precipizio  di  una vecchiaia infame del corpo e dell'anima,  e allora     erano le loro mogli consolidate a doverli  portare  sottobraccio  come     ciechi di carità,  sussurrandogli all'orecchio, per non ferire il loro     orgoglio di uomini,  che stessero bene attenti che erano tre e non due     i  gradini,  che c'era una pozzanghera in mezzo alla strada,  che quel     fagotto messo per traverso sul marciapiede era un mendicante morto,  e     aiutandoli  a  fatica  ad attraversare la strada come se fosse l'unico     guado nell'ultimo fiume della vita.  Florentino  Ariza  si  era  visto     tante volte in quello specchio da non aver mai avuto tanta paura della     morte  quanto  dell'età  infame  in  cui  avesse dovuto essere portato     sottobraccio da una donna.  Sapeva che quel  giorno,  e  solo  quello,     avrebbe dovuto rinunciare alla speranza di Fermina Daza.     L'incontro  gli  fece  andar  via  il  sonno.  Invece di portare Leona     Cassiani  in  carrozza,  l'accompagnò  a  piedi  attraverso  la  città     vecchia,  dove  i  loro  passi  risuonavano  come ferri di cavallo sui     selci.  Spesso dai balconi aperti sfuggivano  brani  di  voci  fugaci,     confidenze  d'alcova,  singulti  d'amore  ingigantiti dall'acustica da     fantasmi  e  la  fragranza  calda   dei   gelsomini   nelle   stradine     addormentate. Ancora una volta Florentino Ariza dovette fare appello a     tutte  le  sue  forze  per  non rivelare a Leona Cassiani il suo amore     represso per Fermina  Daza.  Camminavano  vicini,  con  i  loro  passi     decisi, amandosi senza fretta come vecchi fidanzati, lei pensando alle     grazie  di  Cabiria,  e  lui pensando alla propria disgrazia.  Un uomo     stava cantando su un balcone di Plaza de la Aduana,  e il suo canto si     ripeté per tutto lo spazio della piazza in echi incatenati: "Quando io     passavo  attraverso le onde immense del mare".  In Calle de los Santos     de Piedra, proprio quando doveva congedarsi da lei davanti a casa sua,     Florentino Ariza chiese a  Leona  Cassiani  di  invitarlo  a  bere  un     brandy.  Era  la  seconda  volta  che  glielo  chiedeva in circostanze     simili. La prima, dieci anni addietro, lei gli aveva detto: «Se sali a     quest'ora dovrai fermarti per sempre».  Non era  salito.  Adesso  però     sarebbe  salito in ogni modo,  anche se dopo avrebbe dovuto violare la     sua parola.  Ciononostante,  Leona Cassiani lo invitò a  salire  senza     compromessi.
    Fu  così che si trovò quando meno lo pensava nel santuario di un amore     estintosi ancora prima di nascere. I suoi genitori erano morti, il suo     unico fratello aveva fatto fortuna a Curaçao,  e lei viveva sola nella     vecchia  casa  di  famiglia.  Anni  prima,  quando  ancora  non  aveva     rinunciato alla speranza di farne la sua amante,  Florentino Ariza era     solito  andarla  a  trovare  la  domenica  con  il  consenso  dei suoi     genitori,  e a volte la  sera  fino  a  molto  tardi,  e  aveva  tanto     contribuito   alla  sistemazione  della  casa  che  aveva  finito  per     riconoscerla come sua.  Quella sera,  però,  dopo il cinema,  ebbe  la     sensazione  che  la  sala  fosse stata purificata dei suoi ricordi.  I     mobili erano in luoghi diversi,  c'erano altre stampe  attaccate  alle     pareti,  e pensò che tanti cambiamenti accaniti fossero stati fatti di     proposito per perpetuare la certezza che lui non fosse  mai  esistito.     Il  gatto  non  lo riconobbe.  Spaventato dall'accanimento dell'oblio,     disse: «Non si ricorda più di  me».  Ma  lei  gli  rispose  girata  di     spalle,  mentre serviva i brandy,  che se quello lo preoccupava poteva     dormire tranquillo, perché i gatti non si ricordano di nessuno.     Adagiati sul divano,  molto vicini,  parlarono di loro,  di quello che     erano  stati  prima  di  conoscersi un pomeriggio di chissà quando sul     tram a mule. Le loro vite passavano in uffici contigui,  e mai fino ad     allora  avevano  parlato  di  niente di diverso dal lavoro quotidiano.     Mentre chiacchieravano,  Florentino  Ariza  le  mise  una  mano  sulla     coscia,  incominciò a accarezzarla con il suo dolce tatto da seduttore     incallito, e lei lo lasciò fare ma non gli rivolse neanche un sussulto     di cortesia.  Solo quando lui cercò di andare oltre gli prese la  mano     che esplorava e gli diede un bacio sul palmo.
    «Comportati  bene» gli disse.  «Da parecchio tempo mi sono accorta che     non sei tu l'uomo che cerco.»
    Quando era molto giovane, un uomo forte e accorto, di cui non vide mai
    la  faccia,  l'aveva  atterrata  di  sorpresa  sugli  scogli,  l'aveva     spogliata  a zampate e le aveva fatto un amore istantaneo e frenetico.     Stesa sulle pietre,  piena di tagli su tutto il corpo,  avrebbe voluto     che  quell'uomo  si fermasse lì per sempre,  per morire d'amore fra le     sue braccia. Non l'aveva visto in faccia,  non ne aveva udito la voce,     ma  era  sicura di riconoscerlo fra migliaia per la sua forma e la sua     misura e il suo modo di fare l'amore.  Da  quel  momento,  a  chiunque     volesse  ascoltarla  diceva: «Se qualche volta sai di un tipo grande e     grosso che violentò una povera negra di strada alla Escollera  de  los     Ahogados,  un  quindici  di  ottobre  verso le undici e mezzo di sera,     digli dove può trovarmi».  Lo diceva per pura abitudine,  e  lo  aveva     detto  a  tanti  da  non  avere  più speranza.  Florentino Ariza aveva     ascoltato spesso quel racconto come avrebbe sentito gli addii  di  una     nave nella notte.  Alle due del mattino, avevano bevuto tre brandy per     uno e lui sapeva, in effetti,  di non essere l'uomo che lei aspettava,     e fu contento di saperlo.
    «Brava, Leona» le disse andando via, «abbiamo ammazzato la tigre.»     Non  fu  l'unica  cosa  che  finì  quella notte.  La bugia maligna del     padiglione da tisici gli aveva guastato il  sonno,  perché  gli  aveva     inculcato  il  sospetto inconcepibile che Fermina Daza fosse mortale e     che pertanto potesse morire prima del  marito.  Quando  però  la  vide     inciampare all'uscita dal cinema,  fece per suo proprio conto un passo     in più verso l'abisso con l'improvvisa rivelazione che era lui  e  non     lei  quello  che  poteva morire per primo.  Fu un presagio,  e dei più     terribili, perché si alimentava nella realtà. Dietro erano rimasti gli     anni dell'attesa immobile, delle speranze fortunose,  ma all'orizzonte     non  si  scorgeva nient'altro che il pelago insondabile delle malattie     immaginarie, le minzioni goccia a goccia nelle albe insonni,  la morte     quotidiana all'imbrunire. Pensò che ognuno dei momenti del giorno, che     prima  erano  stati  più  che  suoi  alleati  suoi  complici  giurati,     incominciasse a cospirare contro di lui. Pochi anni prima era andato a     un appuntamento avventuroso con il  cuore  oppresso  dal  terrore  del     caso, aveva trovato la porta senza chiavistello e con i cardini appena     oliati  per  farlo entrare senza rumore,  ma si era pentito all'ultimo     momento per paura di provocare a una donna estranea e servizievole  il     pregiudizio   irreparabile  di  morire  nel  suo  letto.   Così,   era     ragionevole pensare che la donna più amata  sulla  terra,  quella  che     aveva  aspettato da un secolo all'altro senza un sospiro di delusione,     avesse solo tempo di prenderlo sottobraccio attraverso una  strada  di     sepolcri  lunari  e  aiuole  di  papaveri  scompigliati  dal vento per     aiutarlo ad arrivare sano e salvo all'altro marciapiede della morte.     La verità è che, per i criteri della sua epoca, Florentino Ariza aveva     oltrepassato i confini della vecchiaia. Aveva cinquantasei anni, molto     ben portati,  e pensava che fossero anche  i  meglio  vissuti,  perché     erano stati anni d'amore. Ma nessun uomo dell'epoca avrebbe affrontato     il  ridicolo  di  sembrare giovane alla sua età,  anche se lo era o lo     credeva, e nessuno avrebbe osato confessare senza vergogna di piangere     ancora di nascosto  per  una  scortesia  del  secolo  precedente.  Era     un'epoca  cattiva  per  essere  giovani: c'era un modo di vestirsi per     ogni  età,   ma  il  modo  della  vecchiaia  incominciava  poco   dopo     l'adolescenza  e  durava  fino alla tomba.  Era,  più che un'età,  una     dignità sociale.  I giovani si vestivano  come  i  loro  nonni,  e  si     facevano più rispettabili con gli occhiali prematuri, e il bastone era     molto  ben  visto  dai trent'anni.  Per le donne c'erano solo due età:     l'età di sposarsi, che non superava i ventidue anni, e l'età di essere     nubili eterne: le zitelle. Le altre, le sposate, le madri,  le vedove,     le nonne,  erano una specie diversa che non faceva il conto della loro     età in rapporto agli anni vissuti ma in rapporto al tempo che  mancava     loro per morire.
    Florentino Ariza,  invece, affrontò le insidie della vecchiaia con una     temerarietà accanita, pur sapendo di avere la strana sorte di sembrare     vecchio fin da molto giovane.  All'inizio fu una  necessità.  Tránsito     Ariza disfaceva e rifaceva per lui i vestiti che suo padre decideva di     buttare  nella spazzatura,  così che andava alla scuola elementare con     delle finanziere che lo travolgevano quando si sedeva e  dei  cappelli     ministeriali  che  gli  affondavano  fino  alle  orecchie,  nonostante     avessero la circonferenza diminuita con  ripieno  di  cotone.  Siccome     oltre  a tutto usava occhiali da miope fin dai cinque anni e aveva gli     stessi capelli da indio di sua madre,  che erano irti  e  grossi  come     crini  di cavallo,  il suo aspetto non lasciava niente in chiaro.  Per     fortuna,  dopo tanti disordini di  governo  per  tante  guerre  civili     sovrapposte,  i  criteri  scolastici erano meno selettivi di prima,  e     c'era una confusione di origini e di condizioni sociali  nelle  scuole     pubbliche.  Bambini  che  non avevano ancora finito di essere allevati     arrivavano alle lezioni puzzando di polvere di barricata,  con insegne     e   uniformi   di   ufficiali  ribelli  vinte  a  suon  di  piombo  in     combattimenti incerti e con le loro armi  regolamentari  ben  visibili     alla  cintura.  Si  affrontavano a colpi d'arma da fuoco per qualsiasi     litigio di ricreazione,  minacciavano i maestri se li giudicavano male     agli  esami,  e  uno di loro,  studente di terzo grado nel collegio La     Salle e colonnello di milizie a riposo,  uccise con un colpo d'arma da     fuoco il fratello Juan Eremita,  prefetto della comunità, perché nella     lezione di catechismo aveva detto che Dio  era  membro  di  ruolo  del     partito conservatore.
    D'altra  parte  i  figli  delle  grandi famiglie in disgrazia giravano     vestiti da principi antichi,  e qualcuno molto povero  girava  scalzo.     Fra tante stranezze venute da tutte le parti,  Florentino Ariza era in     ogni modo fra  i  più  strani,  ma  non  tanto  da  richiamare  troppo     l'attenzione.  La  cosa più dura che sentì fu qualcuno che gli gridava     per la strada: «Al povero e al brutto in desiderio va tutto».  In ogni     modo,  quell'abito imposto dalla necessità, era già da allora, e lo fu     per il  resto  della  sua  vita,  il  più  adeguato  alla  sua  indole     enigmatica  e al suo carattere malinconico.  Quando gli diedero il suo     primo incarico importante alla C.F.C.,  si fece fare  dei  vestiti  su     misura  con  lo stesso stile che avevano quelli di suo padre,  che lui     evocava come un vecchio morto alla venerabile età di Cristo: trentatré     anni.  Così Florentino Ariza sembrò sempre molto più vecchio di quello     che era. Tanto che la svergognata Brígida Zuleta, un'amante fugace che     gli serviva le verità senza passarle sotto l'acqua,  gli disse fin dal     primo giorno che le piaceva di  più  quando  si  toglieva  i  vestiti,     perché  nudo  aveva  vent'anni di meno.  Tuttavia,  non seppe mai come     risolvere le cose,  prima perché il suo gusto personale non lo  faceva     vestire  in  altro modo,  e poi perché nessuno sapeva come vestirsi da     più giovane a vent'anni a meno  di  non  tirar  fuori  un'altra  volta     dall'armadio  i  suoi pantaloni corti e il berretto da ragazzino.  Del     resto,  a lui stesso  non  era  possibile  sfuggire  alla  nozione  di     vecchiaia  del  suo  tempo,  così come era solo naturale che,  vedendo     incespicare Fermina  Daza  all'uscita  dal  cinema,  lo  avesse  fatto     trasalire  il lampo di panico che la morte puttana andasse a vincergli     irrimediabilmente la sua accanita guerra d'amore.
    Fino ad allora la sua grande battaglia combattuta furiosamente e persa     ingloriosamente era stata quella della  calvizie.  Da  quando  vide  i     primi capelli restare attaccati al pettine,  capì di essere condannato     a un inferno il cui supplizio è inimmaginabile per chi non lo subisce.     Resistette per anni.  Non ci furono né lozioni né  pozioni  miracolose     che  non provasse,  né credenze a cui non credesse,  né sacrificio che     non sopportasse per difendere dalla devastazione vorace  ogni  pollice     della sua testa. Imparò a memoria le istruzioni dell'Almanacco Bristol     per  l'agricoltura  perché  aveva  sentito  dire  da  qualcuno  che la     crescita dei capelli  aveva  un  rapporto  diretto  con  i  cicli  dei     raccolti.  Abbandonò  il  suo  parrucchiere di tutta la vita,  che era     solennemente calvo, e lo cambiò con un forestiero arrivato da poco che     tagliava i capelli solo quando la luna entrava nel  quarto  crescente.     Il  nuovo  parrucchiere  aveva  incominciato a dimostrare in realtà di     avere la mano fertile quando si  scoprì  che  era  uno  stupratore  di     novizie  ricercato  da varie polizie delle Antille,  e se lo portarono     via in catene.
    Florentino Ariza aveva ritagliato tutti  gli  annunci  per  calvi  che     trovò  sui periodici del bacino del Caribe,  sui quali pubblicavano le     due fotografie insieme dello stesso uomo,  prima pelato come un melone     e  poi  più  peloso  di  un  leone:  prima e dopo l'uso della medicina     infallibile. Dopo sei anni ne aveva provate centosettantadue, oltre ad     altri metodi complementari che apparivano sull'etichetta dei  flaconi,     e  l'unica  cosa  che  aveva  ottenuto  con uno di questi era stato un     eczema del cranio,  urticante e fetido,  chiamato  tigna  boreale  dai     santoni  della Martinica perché irraggiava uno splendore fosforescente     nell'oscurità.  Fece ricorso infine a tutte  le  erbe  di  indios  che     decantavano  al  mercato  pubblico,  e  a  tutte le magie specifiche e     pozioni orientali che si vendevano al Portal  de  los  Escribanos,  ma     quando arrivò a rendersi conto della truffa aveva ormai una tonsura da     santo.  Nell'anno  zero,  mentre  la  guerra  civile  dei Mille Giorni     dissanguava il paese,  passò per la città un italiano  che  fabbricava     parrucche di capelli naturali su misura.  Costavano una fortuna,  e il     fabbricante non si faceva responsabile di nulla dopo tre mesi di  uso,     ma  furono  pochi  i calvi solventi che non cedettero alla tentazione.     Florentino Ariza fu uno dei primi.  Si provò una parrucca così  simile     ai suoi capelli originali che lui stesso temeva che gli si alzasse con     i cambiamenti di umore, ma non riuscì ad adattarsi all'idea di portare     in  testa  i  capelli  di  un morto.  La sua unica consolazione fu che     l'avidità della calvizie non gli diede tempo di  conoscere  il  colore     dei  suoi capelli bianchi.  Un giorno,  uno degli ubriaconi felici del     molo fluviale lo abbracciò con più effusioni del solito quando lo vide     uscire dall'ufficio,  gli tolse il cappello  davanti  ai  lazzi  degli     stivatori, e gli diede un bacio sonoro sulla testa.
    «Pelatone divino!» gridò.
    Quella notte,  a quarantadue anni,  si fece tagliare le misere pelurie     che gli restavano ai lati e sulla nuca, e accettò fino in fondo il suo     destino di calvo totale. Al punto che tutte le mattine prima del bagno     si copriva di schiuma da barba non solo il mento ma anche le parti del     cranio dove incominciavano a rigermogliare le pelurie,  e si  lasciava     tutto  liscio come natiche di bambino con un rasoio da barbiere.  Fino     ad allora non si toglieva il cappello neanche  in  ufficio  perché  la     calvizie gli dava una sensazione di nudità che gli sembrava indecente.     Ma quando ci si adattò le attribuì virtù maschili di cui aveva sentito     parlare  e  che disprezzava come mere fantasie di calvi.  Più tardi si     valse della nuova moda di incrociarsi il cranio con i  capelli  lunghi     della parte destra,  e non la abbandonò più. Ma anche così continuò ad     usare il cappello,  sempre dello stesso stile funereo,  anche dopo che     si impose la moda del cappello "de tartarita",  che era il nome locale     del "canotié".
    La perdita dei denti, invece,  non era stata per una calamità naturale     bensì per il lavoro mal fatto di un dentista girovago che aveva deciso     di  applicare  rimedi radicali a una comune infezione.  Il terrore del     trapano a pedale aveva impedito  a  Florentino  Ariza  di  andare  dal     dentista  nonostante  i  suoi continui dolori ai molari finché non era     stato più capace di sopportarli. Sua madre si era spaventata a sentire     per tutta la notte i lamenti inconsolabili nella stanza vicina, perché
    le era sembrato che fossero gli stessi  di  altri  tempi  ormai  quasi     sfumati  nelle nebbie della sua memoria,  ma quando gli fece aprire la     bocca per vedere dov'era che gli faceva male l'amore,  scoprì che  era     pieno di ascessi.
    Lo zio León Dodicesimo lo mandò dal dottor Francis Adonay,  un gigante     negro con i gambali e i pantaloni da cavallo che girava  sui  battelli     fluviali  con un gabinetto dentistico completo dentro delle bisacce da     fattore,  e sembrava piuttosto un commesso viaggiatore del terrore nei     villaggi  del fiume.  Con una sola occhiata dentro la bocca decise che     avrebbe dovuto togliere a Florentino Ariza perfino  i  denti  che  gli     restavano  sani,  per  metterlo  in  una  volta sola in salvo da nuovi     danni.  Contrariamente alla calvizie,  quella cura da  asino  non  gli     diede  nessuna  preoccupazione,  salvo  la paura naturale del massacro     senza anestesia.  Tantomeno lo disgustò l'idea della  dentiera,  prima     perché  una  delle  nostalgie  della sua infanzia era il ricordo di un     mago da fiera che si toglieva le due mandibole e le lasciava a parlare     da sole su un tavolo,  e poi perché  metteva  termine  ai  dolori  dei     molari  che  lo  avevano  tormentato da quando era bambino,  quasi con     altrettanta crudeltà dei dolori d'amore.  Non gli sembrò  una  zampata     furba della vecchiaia,  come gli era sembrata la calvizie,  perché era     convinto che,  malgrado l'odore acre del caucciù vulcanizzato,  il suo     aspetto  sarebbe  stato più pulito con un sorriso ortopedico.  Così si     sottomise senza resistenze alle tenaglie con uno stoicismo da asino da     carico.
    Lo zio León Dodicesimo si occupò dei particolari dell'intervento  come     se  fosse stato sulla sua propria carne.  Aveva un interesse singolare     per le dentiere,  contratto in una delle sue prime navigazioni sul río     de  La  Magdalena  e per colpa della sua affezione maniaca per il "bel     canto".  Una notte di luna piena,  all'altezza del porto  di  Gamarra,     scommise  con  un agrimensore tedesco di essere capace di svegliare le     creature della foresta cantando una romanza napoletana  dalla  veranda     del capitano. Per poco non vinse. Nelle tenebre del fiume si sentivano     il  battito  d'ali  degli  aironi  nei  pantani,  il colpo di coda dei     caimani,  il terrore dei pesci che cercavano di  saltare  sulla  terra     ferma,  ma  alla nota culminante,  quando si temette che al cantore si     rompessero le arterie per  la  potenza  del  canto,  la  dentiera  gli     schizzò fuori della bocca con il respiro finale e affondò nell'acqua.     Il  battello  dovette  fermarsi tre giorni al porto di Tenerife finché     gli facevano  un'altra  dentiera  d'emergenza.  Fu  perfetta.  Ma  nel     viaggio di ritorno,  cercando di spiegare al capitano come aveva perso     la dentiera precedente,  lo zio León Dodicesimo aspirò a pieni polmoni     l'aria  ardente della selva,  emise la nota più alta di cui fu capace,     la tenne fino all'ultimo respiro cercando di spaventare i  caimani  al
    sole  che  guardavano  senza neanche sbattere le palpebre il passaggio     del battello,  e anche la nuova dentiera affondò  nella  corrente.  Da     allora ebbe copie di denti dappertutto,  in luoghi diversi della casa,     nel cassetto della scrivania,  e una su ognuno dei tre battelli  della     compagnia.  Inoltre,  quando mangiava fuori casa era solito portarsene     un'altra di riserva in tasca dentro una scatoletta di pastiglie per la     tosse perché una gli si era rotta mentre cercava  di  mangiarsi  della     carne  arrosto  in un pranzo in campagna.  Temendo che il nipote fosse     vittima di simili incidenti,  lo zio León Dodicesimo ordinò al  dottor     Adonay  di  fargli  in una volta sola due dentiere: una di materiale a     buon mercato,  per uso  quotidiano  in  ufficio,  e  un'altra  per  le     domeniche  e  i  giorni  di  festa,  con  un po' di oro sul molare del     sorriso,  che le desse un tocco in  più  di  verità.  Finalmente,  una     Domenica  delle Palme agitata dalle campane a festa,  Florentino Ariza     ricomparve con una nuova identità,  il cui  sorriso  senza  falli  gli     diede l'impressione che qualcuno diverso da lui avesse occupato il suo     posto nel mondo.
    Questo  avvenne  all'epoca  in  cui  morì sua madre e Florentino Ariza     restò solo nella casa.  Era un angolo adeguato al suo modo  di  amare,     perché  la  strada  era  discreta nonostante che le sue tante finestre     facessero pensare a troppi occhi dietro le tendine.  Ma  tutto  quello     era  stato  fatto  perché  Fermina  Daza  fosse felice,  e solo lei lo     sarebbe  stata,   cosicché  Florentino  Ariza  preferì  perdere  molte     occasioni  durante  i suoi anni più fruttiferi prima di macchiare casa     sua con altri amori.  Fortunatamente,  ogni gradino che  saliva  nella     C.F.C  comprendeva nuovi privilegi,  soprattutto privilegi segreti,  e     uno dei più utili per lui fu la possibilità di usare l'ufficio durante     la notte o di domenica o nei giorni di festa con  la  compiacenza  dei     custodi.  Una volta, quando era primo vicepresidente, stava facendo un     amore d'emergenza con una delle ragazze del servizio  domenicale,  lui     seduto  su  una  sedia  da  scrivania  e lei a cavalcioni sopra di lui     quando improvvisamente si aprì la porta.  Lo zio  León  Dodicesimo  si     affacciò  con  la testa,  come se si fosse sbagliato di ufficio,  e si     fermò a  guardare  da  sopra  gli  occhiali  il  nipote  terrorizzato.     «Cazzo!» disse lo zio senza la minima sorpresa. «La stessa fica di tuo     padre!».  E prima di chiudere di nuovo la porta,  con lo sguardo perso     nel vuoto, disse:
    «E lei,  signorina,  continui pure tranquillamente.  Le giuro sul  mio     onore di non averla vista in faccia.»
    Non  se  ne riparlò,  ma nell'ufficio di Florentino Ariza la settimana     successiva fu impossibile  lavorare.  Gli  elettricisti  entrarono  il     lunedì  in  fretta  e  furia  per installare un ventilatore a pale sul     soffitto liscio.  I fabbri arrivarono inaspettatamente,  e fecero  uno     scandalo  di  guerra  per  mettere  un  chiavistello alla porta perché     potesse chiudersi da dentro.  I carpentieri presero dei  provvedimenti     senza  dire  perché,  i tappezzieri portarono campioni di cretonne per     vedere se si adattavano al colore delle pareti,  e la  settimana  dopo     dovettero far entrare dalla finestra,  perché non passava dalle porte,     un  enorme  divano  matrimoniale  con   fiori   dionisiaci   stampati.     Lavoravano  nelle  ore  più  impensate,  con  un'impertinenza  che non     sembrava casuale,  e per ogni sua protesta avevano la stessa risposta:     «Ordine  della direzione generale».  Florentino Ariza non seppe mai se     una simile intromissione fosse un'amabilità dello  zio,  che  vegliava     sui suoi amori sperduti, o se fosse un modo tutto suo di fargli notare     la sua condotta abusiva.  Non gli venne in mente la verità, ed era che     lo zio León Dodicesimo lo voleva stimolare  perché  anche  a  lui  era     arrivata  la  voce che il nipote avesse abitudini differenti da quelle     della maggior parte degli uomini, e questo lo aveva tormentato come un     ostacolo per farlo suo successore.
    Contrariamente al fratello,  León Dodicesimo  Loayza  aveva  avuto  un     matrimonio  stabile  che  durò sessant'anni,  e si vantò sempre di non     aver lavorato di domenica.  Aveva avuto quattro figli e una figlia,  e     aveva  voluto prepararli tutti da eredi del suo impero,  ma la vita lo     mise davanti a uno di quei casi che erano d'uso corrente  nei  romanzi     del suo tempo ma cui nessuno credeva nella vita reale: i quattro figli     erano  morti,  uno  dietro  l'altro,  via  via che davano la scalata a     posizioni di comando, e la figlia era completamente priva di vocazione     fluviale e preferì morire contemplando  le  navi  dell'Hudson  da  una     finestra  a  cinquanta metri d'altezza.  Tanto che non mancò chi diede     per certa la fandonia che Florentino Ariza, col suo aspetto sinistro e     il suo ombrello da vampiro,  aveva fatto qualcosa perché  succedessero     tanti casi tutti in una volta.
    Quando lo zio si ritirò contro la sua volontà,  per ordine del medico,     Florentino Ariza incominciò a sacrificare di buon grado  alcuni  amori     domenicali. Se ne andava ad accompagnarlo nel suo rifugio campestre, a     bordo  di  una  delle prime automobili che si videro in città,  la cui     manovella d'accensione aveva una  tale  forza  di  ritorno  che  aveva     sradicato  il braccio del primo autista.  Parlavano per parecchie ore,     il vecchio nell'amaca con il suo  nome  ricamato  con  fili  di  seta,     lontano  da tutto e con le spalle al mare,  in una vecchia fattoria di     schiavi dalle cui terrazze di "astromelias" si vedevano al  pomeriggio     le  creste  innevate  della  sierra.  Era  sempre  stato difficile che     Florentino Ariza e suo  zio  riuscissero  a  parlare  di  qualcosa  di     diverso  dalla  navigazione  fluviale,  e  continuò  a esserlo in quei     lunghi pomeriggi in cui la morte fu sempre un invitato invisibile. Una     delle preoccupazioni ricorrenti dello zio León Dodicesimo era  che  la     navigazione   fluviale   non   passasse  nelle  mani  degli  impresari     dell'interno legati ai consorzi europei. «E' sempre stato un affare da     ammazzanegri» diceva.  «Se la prendono quei bellimbusti la regalano ai     tedeschi.»  La  sua  preoccupazione  era conseguente a una convinzione     politica che amava ripetere anche quando non c'entrava per niente:     «Sto per compiere cento anni e ho visto  cambiare  tutto,  perfino  la     posizione  degli astri nell'universo,  ma non ho ancora visto cambiare     niente in questo paese» diceva.  «Qui  si  fanno  nuove  costituzioni,     nuove  leggi,  nuove guerre ogni tre mesi,  ma continuiamo a essere in
    Colonia.»
    Ai suoi fratelli massoni che attribuivano tutti i mali al  crollo  del     federalismo,  replicava  sempre:  «La  guerra dei Mille Giorni è stata     persa ventitré anni fa,  nella guerra del '76».  Florentino Ariza,  la     cui  indifferenza  politica rasentava i limiti dell'assoluto,  sentiva     queste perorazioni sempre più frequenti come chi udiva il  rumore  del     mare.  Invece, era un interlocutore severo relativamente alla politica     della compagnia. Contrariamente al criterio dello zio,  pensava che il     ritardo della navigazione fluviale,  che sembrava sempre sull'orlo del     disastro,  potesse essere rimediato solo con la rinuncia spontanea  al     monopolio dei battelli a vapore, concesso dal Congresso Nazionale alla     Compagnia Fluviale del Caribe per novantanove anni e un giorno. Lo zio     protestava: «Queste idee te le mette in testa la mia omonima Leona con     le sue fandonie anarchiche».  Ma ne era certo solo a metà.  Florentino     Ariza fondava le sue ragioni  sull'esperienza  del  commodoro  tedesco     Juan  B.  Elbers,  che aveva rovinato il suo nobile ingegno con la sua     smisurata  ambizione  personale.   Lo   zio   pensava,   invece,   che     l'insuccesso  di  Elbers  non  fosse dovuto ai suoi privilegi bensì ai     compromessi irreali che aveva contratto  nello  stesso  tempo,  e  che     erano  stati  quasi  come  gettarsi  addosso  la  responsabilità della     geografia nazionale: si fece carico di mantenere la  navigabilità  del     fiume, le installazioni portuali, le vie terrestri di accesso, i mezzi     di trasporto.  E poi,  diceva,  l'opposizione virulenta del presidente     Simón Bolívar non era stato un ostacolo da ridere.
    La maggior parte  dei  soci  prendeva  quelle  dispute  come  le  liti     matrimoniali   in  cui  tutte  e  due  le  parti  hanno  ragione.   La     cocciutaggine  del  vecchio  pareva  loro  naturale,   non  perché  la     vecchiaia  lo  avesse  reso  meno  visionario di quello che era sempre     stato,  come diceva di  solito  con  troppa  facilità,  ma  perché  la     rinuncia al monopolio doveva sembrargli come buttare nell'immondizia i     trofei  di  una  battaglia  storica  che lui e i suoi fratelli avevano     scatenato da soli in tempi eroici contro avversari poderosi  di  tutto     il mondo. Così, nessuno lo contrastò quando assicurò i suoi diritti in     modo  tale  che  nessuno  avrebbe potuto toccarglieli prima della loro     estinzione legale.  Ma improvvisamente,  quando ormai Florentino Ariza     aveva reso le sue armi nei pomeriggi di meditazione alla fattoria,  lo     zio León Dodicesimo diede il consenso per la  rinuncia  al  privilegio     centenario,  con  l'unica  condizione  onorevole che non venisse fatta     prima della sua morte.
    Fu il suo atto finale.  Non parlò più di affari  né  permise  che  gli     facessero domande, né perse un solo ricciolo della sua splendida testa     imperiale né un attimo della sua lucidità, ma fece il possibile perché     non  lo  vedesse  nessuno  che potesse compatirlo.  Passava i giorni a     contemplare le nevi perenni dalla terrazza,  dondolandosi molto  piano     in un dondolo viennese, vicino a un tavolinetto dove le domestiche gli     tenevano  sempre  caldo  un bricco di caffè nero e un bicchier d'acqua     col bicarbonato con due dentiere posticce,  che non si metteva più  se     non per ricevere visite.  Vedeva pochissimi amici e parlava solo di un     passato così remoto che  era  di  molto  precedente  alla  navigazione     fluviale.  Tuttavia  gli  rimase  un  tema  nuovo:  il  desiderio  che     Florentino Ariza si sposasse. Glielo espresse diverse volte,  e sempre     allo stesso modo:
    «Se avessi cinquant'anni di meno» gli diceva,  «mi sposerei con la mia     omonima Leona. Non riesco a immaginarmi una moglie migliore.»     Florentino Ariza tremava all'idea che il  suo  lavoro  di  tanti  anni     fosse  frustrato  all'ultimo  momento da questa condizione imprevista.     Avrebbe preferito rinunciare, buttare tutto a mare, morire,  piuttosto     che parlargli di Fermina Daza.  Per fortuna lo zio León Dodicesimo non     insistette.  Quando compi novantadue anni  riconobbe  il  nipote  come     unico erede, e si ritirò dalla compagnia.
    Sei  mesi  dopo,  per  accordo  unanime dei soci,  Florentino Ariza fu     nominato Presidente della Giunta Direttiva e  Direttore  Generale.  Il     giorno in cui prese possesso della carica, dopo la coppa di champagne,     il vecchio leone in ritiro chiese scusa se parlava senza alzarsi dalla     sedia  a  dondolo  e  improvvisò  un  breve discorso che più che altro     sembrò un'elegia.  Disse che la sua vita era incominciata e finiva con     due  avvenimenti provvidenziali.  Il primo era stato che il Libertador     lo aveva preso in braccio, nel villaggio di Turbaco, quando andava nel     suo viaggio sfortunato verso la morte.  L'altro era  stato  quello  di     trovare, contro tutti gli ostacoli che gli aveva frapposto il destino,     un  successore  degno  della  sua  compagnia.  Alla fine,  cercando di     sdrammatizzare il dramma, concluse:
    «L'unica frustrazione che mi porto via da questa vita è quella di aver     cantato a tanti funerali meno che al mio.»
    Per chiudere l'atto, come no, cantò l"'addio alla vita" dalla "Tosca".
    La cantò "a cappella",  come più gli piaceva e ancora con voce  ferma.     Florentino  Ariza  si  commosse  ma  lo fece appena notare nel tremito     della voce con cui lo ringraziò. Così come aveva fatto e pensato tutto     quello che aveva fatto e pensato nella vita,  arrivava in  cima  senza     nessun altro motivo che la determinazione accanita di essere vivo e in     buono  stato  di  salute  nel  momento  di assumere il proprio destino     all'ombra di Fermina Daza.
    Non fu,  però,  solo il suo ricordo ad accompagnarlo quella notte alla     festa che gli offrì Leona Cassiani. Lo accompagnò il ricordo di tutte:     sia  quelle  che  dormivano  nei cimiteri pensando a lui attraverso le     rose che seminava sopra di loro, sia quelle che ancora appoggiavano la     testa sullo stesso cuscino su cui  dormiva  il  marito  con  le  corna     dorate sotto la luna. In mancanza di una desiderò stare con tutte allo     stesso  tempo,  come  sempre  quando era spaventato.  Perché anche nei     frangenti più difficili e nei momenti peggiori aveva mantenuto qualche     vincolo,  per debole che fosse,  con le innumerevoli amanti  di  tanti     anni: aveva sempre seguito il filo delle loro vite.
    Così  quella  notte  si  ricordò di Rosalba,  la più vecchia di tutte,     quella che si portò via il trofeo della sua verginità,  il cui ricordo     continuava  a dolergli come il primo giorno.  Gli bastava chiudere gli     occhi per vederla col vestito di mussolina e il cappello con le lunghe     strisce di seta, intenta a dondolare la gabbia del bambino vicino alla     balaustra del battello.  Diverse volte negli anni numerosi  della  sua     età  aveva  preparato tutto per andare a cercarla senza sapere neanche     dove,  senza conoscere il suo cognome,  senza sapere se era lei quella     che  cercava,  ma  certo  di  trovarla da qualche parte tra foreste di     orchidee. Ogni volta, per un reale inconveniente dell'ultimo momento o     per un cedimento intempestivo della sua  volontà,  il  viaggio  veniva     rimandato  quando già stavano per alzare l'ancora del battello: sempre     per un motivo che aveva a che vedere con Fermina Daza.
    Si ricordò della vedova di Nazaret, l'unica con cui aveva profanato la     casa materna di Calle de las Ventanas,  anche se non era stato lui  ma     Tránsito Ariza a farla entrare.  A lei consacrò più comprensione che a     qualsiasi altra,  per essere l'unica che irradiava tenerezza  d'avanzo     come per sostituire Fermina Daza, pur essendo così impacciata a letto.     Ma la sua vocazione di gatta errante,  più indomita della forza stessa     della sua dolcezza,  li  mantenne  ambedue  condannati  all'infedeltà.     Tuttavia,   riuscirono   a   essere  amanti  intermittenti  per  quasi     trent'anni grazie al loro motto  da  moschettieri:  "Infedeli  ma  non     sleali".  Fu  poi  l'unica  per  la  quale Florentino Ariza si espose:     quando lo avvisarono che era morta e che sarebbe  stata  seppellita  a     spese  pubbliche,  la  seppellì  a  sue spese e presenziò da solo alla     cerimonia.
    Si ricordò di altre vedove amate.  Di Prudencia Pitre,  la più vecchia     di quelle che erano ancora vive, conosciuta da tutti come la Vedova di     Due,  perché  lo era due volte.  E dell'altra Prudencia,  la vedova di     Arellano,  quella amorevole,  che gli strappava i bottoni dai  vestiti     perché  lui dovesse trattenersi in casa sua finché glieli ricuciva.  E     di Josefa,  la vedova di Zúñiga,  pazza d'amore  per  lui,  che  quasi     voleva tagliargli il pisello con le cesoie durante il sonno perché non     fosse di nessuna se non suo.
    Si ricordò di Angeles Alfaro,  l'effimera e la più amata di tutte, che     era venuta per sei mesi a insegnare strumenti ad arco alla  Scuola  di     Musica  e  passava con lui le notti di luna sulla terrazza di casa sua     come sua madre l'aveva messa al mondo,  suonando le "suites" più belle     di tutta la musica sul violoncello, la cui voce diventava maschile fra     le  sue  cosce  dorate.  Fin  dalla prima notte di luna tutti e due si     erano fatti a pezzi il cuore con un amore da principianti  feroci.  Ma     Angeles  Alfaro se n'era andata così com'era venuta,  con il suo sesso     tenero e il  suo  violoncello  da  peccatrice,  su  un  transatlantico     imbandierato  dall'oblio,  e l'unica cosa che era rimasta di lei sulle     terrazze di luna erano stati i suoi gesti di addio con  un  fazzoletto     bianco  che  sembrava  una colomba all'orizzonte,  solitaria e triste,     come nei versi dei Giochi Floreali.  Con lei  Florentino  Ariza  aveva     imparato  quello che aveva già sofferto parecchie volte senza saperlo:     che si può essere innamorati di diverse persone per volta,  e di tutte     con lo stesso dolore,  senza tradirne nessuna.  Solitario tra la folla     del molo, aveva detto fra sé in un accesso di rabbia: «Il cuore ha più     stanze di un casino». Stava piangendo per il dolore degli addii. Però,     appena scomparsa la nave sulla linea dell'orizzonte, già il ricordo di     Fermina Daza era tornato a occupare il suo spazio totale.
    Si ricordò di Andrea Varón,  davanti alla  cui  casa  era  passato  la     settimana  precedente,  ma  la  luce aranciata alla finestra del bagno     l'avvertì che non poteva entrare: qualcuno era arrivato prima di  lui.     Qualcuno:  uomo o donna,  perché Andrea Varón non indugiava in minuzie
    di quel tipo nei disordini dell'amore. Di tutte quelle della lista era     l'unica che viveva del suo corpo,  ma lo amministrava a suo capriccio,     senza  gerente di sorta.  Nei suoi anni buoni aveva fatto una carriera     leggendaria di cortigiana clandestina che le  era  valsa  il  nome  di     battaglia   di   Nostra  Signora  di  Tutti.   Aveva  fatto  impazzire     governatori e ammiragli,  aveva visto piangere sulla sua spalla alcuni     grandi  delle armi e delle lettere che non erano così illustri come si     credevano,  e anche altri  che  lo  erano.  Era  vero  invece  che  il     presidente  Rafael Reyes,  per solo mezz'ora frettolosa fra due visite     casuali alla città,  le aveva assegnato  una  pensione  vitalizia  per     servizi  ragguardevoli  nel  Ministero del Tesoro,  dove non era stata     impiegata neanche un giorno.  Aveva ripartito i suoi doni  di  piacere     fino  a  dove  le  era  arrivato il corpo,  e anche se la sua condotta     impropria era di  dominio  pubblico  nessuno  avrebbe  potuto  esibire     contro  di lei una prova determinante,  perché i suoi complici insigni     la protessero quanto le loro stesse vite,  consci che non era  lei  ma     loro  quelli  che  avevano più da perdere con lo scandalo.  Florentino     Ariza aveva violato per lei il suo principio sacro di  non  pagare,  e     lei  aveva  violato il suo di non farlo gratis neanche col marito.  Si     erano accordati sul prezzo simbolico di un "peso" ogni volta, però lei     non lo prendeva ne lui glielo  dava  in  mano,  ma  lo  mettevano  nel     maialino  salvadanaio  finché  fossero  bastati  per  comprare qualche     diavoleria d'oltremare al Portal de los Escribanos.  Fu lei a dare una     sensualità  diversa  ai  clisteri  che  lui  usava per le sue crisi di     stitichezza,  e lo convinse a dividerli,  a farseli insieme nel  corso     dei  loro  folli  pomeriggi,  cercando  di  inventare ancora più amore     nell'amore.
    Considerava una fortuna che,  in mezzo a tanti  incontri  arrischiati,     l'unica  che  gli  avesse  fatto  provare una goccia di amarezza fosse     stata la tortuosa Sara Noriega,  che aveva finito i  suoi  giorni  nel     manicomio  della  Divina  Pastora  a  recitare  versi  senili di tanto     smodata oscenità che  dovettero  metterla  in  isolamento  perché  non     finisse di far impazzire le altre matte.  Però, quando ricevette tutta     la responsabilità della C.F.C.  non aveva più molto  tempo  né  troppo     coraggio per tentare di sostituire con nessuna Fermina Daza: la sapeva     insostituibile.  A  poco  a  poco era andato cadendo nell'abitudine di     visitare quelle già istituzionalizzate,  andando a letto con loro  fin     dove gli fossero servite,  fin dove gli fosse possibile, fino a quando     avessero vita.
    La domenica di Pentecoste,  quando morì Juvenal  Urbino,  gli  restava     ormai solo un amore,  uno solo, con quattordici anni appena compiuti e     con tutto quello che nessun'altra  aveva  avuto  fino  ad  allora  per     renderlo pazzo d'amore.
    Si chiamava América Vicuña. Era arrivata due anni prima dalla località     marittima  di  Puerto  Padre  affidata dalla sua famiglia a Florentino     Ariza,  il suo  tutore,  con  cui  avevano  una  parentela  di  sangue     riconosciuta.  La  mandavano  con  una borsa di studio del governo per     studiare da maestra di scuola superiore,  con il suo bagaglio e il suo     bauletto  di  latta  che  sembrava quello di una bambola,  e da quando     scese dalla nave con i suoi stivaletti bianchi e la sua treccia dorata     lui ebbe il presentimento atroce che avrebbero fatto insieme la siesta     di molte  domeniche.  Era  ancora  una  bambina  in  ogni  senso,  con     l'apparecchio  ai  denti  e  sbucciature  della scuola elementare alle     ginocchia,  ma lui intravide  immediatamente  il  tipo  di  donna  che     sarebbe diventata molto presto e la coltivò per sé in un lento anno di     sabati  di  circo,  di  domeniche  al  parco col gelato,  di pomeriggi     infantili con i quali si guadagnò la sua confidenza,  si  guadagnò  il     suo  affetto,  se  la  portò  per  mano con una soave astuzia da nonno     affettuoso verso il suo mattatoio clandestino.  Per lei fu  immediato:     le si aprirono le porte del cielo. Esplose in uno sboccio floreale che     la  lasciò  fluttuante  in  un  limbo  di  felicità,  e fu uno stimolo     efficace per i suoi studi perché restò sempre la  prima  della  classe     per  non perdere l'uscita del fine settimana.  Per lui fu l'angolo più     riparato nell'insenatura della vecchiaia.  Dopo tanti  anni  di  amori     calcolati  il  gusto  scipito  dell'innocenza  aveva  l'incanto di una     perversione rinnovatrice.
    Coincisero.  Lei si  comportava  come  quello  che  era,  una  bambina     disposta  a  scoprire la vita sotto la guida di un uomo venerabile che     non si sorprendeva di niente, e lui si comportò secondo coscienza come     quello che più aveva  temuto  di  essere  nella  vita:  un  innamorato     senile.  Non  la  identificò  mai  con  Fermina Daza,  malgrado la sua     somiglianza più  che  facile,  non  solo  per  l'età,  per  l'uniforme     scolastica,  per la treccia,  per il suo modo di camminare montano,  e     perfino per il suo carattere così altero e imprevedibile.  Ma  ancora:     l'idea  della  sostituzione,  che così buon incentivo era stata per la     sua mendicità d'amore, si cancellò completamente.  Lei gli piaceva per     quello che era, e finì per amarla per quello che era con una febbre di     delizie  crepuscolari.  Fu l'unica con cui prese precauzioni drastiche     contro una gravidanza accidentale.  Dopo una mezza dozzina di incontri     non c'era per ambedue altro sogno dei pomeriggi delle domeniche.     Benché  lui  fosse  l'unica  persona  autorizzata  a tirarla fuori del     convitto,  andava a prenderla con l'Hudson a sei cilindri della C.F.C.     e  a  volte toglievano la cappotta nei pomeriggi senza sole per girare     sulla spiaggia,  lui con il cappello triste e lei  morta  dal  ridere,     tenendosi  a due mani il berretto da marinaio dell'uniforme scolastica     perché non se lo portasse via il vento. Qualcuno le aveva detto di non     andare con il suo tutore  più  dell'indispensabile,  di  non  mangiare     niente  che  lui  non avesse provato e di non mettersi molto vicino al     suo alito perché la vecchiaia era contagiosa.  Ma a lei non importava.     Ambedue  si  mostravano  indifferenti  a  quello che si sarebbe potuto     pensare di loro, perché la parentela era ben nota,  e oltre a tutto le     loro età estreme li mettevano in salvo da ogni sospetto.
    Avevano appena finito di fare l'amore la domenica di Pentecoste,  alle     quattro del pomeriggio,  quando incominciarono  i  rintocchi  funebri.     Florentino Ariza dovette dominare il soprassalto del cuore. Quando era     giovane, il rituale dei rintocchi era compreso nel prezzo dei funerali     e  veniva  negato  solo  ai poveri in canna.  Ma dopo la nostra ultima     guerra,  a cavallo  dei  due  secoli,  il  regime  conservatore  aveva     consolidato  le sue abitudini coloniali,  e le pompe funebri si fecero     così costose che solo i  più  ricchi  potevano  pagarle.  Quando  morì     l'arcivescovo  Ercole  de  Luna,  le  campane  di  tutta  la provincia     suonarono incessantemente per nove giorni e nove notti,  e fu tale  il     tormento  pubblico  che  il  suo  successore  eliminò  dai funerali il     requisito dei rintocchi e li lasciò riservati ai morti  più  illustri.
    Per  questo quando Florentino Ariza sentì i rintocchi nella cattedrale     alle quattro del pomeriggio di una domenica  di  Pentecoste  si  sentì     visitato  da un fantasma della sua gioventù perduta.  Non immaginò mai     che fossero i rintocchi che tanto aveva desiderato per tanti  e  tanti     anni,  dalla  domenica  in  cui vide Fermina Daza incinta di sei mesi,     all'uscita dalla messa solenne.
    «Cazzo» disse nella penombra.  «Dev'essere un pescecane  molto  grosso
    perché lo suonino a morto nella cattedrale.»
    América Vicuña, completamente nuda, finì di svegliarsi.
    «Dev'essere per la Pentecoste» disse.
    Florentino  Ariza  non era esperto né molto né poco negli affari della     chiesa né era tornato a messa da quando suonava il  violino  nel  coro     con  un tedesco che gli aveva insegnato anche la scienza del telegrafo     e del cui destino non si ebbe mai una notizia certa. Però sapeva senza     dubbio che le campane non suonavano a morto per la  Pentecoste.  C'era     sicuramente  un  lutto  nella città,  e lui lo sapeva.  Un comitato di     rifugiati  del  Caribe  era  stato  a  casa  sua  quella  mattina  per     informarlo  che  Jeremiah  de  Saint-Amour  era stato trovato morto il     mattino nel suo laboratorio fotografico. Anche se Florentino Ariza non     era suo amico  stretto,  lo  era  di  molti  altri  rifugiati  che  lo     invitavano  sempre  alle  loro  cerimonie pubbliche,  e soprattutto ai     funerali.  Ma era certo che le campane non suonassero per Jeremiah  de     Saint-Amour, che era un militante non credente e un anarchico indurito     e che oltre a tutto era morto di sua propria mano.
    «No» disse, «dei rintocchi così possono essere solo dal governatore in     su.»
    América  Vicuña,  con il pallido corpo tigrato dai raggi di luce delle     persiane mal chiuse,  non aveva età per pensare  alla  morte.  Avevano     fatto  l'amore  dopo  pranzo  ed  erano  coricati  nella risacca della     siesta, tutti e due nudi sotto il ventilatore a pale il cui ronzio non     riusciva a occultare  il  crepitio  di  grandine  degli  avvoltoi  che     camminavano sul tetto di zinco surriscaldato. Florentino Ariza l'amava     come  aveva  amato tante altre donne casuali nella sua lunga vita,  ma     questa l'amava con più angoscia di qualsiasi  altra  perché  aveva  la     certezza  di  essere  morto  da  vecchio  quando lei avrebbe finito la     scuola superiore.
    La stanza sembrava più che altro una cabina di  nave,  con  pareti  di     assi  di legno più volte dipinte sopra la pittura precedente,  come le     navi, ma il calore era più intenso di quello delle cabine dei battelli     del fiume alle  quattro  del  pomeriggio,  anche  con  il  ventilatore     elettrico  attaccato  sopra  il  letto,  per  il  riverbero  del tetto     metallico.  Non era una camera da letto formale bensì  una  cabina  di     terraferma  fatta  costruire da Florentino Ariza dietro ai suoi uffici     della C.F.C.,  senza altri intenti né pretesti di quello di avere  una     buona  tana  per  i  suoi  amori  da  vecchio.  Nei giorni normali era     difficile dormirci con gli urli degli stivatori e il fragore delle gru     del porto fluviale,  e i bramiti enormi dei battelli sul molo.  Per la     bambina, però, era un paradiso domenicale.
    Il  giorno  di Pentecoste pensavano di stare insieme fino a quando lei     avesse dovuto tornare al convitto,  cinque minuti prima  dell'Angelus,     ma  i rintocchi fecero ricordare a Florentino Ariza la sua promessa di     assistere al funerale di Jeremiah de Saint-Amour,  e si vestì  più  in     fretta  del  solito.  Prima,  come  sempre,  intrecciò alla bambina la     treccia solitaria che lui stesso le scioglieva prima di fare l'amore e     la mise sul tavolo per allacciarle le scarpe  dell'uniforme,  che  lei     faceva  sempre  male.  La  aiutava senza malizia,  e lei lo aiutava ad     aiutarla come se fosse un dovere: ambedue avevano perso  la  coscienza     delle  loro  età  fin  dai  primi  incontri  e  si  trattavano  con la     confidenza di due sposi che si erano taciuti tante cose in questa vita     che non rimaneva loro quasi più nulla da dirsi.
    Gli uffici erano chiusi e bui per il  giorno  di  festa,  e  sul  molo     deserto   c'era  solo  un  battello  con  le  caldaie  spente.   L'afa     preannunciava piogge, le prime dell'anno,  ma la trasparenza dell'aria     e  il  silenzio  domenicale  del  porto  sembravano  quelli di un mese     benigno.  Fin da lì il mondo era più crudo che  nella  penombra  della     cabina,  e  i  rintocchi  facevano più male anche senza sapere per chi     fossero.  Florentino Ariza e la bambina scesero al "patio" di salnitro     che  era servito da porto negriero agli spagnoli e dove c'erano ancora     resti della bilancia e altri ferri consunti del traffico  di  schiavi.     L'automobile  li aspettava all'ombra dei magazzini,  e non svegliarono     l'autista addormentato sul volante finché  non  furono  sistemati  sui     sedili.  L'automobile  girò  dietro  ai  magazzini recintati da fil di     ferro da pollaio, attraversò la zona del vecchio mercato della baia di     Las Animas,  dove c'erano adulti seminudi che giocavano al pallone,  e     uscì  dal  porto fluviale in mezzo a un polverone ardente.  Florentino     Ariza era sicuro che  gli  onori  funebri  non  potessero  essere  per     Jeremiah  de  Saint-Amour,  ma  l'insistenza  dei  rintocchi  lo  fece     dubitare.  Appoggiò una mano sulla spalla dell'autista e  gli  domandò     gridandogli in un orecchio per chi stessero suonando le campane.
    «E' per quel medico col pizzetto» disse l'autista. «Come si chiama?»
    Florentino  Ariza  non dovette pensarci su per sapere di chi parlasse.
    Però  quando  l'autista  gli  raccontò  come  era  morto   l'illusione     momentanea svanì perché non gli sembrò vero. Niente assomiglia tanto a     una  persona  quanto  il  modo  della  sua  morte,  e  nessuno  poteva     assomigliare meno di questo all'uomo che lui  immaginava.  Ma  era  lo     stesso,  per  quanto  sembrasse  assurdo:  il medico più vecchio e più     qualificato della città, e uno dei suoi uomini insigni per molti altri     meriti,  era morto con la colonna vertebrale a pezzi,  a ottantun anni     di  età,  cadendo da un albero di mango mentre tentava di catturare un     pappagallo.
    Tutto quello che Florentino Ariza aveva fatto da quando  Fermina  Daza     si era sposata era fondato sulla speranza di questa notizia. Tuttavia,     arrivato  il  momento,  non si sentì scosso dalla commozione trionfale     che tante volte aveva previsto nelle sue notti insonni  bensì  da  una     zampata  di  terrore:  la  lucidità  fantastica  che  allo stesso modo     avrebbero potuto suonare  a  morto  per  lui.  Seduta  al  suo  fianco     nell'automobile  che  andava  avanti  a  balzelloni  per  le strade di     pietra, América Vicuña si spaventò per il suo pallore e gli chiese che     cosa gli stesse succedendo.  Florentino Ariza le prese la mano con  la     sua mano gelida.
    «Ahi,  bambina mia» sospirò, «mi ci vorrebbero altri cinquant'anni per     raccontartelo.»
    Si dimenticò del  funerale  di  Jeremiah  de  Saint-Amour.  Lasciò  la     bambina sulla porta del convitto con la promessa frettolosa di tornare     a prenderla il sabato dopo e ordinò all'autista di portarlo a casa del     dottor Juvenal Urbino.  Incontrò una baraonda di automobili e carrozze     a noleggio nelle strade vicine,  e una folla di curiosi  davanti  alla     casa.  Gli  invitati  del  dottor  Lácides  Olivella,  che erano stati     raggiunti dalla brutta notizia all'apogeo della  festa,  arrivavano  a     frotte.  Non era facile muoversi dentro la casa per l'affollamento, ma     Florentino Ariza riuscì a farsi  strada  fino  alla  camera  da  letto     principale,  si  alzò  in  punta  di  piedi al di sopra dei gruppi che     ostruivano la porta e vide Juvenal Urbino sul letto matrimoniale  come     aveva  voluto  vederlo  da  quando  aveva sentito parlare per la prima     volta di lui,  sguazzando nell'indegnità  della  morte.  Il  falegname     aveva appena finito di prendergli le misure per la bara. Vicino a lui,     ancora  con  lo  stesso  vestito  da  nonna  appena  sposata che aveva     indossato per la festa, Fermina Daza era assorta e triste.
    Florentino Ariza si era prefigurato quel momento perfino nei suoi  più     piccoli  particolari  fin  dai giorni della sua gioventù in cui si era     consacrato totalmente alla causa di quell'amore temerario.  Per lei si     era fatto un nome e una fortuna senza guardare troppo ai modi, per lei     aveva  curato  la sua salute e il suo aspetto fisico con un rigore che     non sembrava molto maschile ad altri uomini del  suo  tempo,  e  aveva     atteso  quel  giorno  come  nessuno  avrebbe potuto aspettare niente e     nessuno a questo mondo: senza un attimo di  scoraggiamento.  La  prova     che  la  morte fosse finalmente intervenuta in suo favore gli diede il     coraggio di cui aveva bisogno per reiterare a Fermina Daza,  nella sua     prima notte da vedova, il giuramento della sua fedeltà eterna e il suo     amore per sempre.
    Non  negava  alla  sua coscienza che fosse stato un atto irriflessivo,     senza il minimo senso del come e del quando,  e affrettato dalla paura     che  l'occasione  non  si  ripetesse mai più.  Lo avrebbe voluto e tra     l'altro se l'era immaginato spesso in un  modo  meno  brutale,  ma  la     sorte  non gli aveva concesso di più.  Era uscito dalla casa del lutto     con il dolore di lasciare lei nello stesso stato di commozione in  cui     era lui, ma non avrebbe potuto fare nulla per impedirlo perché sentiva     che  quella notte barbara era scritta da sempre nel destino di tutti e     due.
    Non riuscì a dormire tutta una notte nelle due  settimane  successive.     Si domandava disperato dove fosse Fermina Daza senza di lui,  che cosa     stesse pensando, che cosa avrebbe fatto negli anni che le restavano da     vivere con il peso spaventoso che  le  aveva  lasciato  tra  le  mani.     Soffrì  una  crisi  di  stitichezza  che  gli gonfiò il ventre come un     tamburo,  e  dovette  ricorrere  a  palliativi  meno  compiacenti  dei     clisteri.  I suoi acciacchi di vecchio,  che lui sopportava meglio dei     suoi coetanei perché li conosceva fin da giovane,  lo assalirono tutti     nello stesso tempo. Il mercoledì andò in ufficio dopo una settimana di     assenza,  e Leona Cassiani si spaventò a vederlo in un simile stato di     pallore e inerzia.  Ma lui la tranquillizzò:  era  ancora  l'insonnia,     come sempre, e tornò a mordersi la lingua perché non gli venisse fuori     la verità attraverso le tante fessure che aveva nel cuore.  La pioggia     non gli diede una tregua di sole per pensare. Passò un'altra settimana     irreale, senza potersi concentrare su nulla, mangiando male e dormendo     peggio,  cercando di percepire segnali cifrati che gli indicassero  la     via  della  salvezza.  Ma  a  partire  dal venerdì lo invase una calma     immotivata che interpretò come un annuncio che niente di nuovo sarebbe     successo,  che tutto quanto aveva fatto nella vita era stato inutile e     non sapeva come andare avanti: era la fine. Il lunedì, però, arrivando     alla  sua  casa  di  Calle  de  las  Ventanas,  trovò  una lettera che     galleggiava nell'acqua  che  aveva  fatto  delle  pozze  nell'atrio  e     riconobbe  immediatamente sulla busta bagnata la calligrafia imperiosa     che tanti cambiamenti della vita non  erano  riusciti  a  cambiare,  e     credette  perfino  di  cogliere  il  profumo  notturno  delle gardenie     appassite,  perché il cuore gli aveva già detto tutto  fin  dal  primo     momento  di  spavento:  era  la  lettera  che aveva aspettato senza un     attimo di tregua per più di mezzo secolo.
    NOTE.
    NOTA 7: "Turpial" (o "trupial"): uccello americano simile al rigogolo,     facilmente addomesticabile,  impara spesso a ripetere  alcune  parole.     (Nota del Traduttore).
    Fermina  Daza non poteva immaginarsi che quella sua lettera,  istigata     da una rabbia cieca,  potesse essere interpretata da Florentino  Ariza     come  una  lettera  d'amore.  Ci aveva messo tutta la furia di cui era     capace, le sue parole più crudeli,  le infamie più pungenti,  e per di     più  ingiuste,  che  però le sembravano infime rispetto alla grandezza     dell'offesa.  Fu l'ultimo atto di un amaro esorcismo di due  settimane     con  cui  cercava  di raggiungere un patto di conciliazione con la sua     nuova situazione. Voleva essere di nuovo lei stessa,  ricuperare tutto     quanto  aveva dovuto cedere in mezzo secolo di una servitù che l'aveva     fatta felice,  senza dubbio,  ma che una volta morto il marito non  le     lasciava neanche le tracce della sua identità.  Era un fantasma in una     casa estranea che da un  giorno  all'altro  era  diventata  immensa  e     solitaria e nella quale vagava alla deriva, chiedendosi angustiata chi     fosse più morto: se quello che era morto o quella che era rimasta.     Non  poteva  evitare  un  recondito senso di rancore nei confronti del     marito per averla lasciata sola in mezzo al mare tenebroso.  Qualsiasi     cosa sua la faceva piangere: il pigiama sotto il cuscino, le pantofole     che le erano sempre sembrate da malato,  il ricordo della sua immagine     che si spogliava sul fondo dello  specchio  mentre  lei  si  pettinava     prima di dormire, l'odore della sua pelle che sarebbe durato sulla sua     per parecchio tempo dopo la morte.  Interrompeva a metà qualsiasi cosa     stesse facendo e si dava un colpetto con la mano sulla  fronte  perché     improvvisamente  si  ricordava  di  qualcosa  che aveva dimenticato di     dirgli.  In ogni  momento  le  venivano  in  mente  le  tante  domande     quotidiane  cui  solo lui avrebbe potuto rispondere.  Una volta lui le     aveva detto qualcosa che lei non riusciva a immaginare:  gli  amputati     sentono dolori,  crampi, solletico, alla gamba che non hanno più. Così     si sentiva lei senza di lui, sentendolo là dove non c'era più.     Svegliandosi nella sua prima mattina di  vedova,  si  era  girata  nel     letto,  ancora senza aver aperto gli occhi,  in cerca di una posizione     più comoda per continuare a dormire,  ed era stato in quel momento che     lui era morto per lei.  Perché solo allora aveva realizzato che per la     prima volta  lui  aveva  passato  la  notte  fuori  di  casa.  L'altra     impressione era stata a tavola,  non perché si sentisse sola,  come in     effetti era,  ma per la certezza strana di mangiare con  qualcuno  che     non  esisteva  più.  Aspettò  che  sua  figlia  Ofelia  venisse da New     Orleans,  con il marito e le tre  bambine,  per  sedersi  di  nuovo  a     mangiare  a  tavola,  però  non  in quella di sempre,  ma a una tavola     improvvisata, più piccola, che aveva fatto mettere in corridoio.  Fino     ad  allora non aveva fatto nessun pasto regolare.  Passava in cucina a     qualsiasi ora,  quando aveva  fame,  e  infilava  la  forchetta  nelle     pentole  e  mangiava  un po' di tutto senza metterlo in un piatto,  in     piedi davanti ai fornelli, parlando con le donne di servizio che erano     le uniche con cui si sentiva bene e con cui si intendeva meglio. Però,     per quanto ci provasse,  non riusciva a eludere la presenza del marito     morto:  dovunque  andasse,  dovunque passasse,  qualsiasi cosa facesse     inciampava in qualcosa di suo che glielo ricordava.  Perché se  da  un     lato le sembrava onesto e giusto provare dolore,  voleva anche fare il     possibile per non crogiolarcisi dentro.  Così  decise  di  allontanare     dalla  casa tutto quanto le ricordasse il marito morto,  come se fosse     stata l'unica cosa che le veniva in  mente  per  continuare  a  vivere     senza di lui.
    Fu  una  cerimonia  devastante.  Il  figlio accettò di portarsi via la     biblioteca perché lei mettesse nello studio la stanza  da  lavoro  che     non  aveva  mai avuto da sposata.  Da parte sua,  la figlia si sarebbe     portata via alcuni mobili e parecchi oggetti  che  le  sembravano  più     adatti  alle  aste  di  antichità  di New Orleans.  Tutto questo fu un     sollievo per Fermina  Daza,  anche  se  non  le  fece  nessun  piacere     verificare  che le cose comprate da lei nel suo viaggio di nozze erano     già  reliquie  da  antiquari.   Contro  lo  stupore   discreto   delle     domestiche,  dei  vicini,  delle  amiche che le stavano vicino in quei     giorni, fece accendere un falò in una zona vuota dietro la casa,  e lì     bruciò  tutto ciò che le ricordava il marito: gli abiti più costosi ed     eleganti che si fossero visti nella città fin dal  secolo  precedente,     le scarpe più raffinate, i cappelli che assomigliavano a lui più delle     sue fotografie,  la sedia a dondolo per la siesta da cui si era alzato     per l'ultima volta per morire,  innumerevoli oggetti  talmente  legati     alla  sua  vita  che ormai facevano parte della sua identità.  Lo fece     senza un'ombra di  dubbio,  con  la  piena  certezza  che  suo  marito     l'avrebbe  approvato,  e  non solo per motivi d'igiene.  Perché lui le     aveva spesso manifestato il suo desiderio di essere cremato,  e non di     essere  rinchiuso  nell'oscurità senza spiragli di una cassa di cedro.     La sua religione glielo impediva, però: aveva osato sondare l'opinione     dell'arcivescovo, non si sa mai,  e questi gli aveva dato una risposta     negativa  definitiva.  Era  una  pura illusione,  perché la Chiesa non     permetteva l'esistenza di forni crematori nei nostri cimiteri, neanche     a uso di religioni diverse da quella cattolica,  e a nessun  altro  se
    non  allo stesso Juvenal Urbino sarebbe convenuto costruirli.  Fermina     Daza non dimenticò questo terrore del marito, e anche nella confusione     delle prime ore si ricordò di ordinare al falegname di  lasciargli  la     consolazione di una breccia di luce nella bara.
    Fu comunque un olocausto inutile. Fermina Daza si accorse quasi subito     che  il  ricordo  del  marito morto era così refrattario al fuoco come     sembrava  esserlo  al  passare  dei  giorni.   Peggio   ancora:   dopo     l'incenerimento  dei  vestiti,  non  solo  continuava a rimpiangere il     molto che aveva amato di lui, ma anche e soprattutto quello che più le     dava  fastidio:  i  rumori  che  faceva  alzandosi.  Quei  ricordi  la     aiutarono a uscire dalle lagune del lutto.  Soprattutto prese la ferma     decisione di continuare a vivere ricordando  il  marito  come  se  non     fosse  morto.   Sapeva  che  il  risveglio  di  ogni  mattina  avrebbe     continuato a essere difficile ma lo sarebbe stato sempre meno.     Alla fine della terza settimana, in effetti,  incominciò a intravedere     le  prime  luci.  Ma più aumentavano e si facevano più chiare,  più si     rendeva conto che nella sua vita c'era un fantasma di mezzo che non le     lasciava un attimo di pace.  Non era il fantasma penoso che la  spiava     nel  giardinetto  de  Los  Evangelios  e che lei era solita evocare da     quando  era  vecchia  con  una  certa  tenerezza,  bensì  il  fantasma     abominevole della finanziera da carnefice e il cappello appoggiato sul     petto,  la  cui  stupida impertinenza l'aveva turbata in modo tale che     ormai le era impossibile non pensare a lui. Sempre,  da quando l'aveva     respinto  a  diciott'anni,  le  era  rimasta  la  convinzione  di aver     lasciato in lui un seme di odio che il tempo non avrebbe  fatto  altro     che  aumentare.  Aveva contato su quell'odio ogni momento,  lo sentiva     nell'aria quando il fantasma era  vicino,  il  solo  vederlo  le  dava     fastidio,  la  spaventava  in  modo  tale  da  non trovare mai un modo     naturale di comportarsi con lui.  La notte in cui lui le ribadì il suo     amore,  ancora  con  i fiori del marito morto che profumavano la casa,     lei non riuscì a capire come quella sfacciataggine non fosse il  primo     passo di chissà quale sinistro proposito di vendetta.
    La  persistenza  del  suo  ricordo  le aumentava la rabbia.  Quando si     svegliò  pensando  a  lui,  il  giorno  dopo  il  funerale,  riuscì  a     toglierselo  dalla  memoria solo con un atto di volontà.  Ma la rabbia     tornava  sempre,  e  ben  presto  si  rese  conto  che  la  voglia  di     dimenticarlo  era  lo  stimolo  più  forte  per ricordarlo.  Allora si     arrischiò a evocare per la prima volta, vinta dalla nostalgia, i tempi     illusori di quell'amore irreale.  Cercava di precisare come  fosse  il     giardinetto  di  allora,  i  mandorli  rotti,  la  panchina da cui lui     l'amava,  perché niente di quello esisteva più  come  allora.  Avevano     cambiato tutto,  si erano portati via gli alberi,  con il loro tappeto     di foglie gialle, e al posto della statua dell'eroe decapitato avevano     messo quella di un altro in uniforme di gala, senza nome,  senza date,     senza motivi che lo giustificassero,  su un piedistallo pomposo dentro     al quale avevano installato i controlli elettrici della zona.  La  sua     casa, venduta finalmente da molti anni, cadeva a pezzi fra le mani del     governo  provinciale.  Non  le risultava facile immaginarsi Florentino     Ariza  com'era  allora,   e  tantomeno  concepire  che  quel   ragazzo     taciturno,  così  derelitto sotto la pioggia,  fosse lo stesso vecchio     barbogio  tarlato  che  le  si  era  messo   davanti   senza   nessuna     considerazione  per il suo stato,  senza il minimo rispetto per il suo     dolore,  e le aveva bruciato l'anima con un affronto a fuoco vivo  che     continuava a impedirle di respirare.
    La  cugina Hildebranda Sánchez era venuta a trovarla poco dopo che era     stata nella sua fattoria di Flores de María  rimettendosi  dalla  mala     ora  della  signorina  Lynch.  Era arrivata vecchia,  grassa,  felice,     accompagnata  dal  figlio   maggiore,   che   era   stato   colonnello     dell'esercito, come il padre, ma che era stato ripudiato da lui per la     sua  indegna  partecipazione  al massacro degli operai bananieri a San     Juan de la Ciénaga.  Le due cugine si erano viste spesso,  e passavano     sempre  le  ore a rimpiangere l'epoca nella quale si erano conosciute.     Nella sua ultima visita,  Hildebranda era più  nostalgica  che  mai  e     molto  gravata  del  carico  della vecchiaia.  Per maggior piacere del     rimpianto,  aveva portato la sua copia  della  fotografia  da  signora     d'altri  tempi  che  aveva  fatto loro il fotografo belga quel lontano     pomeriggio in cui il giovane Juvenal Urbino aveva dato la stoccata  di     grazia  alla caparbia Fermina Daza.  La sua copia era andata persa,  e     quella di  Hildebranda  era  quasi  invisibile,  ma  tutte  e  due  si     riconobbero attraverso le brume della delusione: giovani e belle, come     non sarebbero mai più tornate a essere.
    Per Hildebranda era impossibile non parlare di Florentino Ariza perché     aveva sempre identificato la sua sorte con la propria. Lo evocava come     il giorno in cui aveva mandato il suo primo telegramma,  e non era mai     riuscita a togliersi dal cuore il ricordo di  lui  come  un  uccellino     triste condannato all'oblio.  Fermina,  invece, lo aveva visto spesso,     senza parlargli,  ovviamente,  e non poteva  concepire  che  fosse  lo     stesso del suo primo amore.  Aveva avuto sempre sue notizie, così come     presto o tardi le arrivavano notizie di tutto quello  che  significava     qualcosa nella città.  Si diceva che non si fosse sposato perché aveva     abitudini diverse,  ma neanche a questo aveva  fatto  caso,  in  parte     perché non aveva mai fatto caso alle dicerie e in parte perché in ogni     modo si dicevano cose simili di molti uomini insospettabili. Invece le     sembrava  strano che Florentino Ariza avesse persistito nei suoi abiti     mistici,  nelle sue lozioni strane,  e che continuasse a  essere  così     enigmatico  dopo  essersi  fatto  strada  nella  vita  in un modo così     spettacoloso,  e per di più così stimato.  Non riusciva a credere  che     fosse lo stesso, e si sorprendeva sempre quando Hildebranda sospirava:     «Pover'uomo,  quanto deve avere sofferto!». Perché lei lo vedeva senza     dolore da parecchio tempo: era un'ombra cancellata.
    Però,  la sera in cui lo incontrò al  cinema,  all'epoca  in  cui  era     ritornata  da Flores de María,  qualcosa di strano le era successo nel     cuore.  Non la sorprese che stesse con una donna,  e negra per di più.     La  sorprese  che  fosse  così ben conservato,  che si comportasse con     maggior scioltezza, e le capitò di pensare che forse era lei e non lui     a essere cambiata dopo l'irruzione perturbatrice della signorina Lynch     nella sua vita privata.  A partire da allora,  e per più di vent'anni,     continuò  a  vederlo  con  occhi  più compassionevoli.  La notte della     veglia del marito non solo le parve comprensibile che lui fosse lì, ma     lo intese anche come la fine naturale del rancore: un atto di  perdono     e  di  oblio.  Per quello fu così imprevista e violenta la ripetizione     drammatica di un amore che per lei non era mai esistito, e a un'età in     cui a Florentino Ariza e a lei non restava nient'altro  da  attendersi     dalla vita.
    La  rabbia  mortale  del  primo  impatto  continuava  intatta  dopo la     cremazione simbolica del marito, e cresceva sempre più e si ramificava     quanto meno si sentiva capace di dominarla.  Peggio ancora: gli  spazi     della  memoria  in  cui  riusciva  a  pacificare  i  ricordi del morto     continuavano a essere occupati a poco a poco ma in un modo inesorabile     dal prato di papaveri dove  erano  sepolti  i  ricordi  di  Florentino     Ariza.  Così  pensava  dentro  di  sé  senza volerlo,  e quanto più ci     pensava più rabbia le dava,  e quanta più rabbia  le  dava  tanto  più     pensava a lui,  finché si trasformò in qualcosa di così insopportabile     che le straripò la ragione.  Allora  si  sedette  alla  scrivania  del     marito  morto  e  scrisse  a Florentino Ariza una lettera di tre fogli     irrazionali, talmente carichi di ingiurie e di provocazioni infami che     le diedero il sollievo di aver  commesso  consapevolmente  l'atto  più     indegno della sua lunga vita.
    Anche  per Florentino Ariza quelle tre settimane erano state d'agonia.     La notte in cui ribadì il suo amore a Fermina Daza aveva vagato  senza     rotta  per  strade  disfatte  dal diluvio del pomeriggio,  chiedendosi     atterrito che cosa avrebbe fatto con  la  pelle  di  tigre  che  aveva     appena ucciso dopo che aveva resistito al suo assedio per più di mezzo     secolo.  La  città  era  in  stato  di emergenza per la violenza delle     acque.  In certe case c'erano uomini e donne seminudi che cercavano di     salvare  dal  diluvio  quel che Dio avesse voluto,  e Florentino Ariza     ebbe l'impressione che quel disastro generale avesse  qualcosa  a  che     vedere  con  il  suo.  Ma l'aria era mite e le stelle del Caribe erano     tranquille al loro posto.  Improvvisamente,  in un momento di silenzio     delle  altre  voci,  Florentino  Ariza  riconobbe quella dell'uomo che     Leona Cassiani e lui avevano sentito cantare molti  anni  prima,  alla     stessa  ora  e  allo  stesso  angolo:  "Dal  ponte ritornai bagnato di     lacrime".  Una canzone che in qualche modo,  quella notte e  solo  per     lui, aveva qualcosa a che vedere con la morte.
    Mai  come  allora  gli  mancarono tanto Tránsito Ariza,  la sua parola     saggia,  la sua testa da regina scherzosa adornata con fiori di carta.     Non  poteva  farne  a  meno:  ogni  volta che si trovava sull'orlo del     cataclisma gli mancava la protezione di una donna.  Così  passò  dalla     Scuola  Normale  in cerca della rotta di quelle raggiungibili,  e vide     che c'era una luce nella lunga fila  di  finestre  del  dormitorio  di     América  Vicuña.  Dovette  fare  un  grande sforzo per non cedere alla     follia da vecchio di portarsela via alle due del mattino,  tiepida  di     sonno fra i suoi pannolini e ancora odorosa di culla.
    All'altra estremità della città c'era Leona Cassiani, sola e libera, e     disposta senza dubbio a concedergli alle due del mattino,  alle tre, a     qualsiasi ora e in  qualsiasi  circostanza,  la  compassione  che  gli     mancava. Non sarebbe stata la prima volta che avrebbe battuto alla sua     porta  nel  deserto  delle  sue  insonnie  ma  capì che lei era troppo     intelligente e che si  volevano  troppo  bene  perché  lui  andasse  a     piangere  nel  suo  grembo  senza rivelargliene il motivo.  Dopo molto     pensare,  sonnambulo per la città deserta,  gli venne in mente che con     nessuna avrebbe potuto stare meglio che con Prudencia Pitre: la Vedova     di Due.  Era di dieci anni più giovane di lui. Si erano conosciuti nel     secolo precedente, e se avevano smesso di incontrarsi era stato perché     lei si era impegnata a  non  farsi  vedere  com'era,  mezzo  cieca,  e     davvero  sull'orlo  della  decrepitezza.  Non appena si ricordò di lei     Florentino Ariza ritornò a Calle de las Ventanas, mise in una borsa da     mercato due bottiglie di porto e un barattolo di  sottaceti  e  se  ne     andò  a  trovarla  senza  sapere  nemmeno  se stesse nella sua casa di     sempre, se fosse sola, o se fosse viva.
    Prudencia Pitre non aveva dimenticato la chiave dei graffi sulla porta     con cui lui si identificava quando ancora si credevano  giovani  anche     se  già non lo erano più e gli aprì senza fare domande.  La strada era     scura e lui era visibile a malapena con il vestito di panno  nero,  il     cappello duro e l'ombrello da pipistrello attaccato al braccio,  e lei     non aveva occhi per vederlo se non fosse stato in piena  luce,  ma  lo     riconobbe  per  il  balenio della luce sulla montatura metallica degli     occhiali. Sembrava un assassino con le mani ancora sporche di sangue.
    «Asilo per un povero orfano» disse.
    Fu l'unica cosa che  riuscì  a  dire,  tanto  per  dire  qualcosa.  Si     sorprese  di quanto fosse invecchiata da quando l'aveva vista l'ultima     volta,  e capì che lei lo vedeva  allo  stesso  modo.  Ma  si  consolò     pensando che un attimo dopo, quando tutti e due si fossero ripresi dal     colpo  iniziale,  avrebbero notato meno l'uno sull'altro i segni della     vita e sarebbero tornati a  vedersi  altrettanto  giovani  come  erano     stati  l'uno  per  l'altro  quando  si  erano conosciuti: quarant'anni     prima.
    «Sei vestito come se andassi a un funerale» gli disse lei.
    Ed era così.  Anche lei era stata alla  finestra  dalle  undici,  come     quasi tutta la città, a guardare il passaggio del corteo più affollato     e  sontuoso  che  si fosse visto dalla morte dell'arcivescovo De Luna.     L'avevano svegliata dalla siesta i tuoni dell'artiglieria che facevano     tremare la terra, la discordia delle bande di guerra, il disordine dei     canti funebri sopra il chiasso delle campane di tutte le  chiese,  che     suonavano  a  morto senza pause fin dal giorno prima.  Aveva visto dal     balcone i militari a  cavallo  in  uniforme  da  parata,  le  comunità     religiose,  le  scuole,  le  lunghe  "limousines"  nere  dell'autorità     invisibile,  la carrozza a  cavalli  con  i  morioni  di  piume  e  le     gualdrappe d'oro,  la bara gialla coperta con la bandiera sull'affusto     di un cannone storico,  e alla fine la  fila  delle  vecchie  vittorie     scoperte  che  continuavano  a  tenersi in vita per portare le corone.     Avevano appena finito di  passare  davanti  al  balcone  di  Prudencia     Pitre,  poco dopo mezzogiorno, quando venne giù il diluvio e il corteo     si disperse precipitosamente.
    «Che modo più assurdo di morire» disse lei.
    «La morte non ha il senso del ridicolo»  disse  lui,  e  aggiunse  con     compassione, «soprattutto alla nostra età.»
    Erano seduti sulla terrazza,  davanti al mare aperto,  vedendo la luna     con un alone che occupava la metà del cielo,  vedendo le luci colorate     delle  navi all'orizzonte,  godendo della brezza mite e profumata dopo     la tempesta.  Bevevano porto e mangiavano sottaceti su fette  di  pane     rustico  che  Prudencia  Pitre  tagliava  da  una  pagnotta in cucina.     Avevano vissuto molte notti come  quella  dopo  che  lei  era  rimasta     vedova e senza figli a trentacinque anni. Florentino Ariza la incontrò     in  un'epoca  in  cui avrebbe accolto qualsiasi uomo che avesse voluto     accompagnarla, anche se noleggiato a ore, e riuscirono a stabilire una     relazione più seria e lunga di quanto sembrava possibile.
    Benché non l'avesse mai neanche insinuato, lei avrebbe venduto l'anima     al diavolo per sposarsi con lui in seconde nozze.  Sapeva che non  era     facile  adattarsi  alla sua meschinità,  alle sue necessità da vecchio     prematuro,  al suo ordine maniacale,  alla sua ansia di chiedere tutto     senza dare niente di niente,  ma in cambio di ciò non esisteva un uomo     migliore di lui da lasciarsi accompagnare, perché non poteva essercene     un altro al mondo così bisognoso d'amore.  Ma non ce n'era nemmeno  un     altro  così  scivoloso,  e  così l'amore non oltrepassò il limite dove     arrivava sempre con lui: fin dove non avesse interferito  con  la  sua     decisione di tenersi libero per Fermina Daza. Tuttavia si prolungò per     molti  anni,  anche dopo che lui sistemò le cose in modo che Prudencia     Pitre si risposasse con un commesso viaggiatore  che  veniva  per  tre     mesi  e viaggiava altri tre,  e con il quale ebbe una figlia e quattro     figli,  uno dei quali,  secondo quanto lei giurava,  era di Florentino     Ariza.
    Rimasero  a chiacchierare senza preoccuparsi dell'ora,  perché tutti e     due erano abituati a condividere le loro insonnie da giovani e avevano     molto meno da perdere nelle loro insonnie  da  vecchi.  Anche  se  non     andava  mai  oltre  il  secondo bicchiere,  Florentino Ariza non aveva     ripreso fiato dopo il terzo.  Sudava a fiotti,  e la Vedova di Due gli     disse di togliersi la giacca, il gilè, i pantaloni, di togliersi tutto     se voleva,  che cazzo,  se in fin dei conti loro si conoscevano meglio     nudi che vestiti.  Lui disse che lo avrebbe fatto se lo  faceva  anche     lei,  ma  lei  non  volle:  da  tempo  si  era  vista  nello  specchio     dell'armadio e aveva capito subito di non avere  più  il  coraggio  di     farsi vedere nuda né da lui né da nessuno.
    Florentino  Ariza,  in uno stato di esaltazione che non era riuscito a     placare con  quattro  bicchieri  di  porto,  continuò  a  parlare  del     passato, dei buoni ricordi del passato, che erano il suo unico tema da     parecchio tempo, ma ansioso di trovare nel passato una via segreta per     sfogarsi.  Perché  questo  era  quello  che  gli mancava: tirare fuori     l'anima dalla bocca.  Quando colse i primi fulgori all'orizzonte cercò     un  avvicinamento  obliquo.  Domandò in un modo che sembrasse casuale:     «Che cosa faresti se qualcuno ti proponesse  di  sposarti,  così  come     sei,  vedova  e all'età che hai?».  Lei si mise a ridere,  con un riso     raggrinzito da vecchia, e domandò a sua volta:
    «Lo dici per la vedova di Urbino?»
    Florentino Ariza dimenticava sempre quando meno lo doveva che le donne     pensano più al senso nascosto delle domande che alle domande stesse, e     Prudencia Pitre più di  chiunque  altra.  In  preda  a  un  improvviso     terrore  per  la  sua mira che metteva i brividi,  scivolò dalla porta     falsa: «Lo dico per te».  Lei rise di nuovo: «Vai a  burlarti  di  tua     madre  puttana,  che riposi in pace».  Poi lo spinse a dire quello che     voleva dire perché sapeva che né lui né nessun  altro  uomo  l'avrebbe     svegliata  alle tre del mattino,  e dopo tanti anni che non la vedeva,     solo per bere porto e mangiare  pane  rustico  con  sottaceti.  Disse:
    «Questo si fa solo quando uno va a cercare qualcuno con cui piangere».
    Florentino Ariza batté in ritirata.
    «Per  una  volta  ti sbagli» le disse.  «I miei motivi di questa notte     sono piuttosto per cantare.»
    «E allora cantiamo» disse lei.
    Incominciò a intonare con ottima voce la  canzone  di  moda:  "Ramona,     senza  di te non posso più vivere".  Fu la fine della notte perché lui     non si azzardò a giocare giochi proibiti con una donna che  gli  aveva     dato troppe prove di conoscere l'altra faccia della luna.  Uscì in una     città diversa, rarefatta dalle ultime dalie di giugno, e in una strada     della sua gioventù in cui passavano le vedove  tenebrose  della  messa     delle  cinque.  Però  allora  fu lui e non loro a cambiare marciapiede     perché non gli vedessero le lacrime che  non  gli  era  più  possibile     trattenere,  non  dalla  mezzanotte,  come lui credeva,  perché queste     erano altre: quelle che si  portava  dentro  soffocate  da  cinquantun     anni, nove mesi e quattro giorni.
    Aveva  perso  il conto del tempo quando si risvegliò senza sapere dove     fosse davanti a un finestrone abbacinante.  La voce di América  Vicuña     che  giocava a palla con le domestiche lo riportò alla realtà: era sul     letto di sua madre,  la cui camera da letto conservava intatta e  dove     dormiva  di solito per sentirsi meno solo nelle poche occasioni in cui     lo infastidiva  la  solitudine.  Davanti  al  letto  c'era  il  grande     specchio  del  Mesón  de  Don Sancho,  e gli bastava vederlo quando si     svegliava per vederci Fermina Daza riflessa sul fondo.  Capì  che  era     sabato,  perché  era  il  giorno in cui l'autista andava a prendere al     convitto América Vicuña e la portava a casa sua.  Si accorse  di  aver     dormito  senza  saperlo,  sognando di non poter dormire,  con un sonno     agitato dalla  faccia  arrabbiata  di  Fermina  Daza.  Fece  il  bagno     pensando  quale  dovesse  essere  il passo successivo,  si vestì molto     lentamente con i suoi abiti migliori, si profumò e si impomatò i baffi     bianchi con le punte affilate,  e uscendo dalla camera da  letto  vide     dal  corridoio  del  secondo  piano  la  bella  creatura  in  uniforme     acchiappare al volo la palla con la grazia  che  in  tanti  sabati  lo     aveva  fatto  commuovere ma che quella mattina non gli diede il minimo     turbamento. Le fece cenno di seguirlo e,  prima di salire in macchina,     le  disse  senza che fosse necessario: «Oggi non facciamo cosine».  La     portò alla Gelateria Americana,  a quell'ora strapiena dei  padri  che     mangiavano  gelati  con i loro figli sotto i ventilatori a grandi pale     attaccati al soffitto.  América Vicuña chiese un gelato a vari strati,     ognuno  di  un colore diverso in una coppa gigantesca,  che era il suo     preferito e il  più  venduto  perché  esalava  un  gran  fumo  magico.     Florentino  Ariza  prese  un  caffè  nero,  guardando la bambina senza     parlare mentre lei si mangiava il gelato con un cucchiaio  dal  manico     molto  lungo  per raggiungere il fondo della coppa.  Senza smettere di     guardarla, lui le disse all'improvviso:
    «Sto per sposarmi.»
    Lei lo guardò negli occhi con  un  lampo  di  incertezza,  tenendo  il     cucchiaio fermo nell'aria, ma poi si riprese e sorrise.
    «E' una bugia» disse. «I vecchietti non si sposano.»
    Quel  pomeriggio la lasciò al convitto all'ora dell'Angelus,  sotto un     acquazzone ostinato,  dopo aver visto insieme i  burattini  al  parco,     dopo  aver  pranzato  nei baracchini del pesce fritto sulla scogliera,     dopo aver visto le bestie feroci nelle gabbie  di  un  circo  che  era     appena  arrivato,  dopo  aver comprato sotto i portici tutti i tipi di     dolci da portare al convitto e dopo aver girato e  rigirato  parecchie     volte  per  la  città sull'automobile scoperta perché lei si abituasse     all'idea che lui era il suo  tutore  e  non  più  il  suo  amante.  La     domenica  le  mandò  l'automobile nel caso avesse voluto girare con le     sue amiche,  ma non la volle vedere perché dalla settimana prima aveva     preso piena coscienza dell'età di tutti e due.  Quella notte decise di     scrivere a Fermina Daza una lettera di scuse,  anche se solo  per  non     capitolare, ma la lasciò per il giorno successivo. Il lunedì, dopo tre     settimane esatte di passione,  entrò a casa bagnato di pioggia e trovò     la sua lettera.
    Erano le otto di sera. Le due donne di servizio erano andate a letto e     avevano lasciato nel corridoio l'unica luce permanente che  permetteva     a  Florentino Ariza di arrivare fino alla camera da letto.  Sapeva che     la sua cena magra e insipida era sul tavolo della sala da  pranzo,  ma     la  poca  fame  che aveva dopo tanti giorni in cui mangiava in qualche     modo gli andò  via  con  l'emozione  della  lettera.  Fece  fatica  ad     accendere la luce grande della camera da letto perché gli tremavano le     mani.  Mise la lettera bagnata sul letto, accese il lume del comodino,     e con una finta calma che era un espediente molto suo per calmarsi  si     tolse  la  giacca  fradicia e la mise sullo schienale della sedia,  si     tolse il gilè e lo mise ben piegato  sopra  la  giacca,  si  tolse  il     nastro  di seta nera e il colletto di celluloide che ormai era passato     di moda in tutto il mondo,  si sbottonò la camicia fino alla cintura e     si  allentò  la  cintura  per  respirare meglio,  e infine si tolse il     cappello e lo mise ad asciugare  vicino  alla  finestra.  D'un  tratto     trasalì  perché  non sapeva più dove fosse la lettera,  ed era tale il     suo nervosismo che restò sorpreso  quando  la  trovò,  perché  non  si     ricordava di averla messa sul letto. Prima di aprirla asciugò la busta     con  un  fazzoletto,  attento  a  non sbavare l'inchiostro con cui era     scritto il suo nome, e mentre lo faceva si rese conto che quel segreto     non era più condiviso fra due, bensì fra tre, perlomeno,  che chiunque     l'avesse  portata  avrebbe  certo notato che la vedova di Urbino aveva     scritto a qualcuno fuori del suo mondo  solo  tre  settimane  dopo  la     morte di suo marito,  con tanta premura da non aver mandato la lettera     per posta e con tanto riserbo da ordinare di non consegnarla a mano ma     di farla scivolare sotto la  porta  come  un  biglietto  anonimo.  Non     dovette rompere la busta,  perché la colla si era sciolta con l'acqua,
    ma la lettera era asciutta: tre fogli  fitti,  senza  intestazione,  e     firmati con le iniziali del suo nome da sposata.
    La  lesse una volta frettolosamente seduto sul letto,  più incuriosito     dal tono che dal contenuto,  e prima  di  passare  al  secondo  foglio     sapeva  già  che  era  proprio  la  lettera di ingiurie che sperava di     ricevere. La spiegò aperta sotto la luce del lume,  si tolse le scarpe     e  le calze bagnate,  spense vicino alla porta la luce grande,  e alla     fine si mise il piegabaffi di pelle  scamosciata  e  si  coricò  senza     togliersi  i  pantaloni  e  la  camicia,  con  la  testa su due grandi     cuscinoni che gli servivano da spalliera per leggere.  Così rilesse la     lettera,  stavolta  parola  per  parola,  scrutando ogni parola perché     nessuna delle sue intenzioni occulte restasse  non  sviscerata,  e  la     lesse  poi  ancora  quattro volte,  finché fu così sazio che le parole     scritte incominciarono a perdere il loro  senso.  Alla  fine  la  mise     senza  busta  nel  cassetto  del  comodino,  si  sdraiò  con  le  mani     intrecciate dietro la nuca e rimase per quattro  ore  con  lo  sguardo     fisso  nello  spazio dello specchio dove era stata lei,  senza muovere     ciglio,  respirando appena,  più morto di un morto.  A  mezzanotte  in     punto andò in cucina, preparò e si portò in camera da letto un thermos     di  caffè  denso  come il petrolio,  mise la dentiera nel bicchiere di     acqua borica che trovava sempre pronto sul comodino, tornò a sdraiarsi     nella stessa posizione da marmo  giacente  con  variazioni  istantanee     ogni tanto per bere un goccio di caffè, finché la cameriera entrò alle     sei con un altro thermos pieno.
    A quell'ora Florentino Ariza sapeva quale sarebbe stato ogni suo passo     successivo.  In realtà non gli fecero male gli insulti né si preoccupò     di chiarire le accuse ingiuste,  che avrebbero potuto essere  peggiori     conoscendo  il  carattere  di  Fermina  Daza  e la gravità del motivo.     L'unica cosa che gli interessò fu che la lettera di per  sé  gli  dava     l'opportunità  e gli riconosceva il diritto di risponderle.  Anzi,  lo     esigeva.  Così la vita  era  ora  al  limite  dove  lui  aveva  voluto     spingerla.  Tutto  il  resto  dipendeva  da  lui,  e  aveva  la  ferma     convinzione che il suo inferno privato di  più  di  mezzo  secolo  gli     mettesse  davanti  ancora  molte prove mortali che lui era disposto ad     affrontare con più ardore e dolore e amore  di  tutte  le  precedenti,     perché sarebbero state le ultime.
    Cinque  giorni  dopo aver ricevuto la lettera di Fermina Daza,  quando     arrivò in ufficio,  si sentì fluttuare nel  vuoto  brusco  e  insolito     delle macchine da scrivere,  il cui rumore di pioggia aveva finito per     notarsi di meno del loro silenzio.  Era una pausa.  Quando  il  rumore     ricominciò, Florentino Ariza si affacciò all'ufficio di Leona Cassiani     e  la guardò seduta davanti alla sua macchina personale,  che obbediva     alla punta delle sue dita come  uno  strumento  umano.  Lei  si  sentì     osservata e guardò verso la porta col suo terribile sorriso solare, ma     non smise di scrivere fino alla fine del periodo.
    «Dimmi  una  cosa,  Leona della mia anima» le chiese Florentino Ariza:     «come ti sentiresti se  ricevessi  una  lettera  d'amore  scritta  con     quell'arnese?».
    Il gesto di lei,  che non si sorprendeva più di nulla, fu di legittima     sorpresa.
    «Diavolo!» esclamò. «Guarda che non mi è mai successo.»
    Per lo stesso motivo non  aveva  altre  risposte.  Neanche  Florentino     Ariza ci aveva pensato fino ad allora,  e decise di correre il rischio     fino in fondo.  Si portò a casa una  delle  macchine  dell'ufficio  in     mezzo  agli  scherzi cordiali degli impiegati: «Pappagallo vecchio non     impara a parlare». Leona Cassiani, entusiasta di qualsiasi novità,  si     offrì  di  dargli  lezioni  di  dattilografia a domicilio.  Ma lui era     contrario agli apprendistati metodici fin  da  quando  Lotario  Thugut     aveva  voluto  insegnargli  a  suonare il violino con le note,  con la     minaccia che gli sarebbe servito  almeno  un  anno  per  incominciare,     cinque per essere accettabile in un'orchestra professionista,  e tutta     la vita di sei ore al giorno per  suonarlo  bene.  Tuttavia,  lui  era     riuscito  a farsi comprare da sua madre un violino da cieco,  e con le     cinque regole basiche che gli diede Lotario Thugut  ebbe  l'ardire  di     suonarlo prima di un anno nel coro della cattedrale e di fare serenate     a  Fermina  Daza dal cimitero dei poveri a seconda della direzione dei     venti.  Se questo era stato possibile a vent'anni con qualcosa di così     difficile come il violino, non vedeva perché non potesse esserlo anche     a  settantasei  con  uno strumento da un dito solo come la macchina da     scrivere.
    E fu così.  Ebbe bisogno di tre giorni per imparare la posizione delle     lettere sulla tastiera,  altri sei per imparare a pensare nello stesso     tempo che scriveva,  e altri tre per finire  la  prima  lettera  senza     errori,   dopo   aver   consumato  mezza  risma  di  carta.   Ci  mise     un'intestazione solenne: "Signora",  e la firmò con l'iniziale del suo     nome,  come  faceva  di  solito  nei  biglietti  profumati  della  sua     gioventù. La mandò per posta, in una busta listata a lutto come era di     rigore in una lettera per una vedova da poco,  e  senza  il  nome  del     mittente sul dorso.
    Era  una  lettera  di sei pagine che non aveva niente a che vedere con     nessun'altra che avesse mai scritto.  Non aveva né il tono né lo stile     né  l'afflato  retorico dei primi anni dell'amore,  e il suo argomento     era così razionale e misurato che il profumo di una  gardenia  sarebbe     stato  uno  sproposito.  In  un  certo  modo  fu l'approssimazione più     azzeccata delle lettere commerciali che non poté mai fare.  Anni dopo,     una  lettera  personale  scritta  con  mezzi  meccanici  sarebbe stata     considerata quasi offensiva,  ma ancora a quell'epoca la  macchina  da     scrivere  era  un animale da ufficio,  senza un'etica propria,  il cui     addomesticamento per usi privati  non  era  previsto  nei  manuali  di     educazione.  Sembrava  anzi  un  modernismo  audace,  e  così  dovette     intenderla Fermina Daza,  perché nella seconda lettera che  scrisse  a     Florentino Ariza,  dopo averne ricevuto più di quaranta sue,  iniziava     scusandosi degli scogli della sua calligrafia, non disponendo di mezzi     di scrittura più avanzati della penna di metallo.
    Florentino Ariza non fece neanche riferimento  alla  lettera  tremenda     che lei gli aveva mandato,  ma provò fin dall'inizio un metodo diverso     di seduzione,  senza nessun riferimento agli amori del passato né  del     passato  remoto:  una  riga  sopra e daccapo.  Era piuttosto un'estesa     meditazione sulla vita,  con base nelle sue  idee  ed  esperienze  dei     rapporti  fra  uomo  e donna,  che una volta aveva pensato di scrivere     come aggiunta al "Segretario degli Innamorati".  Solo  che  allora  la     avviluppò in uno stile patriarcale,  da memorie di vecchio, perché non     si notasse troppo che  in  realtà  era  un  documento  d'amore.  Prima     scrisse molte brutte copie alla vecchia maniera,  che si impiegava più     tempo a leggerle a mente fredda che a bruciarle sulla candela.  Sapeva     che   qualsiasi   distrazione  convenzionale,   la  minima  leggerezza     nostalgica, poteva rimuoverle nel cuore i sapori amari del passato,  e     anche  se  aveva  previsto che lei gli restituisse cento lettere senza     aver osato di aprire la prima, preferiva che non accadesse neanche una     volta.  Così architettò tutto fino  all'ultimo  particolare  come  una     guerra  finale:  tutto  doveva  essere  diverso  per  suscitare  nuove     curiosità, nuovi intrighi, nuove speranze,  in una donna che aveva già     vissuto   totalmente  tutta  una  vita.   Doveva  essere  un'illusione     spropositata,  capace di darle il coraggio che le sarebbe  mancato  di     gettare  nell'immondizia  i pregiudizi di una classe che non era stata     la sua in origine ma che aveva finito per  esserlo  più  di  qualsiasi     altra.  Doveva  insegnarle  a  pensare  all'amore  come a uno stato di     grazia che non era un mezzo per nulla,  bensì un'origine e un fine  di     per se stesso.
    Ebbe il buonsenso di non aspettarsi una risposta immediata, perché gli     era  sufficiente che la lettera non gli fosse rispedita indietro.  Non     lo fu, come non lo fu nessuna di quelle che seguirono, e più passavano     i giorni più si accelerava la sua  ansia,  perché  quanti  più  giorni     passavano   senza  restituzioni  più  aumentava  la  speranza  di  una     risposta.   La  frequenza  delle  sue  lettere   cominciò   a   essere     condizionata  dall'abilità  delle  sue dita: prima una alla settimana,     poi due,  e alla fine una al giorno.  Fu contento del progresso  della     posta rispetto ai suoi tempi di impiegato, perché non avrebbe corso il     rischio di lasciarsi vedere giornalmente all'Ufficio Postale a spedire     una  lettera  alla  stessa persona né di mandarla tramite qualcuno che     avrebbe potuto raccontarlo in giro. Invece era molto facile mandare un     impiegato a comprare i  francobolli  per  tutto  un  mese  e  poi  far     scivolare  la  lettera  in  una delle tre cassette sparse per la città     vecchia.  Molto presto unì quel rito alla sua abitudine:  approfittava     dell'insonnia  per  scrivere,  e  il giorno dopo,  andando in ufficio,     chiedeva all'autista di fermarsi un  minuto  davanti  a  una  cassetta     delle  lettere all'angolo e lui stesso scendeva a imbucare la lettera.     Non permise mai all'autista di farlo per  lui,  come  una  mattina  di     pioggia avrebbe voluto fare,  e a volte prendeva la precauzione di non     portare una bensì molte lettere  contemporaneamente  perché  sembrasse     più naturale.  L'autista non sapeva,  ovviamente, che le altre lettere     erano fogli bianchi che Florentino Ariza spediva a se  stesso,  perché     non  aveva  mai  tenuto  corrispondenza privata con nessuno,  salvo il     rapporto da tutore che mandava alla fine di ogni mese ai  genitori  di     América  Vicuña  con  le  sue  impressioni  personali  sulla condotta,     l'animo e la salute della bambina, e il buon andamento dei suoi studi.     Incominciò a numerare  le  lettere  a  partire  dal  primo  mese  e  a     premetterci un riassunto delle precedenti come i romanzi d'appendice a     puntate dei giornali, per paura che Fermina Daza non si accorgesse che     avevano una certa continuità. Quando si fecero quotidiane, poi, cambiò     le buste a lutto con buste bianche e allungate,  e questo finì per dar     loro  l'impersonalità  complice  delle  lettere  commerciali.   Quando     incominciò  era  disposto  a  sottoporre  la  sua pazienza a una prova     maggiore,  almeno fino ad avere una prova che stava  perdendo  il  suo     tempo con l'unico metodo diverso che aveva potuto concepire.  Aspettò,     in effetti,  senza gli strazi di ogni  tipo  che  gli  provocavano  le     attese della gioventù ma con la cocciutaggine di un anziano di cemento     senza  nient'altro  a  cui  pensare,  senza nient'altro da fare in una     compagnia fluviale che in quel momento  navigava  da  sola  con  venti     favorevoli,  e  per  di  più  convinto  di  essere  vivo e in perfetta     padronanza delle sue facoltà di uomo il giorno di domani, di più tardi     o di sempre in cui Fermina Daza si fosse finalmente  convinta  che  le     sue  ansie di vedova solitaria non avevano altro rimedio che abbassare     per lui il suo ponte levatoio.
    Nel frattempo continuò la sua vita regolare.  Prevedendo una  risposta     favorevole,  iniziò  un  secondo  rinnovamento della casa perché fosse     degna di chi avrebbe potuto considerarsene la  padrona  e  signora  da     quando  era  stata  comprata.  Tornò a trovare spesso Prudencia Pitre,     come si era promesso,  per dimostrarle che l'amava nonostante i  danni     dell'età,  in pieno sole e con le porte aperte, e non solo nelle notti     di tristezza.  Continuò a passare davanti alla casa  di  Andrea  Varón     finché  trovò  spenta  la  luce del bagno e cercò di abbrutirsi con le     follie del suo letto anche  se  era  per  non  perdere  la  regolarità     dell'amore,  secondo un'altra sua superstizione,  mai smentita fino ad     allora, che il corpo continua finché uno continua.
    L'unico intoppo fu lo stato della sua relazione  con  América  Vicuña.     Aveva  ripetuto  all'autista  l'ordine  di  andare a prenderla tutti i     sabati alle dieci del mattino al convitto, ma non sapeva cosa fare con     lei durante il fine settimana.  Per la prima volta non  si  occupò  di     lei,  e  lei  risentiva  del  cambiamento.  L'affidava  alle  donne di     servizio perché la portassero al cinema al pomeriggio, ai concerti nel     giardino infantile,  alle tombole di beneficenza,  o le inventava  dei     programmi  domenicali  con altre compagne del collegio per non doverla     portare al paradiso nascosto dietro ai suoi  uffici  dove  lei  voleva     tornare sempre da quando lui ce l'aveva portata la prima volta. Non si     accorgeva,  nelle  nebbie  della  sua  nuova  illusione,  che le donne     possono diventare adulte in tre giorni,  ed erano tre anni quelli  che     erano  passati da quando lui l'aveva accolta sul motoveliero di Puerto     Padre.  Per quanto volle addolcirglielo,  il cambiamento  per  lei  fu     brutale,  ma non riuscì a capirne il motivo. Il giorno in cui le aveva     detto nella gelateria che si sarebbe sposato,  rivelandole una verità,     lei  aveva  subito  un  urto  di  panico  ma  poi  le era sembrata una     possibilità così assurda che l'aveva  completamente  dimenticata.  Ben     presto aveva capito, però, che lui si comportava come se fosse sicuro,     con pretesti inspiegabili,  come se non avesse sessant'anni più di lei     ma sessant'anni meno.
    Un sabato  pomeriggio,  Florentino  Ariza  la  trovò  che  cercava  di     scrivere a macchina nella sua camera da letto,  e lo faceva abbastanza     bene perché studiava dattilografia al collegio.  Aveva  fatto  più  di     mezza  pagina  di  scrittura automatica,  ma in certi punti era facile     cogliere una frase rivelatrice del suo stato d'animo. Florentino Ariza     si chinò sopra la sua spalla per leggere quello che  stava  scrivendo.     Lei si turbò per il suo calore di uomo,  il suo respiro interrotto, il     profumo dei suoi abiti, che era lo stesso del suo cuscino. Non era più     la bambina appena arrivata che  lui  spogliava  pezzo  per  pezzo  con     trucchi  da  bambino: prima queste scarpine per l'orsetto,  poi questa     camicetta per il cagnolino,  poi  queste  mutandine  a  fiori  per  il     coniglietto,  e  adesso  un bacino sulla fichina gustosa del suo papà.     No:  adesso  era  una  donna  fatta  e  finita  cui  piaceva  prendere     l'iniziativa. Continuò a scrivere con un dito solo della mano destra e     con la sinistra cercò a tastoni la gamba di lui, lo esplorò, lo trovò,     lo sentì rivivere,  crescere,  sospirare di ansia, e il suo respiro di     vecchio si fece pietroso e difficile.  Lo conosceva: a partire da quel     punto  lui  perdeva  la  padronanza  di  sé,  gli  si disarticolava la     ragione,  restava alla sua mercé,  e non ritrovava la via del  ritorno     prima  di essere arrivato alla fine.  Lo portò per mano fino al letto,     come un povero cieco per la strada,  e lo squartò pezzo per pezzo  con     una tenerezza maligna,  lo salò a suo piacimento,  un po' di pepe, uno     spicchio d'aglio, cipolla tritata,  il succo di un limone,  una foglia     di alloro finché lo ebbe insaporito nel piatto, e il forno pronto alla     temperatura  giusta.  Non  c'era nessuno in casa.  Le domestiche erano     uscite,  e i muratori e i falegnami del rinnovamento non lavoravano di     sabato: avevano il mondo intero per loro due.  Ma lui uscì dall'estasi     sul bordo dell'abisso,  le allontanò la mano,  si sollevò,  disse  con     voce tremante:
    «Attenta, non abbiamo preservativi.»
    Lei  rimase  sdraiata  sul  letto per un lungo momento,  a pensare,  e     quando tornò al convitto,  con un'ora di anticipo,  aveva superato  la     voglia  di  piangere,  e aveva affinato l'olfatto e si era affilata le     unghie per trovare le tracce della lepre  rannicchiata  che  le  aveva     scombussolato la vita.  Florentino Ariza,  invece,  incorse ancora una     volta  in  un  errore  da  uomo:  pensò  che  lei  si  fosse  convinta     dell'inutilità dei suoi propositi e avesse deciso di dimenticarlo.     Continuò a fare di testa sua.  Dopo sei mesi, senza il minimo segnale,     si ritrovò a rigirarsi nel letto fino all'alba,  perso nel deserto  di     un'insonnia  diversa.  Pensava che Fermina Daza avesse aperto la prima     lettera  per  la  sua  apparenza  ingenua,  fosse  arrivata  a  vedere     l'iniziale  conosciuta  di  altre  lettere  di  una volta,  e l'avesse     buttata nel secchio della spazzatura senza neanche prendersi la fatica     di farla a pezzi.  Le sarebbe bastato vedere la busta delle successive     per  fare  la  stessa  cosa  senza aprirle,  e così fino alla fine dei     tempi,  mentre lui arrivava alla  conclusione  delle  sue  meditazioni     scritte.  Non credeva che esistesse una donna capace di resistere alla     curiosità di mezzo anno di lettere quotidiane senza sapere neanche  di     che colore fosse l'inchiostro con cui erano scritte. Ma se ne esisteva     una poteva essere solo lei.
    Florentino  Ariza  sentiva  che  il  tempo  della vecchiaia non era un     torrente orizzontale,  ma una cisterna sfondata da cui si  prosciugava     la memoria.  Il suo ingegno si esauriva. Dopo aver gironzolato intorno     alla villa di La Manga  per  diversi  giorni,  capì  che  quel  metodo     giovanile  non  sarebbe  riuscito a rompere le porte chiuse dal lutto.     Una mattina,  cercando un numero nell'elenco del telefono,  si imbatté     per caso nel suo.  Chiamò.  Squillò molte volte, e alla fine riconobbe     la voce, seria e impersonale: «Pronto?».  Riattaccò senza parlare,  ma     la  distanza  infinita  di  quella voce inafferrabile gli risollevò il     morale.
    In quei giorni Leona Cassiani celebrò il suo compleanno  e  invitò  un     ristretto gruppo di amici a casa sua.  Lui era distratto e si rovesciò     addosso il sugo del pollo.  Lei gli pulì il bavero bagnando  la  punta     del tovagliolo nel bicchiere dell'acqua, e poi glielo mise a bavaglino     per  impedire  un  incidente  maggiore: restò come un bambino vecchio.     Notò che spesso durante il pranzo si tolse gli occhiali per asciugarli     con il tovagliolo,  perché gli  occhi  gli  piangevano.  Al  caffè  si     addormentò  con  la tazza in mano,  e lei cercò di togliergliela senza     svegliarlo,  ma lui reagì vergognoso: «Stavo solo riposando la vista».     Leona Cassiani andò a coricarsi sorpresa di quanto avesse incominciato     a notarglisi la vecchiaia.
    Nel  primo  anniversario  della  morte di Juvenal Urbino,  la famiglia     mandò  biglietti  d'invito  a  una  messa  di   commemorazione   nella     cattedrale.  A  quell'epoca  Florentino Ariza aveva mandato la lettera     numero centotrentadue senza aver ricevuto nessun segno di risposta,  e     questo  lo  spinse alla decisione audace di assistere alla messa anche     se non era stato invitato.  Fu un avvenimento sociale più fastoso  che     commovente.  I  banchi  delle  prime  file,  riservati  con  carattere     vitalizio ed ereditario, avevano sullo schienale una targa di rame con     il nome del proprietario. Florentino Ariza arrivò fra i primi invitati     per sedersi in un posto dove Fermina Daza non  avesse  potuto  passare     senza  vederlo.  Pensò  che  i  migliori  sarebbero stati quelli della     navata  centrale,  subito  dopo  i  banchi  riservati,  ma  era  tanta     l'affluenza  che  neanche  lì  trovò un posto libero e dovette sedersi     nella navata dei parenti poveri.  Da  lì  vide  entrare  Fermina  Daza     sottobraccio al figlio, vestita di velluto nero fino ai polsini, senza     nessun  ornamento,  con un'abbottonatura continua dal collo alla punta     dei piedi,  come una tonaca da vescovo,  e  uno  scialletto  di  pizzo     castigliano al posto del cappello con la veletta delle altre vedove, e     anche  di molte signore ansiose di esserlo.  Il viso scoperto aveva un     riflesso di alabastro,  gli occhi lanceolati vivevano di vita  propria     sotto  gli  enormi  lampadari  della  navata centrale e camminava così     diritta, così altera, così padrona di sé, che non sembrava più vecchia     del figlio. Florentino Ariza,  in piedi,  appoggiò la punta delle dita     sullo  schienale  del  banco finché il capogiro passò del tutto perché     sentì che lui e lei non erano a sette passi  di  distanza  ma  in  due     giorni diversi.
    Fermina  Daza  assistette alla cerimonia nel banco di famiglia davanti     all'altare maggiore, in piedi quasi per tutta la durata, con la stessa     prestanza con cui assisteva all'opera.  Ma alla fine  ruppe  le  norme     della  liturgia  e  non  rimase al suo posto per ricevere le rinnovate     condoglianze secondo  gli  usi  in  vigore,  ma  si  fece  strada  per     ringraziare   ognuno  degli  invitati:  un  gesto  innovatore  che  si     accordava benissimo col suo modo di essere.  Salutando gli uni  e  gli     altri  arrivò  fino  ai banchi dei parenti poveri,  e alla fine guardò     intorno a lei per assicurarsi che non le mancasse da salutare  nessuna     persona  conosciuta.  Florentino  Ariza  sentì  allora  che  un  vento     soprannaturale gli faceva perdere la trebisonda: lei lo  aveva  visto.     Fermina Daza,  in effetti, si allontanò dai suoi accompagnatori con la     scioltezza con cui faceva tutto in società,  gli tese la  mano  e  gli     disse con un sorriso molto dolce:
    «Grazie per essere venuto.»
    Perché  non  solo  aveva  ricevuto le lettere ma le aveva lette con un     grande interesse e aveva trovato in loro seri  motivi  di  riflessione     per  continuare  a  vivere.  Era  a  tavola,  facendo colazione con la     figlia,  quando ricevette la prima.  L'aprì per la curiosità che fosse     scritta  a  macchina,  e  un  rossore improvviso le imporporò il volto     quando riconobbe l'iniziale della firma.  Ma lo represse all'istante e     mise la lettera nella tasca del grembiule. Disse: «E' una condoglianza     del governo». La figlia restò sorpresa: «Sono arrivate già tutte». Lei     non  si alterò: «Questa è un'altra».  Il suo proposito era di bruciare     la lettera più tardi, lontano dalle domande della figlia,  ma non poté     resistere alla tentazione di darci prima un'occhiata. Si aspettava una     replica meritata alla sua lettera di ingiurie,  che aveva incominciato     a pesarle nel momento stesso in cui l'aveva spedita,  ma dall'apertura     maestosa  e  dai  propositi  del  primo  periodo capì che qualcosa era     cambiato nel mondo.  Restò tanto incuriosita da chiudersi nella stanza     da letto per leggerla con tranquillità prima di bruciarla,  e la lesse     tre volte senza riprendere fiato.
    Erano meditazioni sulla vita,  l'amore,  la vecchiaia,  la morte: idee     che  erano  passate  spesso aleggiando come uccelli notturni sulla sua     testa ma che si disfacevano in una scia di  piume  quando  cercava  di     acchiapparle.  Erano  lì,  nitide,  semplici,  così come a lei sarebbe     piaciuto di dirle,  e una volta di più si dolse  che  suo  marito  non     fosse vivo per commentarle con lui,  come solevano commentare prima di     dormire certi avvenimenti della giornata.  In quel modo le si rivelava     un  Florentino  Ariza  sconosciuto,   con  una  lungimiranza  che  non     corrispondeva ai biglietti febbrili della sua  gioventù  né  alla  sua     condotta malinconica di tutta la vita.  Erano anzi le parole dell'uomo     che alla zia Escolástica era sembrato ispirato dallo Spirito Santo,  e     questo  pensiero  tornò  a spaventarla come la prima volta.  Comunque,     quello che più contribuì a calmarle l'animo fu la certezza che  quella     lettera  da  vecchio  saggio  non  fosse  un  tentativo  di  reiterare     l'impertinenza della notte del lutto bensì un  modo  molto  nobile  di     cancellare il passato.
    Le lettere successive finirono di placarla.  Le bruciò comunque,  dopo     averle lette con un interesse crescente,  anche se più le bruciava più     le  restava un sedimento di colpa che non riusciva a dissipare.  Così,     quando incominciò  a  riceverle  numerate  trovò  una  giustificazione     morale  che stava desiderando per non distruggerle.  La sua intenzione     iniziale, in ogni caso,  non era di conservarle per lei,  ma aspettare     un'occasione  per  restituirle a Florentino Ariza perché non venisse a     perdere qualcosa che a lei sembrava di tanta utilità umana. Il male fu     che il tempo passò e le lettere continuarono ad arrivare, una ogni tre     o quattro giorni per tutto l'anno,  e lei non seppe come  mandargliele     indietro  senza  che  sembrasse  uno  sgarbo che non voleva più fare e     senza doverlo spiegare in una lettera che il suo orgoglio si rifiutava     di scrivere.
    Le era bastato quel primo anno per accettare la vedovanza.  Il ricordo     purificato  del  marito  smise  di  essere  un  intoppo  nei suoi atti     quotidiani,  nei  suoi  pensieri  intimi,  nelle  sue  intenzioni  più     semplici,  e  si trasformò in una presenza vigile che la guidava senza     molestarla. A volte lo incontrava, non come un'apparizione ma in carne     e ossa, dove in verità le mancava. La incoraggiava la certezza che lui     fosse lì,  ancora vivo ma senza i suoi capricci da uomo,  senza le sue     esigenze  patriarcali,  senza la necessità spossante che lei lo amasse     con lo stesso rituale di baci inopportuni e parole tenere con cui  lui     l'amava.  Perché  allora  lo  capiva  meglio di quando era vivo;  capì     l'ansia del suo amore,  l'urgenza di trovare in lei la  sicurezza  che     sembrava  essere il supporto della sua vita pubblica,  e che in realtà     non ebbe mai.  Un giorno,  al colmo della disperazione,  lei gli aveva     gridato:  «Non  ti  rendi  conto di quanto sono infelice».  Lui si era     tolto gli occhiali con un gesto molto suo,  senza  alterarsi,  l'aveva     inondata  con  le acque diafane dei suoi occhi puerili,  e in una sola     frase  le  aveva  rovesciato  addosso  tutto   il   peso   della   sua     insopportabile  sapienza: «Ricordati sempre che la cosa più importante     di un buon matrimonio non è la felicità ma la  stabilità».  Fin  dalle     sue  prime  solitudini  di  vedova  lei  capì  che  quella  frase  non     nascondeva la minaccia meschina che gli aveva attribuito all'epoca  ma     la pietra lunare che aveva fornito a tutti e due tante ore felici.     Nei  suoi tanti viaggi per il mondo Fermina Daza comprava tutto quello     che la attirava per la  sua  novità.  Lo  desiderava  per  un  impulso     primario che suo marito si compiaceva di razionalizzare, ed erano cose     belle e utili finché erano nel loro luogo di origine, nelle vetrine di     Roma,  di Parigi, di Londra, o in quelle di quella New York trepidante     di charleston dove incominciavano a crescere  i  grattacieli,  ma  non     reggevano la prova dei valzer di Strauss con i ciccioli e le battaglie     di fiori a quaranta gradi all'ombra. Così, ritornava con mezza dozzina     di bauli verticali,  enormi, di metallo laccato con serrature e angoli     di rame come feretri di  fantasia,  padrona  e  signora  delle  ultime     meraviglie  del mondo,  che però non valevano il loro prezzo in oro se     non nell'istante fugace in cui  qualcuno  del  loro  mondo  locale  le     vedeva  per una volta.  Perché per questo erano state comprate: perché     gli altri le vedessero una volta. Lei aveva capito la vanità della sua     immagine pubblica fin da molto prima di incominciare a invecchiare,  e     spesso   la  si  sentiva  dire  in  casa:  «Bisogna  uscire  da  tante     cianfrusaglie che non ti lasciano più dove vivere».  Il dottor  Urbino     rideva dei suoi propositi sterili perché sapeva che gli spazi liberati     sarebbero  serviti solo a riempirli di nuovo.  Ma lei insisteva perché     veramente non c'era posto per una cosa in  più  né  c'era  da  nessuna     parte  una  cosa  che  in  realtà  servisse  a qualcosa,  come camicie     attaccate alle maniglie delle porte  o  cappotti  da  inverni  europei     pigiati negli armadi di cucina. Così, una mattina in cui si alzava con     lo  spirito  iracondo  buttava  giù  gli  armadi,  svuotava  i  bauli,     smantellava le soffitte,  e armava un casino da guerra con i mucchi di     roba  troppo vista,  i cappelli che non si era mai messa perché non ne     aveva avuto l'occasione finché erano di moda,  le scarpe copiate dalle     artiste  europee  da  quelle  che  usavano  le  imperatrici per essere     incoronate e che  qui  erano  disprezzate  dalle  signorine  di  buona     famiglia  perché  erano  identiche a quelle che compravano le negre al     mercato per usarle in casa.  Per tutta la mattina la terrazza  interna     restava  in stato d'emergenza,  ed era difficile respirare in casa per     le  raffiche  acri  delle  palline  di  naftalina.   Ma  la  calma  si     ristabiliva in poche ore, perché alla fine lei si doleva di tanta seta     gettata per terra,  di tanti altri broccati e ritagli di passamaneria,     di tante code di volpe azzurra condannate al falò.
    «Questo è peccato bruciarlo» diceva,  «con  tanta  gente  che  non  ha     neanche da mangiare.»
    Così  il  falò  veniva  rinviato,  fu  sempre rinviato,  e le cose non     facevano altro che cambiare di posto,  dai  loro  luoghi  privilegiati     alle  vecchie  scuderie  trasformate in depositi di saldi,  mentre gli     spazi liberati,  così come diceva lui,  incominciavano a riempirsi  di     nuovo,  a  straboccare di cose che vivevano un attimo e poi andavano a     morire negli armadi: fino al prossimo falò.  Lei diceva: «Bisognerebbe     inventare qualcosa da fare con le cose che non servono a niente ma che     non  si  possono  neanche  buttare via».  Era così: la terrorizzava la     voracità con cui gli oggetti invadevano gli spazi vivibili,  spostando     gli  esseri  umani,  spingendoli negli angoli,  finché Fermina Daza li     metteva dove non si vedevano.  Perché non era tanto ordinata quanto si     credeva  ma  aveva un metodo suo e disperato per sembrarlo: nascondeva     il  disordine.   Il  giorno  in  cui  morì  Juvenal  Urbino  dovettero     sbarazzare  metà dello studio e ammucchiare tutte le cose nelle stanze     da letto per avere uno spazio dove poterlo vegliare.
    Il passaggio della morte in casa le  diede  la  soluzione.  Una  volta     bruciata la roba del marito,  Fermina Daza si accorse che il polso non     le aveva tremato,  e con lo stesso stimolo continuò  ad  accendere  il     falò  ogni tanto,  buttandoci dentro di tutto,  sia vecchio che nuovo,     senza pensare all'invidia dei ricchi né  alla  cattiva  coscienza  dei     poveri  che  morivano  di  fame.  Infine,  fece  tagliare  alle radici     l'albero di mango finché non restò nessuna traccia della disgrazia,  e     regalò  il  pappagallo  vivo  al nuovo Museo della Città.  Solo allora     respirò a suo piacimento in una  casa  come  sempre  l'aveva  sognata:     ampia, facile e sua.
    Ofelia,  la figlia, rimase con lei tre mesi e poi tornò a New York. Il     figlio portava i suoi a pranzo in famiglia tutte le domeniche  e  ogni     volta  che  poteva  durante  la  settimana.  Le  amiche più strette di     Fermina Daza incominciarono a venirla a trovare una volta superata  la     crisi  del  lutto,  e  giocavano  a  carte  davanti  al patio spelato,     sperimentavano nuove ricette di  cucina,  la  informavano  sulla  vita     segreta  del mondo insaziabile che continuava a esistere senza di lei.     Una  delle  più   assidue   fu   Lucrecia   del   Real   del   Obispo,     un'aristocratica all'antica con cui mantenne sempre una buona amicizia     e che le si fece più vicina dalla morte di Juvenal Urbino.  Tormentata     dall'artrite e pentita del suo cattivo vivere,  Lucrecia del  Real  le     faceva allora non solo la miglior compagnia ma la consultava anche sui     progetti  civici  e  mondani che si preparavano in città,  e questo la     faceva sentire utile di per sé  e  non  per  l'ombra  protettrice  del     marito.  Tuttavia  mai  come  allora  la  si identificò tanto con lui,     perché le tolsero il  nome  da  signorina  con  cui  l'avevano  sempre     chiamata, e incominciò a essere la vedova di Urbino.
    Le   sembrava   inconcepibile,   però   più  si  avvicinava  il  primo     anniversario della morte  del  marito  più  Fermina  Daza  si  sentiva     entrare  in  un ambiente ombreggiato,  fresco,  silenzioso: la foresta     dell'irrimediabile.  Non era ancora molto conscia,  né lo fu per  vari     anni,  di  quanto  la  aiutarono a ricuperare la pace dello spirito le     meditazioni scritte di Florentino Ariza.  Furono esse,  applicate alle     sue  esperienze,  a  permetterle  di  capire  la sua propria vita e ad     attendere con serenità i  disegni  della  vecchiaia.  L'incontro  alla     messa  di commemorazione fu un'occasione provvidenziale per far capire     a Florentino Ariza che anche lei, grazie alle sue lettere di sollievo,     era disposta a cancellare il passato.
    Due giorni dopo ricevette da lui una lettera diversa: scritta a  mano,     in carta di lino,  e con il suo nome completo da mittente molto chiaro     sul dorso della busta.  Era la stessa calligrafia fiorita delle  prime     lettere,  la stessa volontà lirica, ma applicate a un periodo semplice     di gratitudine per la deferenza del saluto nella  cattedrale.  Fermina     Daza  continuò  a pensarci con le nostalgie perturbate per vari giorni     dopo averla letta e con  la  coscienza  così  pulita  che  il  giovedì     successivo domandò a Lucrecia del Real del Obispo, senza che capitasse     a  proposito,  se per caso conosceva Florentino Ariza,  il padrone dei     battelli del fiume.  Lucrecia rispose di sì: «Pare che sia un  succubo     perso».  Le  ripeté  la versione corrente che non aveva mai conosciuto     una donna,  pur essendo un così buon partito,  e che  aveva  un  posto     segreto  per  portarci  i  bambini  che inseguiva di notte per i moli.     Fermina Daza aveva sentito questa diceria fin da quando aveva  memoria     e  non  l'aveva mai creduta né le aveva dato importanza.  Ma quando la     sentì ripetere con tanta convinzione da Lucrecia del Real del  Obispo,     della quale pure si era detto un tempo che fosse di gusti strani,  non     poté resistere all'affanno di  mettere  le  cose  al  loro  posto.  Le     raccontò di conoscere Florentino Ariza fin da bambino.  Le ricordò che     sua madre aveva una merceria in Calle de las Ventanas  e  che  in  più     comprava  camicie  e lenzuola vecchie per sfilacciarle e venderle come     cotone d'emergenza durante le guerre civili. E concluse con sicurezza:     «E' gente onorata,  che si è  fatta  da  sé».  Fu  così  veemente  che     Lucrecia  ritirò  quanto  aveva detto: «In fin dei conti,  anche di me     dicono la  stessa  cosa».  Fermina  Daza  non  ebbe  la  curiosità  di     domandarsi  perché facesse una difesa così appassionata di un uomo che     era stato solo un'ombra nella sua vita.  Continuò  a  pensare  a  lui,     soprattutto  quando  arrivava  la  posta  senza  nuove lettere.  Erano     trascorse due settimane di silenzio,  quando una domestica la  svegliò     dalla siesta con un sussurro allarmato.
    «Signora» le disse, «c'è qui don Florentino.»
    Era  lì.  La  prima  reazione  di Fermina Daza fu di panico.  Riuscì a     pensare di no,  che tornasse un altro giorno a un'ora più appropriata,     che non era in condizione di ricevere visite,  che non c'era niente di     cui parlare.  Ma si riprese subito e diede ordine di farlo passare  in     sala  e  di  portargli un caffè mentre lei si sistemava per riceverlo.     Florentino Ariza aveva aspettato sulla porta della  strada,  bruciando     sotto  il sole infernale delle tre ma controllando la situazione.  Era     preparato a non essere ricevuto,  anche se con una  scusa  amabile,  e     quella certezza lo manteneva tranquillo. Ma la decisione del messaggio     lo sconvolse fino al midollo, ed entrando nell'ombra fresca della sala     non  ebbe  il tempo di pensare al miracolo che stava vivendo perché le     viscere gli si riempirono immediatamente  di  un'esplosione  di  spuma     dolorosa.  Si sedette senza respirare, assediato dal ricordo maledetto     della cagata di uccello sulla  sua  prima  lettera  d'amore,  e  restò     immobile  nella  penombra  finché passava la prima raffica di brividi,     deciso ad accettare qualsiasi disgrazia in quel momento all'infuori di     quel contrattempo ingiusto.
    Si conosceva bene: nonostante la sua stitichezza congenita,  il ventre
    lo aveva tradito in pubblico tre o quattro volte nei suoi ultimi anni,     e  le  tre  o  quattro  volte aveva dovuto arrendersi.  Solo in quelle     occasioni,  e in altre altrettanto urgenti,  si  rendeva  conto  della     verità  di una frase che amava ripetere per scherzo: «Non credo in Dio     ma ne ho paura».  Non fece a tempo a  metterlo  in  dubbio:  cercò  di     pregare  qualsiasi orazione si ricordasse ma non ne trovò una.  Quando     era bambino, un altro bambino gli aveva insegnato delle parole magiche     per riuscire a colpire un uccellino con un sasso: «Taro Taro se non ti     becco ti sparo». L'aveva sperimentata quando era andato in montagna la     prima volta, con una nuova fionda, e l'uccellino era caduto fulminato.     In un modo confuso pensò che una cosa avesse qualcosa a che vedere con     l'altra, e ripeté la formula con un fervore da preghiera,  ma non fece     lo  stesso  effetto.  Un  contorcimento  delle budella come un asse di     spirale lo fece alzare dalla sedia, la spuma del suo ventre sempre più     densa e dolorosa emise un gemito e lo  lasciò  coperto  di  un  sudore     gelido.  La  domestica che gli portava il caffè si spaventò per la sua     aria da morto.  Lui sospirò: «E' il  caldo».  Lei  aprì  la  finestra,     credendo  di  fargli  piacere,  ma il sole del pomeriggio gli batté in     pieno sulla faccia e dovettero chiuderla di nuovo.  Lui  aveva  capito     che  non  ce  l'avrebbe  fatta un minuto di più quando apparve Fermina     Daza quasi invisibile nella penombra e si spaventò di  vederlo  in  un     simile stato.
    «Può togliersi la giacca» gli disse.
    Più  del  contorcimento  mortale,  gli  avrebbe  fatto  male  che  lei     riuscisse a sentire il  borbottio  delle  sue  budella.  Ma  riuscì  a     sopravvivere  un istante solo per dirle di no,  che era solo passato a     chiederle quando potesse farle visita. Lei, in piedi, sconcertata, gli     disse: «Dato che è qui».  E lo invitò a seguirla  nella  terrazza  del     patio dove faceva meno caldo. Lui rifiutò con una voce che a lei parve     più che altro un sospiro penoso.     «La prego che sia domani» disse.
    Lei si ricordò che domani era giovedì, giorno della visita puntuale di     Lucrecia del Real del Obispo,  e gli diede una risposta inappellabile:     «Dopodomani alle cinque».  Florentino Ariza la ringraziò,  le fece  un     saluto  d'emergenza  con  il  cappello  e  se  ne  andò  senza neanche     assaggiare il caffè.  Lei restò perplessa al centro della sala,  senza     capire  che  cosa  fosse  appena successo,  finché svanì in fondo alla     strada lo scoppiettio dell'automobile.  Florentino Ariza cercò  allora     la posizione meno dolorosa sul sedile posteriore, socchiuse gli occhi,     allentò  i  muscoli  e  si  abbandonò alla volontà del corpo.  Fu come     rinascere.  L'autista,  che dopo tanti anni al  suo  servizio  non  si     sorprendeva  più  di  niente,  rimase impassibile.  Ma,  aprendogli la     portiera davanti al portone di casa, gli disse:
    «Stia attento, don Floro, sembra colera.»
    Era però il solito.  Florentino Ariza ringraziò Dio  il  venerdì  alle     cinque in punto quando la domestica lo condusse attraverso la penombra     della sala fino alla terrazza del patio e lì trovò Fermina Daza vicino     a un tavolinetto preparato per due persone. Gli offrì tè, cioccolata o     caffè. Florentino Ariza chiese caffè, molto caldo e molto forte, e lei     ordinò alla domestica: «Per me il solito». Il solito era un infuso ben     carico  di  diversi tipi di tè orientali che le sollevavano lo spirito     dopo la siesta.  Quando lei finì di armeggiare con la teiera e lui con     la  caffettiera,  ambedue  avevano già affrontato e interrotto diversi     argomenti,  non tanto perché davvero  gli  interessassero  quanto  per     eludere gli altri che né lui né lei osavano affrontare.  Erano tutti e     due intimiditi,  senza capire  di  essere  molto  lontani  dalla  loro     gioventù  sulla  terrazza  a  scacchi  di  una  casa di nessuno ancora     odorosa di fiori da cimitero.  Per la prima volta erano uno di  fronte     all'altro a così breve distanza e con abbastanza tempo per vedersi con     serenità  dopo mezzo secolo,  e tutti e due si erano visti come erano:     due vecchi pedinati dalla morte,  senza nulla in comune,  a  parte  il     ricordo  di un passato effimero che non era più loro ma di due giovani     spariti che avrebbero potuto essere loro nipoti.  Lei  pensò  che  lui     alla fine si sarebbe convinto dell'irrealtà del suo sogno e che questo     lo avrebbe redento della sua impertinenza.
    Per evitare silenzi scomodi o temi sgraditi lei fece domande ovvie sui     battelli fluviali. Non pareva vero che lui, che era il padrone, avesse     viaggiato solo una volta,  molti anni prima, quando non aveva niente a     che vedere con la compagnia.  Lei non ne conosceva  il  motivo  e  lui     avrebbe  dato  l'anima per dirglielo.  Neanche lei conosceva il fiume.     Suo marito aveva avversione per l'aria andina  e  la  dissimulava  con     svariate  motivazioni:  i  pericoli  dell'altitudine per il cuore,  il     rischio di una polmonite, la doppiezza della gente, le ingiustizie del     centralismo.  Così conoscevano mezzo mondo ma non conoscevano il  loro     paese.   Attualmente  c'era  un  idrovolante  Junkers  che  andava  di     villaggio in villaggio dal bacino di La Magdalena, come una cavalletta     di alluminio, con due persone di equipaggio, sei passeggeri e i sacchi     della posta.  Florentino Ariza commentò: «E' come una cassa  da  morto     volante».  Lei  aveva  partecipato  al  primo viaggio in pallone e non     aveva avuto nessuno spavento,  ma a stento si poteva credere che fosse     la  stessa che aveva osato una simile avventura.  Disse: «E' diverso».     Volendo dire che era lei quella  che  era  cambiata,  non  i  modi  di     viaggiare.
    A  volte la sorprendeva il rumore degli aerei.  Li aveva visti passare     molto bassi,  facendo evoluzioni  acrobatiche,  nel  centenario  della     morte del Libertador.  Uno di essi, nero come un avvoltoio enorme, era     passato sfiorando i tetti delle case di La Manga,  aveva  lasciato  un     pezzo  di  ala  su  un  albero vicino ed era rimasto attaccato ai fili     della  luce.   Però  neanche  così  Fermina  aveva  ancora  assimilato     l'esistenza  degli  aerei.  Neppure aveva avuto la curiosità di andare     negli ultimi anni fino all'insenatura di Manzanillo,  dove  ammaravano     gli  idrovolanti  dopo che le lance della dogana spaventavano le canoe     dei pescatori e le barche da divertimento,  sempre più numerose.  Così     vecchia  com'era  l'avevano scelta per accogliere con un mazzo di rose     Charles Lindbergh quando era venuto nel suo volo di buona  volontà,  e     non  aveva  capito  come potesse sollevarsi un uomo così grande,  così     biondo,  così bello,  dentro un  apparecchio  che  sembrava  di  latta     arrugginita  e  che  due  meccanici  avevano  spinto  per  la coda per     aiutarlo a salire.  L'idea che degli aerei che  non  erano  molto  più     grandi potessero portare otto persone non le entrava in testa.  Invece     aveva sentito dire che i battelli fluviali erano  una  delizia  perché     non rollavano come quelli di mare ma avevano altri pericoli più gravi,     come i banchi di sabbia e gli assalti dei briganti.
    Florentino  Ariza  le  spiegò che tutto quello erano leggende di altri     tempi: i battelli attuali avevano una sala da ballo, cabine così ampie     e lussuose come stanze d'albergo,  con  bagno  privato  e  ventilatori     elettrici,  e  fin  dall'ultima  guerra civile non c'erano più assalti     armati.  Le spiegò poi,  con la soddisfazione di un trionfo personale,     che  questi  progressi  si  dovevano  più  che  altro  alla libertà di     navigazione propugnata da lui,  che aveva  stimolato  la  concorrenza:     invece di un'unica compagnia,  come prima, ce c'erano tre molto attive     e  prospere.  Tuttavia  il  rapido  progresso  dell'aviazione  era  un     pericolo  reale  per  tutti.  Lei  cercò  di  consolarlo:  i  battelli     sarebbero esistiti sempre,  perché non erano molti i matti disposti  a     salire  su  un apparecchio che sembrava essere contro natura.  Infine,     Florentino Ariza parlò dei progressi della posta,  sia  nel  trasporto     che nella distribuzione,  cercando di farla parlare delle sue lettere.
    Ma non ci riuscì.
    Poco dopo,  però,  l'occasione venne da  sola.  Si  erano  allontanati     parecchio dal tema quando una domestica li interruppe per consegnare a     Fermina  Daza  una  lettera  ricevuta in quel momento tramite la posta     urbana speciale,  di  recente  creazione,  che  utilizzava  lo  stesso     sistema di distribuzione dei telegrammi.  Lei non riuscì a trovare gli     occhiali per leggere, come le capitava sempre. Florentino Ariza rimase     sereno.
    «Non sarà necessario» disse, «quella lettera è mia.»
    Era così.  L'aveva scritta il giorno prima,  in un terribile stato  di     depressione  per  non essere riuscito a superare la vergogna della sua     prima visita frustrata.  In essa  si  scusava  per  l'impertinenza  di     volerla  visitare  senza  previo permesso e desisteva dal proposito di     tornare. L'aveva imbucata senza pensarci due volte,  e quando ci aveva     riflettuto  era  troppo  tardi  per  recuperarla.   Tuttavia  non  gli     sembrarono necessarie tante spiegazioni,  ma chiese a Fermina Daza  il     favore di non leggerla.
    «Certo» disse lei. «In fin dei conti le lettere sono di chi le scrive.
    Non è vero?»
    Lui fece un passo fermo.
    «E'  così»  disse.  «Per  questo sono la prima cosa che si restituisce     quando c'è una rottura.»
    Lei tralasciò l'intenzione e gli restituì la lettera,  dicendo: «E' un     peccato  che  non  possa  leggerla,  perché  le  altre mi sono servite     molto».  Lui respirò profondo,  sorpreso che lei lo avesse detto in un     modo tanto più spontaneo di quanto si aspettasse,  e le disse: «Non si     immagina quanto mi faccia felice saperlo».  Ma lei cambiò argomento  e     lui non riuscì a riprenderlo.
    Si congedò dopo le sei,  quando incominciarono ad accendere le luci di     casa.  Si sentiva più sicuro ma  senza  troppe  illusioni  perché  non     dimenticava  il carattere volubile e le reazioni impreviste di Fermina     Daza a vent'anni,  e non aveva motivi per pensare che fosse  cambiata.     Per  questo  si  azzardò  a chiederle con un'umiltà sincera se avrebbe     potuto tornare un altro giorno, e la risposta lo sorprese di nuovo.     «Torni quando vuole» disse lei. «Sono quasi sempre sola.»     Quattro giorni dopo,  il martedì,  tornò senza preavviso,  e  lei  non     aspettò  che  servissero  il  tè  per  parlargli  di quanto le fossero     servite le sue lettere.  Lui disse che  non  erano  lettere  in  senso     stretto  ma  fogli  volanti  di  un  libro  che  gli  sarebbe piaciuto     scrivere.  Anche  lei  l'aveva  intesa  così.  Tanto  che  pensava  di     restituirgliele,  se  non  lo prendeva come un affronto,  perché desse     loro un miglior destino.  Continuò a parlare del bene che  le  avevano     fatto  nel  duro  frangente  che stava vivendo,  e lo faceva con tanto     entusiasmo,  con tanta  gratitudine,  forse  con  tanto  affetto,  che     Florentino  Ariza si azzardò a fare qualcosa di più di un passo fermo:     un salto mortale.
    «Prima ci davamo del tu» disse.
    Era una parola proibita: "prima". Lei sentì passare l'angelo chimerico     del passato,  e cercò di scansarlo.  Ma lui andò più a fondo:  «Voglio     dire,  nelle nostre lettere di prima». Lei si infastidì e dovette fare     uno sforzo serio perché non lo si notasse. Ma lui se ne accorse e capì     di dover avanzare con maggior tatto,  anche se l'inciampo gli  insegnò     che lei continuava a essere tanto selvatica come quando era giovane ma     che aveva imparato a esserlo con dolcezza.
    «Voglio  dire»  disse  lui,  «che  queste  lettere sono una cosa molto     diversa.»
    «Tutto è cambiato nel mondo» disse lei.
    «Io no» disse lui. «E lei?»
    Lei restò con la seconda tazza di tè a metà strada e lo rimproverò con     degli occhi che erano sopravvissuti all'inclemenza.
    «Ormai fa lo stesso» disse. «Ho appena compiuto settantadue anni.»     Florentino Ariza ricevette il colpo in mezzo  al  cuore.  Gli  sarebbe     piaciuto  trovare  una  risposta  con  la  rapidità e l'istinto di una     saetta ma lo vinse il peso dell'età:  non  si  era  mai  sentito  così     spossato con una conversazione così breve, gli faceva male il cuore, e     ogni  battito  si  ripercuoteva  con una risonanza metallica nelle sue     arterie.  Si sentì vecchio,  triste,  inutile,  e con  una  voglia  di     piangere così forte che non riuscì più a parlare.  Finirono la seconda     tazza in un silenzio solcato da presagi,  e quando  lei  ricominciò  a     parlare  fu per chiedere a una domestica di portarle la cartella delle     lettere. Lui fu sul punto di chiederle di tenersele per sé,  perché ne     aveva  fatto copie con carta carbone,  ma pensò che questa precauzione     sarebbe sembrata poco nobile.  Non c'era più  nulla  di  cui  parlare.     Prima  di congedarsi,  lui suggerì di tornare il prossimo martedì alla     stessa ora. Lei si chiese se dovesse essere tanto condiscendente.
    «Non vedo che senso avrebbero tante visite» disse.
    «Non avevo pensato che ne avessero qualcuno» disse lui.     Così tornò il martedì alle cinque,  e poi tutti i martedì  successivi,     senza  la convenzione dell'avviso,  perché le visite settimanali erano     entrate a far parte della routine  di  tutti  e  due  dopo  due  mesi.     Florentino Ariza portava gallettine inglesi per il tè, marrons glacés,     olive greche,  piccole squisitezze che trovava sui transatlantici.  Un     martedì le portò la copia della fotografia di lei e Hildebranda, fatta     dal fotografo belga più di mezzo secolo prima,  che lui aveva comprato     per  quindici  centesimi a una liquidazione di cartoline del Portal de     los Escribanos.  Fermina Daza non riuscì a capire come potesse  essere     arrivata  fino  a  lì,  né  lui  poté  capirlo se non come un miracolo     dell'amore. Una mattina, mentre tagliava alcune rose del suo giardino,     Florentino Ariza non poté resistere alla  tentazione  di  portargliene     una alla prossima visita.  Fu un problema difficile nel linguaggio dei     fiori trattandosi di una vedova da poco tempo. Una rosa rossa, simbolo     di una passione infiammata,  poteva essere offensiva per il suo lutto.     Le  rose  gialle,  che  in  un'altra  lingua erano i fiori della buona     fortuna,  erano un'espressione di gelosia nel vocabolario comune.  Una     volta gli avevano parlato delle rose nere di Turchia,  che forse erano     le più indicate,  ma non era riuscito a trovarle per acclimatarle  nel     suo  patio.  Dopo molto pensare si arrischiò con una rosa bianca,  che     amava meno delle altre,  perché insipide e mute: non dicevano  niente.
    All'ultimo  momento,  nel  caso  che Fermina Daza avesse la malizia di     attribuire loro qualche significato, le tolse le spine.
    Fu bene accolta,  come un regalo senza intenzioni occulte,  e così  si     arricchì il rituale dei martedì.  Tanto che quando lui arrivava con la     rosa bianca  era  già  pronto  il  vaso  con  l'acqua  al  centro  del     tavolinetto del tè.  Un martedì,  mettendoci la rosa,  lui disse in un     modo che sembrasse casuale:
    «Ai nostri tempi non si portavano rose ma camelie.»
    «Certo» disse lei, «ma l'intenzione era un'altra, e lei lo sa.»
    Fu sempre così: lui cercava di avanzare e lei gli chiudeva  il  passo.
    Ma  in questa occasione,  nonostante la risposta puntuale,  Florentino     Ariza si accorse di avere colpito nel segno;  infatti lei fu obbligata     a  girare  la  faccia perché non le si notasse il rossore.  Un rossore     ardente, giovanile,  con vita propria,  la cui impertinenza le rinnovò     il  fastidio  verso  se  stessa.  Florentino  Ariza fu molto attento a     deviare verso altri temi meno scabrosi,  ma la sua gentilezza fu  così     evidente che lei si seppe scoperta, e questo aumentò la sua rabbia. Fu     un cattivo martedì. Lei quasi gli chiese di non tornare più, ma l'idea     di  una  lite  da  fidanzati  le  sembrò così ridicola all'età e nella     situazione di tutti e due,  da  provocarle  un  accesso  di  risa.  Il     martedì  dopo,  quando Florentino Ariza metteva la rosa nel vaso,  lei     investigò la sua coscienza e rilevò contenta che dalla settimana prima     non le restava neanche il minimo residuo di risentimento.
    Le visite  incominciarono  ad  acquistare  molto  presto  una  scomoda     ampiezza  familiare,  perché  il  dottor  Urbino  Daza  e  sua  moglie     comparivano a volte come per caso e si fermavano a  giocare  a  carte.     Florentino  Ariza  non sapeva giocare ma Fermina glielo insegnò in una     sola visita, e tutti e due mandarono alla coppia Urbino Daza una sfida     per iscritto per il martedì successivo.  Erano incontri così gradevoli     per tutti che si ufficializzarono con tanta rapidità come le visite, e     vennero  stabilite norme per i contributi di ognuno.  Il dottor Urbino     Daza e sua moglie,  che era un'eccellente  pasticciera,  contribuivano     con torte originali,  ogni volta diverse.  Florentino Ariza continuò a     portare le curiosità che trovava sulle navi europee, e Fermina Daza si     ingegnava per trovare ogni settimana una sorpresa nuova.  I tornei  si     giocavano  il  terzo martedì di ogni mese,  e non si facevano poste in     denaro ma al perdente veniva imposto un  contributo  speciale  per  la     partita successiva.
    Il dottor Urbino Daza corrispondeva alla sua immagine pubblica: era di     poche  risorse,  di  modi  torpidi,  e  soffriva  di alcuni improvvisi     soprassalti,  sia di contentezza che di disgusto,  e di alcuni rossori     inopportuni che facevano temere per la sua forza mentale. Ma era senza     dubbio,  e  lo  si notava troppo a prima vista,  quello che Florentino     Ariza temeva maggiormente che si dicesse di  lui:  un  brav'uomo.  Sua     moglie,  invece,  era  vivace  e  con un che di popolare,  opportuno e     astuto,  che dava un tocco più umano alla sua eleganza.  Non si poteva     desiderare  una  coppia migliore per giocare a carte,  e l'insaziabile     bisogno d'amore di Florentino Ariza restò  colmato  dall'illusione  di     sentirsi in famiglia.
    Una  sera,  quando uscivano insieme dalla casa,  il dottor Urbino Daza     gli chiese di pranzare con lui: «Domani, alle dodici e mezzo in punto,     al Club Social».  Era un godimento squisito con un vino avvelenato: il     Club  Social si riservava il diritto di ammissione per diversi motivi,     e uno di quelli più importanti era la condizione di  figlio  naturale.     Lo zio León Dodicesimo aveva avuto esperienze irritanti in quel senso,     e lo stesso Florentino Ariza aveva patito la vergogna che lo facessero     uscire  quando  già  era  seduto  a  tavola,  su  invito  di  un socio     fondatore.  Questi,  cui Florentino Ariza faceva favori difficili  nel     commercio  fluviale,  non ebbe altra soluzione che portarlo a mangiare     da un'altra parte.
    «Noi che facciamo i regolamenti siamo quelli più obbligati a seguirli»     gli disse.
    Ciononostante,  Florentino Ariza corse il rischio con il dottor Urbino     Daza  e  fu  ricevuto  con  un trattamento speciale,  anche se non gli     chiesero di firmare il libro d'oro degli invitati degni  di  nota.  Il     pranzo fu breve,  di loro due soli,  e passò in tono minore.  I timori     che  inquietavano   Florentino   Ariza   dal   pomeriggio   precedente     relativamente  a  quell'incontro  si  dissiparono  con il bicchiere di     porto dell'aperitivo.  Il dottor Urbino Daza voleva parlargli  di  sua     madre.  Dal  molto che gli disse,  Florentino Ariza si accorse che lei     aveva parlato di lui.  E qualcosa di ancora  più  sorprendente:  aveva     mentito  a  suo  favore.  Gli  aveva raccontato che erano amici fin da     bambini,  che giocavano insieme fin da quando lei era arrivata da  San     Juan  de la Ciénaga,  che era lui quello che l'aveva iniziata alle sue     prime letture,  cosa per cui gli serbava una vecchia gratitudine.  Gli     aveva detto anche che spesso,  quando lei usciva dalla scuola, passava     parecchie ore con Tránsito  Ariza  a  fare  prodigi  di  ricamo  nella     merceria,  perché  era  una  maestra  notevole,  e  che  se  non aveva     continuato a vedere Florentino Ariza con la stessa frequenza  non  era     stato per sua scelta ma per la diversità delle loro vite.
    Prima  di  arrivare in fondo ai suoi propositi,  il dottor Urbino Daza     fece qualche divagazione sulla vecchiaia. Pensava che il mondo sarebbe     andato più velocemente senza l'impaccio dei vecchi. Disse: «L'umanità,     come gli eserciti in campagna,  avanza alla velocità del  più  lento».     Prevedeva un futuro più umanitario,  e quindi più civilizzato,  in cui     gli esseri umani fossero isolati in città ai margini di quelle in  cui
    non potessero valersi di se stessi,  per evitare loro la vergogna,  le     sofferenze,  la solitudine spaventosa della vecchiaia.  Dal  punto  di     vista medico,  secondo lui,  il limite potevano essere i sessant'anni.     Ma finché non si arrivava a quel grado di  carità,  l'unica  soluzione     erano  i  ricoveri,  dove  gli  anziani si consolavano gli uni con gli     altri,  si identificavano nei loro gusti e nelle loro avversioni,  nei     loro  vizi e nelle loro tristezze,  salvo le discordie naturali con le     generazioni successive.  Disse:  «I  vecchi,  fra  vecchi,  sono  meno     vecchi».  Anzi:  il  dottor  Urbino Daza voleva ringraziare Florentino     Ariza per la buona compagnia che faceva a sua madre  nella  solitudine     della  vedovanza,  lo  supplicava di continuare a farlo per il bene di     tutti e due e per la comodità di tutti, e di avere pazienza con i suoi     umori senili.  Florentino Ariza si sentì sollevato per la  conclusione     dell'incontro.  «Stia  tranquillo» gli disse.  «Ho quattro anni più di     lei,  e non solo adesso,  ma da prima,  da molto prima che  lei  fosse     nato.»  Poi  cedette  alla  tentazione  di  sfogarsi  con una punta di     ironia.
    «Nella società del futuro» concluse,  «lei adesso dovrebbe  andare  al     camposanto, a portare a lei e a me un ramo di anturii per pranzo.»     Il  dottor  Urbino  Daza  non aveva ancora rimediato alla sconvenienza     della  sua  profezia,  e  si  addentrò  in  un  passaggio  stretto  di     spiegazioni che finirono col prenderlo nella rete. Ma Florentino Ariza     lo  aiutò a uscirne.  Era raggiante,  perché sapeva che presto o tardi     avrebbe avuto un incontro come quello con il dottor Urbino  Daza,  per     accondiscendere  a  un  requisito  sociale  inevitabile:  la richiesta     formale della mano di sua madre.  Il pranzo fu molto incoraggiante non     solo  per  lo stesso motivo ma perché gli dimostrò quanto facile e ben     accolta sarebbe stata quella richiesta inesorabile.  Se avesse  potuto     contare sul consenso di Fermina Daza,  nessuna occasione sarebbe stata     più propizia.  E ancora: dopo quello di cui avevano  parlato  in  quel     pranzo   storico,   il   formalismo   della  sollecitudine  ne  usciva     sovrabbondante.
    Florentino  Ariza  saliva  e  scendeva  le  scale  con   un'attenzione     speciale, fin da giovane, perché aveva sempre pensato che la vecchiaia     incominciava con una prima caduta senza importanza e la morte arrivava     con  la  seconda.  La  più  pericolosa  di tutte le scale gli sembrava     quella dei suoi uffici,  perché ripida e angusta,  e da molto prima di     doversi  sforzare  a  non  trascinare i piedi la saliva ben attento ai     gradini e attaccato alla ringhiera con tutte e due le mani. Spesso gli     avevano suggerito di cambiarla con un'altra scala meno pericolosa,  ma     la  decisione  restava sempre per il mese dopo,  perché a lui sembrava     una concessione alla vecchiaia. Più passavano gli anni più indugiava a     salire,  non perché gli costasse più fatica,  come lui si affrettava a     spiegare, ma perché ogni volta saliva con più attenzione. Tuttavia, il     pomeriggio  in cui ritornò dal pranzo con il dottor Urbino Daza,  dopo     il bicchiere di porto dell'aperitivo e mezza bottiglia di  vino  rosso     con il pranzo e soprattutto dopo la conversazione trionfale,  cercò di     raggiungere il terzo gradino con un passo da balletto  così  giovanile     che  si  storse la caviglia sinistra,  cadde di schiena e per miracolo     non si ammazzò. Nel momento in cui cadeva ebbe abbastanza lucidità per     pensare che non  sarebbe  morto  di  quell'inciampo,  perché  non  era     possibile  nella  logica  della  vita che due uomini che avevano amato     tanto per tanti anni la stessa donna potessero morire allo stesso modo     con un  solo  anno  di  differenza.  Aveva  ragione.  Gli  misero  uno     stivaletto  di  gesso  dal piede al polpaccio e lo obbligarono a stare     immobile a letto, ma continuò a essere più vivo di prima della caduta.     Quando il medico gli ordinò i sessanta giorni di invalidità non riuscì     a credere a tanta infelicità.
    «Non mi faccia questo,  dottore» lo implorò.  «Due mesi dei miei  sono     come dieci anni dei suoi.»
    Varie  volte cercò di alzarsi prendendo a due mani la gamba da statua,     e sempre lo vinse la realtà. Ma quando alla fine tornò a camminare con     la caviglia ancora dolorante e la schiena in carne viva ebbe motivi in     più per credere che il destino avesse premiato la sua perseveranza con     una caduta provvidenziale.
    Il suo giorno peggiore fu il primo lunedì.  Il dolore era andato via e     la  prognosi  medica  era  molto  incoraggiante ma lui si rifiutava di     accettare  il  destino  di  non  vedere  Fermina  Daza  il  pomeriggio     successivo,  per la prima volta in quattro mesi.  Ciononostante,  dopo     una siesta di rassegnazione si sottomise alla realtà e le  scrisse  un     biglietto  di  scuse.  Lo scrisse a mano,  su carta profumata e con un     inchiostro  luminoso  per  leggerlo   nell'oscurità,   e   drammatizzò     spudoratamente  la gravità dell'incidente cercando di suscitare la sua     compassione.  Lei gli rispose due giorni dopo,  molto commossa,  molto     amabile,  ma senza una parola in più o in meno, come nei grandi giorni     dell'amore.  Lui prese al volo l'occasione e le riscrisse.  Quando lei     gli  rispose  per  la  seconda  volta,  lui decise di andare molto più     lontano delle conversazioni cifrate dei martedì e si  fece  installare     un telefono vicino al letto con il pretesto di controllare l'andamento     quotidiano della compagnia. Chiese all'operatrice centrale di metterlo     in  comunicazione  con  il numero di tre cifre che sapeva a memoria da     quando aveva chiamato la prima volta. La voce dai toni smorzati,  tesa     per  il  mistero  della  distanza,  la  voce amata rispose,  riconobbe     l'altra voce e si congedò dopo  tre  frasi  convenzionali  di  saluto.     Florentino  Ariza restò sconsolato per la sua indifferenza: ancora una     volta erano daccapo.
    Due giorni dopo, però, ricevette una lettera di Fermina Daza in cui lo     pregava di non chiamarla più.  Le sue ragioni  erano  valide.  C'erano     così   pochi  telefoni  nella  città  che  la  comunicazione  avveniva     attraverso un'operatrice che conosceva tutti  gli  abbonati,  la  loro     vita  e  i  loro  miracoli,  e  non importava se non erano in casa: li     trovava dovunque fossero.  In cambio di tanta efficacia,  continuava a     tenersi  informata  sulle  chiacchiere,  scopriva i segreti della vita     privata,  i drammi meglio nascosti,  e non di rado interveniva  in  un     dialogo  per introdurre il suo punto di vista o per calmare gli animi.     D'altra  parte,   nel  corso  di  quell'anno  era  stata  fondata  "La     Justicia",  un giornale della sera la cui unica finalità era fustigare     le famiglie coi cognomi lunghi,  mettendo nomi propri e  senza  nessun     genere  di rispetto,  come rappresaglia del proprietario perché i suoi     figli non erano stati ammessi al Club Social.  Nonostante  la  pulizia     della  sua  vita,  Fermina Daza stava più che mai attenta a quello che     diceva o faceva,  anche con le  sue  amicizie  intime.  Così  continuò     legata  a  Florentino  Ariza dal filo anacronistico delle lettere.  La     corrispondenza di andata e ritorno arrivò a essere  così  frequente  e     intensa  che lui si dimenticò della sua gamba,  del castigo del letto,     si dimenticò di tutto,  e si consacrò completamente a scrivere  su  un     tavolino  portatile,  di  quelli  che si usavano negli ospedali per il     pranzo dei malati.
    Tornarono a darsi del tu,  tornarono a scambiarsi commenti sulle  loro     vite come nelle lettere di prima, ma Florentino Ariza cercò ancora una     volta di andare con troppa fretta: scrisse il nome di lei con punte di     spillo  sui  petali di una camelia e gliela mandò in una lettera.  Due     giorni dopo la ricevette indietro senza nessun commento.  Fermina Daza     non poteva farne a meno: tutte quelle le sembravano cose da bambini. E     ancora  di  più  quando  Florentino  Ariza insistette a evocare i suoi     pomeriggi di versi melanconici nel giardinetto de  Los  Evangelios,  i     nascondigli  delle  lettere  lungo il cammino per andare a scuola,  le     lezioni di ricamo sotto i mandorli. Con il dolore nell'anima,  lo mise     al  suo  posto  con una domanda che sembrava casuale in mezzo ad altri     commenti comuni: «Perché insisti a parlare di quello che non esiste?».     Più tardi gli rimproverò la cocciutaggine  sterile  di  non  lasciarsi     invecchiare con naturalezza.  Quella era,  secondo lei, la causa della     sua precipitazione,  dei suoi  rovesci  costanti  nell'evocazione  del     passato.  Non  capiva  come  un uomo capace di fare le riflessioni che     tanto sostegno  le  avevano  dato  per  sopportare  la  vedovanza,  si     imbrogliasse  in quel modo infantile quando cercava di applicarle alla     sua stessa vita.  Le parti si invertirono.  Allora fu lei a cercare di     infondergli nuovo coraggio per vedere il futuro con una frase che lui,     nella  sua fretta sventata,  non seppe decifrare: "Lascia che il tempo     passi e vedremo quello che ci porta".  Perché non fu mai un così  buon     allievo  come lei.  L'immobilità forzata,  la certezza ogni giorno più     lucida della fugacità del tempo, le voglie folli di vederla, tutto gli     dimostrava come i suoi timori della caduta fossero stati più  certi  e     tragici del previsto.  Per la prima volta incominciò a pensare in modo     razionale alla realtà della morte.
    Leona Cassiani lo aiutava a fare il bagno e  a  cambiarsi  il  pigiama     ogni due giorni,  gli faceva i clisteri,  gli metteva la padella,  gli     applicava compresse di arnica sulle ulcere della schiena,  gli  faceva     massaggi  per  consiglio  medico  per  evitare  che  l'immobilità  gli     provocasse altri mali peggiori.  I sabati e le domeniche  le  dava  il     cambio América Vicuña,  che nel dicembre di quell'anno doveva ricevere     il suo diploma di maestra.  Lui le aveva promesso  di  mandarla  a  un     corso  superiore  in  Alabama  per conto della compagnia fluviale,  in     parte per imbavagliare  la  coscienza  e  soprattutto  per  non  dover     affrontare  i  rimproveri  che  lei  non  sapeva  come  fare,   né  le     spiegazioni che  lui  le  doveva.  Non  si  immaginò  mai  quanto  lei     soffrisse  nelle  sue  insonnie nel convitto,  nei suoi fine settimana     senza di lui,  nella sua vita senza di lui,  perché  non  si  era  mai     immaginato  quanto  lo  amasse.  Sapeva  da  una lettera ufficiale del     collegio  che  dal  primo  posto  che  occupava  sempre  era   passata     all'ultimo, e stava per essere bocciata agli esami finali. Ma eluse il     suo dovere di tutore: non riferì niente ai genitori di América Vicuña,     impedito  da  un  senso di colpa che cercava di togliere di mezzo,  né     fece commenti tantomeno  con  lei,  per  un  timore  ben  fondato  che     intendesse  coinvolgerlo nel suo insuccesso.  Così lasciò le cose come     stavano. Senza accorgersene,  incominciava a differire i suoi problemi     con la speranza che li risolvesse la morte.
    Non  solo  le  due  donne  che  si  occupavano  di  lui,  ma lo stesso     Florentino Ariza,  si sorprendevano di  quanto  fosse  cambiato.  Solo     dieci  anni  prima aveva assalito una delle sue domestiche dietro alla     scala principale della casa, vestita e in piedi, e in meno tempo di un     gallo filippino l'aveva lasciata in  stato  di  grazia.  Aveva  dovuto     regalarle  una  casa  ammobiliata perché giurasse che l'autore del suo     disonore era stato un fidanzato domenicale  che  non  l'aveva  neanche     baciata,  e il padre e i suoi zii, che erano buoni tagliatori di canna     da zucchero, li obbligarono a sposarsi. Non pareva possibile che fosse     lo stesso uomo,  quello che palpeggiavano al dritto e al rovescio  due     donne  che  solo  qualche mese prima lo facevano tremare d'amore,  che     insaponavano in su e in giù,  lo asciugavano con salviette  di  cotone     egiziano  e  gli  massaggiavano  tutto il corpo senza che emettesse un     sospiro di turbamento. Ognuno aveva una spiegazione diversa per la sua     inappetenza. Leona Cassiani pensava che fossero i preludi della morte.
    América Vicuña gli attribuiva un'origine occulta il  cui  disegno  non     riusciva  a  sviscerare.  Solo  lui sapeva la verità,  e aveva un nome     proprio.  In ogni modo non era giusto: soffrivano più loro a  servirlo     che lui a essere così ben servito.
    Solo  tre  martedì  furono  sufficienti  a Fermina Daza per accorgersi     quanto le mancassero le visite di  Florentino  Ariza.  Se  la  passava     molto  bene  con  le  amiche  assidue,  meglio  ancora più il tempo la     allontanava dalle abitudini del marito.  Lucrecia del Real del  Obispo     era  andata a Panama a farsi visitare per un dolore d'orecchio che non     cedeva a nulla,  e ritornò dopo un mese molto  sollevata  ma  sentendo     meno  di  prima con un cornetto che si metteva nell'orecchio.  Fermina     Daza era l'amica che tollerava meglio le sue confusioni di  domande  e     risposte,  e  questo  stimolava  tanto  Lucrecia che quasi non passava     giorno che non apparisse lì a qualsiasi ora.  Ma Fermina Daza non poté     sostituire con nessuno i pomeriggi riposanti con Florentino Ariza.     La  memoria del passato non redimeva il futuro,  come lui continuava a     credere.  Anzi: rinforzava la  convinzione,  che  Fermina  Daza  aveva     sempre  avuto,  che quello sconvolgimento febbrile dei vent'anni fosse     stato qualcosa di molto nobile e molto bello, ma non amore. Nonostante     la sua franchezza cruda non aveva intenzione di rivelarglielo  né  per     posta  né  di persona,  né aveva il coraggio di dirgli quanto falsi le     suonassero i sentimentalismi delle sue lettere dopo aver conosciuto il     prodigio di consolazione delle  sue  meditazioni  scritte,  quanto  lo     svalutassero  le sue bugie liriche e quanto pregiudicasse la sua causa     l'insistenza maniacale di riscattare  il  passato.  No:  nessuna  riga     delle  sue  lettere  di  una  volta  né alcun momento della sua stessa     gioventù odiata le avevano fatto sentire che i pomeriggi di un martedì     potessero essere così lunghi come in realtà lo  erano  senza  di  lui,     così solitari e irripetibili senza di lui.
    In  uno dei suoi impeti di riordino,  lei aveva mandato nelle scuderie     la radiolina che suo  marito  le  aveva  regalato  per  uno  dei  suoi     compleanni,  e  che  tutti  e due avevano pensato di regalare al museo     perché era stata la prima che era arrivata in città.  Nelle ombre  del     suo  dolore aveva deciso di non tornare a usarla perché una vedova coi     suoi cognomi non poteva sentire musica di nessun tipo senza  offendere     la memoria del morto, anche se nell'intimità. Ma dopo il terzo martedì     di  solitudine la fece portare di nuovo in sala,  non per godere delle     canzoni sentimentali dell'emittente di Riobamba,  come prima,  ma  per     riempire  le sue ore morte con le "novelas" lacrimevoli di Santiago de     Cuba.  Fu  un  successo,  perché  quando  era  nata  la  figlia  aveva     incominciato  a  perdere  l'abitudine  della lettura che suo marito le     aveva inculcato con tanto impegno fin dal viaggio di nozze,  e con  la     stanchezza progressiva della vista l'aveva perduta del tutto, al punto
    che passavano mesi senza che sapesse dove erano gli occhiali.     Si  affezionò talmente alle "novelas" radiofoniche di Santiago de Cuba     che aspettava con ansia le puntate successivi di tutti i giorni.  Ogni     tanto ascoltava le notizie per sapere che cosa succedeva nel mondo,  e     nelle poche occasioni in cui restava  da  sola  in  casa  ascoltava  a     volume molto basso,  remoti e nitidi, i "merengues" di Santo Domingo e     le "plenas" di Puerto Rico. Una notte, da una stazione sconosciuta che     si inserì improvvisamente con tanta forza e  tale  chiarezza  come  se     fosse  nella casa vicina,  sentì una notizia straziante: una coppia di     anziani che ripeteva la sua  luna  di  miele  nello  stesso  luogo  da     quarant'anni  era  stata assassinata a colpi di remo dal barcaiolo che     li portava  in  giro,  per  rubare  il  denaro  che  avevano  addosso:     quattordici  dollari.  La  sua  impressione  fu  molto maggiore quando     Lucrecia del Real le riferì il  racconto  completo  pubblicato  su  un     giornale  locale.  La  polizia aveva scoperto che gli anziani uccisi a     randellate, lei di settantotto anni e lui di ottantaquattro, erano due     amanti clandestini che passavano le vacanze insieme  da  quarant'anni,     ma tutti e due avevano i loro rispettivi matrimoni,  stabili e felici,     e famiglie numerose.  Fermina Daza,  che non aveva mai  pianto  con  i     "novelones"  della radio,  dovette reprimere il nodo di lacrime che le     venne alla gola.  Nella sua lettera successiva,  Florentino  Ariza  le     mandò senza nessun commento il ritaglio di giornale con la notizia.     Non  erano  le  ultime  lacrime  che  Fermina  Daza  avrebbe represso.     Florentino Ariza non aveva compiuto i sessanta giorni  di  reclusione,     quando  "La  Justicia"  rivelò  in  copertina  a  piena  pagina  e con     fotografie dei  protagonisti  i  supposti  amori  occulti  del  dottor     Juvenal  Urbino  e  Lucrecia  del  Real  del  Obispo.  Si indagava sui     particolari  della  relazione,   la  frequenza  e  i  modi,   e  sulla     compiacenza  del marito,  dedito ad abusi di sodomia con i negri della     sua piantagione di canna  da  zucchero.  Il  racconto  pubblicato  con     enormi  lettere  di  legno  grondanti sangue cadde come il rombo di un     cataclisma sulla sgangherata aristocrazia  locale.  Non  c'era,  però,     neanche  una  riga  esatta:  Juvenal  Urbino e Lucrecia del Real erano     intimi amici da quando erano celibi e  avevano  continuato  a  esserlo     dopo sposati,  ma non erano mai stati amanti. In ogni modo, non pareva     che la pubblicazione fosse diretta a macchiare il buon nome del dottor     Juvenal Urbino,  il cui ricordo  godeva  di  unanime  rispetto,  ma  a     danneggiare il marito di Lucrecia del Real, eletto presidente del Club     Social la settimana prima.  Lo scandalo fu soffocato in poche ore.  Ma     Lucrecia del Real non tornò a  visitare  Fermina  Daza,  e  questa  lo     interpretò come un riconoscimento della sua colpa.
    Ben presto fu chiaro,  però, che neanche Fermina Daza era in salvo dai     rischi della sua classe. "La Justicia" si infuriò contro di lei per il
    suo unico lato debole: gli  affari  del  padre.  Quando  questi  aveva     dovuto  emigrare  per  forza,  lei conosceva un solo episodio dei suoi     affari torbidi,  così come gliel'aveva raccontata Gala  Placidia.  Più     tardi,  quando  il dottor Urbino glielo confermò dopo un colloquio col     governatore,  restò convinta che suo  padre  fosse  stato  vittima  di     un'infamia. Il fatto fu che due agenti del governo si erano presentati     con  un  ordine  di  perquisizione  nella  casa  del  Giardino  de Los     Evangelios,  la rovistarono da cima a fondo senza trovare  quello  che     cercavano,  e  alla fine ordinarono di aprire l'armadio con le porte a     specchi della vecchia camera da letto di Fermina Daza.  Gala Placidia,     sola  in  casa  e impossibilitata ad avvisare qualcuno,  si rifiutò di     aprirlo con la scusa che non aveva le chiavi.  Allora uno degli agenti     ruppe  gli  specchi  dell'armadio con il calcio della pistola e scoprì     che fra il  cristallo  e  il  legno  c'era  uno  spazio  strapieno  di     biglietti  falsi  da  cento  dollari.  Era il culmine di una catena di     piste che portavano fino a Lorenzo Daza  come  ultimo  anello  di  una     vasta operazione internazionale.  Era una truffa da maestri,  perché i     biglietti avevano il marchio ad acqua della carta  originale:  avevano     cancellato  biglietti  da  un  dollaro con un procedimento chimico che     sembrava una magia e ci avevano impresso biglietti da  cento.  Lorenzo     Daza addusse a sua difesa che l'armadio era stato comprato molto tempo     dopo  le nozze della figlia e che doveva essere arrivato in casa con i     biglietti nascosti,  ma la polizia verificò che era lì fin  da  quando     Fermina Daza andava a scuola. Nessuno se non lui stesso avrebbe potuto     nascondere  la  falsa  fortuna  dietro  gli specchi.  Quella era stata     l'unica cosa che il dottor Urbino aveva raccontato a sua moglie quando     si impegnò con il governatore a rimandare  il  suocero  al  suo  paese     d'origine  per soffocare lo scandalo.  Ma il giornale raccontava molto     di più.
    Raccontava che durante  una  delle  tante  guerre  civili  del  secolo     precedente  Lorenzo  Daza  era  stato intermediario fra il governo del     presidente liberale Aquileo Parra e un tale Joseph K. Korzeniowski, di     origine polacca, che si era fermato qui parecchi mesi con l'equipaggio     del mercantile "Saint-Antoine",  battente bandiera francese,  cercando     di  definire  un confuso affare di armi.  Korzeniowksi,  che più tardi     sarebbe diventato celebre nel mondo con  il  nome  di  Joseph  Conrad,     aveva preso contatto non si sapeva come con Lorenzo Daza che gli aveva     comprato  il  carico  d'armi  per  conto  del  governo,   con  le  sue     credenziali e ricevute in regola,  e pagato in oro legale.  Secondo la     versione del giornale Lorenzo Daza aveva dato per scomparse le armi in     un  assalto improbabile e le aveva rivendute al doppio del loro prezzo     reale ai conservatori in guerra contro il governo.
    "La Justicia" raccontava anche  che  Lorenzo  Daza  aveva  comprato  a     bassissimo  prezzo  un  carico  di  stivali in eccedenza dell'esercito     inglese,  ai tempi in cui il generale Rafael Reyes  aveva  fondato  la     Marina da Guerra, e solo con quell'operazione aveva raddoppiato la sua     fortuna  in  sei  mesi.  Secondo  il  giornale,  quando  il carico era     arrivato in questo porto,  Lorenzo Daza si era rifiutato di  ritirarlo     perché  arrivavano  solo  le  scarpe  del piede destro,  ma fu l'unico     concorrente quando la dogana lo mise all'asta secondo le leggi vigenti     e lo comprò per la cifra simbolica di cento "pesos".  In quegli stessi     giorni,  un  suo complice aveva comprato a uguali condizioni il carico     di scarpe sinistre,  che era arrivato alla  dogana  di  Riohacha.  Una     volta messi in ordine,  Lorenzo Daza si servì della parentela politica     con gli Urbino de la Calle,  e vendette gli stivali alla nuova  Marina     da Guerra con un guadagno del duemila per cento.
    L'articolo  de "La Justicia" finiva dicendo che Lorenzo Daza non aveva     lasciato San Juan de la Ciénaga alla fine del secolo prima in cerca di     arie migliori per il futuro di sua figlia,  come gli piaceva dire,  ma     per  essere  stato  sorpreso  nella  prospera  industria  di mescolare     tabacco di importazione con carta tritata, e in un modo così abile che     neanche i fumatori raffinati  si  accorgevano  dell'inganno.  Venivano     anche   rivelati  i  suoi  legami  con  un'organizzazione  clandestina     internazionale la cui attività più fruttifera  alla  fine  del  secolo     prima era stata l'introduzione illegale di cinesi da Panama. Invece il     sospetto   commercio  di  mule,   che  tanto  gli  aveva  rovinato  la     reputazione, sembrava l'unico onesto che avesse mai avuto.     Quando Florentino Ariza lasciò il letto,  con la schiena in  fiamme  e     per la prima volta con un bastone al posto dell'ombrello, la sua prima     uscita  fu  a  casa di Fermina Daza.  La trovò irriconoscibile,  con i     danni dell'età a fior di pelle e con  un  risentimento  che  le  aveva     tolto  la voglia di vivere.  Il dottor Urbino Daza,  in due visite che     aveva fatto a Florentino  Ariza  durante  il  suo  esilio,  gli  aveva     parlato  della  costernazione  che avevano provocato a sua madre i due     articoli de "La Justicia". Il primo le aveva provocato una rabbia così     insensata per l'infedeltà del marito e il  tradimento  dell'amica  che     aveva  rinunciato  alla  consuetudine  di  far  visita  al mausoleo di     famiglia una domenica di ogni mese,  perché la faceva andare fuori dei     gangheri  che  lui  non potesse sentire dentro alla bara gli improperi     che voleva gridargli: aveva litigato con un morto. A Lucrecia del Real     mandò a dire,  tramite chi  volesse  dirglielo,  di  rassegnarsi  alla     consolazione  di  aver  avuto  almeno  un uomo fra tanta gente che era     passata dal suo letto. Dell'articolo su Lorenzo Daza non era possibile     sapere che cosa l'addolorasse  di  più,  se  l'articolo  in  sé  o  la     scoperta tardiva della vera identità del padre. Ma una delle due cose,     o tutt'e due,  l'avevano annichilita.  I capelli color acciaio pulito,
    che tanto le nobilitavano il  volto,  sembravano  allora  dei  filacci     gialli  di  mais,  e  i  begli  occhi  da  pantera non recuperavano la     lucentezza  di  prima  neanche  con  lo  splendore  della  rabbia.  La     decisione  di  non continuare a vivere gliela si notava in ogni gesto.     Da molto tempo aveva rinunciato all'abitudine di  fumare,  chiusa  nel     bagno  o  in  qualsiasi altro modo,  però ci ricadde la prima volta in     pubblico e con una voracità sfrenata,  all'inizio con sigarette che si     faceva lei stessa,  come le era sempre piaciuto,  e poi con quelle più     ordinarie che si trovavano in commercio, perché non aveva più tempo né     pazienza di arrotolarle.  Un uomo che non fosse  Florentino  Ariza  si     sarebbe  chiesto  che  cosa  potesse riservare il destino a un vecchio     come lui, zoppo e con la schiena bruciata da sbucciature da asino, e a     una donna che ormai non desiderava altra  felicità  che  quella  della     morte.  Ma lui no.  Lui recuperò un lumicino di speranza fra i rottami     del disastro,  perché gli parve che la disgrazia di  Fermina  Daza  la     magnificasse,  la  rabbia l'abbellisse,  il rancore contro il mondo le     avesse restituito il carattere selvatico dei vent'anni.
    Lei aveva un nuovo motivo di gratitudine per Florentino Ariza,  perché     subito  dopo gli articoli infami lui aveva mandato a "La Justicia" una     lettera  esemplare  sulla  responsabilità  etica  della  stampa  e  il     rispetto  dell'onore altrui.  Non fu pubblicata,  ma l'autore ne mandò     una copia al "Diario del Comercio",  il più vecchio e  serio  giornale     del  litorale  del  Caribe,  e questo la pubblicò con risalto in prima     pagina.  Era firmata con lo pseudonimo di  Júpiter,  ed  era  talmente     ragionata,  incisiva  e  ben  scritta,  che venne attribuita ad alcuni     degli scrittori più famosi della provincia.  Fu una voce solitaria  in     mezzo  all'oceano  ma  si  sentì  molto in profondità e molto lontano.     Fermina Daza seppe chi era l'autore senza che nessuno  glielo  dicesse     perché  riconobbe  alcune  righe  e  perfino una frase letterale delle     riflessioni morali di Florentino  Ariza.  Così  lo  ricevette  con  un     affetto  rinverdito nel disordine del suo abbandono.  Fu a quell'epoca     che América Vicuña si trovò sola un pomeriggio di sabato nella  camera     da  letto di Calle de las Ventanas e,  senza averle cercate,  per puro     caso,  scoprì dentro a un armadio senza chiave le copie dattiloscritte     delle meditazioni di Florentino Ariza,  e le lettere scritte a mano di     Fermina Daza.
    Il dottor Urbino Daza fu contento della ripresa delle visite che tanto     incoraggiavano sua madre.  Contrariamente a Ofelia,  sua sorella,  che     tornò  sulla  prima nave per il trasporto di frutta di New Orleans non     appena seppe che Fermina Daza aveva una strana amicizia con un uomo la     cui qualifica morale non era delle migliori.  Il suo  allarme  diventò     crisi  fin  dalla  prima  settimana,  quando  si  accorse del grado di     familiarità e di dominio con cui Florentino Ariza entrava in  casa,  e
    dei  sussurri  e  dei litigi da innamorati con cui passavano le visite     fino a tarda sera.  Quello che per  il  dottor  Urbino  Daza  era  una     salutare  affinità  di  due  anziani  solitari,  per lei era una forma     viziosa di concubinaggio segreto.  Ofelia Urbino fu sempre  così,  più     simile  a  doña  Blanca,  sua  nonna  paterna,  che se fosse stata sua     figlia.  Era distinta come lei,  altera come lei,  e viveva  come  lei     sulla base dei pregiudizi.  Non era capace di concepire l'innocenza di     un'amicizia fra un uomo e una donna neanche a cinque anni  di  età,  e     tantomeno  a ottanta.  In una lite furibonda che ebbe con suo fratello     disse che l'unica cosa che mancava perché Florentino Ariza finisse  di     consolare  sua  madre  era  che  si infilasse con lei nel suo letto di     vedova.  Il dottor Urbino Daza non aveva il coraggio  di  affrontarla,     non l'aveva mai avuto davanti a lei,  ma sua moglie intervenne con una     giustificazione serena dell'amore a qualsiasi  età.  Ofelia  perse  le     staffe.
    «L'amore  è  ridicolo  alla nostra età» le gridò,  «ma alla loro è una     maialata.»
    Si diede da fare con tale impeto  nella  determinazione  di  scacciare     dalla  casa Florentino Ariza che arrivò alle orecchie di Fermina Daza.     Lei la chiamò in camera da letto,  come sempre quando  voleva  parlare     senza  essere  sentita  dalla servitù,  e le chiese di ripetere le sue     recriminazioni.  Ofelia non gliele raddolcì: era sicura che Florentino     Ariza,  la  cui  fama di pervertito nessuno ignorava,  perseguisse una     relazione equivoca,  più pregiudizievole del buon nome della  famiglia     delle  ribalderie di Lorenzo Daza e delle avventure ingenue di Juvenal     Urbino.  Fermina Daza l'ascoltò senza parlare,  né battere ciglio,  ma     quando finì di ascoltare era un'altra: era tornata alla vita. «L'unica     cosa  che  mi  dispiace  è  di non avere abbastanza forza per darti le     legnate che ti meriti, sfacciata e sospettosa che sei» le disse. «Però     in questo preciso momento te ne vai da questa  casa  e  ti  giuro  sui     resti di mia madre che non ci rimetterai piede finché io sarò viva.»     Non  ci  fu  potere capace di dissuaderla.  Nel frattempo Ofelia se ne     andò a vivere a casa  del  fratello,  e  da  là  mandò  ogni  tipo  di     suppliche tramite emissari di rango.  Ma fu inutile.  Né la mediazione     del figlio  né  l'intervento  delle  sue  amiche  riuscirono  a  farle     cambiare  idea.   Alla  nuora,  con  cui  mantenne  sempre  una  certa     complicità popolaresca,  fece alla fine una confidenza con  le  parole     fiorite  dei  suoi anni migliori: «E' un secolo che mi hanno cagato la     vita con quel pover'uomo perché eravamo troppo giovani, e adesso ce lo     vengono  a  ripetere  perché  siamo  troppo  vecchi».  Si  accese  una     sigaretta  con il mozzicone dell'altra e finì di sputare il veleno che     le tarlava le viscere.
    «Che vadano a cagare» disse.  «Se noi vedove abbiamo qualche vantaggio     è che non c'è più nessuno a comandarci.»
    Non  ci  fu  niente  da  fare.  Quando alla fine si convinse che erano     esaurite tutte le istanze,  Ofelia tornò a New Orleans.  L'unica  cosa     che  ottenne  da  sua  madre  fu  di poterla salutare,  e Fermina Daza     accettò dopo molte suppliche, ma senza permetterle di entrare in casa:     l'aveva giurato sulle ossa di sua madre,  che per lei,  in quei giorni     di tenebre, erano le uniche che restavano pulite.
    In una delle sue prime visite,  parlando dei suoi battelli, Florentino     Ariza aveva fatto a Fermina Daza un invito formale per fare un viaggio     di riposo lungo il fiume.  Con un giorno di treno in più poteva andare     fino  alla capitale della repubblica,  che loro come la maggioranza di     quelli della loro generazione continuavano a chiamare con il nome  che     aveva avuto fino al secolo prima: Santa Fe. Ma lei conservava i brutti     vezzi  del  marito e non desiderava conoscere una città gelata e scura     dove le donne non uscivano di casa se non per la messa delle cinque  e     non  potevano entrare nelle gelaterie e neppure negli uffici pubblici,     secondo  quanto  le  avevano  detto,   e  dove  a  ogni  ora   c'erano     imbottigliamenti di funerali per la strada e una pioggerellina sottile     fin dagli anni della mula ferrata: peggio che a Parigi. Sentiva invece     un'attrazione  molto  forte per il fiume,  voleva vedere i caimani che     prendevano il sole sugli arenili,  voleva essere svegliata  nel  mezzo     della  notte  dal pianto di donna dei manati,  ma l'idea di un viaggio     così difficile, alla sua età, e per di più vedova e sola,  le sembrava     irreale.
    Florentino  Ariza  le rinnovò l'invito più avanti,  quando si decise a     continuare a vivere senza il marito,  e allora le parve più probabile.     Ma  dopo  il  litigio  con la figlia,  amareggiata per le ingiurie nei     confronti di suo padre, per il rancore contro il marito morto,  per la     rabbia  dei  salamelecchi  ipocriti  di  Lucrecia del Real,  che aveva     considerato per tanti anni  la  sua  migliore  amica,  lei  stessa  si     sentiva  d'incomodo  nella  sua  stessa  casa.  Un pomeriggio,  mentre     sorbiva il suo infuso di foglie universali,  guardò verso  il  pantano     del  patio dove non sarebbe ritornato a germogliare l'albero della sua     sventura.
    «Quello che vorrei è andarmene da  questa  casa,  camminando,  avanti,     avanti, avanti, e non tornare mai più» disse.
    «Vattene su un battello» disse Florentino Ariza.
    Fermina Daza lo guardò pensierosa.
    «E allora immagina che potrebbe anche essere» disse.
    Non  le  era  venuto  in  mente un attimo prima di dirlo,  ma le bastò     ammettere la possibilità per darlo come fatto.  Il figlio e  la  nuora     ascoltarono  incantati.  Florentino  Ariza si affrettò a precisare che     Fermina Daza  sarebbe  stata  un'ospite  d'onore  sui  suoi  battelli,     sarebbe  stata  predisposta  per  lei  una cabina arredata come la sua     stessa casa,  un servizio perfetto,  e il  comandante  in  persona  si     sarebbe consacrato alla sua sicurezza e al suo benessere.  Portò mappe     della rotta per entusiasmarla, cartoline di furiosi crepuscoli, poesie     sul paradiso primitivo di La Magdalena scritte da illustri viaggiatori     o che erano arrivati a esserlo per l'eccellenza della poesia.  Lei gli     dava un'occhiata quando era di buon umore.
    «Non devi ingannarmi come un bambino» gli diceva. «Se ci vado è perché
    l'ho deciso, non per l'interesse del paesaggio.»
    Quando  il  figlio  le  suggerì  di  farsi accompagnare da sua moglie,     applicò rimedi radicali: «Sono già molto grande  perché  non  mi  curi     nessuno».  Lei  stessa  definì  i  particolari  del viaggio.  Provò un     immenso sollievo all'idea di vivere otto giorni di risalita  e  cinque     di  ridiscesa senza nient'altro che l'indispensabile: mezza dozzina di     vestiti di cotone,  le sue cose da toilette  e  pulizia,  un  paio  di     scarpe  per  imbarcarsi  e  per  sbarcare e le babbucce da casa per il     viaggio, e nient'altro: il sogno della sua vita.
    Nel gennaio 1824 il commodoro Juan Bernardo  Elbers,  fondatore  della     navigazione  fluviale,  aveva immatricolato il primo battello a vapore     che solcò il rio de La Magdalena,  un  arnese  primitivo  di  quaranta     cavalli di forza,  che si chiamava "Fidelidad". Più di un secolo dopo,     un 7 luglio alle sei del pomeriggio,  il  dottor  Urbino  Daza  e  sua     moglie   accompagnarono  Fermina  Daza  a  prendere  il  battello  che     l'avrebbe dovuta portare nel suo primo viaggio lungo il fiume.  Era il     primo  costruito  nei  cantieri  locali,  che  Florentino  Ariza aveva     battezzato  in  memoria  del   suo   glorioso   predecessore:   "Nueva     Fidelidad".  Fermina  Daza non riuscì mai a credere che quel nome così     significativo per loro fosse davvero un caso della storia  e  non  una     grazia in più del romanticismo cronico di Florentino Ariza.     Comunque,  diversamente  dagli  altri  battelli  fluviali,  antichi  e     moderni,  il "Nueva Fidelidad" aveva vicino alla cabina del comandante     una cabina supplementare, ampia e confortevole: una sala con mobili di     bambù   dai   colori   festosi,   una  stanza  da  letto  matrimoniale     completamente decorata a motivi cinesi,  un bagno con vasca e  doccia,     un'ampia veranda coperta, molto ampia, con felci sospese e una visione     completa  sul  davanti  e  sui due lati del battello,  e un sistema di     refrigerazione silenziosa che preservava tutto l'ambiente dal  baccano     esterno  e in un clima di primavera perenne.  Quell'ambiente di lusso,     conosciuto come la Cabina Presidenziale perché  ll  avevano  viaggiato     fino  ad allora tre presidenti della repubblica,  non aveva un intento     commerciale,  ma veniva riservata ad autorità di rango  e  a  invitati     molto  speciali.  Florentino  Ariza l'aveva fatto costruire con quella     finalità di immagine pubblica non appena era stato nominato presidente     della C.F.C.,  ma con la certezza interiore che presto o tardi sarebbe     stato  il  rifugio  felice  del suo viaggio di nozze con Fermina Daza.     Arrivato il giorno,  in  effetti,  lei  prese  possesso  della  Cabina     Presidenziale  nella sua condizione di padrona e signora.  Il capitano     del battello fece gli onori di casa al dottor  Urbino  Daza  e  a  sua     moglie,  e a Florentino Ariza,  con champagne e salmone affumicato. Si     chiamava Diego Samaritano,  aveva un'uniforme di lino  bianco  di  una     correttezza  assoluta dalla punta delle scarpe fino al berretto con lo     stemma della C.F.C.  ricamato con fili dorati,  e aveva in comune  con     gli  altri  capitani  del  fiume  una  corpulenza  da ceiba,  una voce     perentoria e dei modi da cardinale fiorentino.
    Alle sette di sera diedero il primo segnale  di  partenza,  e  Fermina     Daza lo sentì risuonare con un dolore acuto nell'orecchio sinistro. La     notte  prima  aveva fatto dei sogni solcati da cattivi presagi che non     aveva osato decifrare. Molto presto al mattino si era fatta portare al     vicino panteon del seminario,  che allora si chiamava Cimitero  di  La     Manga,  e  si  era riconciliata con il marito morto,  in piedi davanti     alla  sua  cripta,  in  un  monologo  in  cui  tirò  fuori  le  giuste     recriminazioni  che  aveva  inghiottito con difficoltà.  Poi gli aveva     raccontato  i  particolari  del  viaggio  e  si  era  congedata  molto     rapidamente.  Non  aveva  voluto dire a nessun altro che se ne andava,     come aveva fatto quasi  sempre  quando  viaggiava  per  l'Europa,  per     evitare  i saluti che la sfinivano.  Nonostante i suoi tanti viaggi si     sentiva come se questo fosse il primo,  e più si avvicinava il  giorno     più  le  aumentava  l'apprensione.   Una  volta  a  bordo,   si  sentì     abbandonata e triste e voleva starsene da sola per piangere.
    Quando risuonò l'ultimo segnale, il dottor Urbino Daza e sua moglie si     accomiatarono da lei senza drammi,  e Florentino Ariza  li  accompagnò     alla passerella di sbarco.  Il dottor Urbino Daza cercò di cedergli il     passo dopo sua moglie,  e solo allora capì che anche Florentino  Ariza     sarebbe partito.  Il dottor Urbino Daza non riuscì a nascondere il suo     sconcerto.
    «Di questo, però, non avevamo parlato» disse.
    Florentino Ariza gli mostrò la chiave  con  un'intenzione  fin  troppo     evidente:  una  regolare  cabina  sulla  coperta comune.  Ma al dottor     Urbino Daza non sembrò una prova sufficiente di  innocenza.  Indirizzò     alla  moglie un'occhiata da naufrago,  in cerca di un punto d'appoggio     per il suo sconcerto,  ma si trovò di fronte uno sguardo  gelido.  Lei     gli  disse molto piano,  con voce severa: «Anche tu?».  Sì: anche lui,     come sua sorella Ofelia,  pensava che l'amore  avesse  un'età  in  cui     cominciava a essere indecente. Ma seppe reagire in tempo, e si congedò     da  Florentino  Ariza con una stretta di mano più di rassegnazione che     di gratitudine.
    Florentino Ariza li vide sbarcare dalla veranda del salone.  Così come     si  aspettava  e  desiderava,  il  dottor  Urbino Daza e sua moglie si     girarono a guardarlo prima di entrare nell'automobile, e lui li salutò     con un cenno della mano.  Tutti e due gli risposero.  Continuò a stare     sulla  veranda  finché  l'automobile sparì nel polverone della zona di     carico e poi se ne andò nella sua cabina,  a mettersi qualcosa di  più     adatto  per  la  prima cena a bordo,  nella sala da pranzo privata del     capitano.
    Fu una sera splendida,  che il capitano  Diego  Samaritano  condì  con     racconti  succulenti dei suoi quarant'anni sul fiume,  ma Fermina Daza     dovette fare un grande sforzo per far finta di divertirsi.  Nonostante     l'ultimo avviso l'avessero dato alle otto e a quell'ora avessero fatto     scendere i visitatori e avessero alzato la passerella, il battello non     salpò  finché  il capitano non ebbe finito di mangiare e salì al posto     di comando a dirigere la manovra.  Fermina  Daza  e  Florentino  Ariza     restarono  affacciati alla balaustra della sala comune,  confusi con i     passeggeri chiassosi che giocavano a identificare le luci della città,     finché il battello uscì dalla baia,  avanzò per  canali  invisibili  e     paludi  disseminate  delle  luci  ondeggianti  dei pescatori e respirò     finalmente a pieni polmoni nell'aria  libera  del  río  Grande  de  La     Magdalena. Allora l'orchestra attaccò un pezzo popolare di moda, ci fu     uno scoppio di allegria dei passeggeri, e il ballo si aprì in fretta e     furia.
    Fermina Daza preferì rifugiarsi in cabina.  Non aveva detto una parola     in tutta la sera,  e Florentino Ariza l'aveva lasciata perdersi  nelle     sue  cavillosità.  La  interruppe  solo  per  congedarsi  davanti alla     cabina,  ma lei non aveva sonno,  solo un po' di freddo,  e suggerì di     sedersi  un  momento  a  guardare  il  fiume  dalla  veranda  privata.     Florentino Ariza spinse due poltrone di vimini  fino  alla  balaustra,     spense le luci,  le mise sulle spalle uno scialle di lana e si sedette     al suo fianco.  Lei arrotolò una sigaretta dalla scatoletta che lui le     portava  in  dono,  l'arrotolò  con  un'abilità sorprendente,  la fumò     lentamente con la brace dentro la  bocca,  senza  parlare,  e  poi  ne     arrotolò  altre  due  e  le fumò una di seguito all'altra.  Florentino     Ariza bevette sorso dopo sorso due thermos di caffè amaro.     Lo splendore  della  città  era  sparito  all'orizzonte.  Visti  dalla     veranda scura, il fiume liscio e tranquillo e i pascoli di tutte e due     le   rive  sotto  la  luna  piena  si  trasformarono  in  una  pianura     fosforescente.  Ogni tanto si vedeva una capanna di paglia  vicino  ai     grandi  falò  con  cui  annunciavano  che  lì  si vendeva legna per le     caldaie dei battelli.  Florentino Ariza conservava ricordi confusi del     suo viaggio di gioventù, e la visione del fiume glieli faceva rivivere     a raffiche abbaglianti come se fossero di ieri. Ne raccontò qualcuno a     Fermina Daza,  credendo di poterla animare,  ma lei fumava in un altro     mondo.  Florentino Ariza rinunciò ai suoi ricordi e la lasciò sola con     i  suoi,  e  nel  frattempo arrotolava sigarette e gliele dava accese,     finché finì la scatola.  La musica cessò dopo mezzanotte,  il  chiasso     dei  passeggeri si disperse e svanì in sussurri addormentati,  e i due     cuori restarono soli nella veranda avvolta dall'oscurità,  vivendo  al     tempo dei respiri affannosi del battello.
    Dopo  un  lungo  momento  Florentino  Ariza guardò Fermina Daza con il
    fulgore del fiume,  la  vide  spettrale,  con  il  profilo  da  statua     addolcito  da  un  tenue  splendore  azzurro  e  si  accorse che stava     piangendo in silenzio.  Ma invece di consolarla  o  di  aspettare  che     finisse  le  sue  lacrime,  come  voleva  lei,  si lasciò invadere dal     panico.
    «Vuoi restare sola?» le domandò.
    «Se l'avessi voluto non ti avrei detto di entrare» disse lei.     Allora lui tese le dita gelide nell'oscurità,  cercò a tentoni l'altra     mano  nell'oscurità  e  la  trovò che l'aspettava.  Tutti e due furono     abbastanza lucidi per rendersi conto, in uno stesso attimo fugace, che     nessuna delle due era la mano che avevano immaginato prima di toccarsi     ma due mani con le ossa vecchie. Però, l'attimo dopo già lo erano. Lei     incominciò a parlare del marito morto,  in  tempo  presente,  come  se     fosse ancora vivo,  e Florentino Ariza seppe in quel momento che anche     per lei era arrivata l'ora di interrogarsi con dignità, con grandezza,     con delle voglie incontenibili di vivere,  su che fare del  suo  amore     che era rimasto senza padrone.
    Fermina  Daza  smise  di  fumare  per  non  staccare  la  mano che lui     continuava a tenere nella sua.  Era persa nell'ansia  di  capire.  Non     poteva  concepire  un  marito migliore di quello che era stato suo,  e     però si imbatteva in più inciampi  che  compiacimenti  nell'evocazione     della  sua  vita,  troppe  incomprensioni reciproche,  litigi inutili,     rancori mal risolti.  Sospirò improvvisamente: «E' incredibile come si     possa essere tanto felici per tanti anni,  in mezzo a tante baruffe, a     tante seccature,  cazzo,  senza sapere in realtà se quello è  amore  o     no».  Quando  finì  di  sfogarsi,  qualcuno  aveva spento la luna.  Il     battello avanzava con i suoi passi misurati,  mettendo un piede avanti     prima di mettere l'altro: un immenso animale in agguato.  Fermina Daza     era ritornata dall'angoscia.
    «Vai, adesso» disse.
    Florentino Ariza le strinse la mano,  si inchinò verso di lei e  cercò     di  baciarla  sulla  guancia.  Ma lei lo evitò con la sua voce rauca e     dolce.
    «Non più» gli disse: «puzzo di vecchia».
    Lo sentì uscire nell'oscurità, udì i suoi passi sulle scale,  lo sentì
    smettere di esserci fino al giorno dopo.  Fermina Daza accese un'altra     sigaretta, e mentre la fumava vide il dottor Juvenal Urbino con il suo     abito di  lino  impeccabile,  il  suo  rigore  professionale,  la  sua     simpatia abbagliante,  il suo amore ufficiale, farle un cenno di addio     con il suo cappello bianco da un  altro  battello  del  passato.  «Noi     uomini  siamo  dei  poveri  schiavi dei pregiudizi» le aveva detto una     volta. «Invece, quando una donna decide di andare a letto con un uomo,     non esiste ostacolo che non salti,  né fortezza che  non  abbatta,  né     considerazione   morale  che  non  sia  disposta  a  superare  per  il     fondamento: non c'è Cristo che tenga.»  Fermina  Daza  restò  immobile     fino all'alba,  a pensare a Florentino Ariza, non come alla sentinella     desolata del giardinetto de Los  Evangelios  il  cui  ricordo  non  le     suscitava  ormai  neanche  un lumicino di nostalgia,  bensì a come era     adesso,  decrepito e sciancato ma reale: l'uomo che era sempre stato a     portata  della sua mano e che non aveva saputo riconoscere.  Mentre il     battello la trascinava ansante verso  il  fulgore  delle  prime  rose,     l'unica  cosa  che lei chiedeva a Dio era che Florentino Ariza sapesse     dove ricominciare il giorno dopo.
    Lo seppe.  Fermina Daza diede istruzioni  al  cameriere  di  lasciarla     dormire  a  suo piacimento,  e quando si svegliò c'era sul comodino un     vaso con una rosa bianca,  fresca,  ancora madida di rugiada e insieme     una  lettera di Florentino Ariza con tanti fogli quanti era riuscito a     scrivere  da  quando  si  era  congedato  da  lei.   Era  una  lettera     tranquilla,  che  non cercava altro che esprimere lo stato d'animo che     lo estasiava dalla notte prima: tanto  lirica  come  le  altre,  tanto     retorica come tutte, ma alimentata dalla realtà. Fermina Daza la lesse     con una certa vergogna verso se stessa per i galoppi spudorati del suo     cuore.  Finiva  con la richiesta di avvisare il cameriere quando fosse     pronta perché il  capitano  li  aspettava  al  posto  di  comando  per     mostrare loro il funzionamento del battello.
    Fu pronta alle undici,  dopo aver fatto il bagno e profumata di sapone     di fiori,  con un vestito da vedova molto semplice di stamigna grigia,     e  completamente  ristabilita  dalla tempesta della notte.  Ordinò una     colazione sobria al cameriere vestito di bianco impeccabile,  che  era     al servizio personale del capitano, ma non lo fece avvisare di venirla     a  prendere.  Salì da sola,  abbagliata dal cielo senza nubi,  e trovò     Florentino Ariza  che  chiacchierava  con  il  capitano  al  posto  di     comando.  Le parve diverso, non solo perché lo vedeva allora con altri     occhi, ma perché era realmente cambiato.  Al posto dei vestiti funerei     di tutta la vita portava delle scarpe bianche molto comode,  pantaloni     e camicia di filo col collo aperto e manica corta e il suo  monogramma     ricamato sul taschino.  Indossava poi un berretto scozzese,  anch'esso     bianco,  e un dispositivo di lenti scure sovrapposto  ai  suoi  eterni     occhiali  da miope.  Era evidente che era la prima volta che indossava     tutto e che l'aveva comprato apposta per il viaggio,  salvo la cintura     di  cuoio marrone,  molto usata,  che Fermina Daza notò al primo colpo     d'occhio come una mosca nel brodo. Vedendolo così,  vestito per lei in     un  modo così manifesto,  non poté impedire il rossore di fuoco che le     montò al viso.  Si offuscò quando lo salutò,  e lui si offuscò di  più     con il suo offuscamento. La coscienza di comportarsi come fidanzati li     offuscò  ancora  di  più,  e  la  coscienza  che  tutti  e due fossero     offuscati finì per offuscarli fino al punto che il capitano Samaritano     se ne accorse con un tremolio di compassione.  Li tolse dall'imbarazzo     spiegando  l'uso dei comandi e il meccanismo generale del battello per     due ore.  Navigavano molto piano  per  un  fiume  senza  rive  che  si     disperdeva  fra  arenili  aridi fino all'orizzonte.  Ma contrariamente     alle acque agitate della foce,  quelle erano  lente  e  trasparenti  e     avevano  uno splendore metallico sotto il sole spietato.  Fermina Daza     ebbe l'impressione che fosse un delta popolato da isolotti di sabbia.
    «E' il poco che ci resta del fiume» le disse il capitano.
    Florentino Ariza,  in effetti,  era sorpreso  dei  cambiamenti,  e  lo     sarebbe  stato ancora di più il giorno dopo,  quando la navigazione si     fece più difficile, e si accorse che l'emissario de La Magdalena,  uno     dei  più  grandi  del mondo,  era solo un'illusione della memoria.  Il     capitano Samaritano  spiegò  loro  come  il  diboscamento  irrazionale     l'avesse  fatta  finita  con il fiume in cinquant'anni: le caldaie dei     battelli avevano divorato la foresta aggrovigliata di alberi colossali     che Florentino Ariza aveva sentito come  un'oppressione  in  occasione     del suo primo viaggio.  Fermina Daza non avrebbe visto gli animali dei     suoi sogni: i cacciatori  di  pelli  delle  concerie  di  New  Orleans     avevano  sterminato i caimani che facevano i morti con le fauci aperte     per ore e ore sulle frange della riva per sorprendere le  farfalle;  i     pappagalli  con il loro baccano e i mandrilli con i loro urli da matti     erano morti a mano a mano che  finivano  le  fronde,  i  manati  dalle     grandi  tette da madri che allattavano i loro piccoli e piangevano con     voce da donna afflitta sui grandi arenili  erano  una  specie  estinta     dalle pallottole corazzate dei cacciatori dilettanti.
    Il  capitano  Samaritano  aveva un affetto quasi materno per i manati,     perché gli sembravano signore condannate da qualche traversia amorosa,     e dava per scontata la leggenda che fossero le  uniche  femmine  senza     maschi  nel regno animale.  Si era sempre opposto a che gli sparassero     da bordo,  come era l'abitudine nonostante ci  fossero  leggi  che  lo     proibivano.  Un  cacciatore  della Carolina del Nord,  con le carte in     regola,  aveva disobbedito ai suoi ordini e aveva  fatto  a  pezzi  la     testa   di  una  madre  di  manato  con  uno  sparo  preciso  del  suo     Springfield,  e il piccolo era rimasto pazzo  di  dolore  piangendo  e     gridando  sul corpo steso.  Il capitano aveva fatto imbarcare l'orfano     per farsi carico di lui e aveva abbandonato il cacciatore sull'arenile     deserto vicino al cadavere della madre assassinata. Era stato sei mesi     in carcere,  per proteste diplomatiche,  e sul  punto  di  perdere  la     licenza di navigazione, ma uscì disposto a rifare la stessa cosa tutte     le volte che gli si fosse presentata l'occasione.  Quello,  però,  era     stato un episodio storico: il manato orfano, che era cresciuto e aveva     vissuto per molti anni nel giardino di animali rari di San Nicolás  de     las Barrancas, era stato l'ultimo a essere visto nel fiume.
    «Ogni volta che passo davanti a quella spiaggia» disse, «prego Dio che     quel gringo si imbarchi ancora sul mio battello per rimollarlo là.»     Fermina Daza, che non aveva simpatia per lui, si commosse in modo tale     per  quel  gigante tenero,  che fin da quella mattina lo collocò in un     posto privilegiato del suo cuore.  Fece bene: il  viaggio  era  appena     all'inizio, e avrebbe avuto occasioni a iosa per rendersi conto di non     essersi sbagliata.
    Fermina  Daza  e  Florentino  Ariza  rimasero ai posti di comando fino     all'ora di pranzo,  poco dopo il passaggio  davanti  al  villaggio  di     Calamar,  che  solo  qualche anno prima era una festa perenne e adesso     era un porto in rovina in mezzo a strade desolate.  L'unico essere che     si vide dal battello fu una donna vestita di bianco che faceva segnali     con un fazzoletto. Fermina Daza non capì perché non la raccogliessero,     se  sembrava  così  afflitta,  ma  il  capitano  le  spiegò che era il     fantasma di un'affogata che faceva segnali ingannevoli per  deviare  i     battelli  verso  i pericolosi mulinelli dell'altra riva.  Le passarono     così vicino che Fermina Daza la vide in tutti  i  particolari,  nitida     sotto  il  sole,  e non dubitò che in realtà non esistesse,  ma la sua     faccia le sembrò conosciuta.
    Fu un giorno lungo e caldo.  Fermina Daza  tornò  in  cabina  dopo  il     pranzo, per la sua inevitabile siesta, ma non dormì bene per il dolore     all'orecchio,  che le si fece più intenso quando il battello scambiò i     saluti di prammatica con un altro della C.F.C.  con  cui  si  incrociò     qualche  lega  prima di Barranca Vieja.  Florentino Ariza schiacciò un     pisolino istantaneo seduto nel  salone  principale,  dove  la  maggior     parte dei passeggeri senza cabina dormiva come se fosse mezzanotte,  e     sognò Rosalba,  molto vicino al luogo dove l'aveva  vista  imbarcarsi.     Viaggiava  da sola,  con il suo abito da "momposina" del secolo prima,     ed era lei e non il bambino a fare  la  siesta  dentro  la  gabbia  di     vimini  attaccata  alla grondaia.  Fu un sogno nello stesso tempo così     enigmatico e divertente che continuò col suo retrogusto per  tutto  il     pomeriggio,  mentre  giocava a domino con il capitano e due passeggeri     amici.
    Il caldo  finiva  al  cader  del  sole,  e  il  battello  riviveva.  I
    passeggeri emergevano come da un letargo,  appena fatto il bagno e con     abiti puliti,  e occupavano le poltrone di vimini del salone in attesa     della  cena,  che  era annunciata alle cinque in punto da un cameriere     che percorreva la coperta da un estremo all'altro facendo suonare  fra     gli  applausi scherzosi una campana da sacrestano.  Mentre mangiavano,     l'orchestra attaccava musica di fandango, e il ballo continuava fino a     mezzanotte.
    Fermina  Daza  non  volle  cenare  per  il  tormento  all'orecchio,  e     assistette   al  primo  imbarco  di  legna  per  le  caldaie,   in  un     avvallamento  spelacchiato  dove  non  c'era  altro  che   i   tronchi     ammonticchiati  e  un uomo molto vecchio che si occupava del traffico.     Non sembrava che ci fosse nessun altro a molte leghe. Per Fermina Daza     fu uno scalo lento e noioso, impensabile sui transatlantici europei, e     faceva tanto caldo che si faceva  sentire  all'interno  della  veranda     refrigerata.  Ma  quando  il battello salpò di nuovo soffiava un vento     fresco odoroso di viscere della foresta,  e  la  musica  si  fece  più     allegra.  Nel  villaggio di Sitio Nuevo c'era un'unica luce a un'unica     finestra di un'unica casa,  e negli uffici del  porto  non  fecero  il     segnale  convenuto  che  ci fosse carico o passeggeri per il battello,     cosicché questo passò senza salutare.
    Fermina Daza era stata  tutto  il  pomeriggio  a  chiedersi  di  quali     risorse  si sarebbe servito Florentino Ariza per vederla senza bussare     alla sua cabina, e verso le otto non riuscì più a sopportare la voglia     di stare insieme  a  lui.  Uscì  nel  corridoio  con  la  speranza  di     incontrarlo  in  un modo che sembrasse casuale e non dovette camminare     molto: Florentino Ariza era seduto su  un  seggiolino  del  corridoio,     silenzioso   e  triste  come  nel  giardinetto  de  Los  Evangelios  e     chiedendosi da più di due ore come  fare  per  vederla.  Tutti  e  due     fecero  lo  stesso  gesto di sorpresa che tutti e due sapevano finto e     girarono in lungo e in largo insieme per la coperta  di  prima  classe     piena  di  gente  giovane,  in  maggioranza  studenti chiassosi che si     esaurivano con una certa ansia nell'ultima  festa  delle  vacanze.  Al     bar,  dove  Florentino  Ariza  e Fermina Daza si bevvero una bibita in     bottiglia seduti come studenti davanti al banco, lei si trovò di colpo     in una situazione temuta.  Disse: «Che orrore!».  Florentino Ariza  le     domandò a cosa stava pensando che le provocava una simile impressione.     «Ai poveri vecchietti» disse lei.  «Quelli che hanno ammazzato a colpi     di remo sulla barca.»
    Tutti e due se ne andarono a dormire quando finì la musica,  dopo  una     lunga  conversazione  senza  inciampi sulla veranda oscura.  Non ci fu     luna,  il cielo era coperto e all'orizzonte  scoppiavano  lampi  senza     tuoni che li illuminavano per un attimo.  Florentino Ariza le arrotolò     le sigarette,  ma lei non se ne fumò più di  quattro,  tormentata  dal     dolore  che si alleviava ogni tanto e rincrudiva quando l'imbarcazione     muggiva incrociandone un'altra,  o passando  davanti  a  un  villaggio     addormentato,  o quando navigava piano per sondare il fondo del fiume.
    Lui le raccontò con quanta  ansia  l'avesse  sempre  vista  ai  Giochi     Floreali,  durante il volo in pallone,  sul velocipede da acrobata,  e     con quanta ansia aspettasse le feste pubbliche per tutto l'anno,  solo     per  vederla.  Anche  lei  l'aveva  visto  spesso  e  non  si  era mai     immaginata che fosse lì solo per vederla. Però, da appena un anno,  da     quando  aveva  letto le sue lettere,  si era chiesta subito come fosse     possibile che lui non avesse mai concorso ai  Giochi  Floreali:  senza     dubbio  avrebbe  vinto.  Florentino  Ariza le mentì: scriveva solo per     lei, versi per lei,  e solo lui li leggeva.  Allora fu lei a cercargli     la mano nell'oscurità e non la trovò ad aspettarla così come lei aveva     aspettato la sua la sera prima,  ma lo colse di sorpresa. A Florentino     Ariza si gelò il cuore.
    «Che strane sono le donne» disse.
    Lei scoppiò in una risata profonda,  da colomba giovane,  e ripensò ai     vecchi della barca. Era scritto: quell'immagine l'avrebbe perseguitata     per  sempre.  Ma quella notte riusciva a sopportarla perché si sentiva     tranquilla e bene come poche volte nella  sua  vita:  pulita  da  ogni     colpa. Sarebbe rimasta così fino all'alba, in silenzio, con la mano di     lui  a  sudare ghiaccio nella sua mano,  ma non riuscì a sopportare il     tormento dell'orecchio.  Così,  quando  si  spense  la  musica  e  poi     cessarono  gli  andirivieni  dei  passeggeri  del  settore  comune che     attaccavano le amache nel salone,  lei capì che il suo dolore era  più     forte del suo desiderio di stare con lui. Sapeva che il solo dirglielo     l'avrebbe  alleviata,  ma  non  lo  fece per non preoccuparlo.  Perché     allora aveva l'impressione di conoscerlo come se  avesse  vissuto  con     lui  tutta  la  vita,  e  lo  credeva  capace  di dare l'ordine che il     battello tornasse indietro al porto se quello avesse potuto  toglierle     il dolore.
    Florentino  Ariza  aveva  previsto  che quella notte le cose sarebbero     andate così,  e si ritirò.  Già sulla  porta  della  cabina  cercò  di     congedarsi  con  un bacio,  ma lei gli porse la guancia sinistra.  Lui     insistette, già con il respiro corto,  e lei gli offrì l'altra guancia     con una civetteria che lui non le aveva conosciuto da educanda. Allora     insistette  per la seconda volta,  e lei lo accolse tra le labbra,  lo     accolse con una trepidazione profonda che cercò di soffocare  con  una     risata dimenticata fin dalla sua notte di nozze.
    «Dio mio» disse, «come sono pazza sui battelli!»
    Florentino  Ariza  trasalì: effettivamente,  come lei stessa gli aveva     detto, aveva l'odore aspro dell'età.  Però,  mentre camminava verso la     sua  cabina,   facendosi  strada  in  mezzo  al  labirinto  di  amache     addormentate,  si consolava con l'idea che lui doveva avere lo  stesso     odore,  solo  di  quattro  anni  più vecchio,  e che lei doveva averlo     sentito con la stessa emozione.  Era l'odore dei fermenti  umani,  che     lui  aveva  percepito  nelle sue amanti più vecchie e che loro avevano     sentito in lui.  La vedova di Nazaret,  che non si asteneva da niente,     glielo  aveva  detto in modo più crudo: «Ormai odoriamo di avvoltoio».     Ognuno sopportava quello dell'altro,  perché erano alla pari:  il  mio     odore  contro  il  tuo.  Invece  spesso  si era preoccupato di América     Vicuña,  il cui odore di pannolini gli risvegliava gli istinti materni     e  però lo inquietava l'idea che lei non potesse sopportare il suo: il     suo odore di vecchio immaturo. Ma tutto quello apparteneva al passato.     L'importante era che per la prima volta da quel pomeriggio in  cui  la     zia  Escolástica  aveva  lasciato  il  messale  sul banco dell'ufficio     telegrafico,  Florentino Ariza non aveva riprovato una  felicità  come     quella di quella notte: così intensa da fargli paura.
    Stava  per  addormentarsi  quando il contabile del battello lo svegliò     alle cinque nel porto  di  Zambrano  per  consegnargli  un  telegramma     urgente. Era firmato Leona Cassiani, con data del giorno precedente, e     tutto  il  suo  orrore  stava  su una riga: "América Vicuña morta ieri     cause inspiegabili".  Alle  undici  di  mattina  seppe  i  particolari     attraverso  uno  scambio  telegrafico  con Leona Cassiani,  in cui lui     stesso usò l'apparecchiatura trasmittente come non aveva più fatto dai     suoi anni di telegrafista. América Vicuña,  in preda a una depressione     mortale  per  essere  stata bocciata agli esami finali,  si era bevuta     un'ampolla di laudano che aveva rubato dall'infermeria  del  collegio.     Florentino  Ariza  sapeva  nel  profondo  della  sua  anima che quella     notizia era incompleta.  Ma no:  América  Vicuña  non  aveva  lasciato     nessun  foglietto esplicativo che permettesse di incolpare chicchessia     della sua decisione.  La famiglia stava arrivando in quel  momento  da     Puerto Padre,  avvisata da Leona Cassiani, e il funerale sarebbe stato     quel pomeriggio alle cinque.  Florentino Ariza respirò.  L'unica  cosa     che  poteva  fare  per continuare a essere vivo era non permettersi il     supplizio di quel ricordo.  Lo cancellò dalla memoria,  anche se  ogni
    tanto   nel   resto   dei   suoi  anni  lo  avrebbe  sentito  rivivere     improvvisamente, senza rendersene conto, come la puntura improvvisa di     una cicatrice di vecchia data.
    I giorni seguenti furono  caldi  e  interminabili.  Il  fiume  diventò     tumultuoso  e  si  venne  facendo  sempre più stretto,  e al posto del     groviglio di alberi colossali che aveva  sbalordito  Florentino  Ariza     nel suo primo viaggio c'erano pianure calcinate,  rimasugli di foreste     intere  divorate  dalle  caldaie  dei  battelli,  rovine  di  villaggi     abbandonati da Dio, le cui strade continuavano a essere allagate anche     nei  periodi  più  crudeli  della  secca.  Durante  la  notte  non  li     svegliavano i canti da sirene dei manati sugli arenili ma  la  zaffata     nauseabonda  dei  morti che passavano galleggiando verso il mare.  Non     c'erano più guerre né pesti ma i corpi gonfi continuavano  a  passare.     Per  una  volta  il  capitano  fu moderato: «Abbiamo ordine di dire ai     passeggeri che sono annegati accidentali».  Al posto del  baccano  dei     pappagalli  e  dello  scandalo  delle  scimmie invisibili che in altri     tempi aumentavano l'afa del mezzogiorno restava solo il vasto silenzio     della terra spianata.
    C'erano così pochi luoghi dove far legna, ed erano così lontani fra di     loro,  che il "Nueva Fidelidad" rimase senza  combustibile  al  quarto     giorno  di viaggio.  Rimase ormeggiato quasi una settimana,  mentre le     sue squadre si addentravano in mezzo a  pantani  di  cenere  in  cerca     degli   ultimi   alberi  sparpagliati.   Non  c'era  nessun  altro:  i     taglialegna avevano abbandonato i loro sentieri fuggendo dalla ferocia     dei signori della terra,  fuggendo  dal  colera  invisibile,  fuggendo     dalle  guerre  larvate  che i governi si impegnavano a tenere nascoste     con decreti fuorvianti.  Nel frattempo i passeggeri annoiati  facevano     gare di nuoto,  organizzavano partite di caccia,  tornavano con iguane     vive che squartavano e ricucivano con aghi da  imballatore  dopo  aver     tolto loro i grappoli di uova,  traslucide e morbide,  che mettevano a     seccare a filze sulle ringhiere del battello. Le prostitute povere dei     villaggi vicini seguirono la traccia delle spedizioni,  improvvisarono     tende  da  campo sugli avvallamenti della riva,  portarono musica e da     bere, e impiantarono la baldoria davanti al battello fermo.
    Fin da molto prima di essere presidente della C.F.C., Florentino Ariza     riceveva rapporti allarmanti sullo stato del  fiume,  ma  li  scorreva     appena.  Tranquillizzava  i  suoi soci: «Non preoccupatevi,  quando la     legna finirà ci saranno già battelli a petrolio».  Non si prese mai la     briga  di  pensarci,  obnubilato  dalla  passione per Fermina Daza,  e     quando si rese conto della verità non c'era più niente da fare se  non     portarci  un altro fiume nuovo.  Di notte,  anche nei periodi di acque     migliori,  bisognava  ormeggiare  per  dormire,   e  allora  diventava     insopportabile  perfino  il semplice fatto di essere vivi.  La maggior     parte  dei  passeggeri,  soprattutto  gli  europei,  abbandonavano  il     putridume  delle  cabine  e passavano la notte a camminare in coperta,     scacciando ogni tipo di bestia con lo stesso asciugamano  con  cui  si     asciugavano il sudore incessante, e all'alba erano esausti e gonfi per     le  punture.  Un  viaggiatore  inglese  dell'inizio del diciannovesimo     secolo,  riferendosi al viaggio combinato in canoa e a dorso  di  mula     che poteva durare anche cinquanta giorni, aveva scritto: «Questo è uno     dei  viaggi  peggiori  e  più scomodi che un essere umano possa fare».     Questo  aveva  smesso  di  essere  vero  nei  primi   ottant'anni   di     navigazione a vapore, e poi era tornato a esserlo per sempre, quando i     caimani  si  mangiarono  l'ultima  farfalla,  e  scomparvero  i manati     maternali, finirono i pappagalli, le scimmie, i villaggi: finì tutto.     «Non c'è problema» rideva il capitano,  «fra pochi anni verremo su per     il letto secco in automobili di lusso.»
    Fermina  Daza  e  Florentino  Ariza furono protetti i primi tre giorni     dalla soave primavera della veranda chiusa,  ma quando razionarono  la     legna  e incominciò a mancare il sistema di refrigerazione,  la Cabina     Presidenziale  si  trasformò  in  una  caffettiera   a   vapore.   Lei     sopravviveva  alle  notti  con  il  vento  del fiume che entrava dalle     finestre aperte e scacciava le zanzare con un asciugamano,  perché  la     pompa  di  insetticida  era  inutile quando il battello era fermo.  Il     dolore all'orecchio si era fatto insopportabile,  e una mattina al suo     risveglio  cessò  di  colpo  e  del  tutto,  come  il  canto di cicala     scoppiata.  Ma fino alla notte non si rese conto di aver perso l'udito     dell'orecchio  sinistro,  quando  Florentino  Ariza le parlò da quella     parte e lei dovette girare la testa per sentire quello che diceva. Non     lo disse a nessuno,  rassegnata che fosse un altro dei  tanti  difetti     irrimediabili dell'età.
    Nonostante  tutto,  il  ritardo  del  battello  era  stato per loro un     contrattempo provvidenziale. Florentino Ariza l'aveva letto una volta:     «L'amore si fa più grande e nobile nella  calamità».  L'umidità  della     Cabina  Presidenziale li sommerse in un letargo irreale in cui era più     facile  amarsi  senza  fare  domande.   Vivevano  ore   inimmaginabili     tenendosi  per mano sulle poltrone della veranda,  si baciavano piano,     si   godevano   l'ubriachezza   delle   carezze    senza    l'impiccio     dell'esasperazione.  La  terza notte di torpore lei lo aspettò con una     bottiglia di "anisado",  che beveva di  nascosto  con  la  combriccola     della cugina Hildebranda, e più tardi, già sposata e con figli, chiusa     con  le  amiche  del  suo  mondo prestato.  Aveva bisogno di un po' di     stordimento per non pensare alla sua sorte  con  troppa  lucidità,  ma     Florentino  Ariza  credette  che fosse per farsi coraggio per il passo     finale.   Animato  da  quell'illusione  si  azzardò  a  sfiorare   col     polpastrello  delle dita il suo collo avvizzito,  il seno corazzato da     stecche metalliche, i fianchi dalle ossa tarlate,  le cosce da vecchia     cerva.  Lei  lo  accettò  compiaciuta  con gli occhi chiusi,  ma senza     sussulti,  fumando e bevendo a piccoli sorsi.  Alla  fine,  quando  le     carezze scivolarono verso il suo ventre,  aveva ormai abbastanza anice     nel cuore.
    «Se dobbiamo fare delle cazzate,  facciamole» disse,  «ma che sia come     la gente adulta.»
    Lo  portò  in  camera  da  letto e incominciò a spogliarsi senza falsi     pudori con le luci accese.  Florentino  Ariza  si  sdraiò  supino  sul     letto,  cercando di riprendere la propria padronanza, ancora una volta     senza sapere che  cosa  fare  con  la  pelle  della  tigre  che  aveva     ammazzato.  Lei  gli  disse:  «Non guardare».  Lui chiese perché senza     spostare lo sguardo dal soffitto.
    «Perché non ti piacerebbe» disse lei.
    Allora lui la guardò,  e la vide nuda fino alla  vita,  così  come  se     l'era  immaginata.  Aveva  le spalle raggrinzite,  i seni cadenti e le     costole coperte da una pelle pallida e fredda come quella di una rana.     Lei si coprì il seno con la camicia che si era appena tolta  e  spense     la   luce.   Allora   lui   si  tirò  su  e  incominciò  a  spogliarsi     nell'oscurità,  gettandole addosso ogni indumento che si  toglieva,  e     lei glieli ributtava indietro morta dal ridere.
    Rimasero supini per un lungo momento,  lui sempre più stordito via via     che lo abbandonava l'ubriachezza, e lei tranquilla, quasi abulica,  ma     chiedendo  a  Dio  di  non farla ridere senza senso,  come le accadeva     sempre quando andava giù  pesante  con  l'anice.  Chiacchierarono  per     passare il tempo.  Parlarono di loro,  delle loro vite differenti, del     caso inverosimile di essere nudi nella cabina oscura  di  un  battello     fermo  quando  la  cosa  giusta  era pensare che non restasse loro più     tempo se non per aspettare la morte.  Lei non aveva mai  sentito  dire     che lui avesse una donna,  neanche una,  in una città in cui si sapeva     tutto anche prima che avvenisse.  Glielo disse in modo casuale,  e lui     le rispose immediatamente senza un tremito nella voce:
    «E' che mi sono mantenuto vergine per te.»
    Lei  non  ci avrebbe creduto in ogni modo,  anche se fosse stato vero,     perché le sue lettere d'amore erano fatte di frasi come quella che non     valevano per il loro senso ma per il loro potere di turbamento.  Ma le     piacque il coraggio con cui lo disse.  Florentino Ariza, da parte sua,     si chiese di colpo quello che non si era mai  azzardato  a  chiedersi:     che  tipo di vita nascosta avesse fatto lei ai margini del matrimonio.     Niente lo avrebbe sorpreso, perché lui sapeva che le donne sono uguali     agli uomini nelle loro avventure segrete: gli stessi  stratagemmi,  le     stesse improvvise ispirazioni, gli stessi tradimenti senza rimorsi. Ma     fece bene a non chiederlo.  In un'epoca in cui le sue relazioni con la     Chiesa erano già abbastanza tese, il confessore le chiese a sproposito     se fosse mai stata infedele al marito, e lei si alzò senza rispondere,     senza finire, senza congedarsi,  e non tornò mai più a confessarsi con     quel confessore né con nessun altro. Invece, la prudenza di Florentino     Ariza  ebbe  una ricompensa insperata: lei tese la mano nell'oscurità,     gli accarezzò il ventre, i fianchi, il pube quasi glabro.  Disse: «Hai     una  pelle  da  bambino».  Poi fece il passo finale: lo cercò dove non     era, lo ricercò senza illusioni, e lo trovò inerme.
    «E' morto» disse lui.
    Gli era capitato sempre la prima volta, con tutte,  da sempre,  e così     aveva  imparato a convivere con quel fantasma: ogni volta aveva dovuto     imparare di nuovo,  come se fosse la prima.  Prese la mano di lei e se     la mise sul petto: Fermina Daza sentì quasi a fior di pelle il vecchio     cuore  instancabile battere con la forza,  la fretta e il disordine di     un adolescente.  Lui disse: «Troppo amore è tanto dannoso  per  questo     quanto  la  mancanza  d'amore».  Ma  lo  disse  senza  convinzione: si     vergognava,  era furioso con se  stesso,  desiderando  un  motivo  per     incolpare  lei  del  suo  insuccesso.  Lei  lo sapeva,  e incominciò a     provocare il corpo indifeso con  carezze  scherzose,  come  una  gatta     tenera che si delizia nella crudeltà,  finché lui non ce la fece più a     resistere al martirio e se ne andò nella sua cabina.  Lei  continuò  a     pensare a lui fino all'alba,  convinta finalmente del suo amore, e più     l'anice l'abbandonava a ondate lente più la  invadeva  l'angoscia  che     lui si fosse disgustato e non tornasse mai più.
    Ma tornò il giorno stesso,  all'ora insolita delle undici del mattino,     fresco e restaurato,  e  si  spogliò  davanti  a  lei  con  una  certa     ostentazione.  Lei  si  compiacque  di vederlo in piena luce così come     l'aveva immaginato nell'oscurità: un uomo senza età,  di pelle  scura,     lucida e tesa come un ombrello aperto, senza altri peli all'infuori di     quelli molto scarsi e lisci delle ascelle e del pube. Aveva la guardia     alta,  e  lei si accorse che non si lasciava vedere l'arma per caso ma     che l'esibiva come un trofeo di guerra  per  farsi  coraggio.  Non  le     diede  neanche  il  tempo  di togliersi la camicia da notte che si era     messa quando era iniziata la brezza dell'alba,  e  la  sua  fretta  da     principiante  le  provocò  un fremito di compassione.  Ma non le diede     fastidio, perché in casi come quello non le era facile distinguere fra     la compassione e l'amore. Alla fine, però, si sentì svuotata.     Era la prima volta che faceva l'amore in più di vent'anni,  e lo aveva     fatto  imbarazzata  dalla curiosità di provare come poteva essere alla     sua età dopo un'interruzione così prolungata. Ma lui non le aveva dato     tempo di sapere se anche il suo corpo lo voleva.  Era stato  rapido  e     triste,  e lei pensò: «Adesso abbiamo fottuto tutto». Ma si sbagliava:     nonostante la delusione di tutti e due,  nonostante il  pentimento  di     lui  per  la  sua  goffaggine  e  il  rimorso  di  lei  per  la pazzia     dell'anice, nei giorni seguenti non si separarono un attimo.  Uscivano     dalla  cabina  quasi  solo  per  mangiare.  Il capitano,  che scopriva     qualsiasi mistero volesse nascondersi nel suo battello, gli mandava la     rosa bianca tutte le mattine,  gli aveva fatto fare  una  serenata  di     valzer  del  loro  tempo,  gli  faceva  preparare  cibi  scherzosi con     ingredienti incoraggianti.  Non riprovarono l'amore fino a molto tempo     dopo,  quando  l'ispirazione  arrivò  senza che la cercassero.  A loro     bastava la semplice felicità di stare insieme.
    Non avrebbero pensato di uscire dalla cabina se non fosse stato perché
    il capitano gli  annunciò  in  una  nota  che  dopo  pranzo  sarebbero     arrivati a La Dorada,  il porto finale, dopo undici giorni di viaggio.     Fermina Daza e Florentino Ariza videro dalla cabina il promontorio  di     case  illuminate da un sole pallido,  e credettero di capire il motivo     del suo nome, ma gli parve meno evidente quando sentirono il caldo che     ansimava come le caldaie e videro bollire l'asfalto delle strade.  Per     di  più,  il battello non attraccò lì bensì alla riva di fronte,  dove     c'era la stazione finale della ferrovia di Santa Fe.
    Abbandonarono il loro rifugio  non  appena  i  passeggeri  sbarcarono.     Fermina  Daza respirò la buona aria dell'impunità nel salone vuoto,  e     tutti e due contemplarono da bordo la folla agitata che identificava i     propri bagagli sui vagoni di un treno che sembrava un  giocattolo.  Si     poteva pensare che venissero dall'Europa,  soprattutto le donne, i cui     vestiti nordici e cappelli del secolo prima erano un controsenso nella     canicola polverosa.  Alcune avevano i capelli ornati con bei fiori  di     patata  che  incominciavano  ad avvizzirsi per il caldo.  Erano appena     arrivate dall'altopiano andino dopo una giornata di  treno  attraverso     una  savana  di  sogno  e  non avevano ancora avuto tempo di cambiarsi     d'abito per il Caribe.
    In  mezzo  alla  confusione  da  mercato,   un  uomo   molto   vecchio     dall'aspetto  sconsolato  si toglieva dei pulcini dalle tasche del suo     soprabito da mendicante. Era comparso all'improvviso, facendosi strada     tra la folla con un soprabito a pezzi che era stato di qualcuno  molto     più alto e corpulento di lui. Si tolse il cappello, lo mise rovesciato     sul molo nel caso avessero voluto dargli qualche moneta e incominciò a     tirarsi  fuori  dalle  tasche manate di pulcini teneri e scoloriti che     sembravano proliferare fra le sue dita.  In un attimo il molo sembrava     tappezzato  di  pulcini  inquieti  che  pigolavano dappertutto,  fra i     viaggiatori  frettolosi  che  li  calpestavano   senza   accorgersene.     Affascinata dallo spettacolo meraviglioso che sembrava eseguito in suo     onore,  perché  solo  lei  lo  stava  a guardare,  Fermina Daza non si     accorse in quale  momento  incominciarono  a  salire  sul  battello  i     passeggeri  del viaggio di ritorno.  Per lei finì la festa: fra quelli     che arrivavano riuscì a vedere molte facce conosciute, alcune di amici     che fino a poco tempo prima le erano stati vicini nel suo lutto,  e si     affrettò  a  rifugiarsi di nuovo in cabina.  Florentino Ariza la trovò     costernata: preferiva morire piuttosto di essere scoperta dai suoi  in     un  viaggio  di  piacere  a  così  poco  tempo dalla morte del marito.     Florentino Ariza si impressionò tanto per il suo abbattimento  che  le     promise  di  pensare  a  qualche  modo  per  proteggerla diverso dalla     clausura in cabina.
    L'idea gli venne all'improvviso quando ancora  stavano  cenando  nella     sala  da  pranzo privata.  Il capitano era preoccupato per un problema     che da tempo voleva discutere con Florentino Ariza ma che lui schivava     sempre con il suo argomento usuale: «Queste seccature le sistema Leona     Cassiani meglio di  me».  Tuttavia  stavolta  stette  a  sentirlo.  Il     problema  era  che  i  battelli  portavano  dei  carichi all'andata ma     tornavano vuoti, mentre succedeva il contrario con i passeggeri.  «Con     il  vantaggio per il carico,  che paga di più e per di più non mangia»     disse.  Fermina Daza cenava di malavoglia,  annoiata dalla discussione     snervante  dei  due  uomini  sulla  convenienza  di  istituire tariffe     differenziate.  Ma Florentino Ariza arrivò  fino  alla  fine,  e  solo     allora  fece  una domanda che al capitano sembrò l'annuncio di un'idea     di salvezza:
    «E parlando per ipotesi» disse: «sarebbe  possibile  fare  un  viaggio     diretto senza carico né passeggeri,  senza toccare nessun porto, senza     niente?».
    Il capitano disse che era possibile solo in via ipotetica.  La  C.F.C.     aveva degli impegni di lavoro che Florentino Ariza conosceva meglio di     chiunque altro,  aveva contratti di carico, di passeggeri, di posta, e     molti  altri,  nella  maggior  parte  inevitabili.  L'unica  cosa  che     permetteva  di  saltare a pié pari tutto era un caso di peste a bordo.     Il battello si dichiarava in quarantena,  si issava la bandiera gialla     e  si  navigava  in  stato  d'emergenza.  Il capitano Samaritano aveva     dovuto farlo  diverse  volte  per  i  molti  casi  di  colera  che  si     presentavano sul fiume, anche se poi le autorità sanitarie obbligavano     i  medici  a  rilasciare  certificati di dissenteria comune.  Inoltre,     spesso nella storia del fiume si issava la bandiera gialla della peste     per evitare imposte,  per non accogliere un passeggero indesiderabile,     per impedire perquisizioni inopportune. Florentino Ariza trovò la mano     di Fermina Daza sotto il tavolo.
    «E allora bene» disse, «facciamolo.»
    Il  capitano  restò  sorpreso,  ma poi,  con il suo istinto da vecchia     colpe, vide tutto chiaro.
    «Io comando su questo battello ma lei comanda su di noi» disse. «Così,     se sta parlando sul serio,  mi dia l'ordine per  iscritto,  e  noi  lo     eseguiamo subito.»
    Parlava sul serio,  ovviamente,  e Florentino Ariza firmò l'ordine. In     fin dei conti chiunque sapeva che i tempi del colera non erano finiti,     nonostante le allegre versioni delle  autorità  sanitarie.  Quanto  al     battello, non c'era problema. Si trasferì il poco carico imbarcato, ai     passeggeri si disse che c'era un guasto alle macchine,  e li mandarono     quella mattina stessa su un battello di un'altra compagnia.  Se queste     cose  si  facevano  per  tante  ragioni  immorali,  e perfino indegne,     Florentino Ariza non vedeva perché non sarebbe stato lecito farle  per     amore.  L'unica  cosa  che il capitano chiedeva era uno scalo a Puerto     Nare per raccogliere qualcuno che lo accompagnasse nel viaggio:  anche     lui aveva il suo cuore nascosto.
    Così il "Nueva Fidelidad" salpò all'alba del giorno dopo, senza carico     né  passeggeri,  e  con la bandiera gialla del colera che fluttuava di     giubilo sull'albero di maestra. All'imbrunire raccolsero a Puerto Nare     una donna più alta e robusta del capitano,  di una bellezza fuori  del     comune,  alla quale mancava solo la barba per essere scritturata da un     circo.  Si chiamava Zenaida Neves,  ma il capitano  la  chiamava  "Mia     Energumena":  una  sua  vecchia  amica  che era solito imbarcare in un     porto e sbarcare in un altro e che salì  a  bordo  seguita  dal  vento     impetuoso  della  felicità.  In quel mortorio triste,  dove Florentino     Ariza rivisse le nostalgie di Rosalba quando vide il treno di Envigado     salire a fatica su per la  vecchia  cornice  da  mule,  venne  giù  un     acquazzone  amazzonico che avrebbe continuato con pochissime pause per     il resto del viaggio.  Però non importò a nessuno: la festa  navigante     aveva il suo proprio tetto.  Quella sera, come un contributo personale     alla  festa,   Fermina  Daza  scese  in  cucina,   fra   le   ovazioni     dell'equipaggio,   e   preparò  per  tutti  un  piatto  inventato  che     Florentino Ariza battezzò: melanzane all'amore.
    Durante il giorno giocavano a  carte,  mangiavano  fino  a  scoppiare,     facevano  delle sieste granitiche che li lasciavano esausti,  e appena     calava il sole facevano partire l'orchestra e bevevano  "anisado"  con     salmone  fin oltre la sazietà.  Fu un viaggio rapido,  con il battello     leggero  e  acque  favorevoli,   migliorate   dalle   piene   che   si     precipitavano giù dalle valli, dove piovve tanto quella settimana come     in  tutto  il  tragitto.  Da  qualche  villaggio  gli  sparavano delle     cannonate di carità per scacciare il colera,  e loro li  ringraziavano     con  un  bramito triste.  I battelli che incrociavano lungo il cammino     mandavano loro segnali di condoglianza.  Nel  villaggio  di  Magangué,     dove è nata Mercedes, caricarono legna per il resto del viaggio.     Fermina  Daza  si  spaventò  quando incominciò a sentire la sirena del     battello dentro all'orecchio sano,  ma  al  secondo  giorno  di  anice     sentiva meglio con tutti e due.  Scoprì che le rose profumavano più di     prima,  che gli uccelli cantavano all'alba molto meglio di prima e che     Dio aveva fatto un manato e lo aveva messo sull'arenile di Tamalameque     solo  perché  la  svegliasse.  Il  capitano lo sentì,  fece deviare il     battello, e videro infine l'enorme matrona che stava allattando la sua     creatura fra le braccia.  Né Florentino né Fermina si resero conto  di     quanto si immedesimarono: lei lo aiutava a farsi i clisteri, si alzava     prima  di  lui per pulirgli la dentiera che lui lasciava nel bicchiere     mentre dormiva,  e risolse il problema degli occhiali perduti,  perché     quelli  di  lui  le  servivano per leggere e rammendare.  Una mattina,     quando si svegliò, lo vide nella penombra riattaccare un bottone della     camicia e si affrettò a farlo lei,  prima che lui ripetesse  la  frase     rituale  che aveva bisogno di due mogli.  Invece,  l'unica cosa di cui     lei ebbe bisogno fu che lui le mettesse una ventosa per un dolore  che     aveva alla spalla.
    Florentino Ariza,  da parte sua,  si mise a ribollire nostalgie con il     violino dell'orchestra e in mezza giornata fu capace di  eseguire  per     lei  il  valzer  de "La Dea Incoronata",  e lo suonò per ore finché lo     fecero fermare a forza. Una notte,  per la prima volta nella sua vita,     Fermina Daza si svegliò improvvisamente soffocata da un pianto che non     era di rabbia ma di pena, per il ricordo dei vecchi della barca uccisi     a  bastonate  dal  rematore  Non  la  commosse,   invece,  la  pioggia     incessante e pensò troppo tardi che forse Parigi non  era  stata  così     lugubre  come  lei  sentiva  e  che  Santa  Fe non avrebbe avuto tanti     funerali per la strada. Il sogno di altri viaggi futuri con Florentino     Ariza si alzò sull'orizzonte: viaggi folli,  senza tanti bauli,  senza     impegni sociali: viaggi d'amore.
    Alla  vigilia  dell'arrivo  fecero  una  grande festa con ghirlande di     carta e fuochi colorati.  Finì all'imbrunire.  Il capitano  e  Zenaida     ballarono   molto   stretti   i   primi  boleri  che  in  quegli  anni     incominciavano a infrangere cuori.  Florentino Ariza osò  suggerire  a     Fermina  Daza  di  ballare  il  loro  valzer  confidenziale  ma lei si     rifiutò.  Però per tutta la notte tenne il tempo  con  la  testa  e  i     tacchi,  e  ci  fu  perfino  un  momento  in  cui  ballò  seduta senza     rendersene conto,  mentre il capitano si confondeva con la sua  tenera     energumena  nella  penombra  del  bolero.  Bevette tanto "anisado" che     dovettero aiutarla a salire le scale,  e soffrì di un attacco di  risa     con lacrime che allarmò tutti. Tuttavia, quando riuscì a dominarlo nel     ristagno profumato della cabina, fecero un amore tranquillo e sano, da     vecchi  offuscati,  che si sarebbe impresso nella loro memoria come il     miglior ricordo di  quel  viaggio  lunatico.  Non  si  sentivano  come     innamorati  di fresca data,  contrariamente a quello che il capitano e     Zenaida supponevano,  e tantomeno come amanti  tardivi.  Era  come  se     avessero  saltato  l'arduo  calvario  della  vita  coniugale e fossero     andati senza altre circonvoluzioni all'essenza  dell'amore.  Passavano     il tempo in silenzio come due vecchi sposi scottati dalla vita,  oltre     le trappole della passione,  oltre gli scherzi brutali delle illusioni     e i miraggi delle disillusioni: oltre l'amore.  Perché avevano vissuto     insieme quanto bastava per  accorgersi  che  l'amore  era  l'amore  in     qualsiasi tempo e in qualsiasi parte,  ma tanto più intenso quanto più     era vicino alla morte.
    Si svegliarono alle sei.  Lei con il mal di testa profumato di anice e     con  il  cuore  stordito dall'impressione che il dottor Juvenal Urbino     fosse tornato,  più grasso e  più  giovane  di  quando  era  scivolato     dall'albero,  e  che  fosse seduto sulla sedia a dondolo ad aspettarla     sulla porta di casa. Però era abbastanza lucida per accorgersi che non     era effetto dell'anice ma dell'imminenza del ritorno.
    «Sarà come morire» disse.
    Florentino Ariza restò sorpreso perché aveva  indovinato  un  pensiero     che  non  lo  faceva  vivere  dall'inizio  del ritorno.  Né lui né lei     potevano immaginarsi in un'altra casa diversa dalla  cabina,  inseriti     in  una vita che sarebbe stata estranea per loro per sempre.  Era,  in     effetti,  come morire.  Non riuscì più a  dormire.  Restò  supino  sul     letto,  con  le mani intrecciate sotto la nuca.  A un certo momento il     dispiacere di América Vicuña lo fece torcersi di dolore e  non  riuscì     più  a  rinviare  la  verità:  si chiuse nel bagno e pianse a volontà,     senza fretta, fino all'ultima lacrima. Solo allora ebbe il coraggio di     confessarsi quanto le avesse voluto bene.
    Quando si alzarono già vestiti per sbarcare,  avevano  oltrepassato  i     canali  e  le paludi del vecchio passaggio spagnolo e navigavano fra i     rottami di barche e gli stagni di olivi morti  della  baia.  Si  stava     levando un giovedì radioso sulle cupole dorate della città dei Viceré,     ma  Fermina  Daza  non  poté  sopportare  il  fetore delle sue glorie,     l'arroganza dei suoi baluardi profanati dalle iguane:  l'orrore  della     vita  reale.  Né  lui  né lei,  senza dirselo,  si sentirono capaci di     arrendersi così facilmente.
    Trovarono il capitano in sala da pranzo, in uno stato di disordine che     non si accordava con l'eleganza dei suoi abiti: la  barba  lunga,  gli     occhi iniettati di sangue per il poco dormire, il vestito sudato della     sera  prima,  la  parola  scombussolata  dai  rutti  d'anice.  Zenaida     dormiva. Stavano incominciando a far colazione in silenzio, quando una     barca  a  motore  della   Sanità   del   Porto   ordinò   di   fermare     l'imbarcazione.
    Il capitano,  dal posto di comando,  rispose a urla alle domande della     pattuglia armata.  Volevano sapere che tipo di peste avevano a  bordo,     quanti  passeggeri  c'erano,  quanti  erano ammalati,  che possibilità     c'erano di nuovi contagi.  Il capitano rispose che portavano solo  tre     passeggeri, e tutti avevano il colera, ma erano in stretto isolamento.     Né  quelli  che  dovevano  salire  a  La Dorada né i ventisette uomini     dell'equipaggio  avevano  avuto  nessun  contatto  con  loro.   Ma  il     comandante   della  pattuglia  non  restò  soddisfatto  e  ordinò  che     uscissero dalla baia e che aspettassero alla palude  de  Las  Mercedes     fino alle due del pomeriggio, mentre si preparavano le pratiche perché     il battello restasse in quarantena.  Il capitano tirò una bestemmia da     carrettiere e con un  cenno  della  mano  ordinò  al  pilota  di  fare     dietrofront e di tornare alle paludi.
    Fermina  Daza e Florentino Ariza avevano sentito tutto dal tavolo,  ma     non sembrava che  al  capitano  importasse.  Continuò  a  mangiare  in     silenzio,  il  malumore gli si vedeva perfino nel modo in cui violò le     leggi di educazione che mantenevano alta  la  reputazione  leggendaria     dei  capitani  del fiume.  Sfondò con la punta del coltello le quattro     uova fritte, e le ripulì nel piatto con fettone di banana verde che si     metteva intere in bocca e masticava con un piacere selvaggio.  Fermina     Daza  e Florentino Ariza lo guardavano senza aprire bocca,  aspettando     la lettura dei voti finali  su  un  banco  di  scuola.  Non  si  erano     scambiati  una  parola finché era durato il colloquio con la pattuglia     sanitaria né avevano la minima idea di quello che sarebbe stato  delle     loro vite,  ma tutti e due sapevano che il capitano stava pensando per     loro: lo si vedeva nella pulsazione delle tempie.
    Mentre serviva la razione di uova, il vassoio di fettone di banana, il     recipiente di caffellatte,  il battello uscì dalla baia con le caldaie     al minimo,  avanzò nei canali attraverso le trapunte di "tarulla",  il     loto fluviale dai fiori violetti e dalle  grandi  foglie  a  forma  di     cuore, e tornò alle paludi. L'acqua era azzurro-rosa per l'infinità di     pesci che galleggiavano di fianco, uccisi dalla dinamite dei pescatori     di  frodo,  e  gli  uccelli  terrestri e acquatici volavano in cerchio     sopra di loro con stridii metallici.  Il vento del Caribe entrò  dalle     finestre  con  lo  schiamazzo  degli  uccelli e Fermina Daza sentì nel     sangue le  pulsazioni  disordinate  del  suo  libero  arbitrio.  Sulla     destra,  torbido  e  parsimonioso,  l'estuario  del  río  Grande de La     Magdalena si estendeva fino all'altro lato del mondo.
    Quando non restò più nulla da mangiare nei piatti, il capitano si pulì     la bocca con l'angolo della tovaglia e parlò in un gergo sfacciato che     chiuse definitivamente  con  il  prestigio  delle  buone  maniere  dei     capitani  del  fiume.  Perché  non  parlò  per  loro né per nessuno ma     cercando di mettersi d'accordo  con  la  sua  stessa  rabbia.  La  sua     conclusione,  dopo una sfilza di improperi barbari, fu che non trovava     come uscire dall'imbroglio in cui si erano messi con la  bandiera  del     colera.
    Florentino  Ariza  lo  ascoltò senza battere ciglio.  Poi guardò dalle     finestre il cerchio completo  del  quadrante  della  rosa  dei  venti,     l'orizzonte  nitido,  il  cielo di dicembre senza una sola nuvola,  le     acque navigabili per sempre, e disse:
    «Andiamo a dritta, a dritta, a dritta, ancora verso La Dorada.»     Fermina Daza sussultò, perché riconobbe l'antica voce illuminata dalla     grazia dello Spirito Santo,  e guardò il capitano: era lui il destino.     Ma  il capitano non la vide perché era annichilito dal tremendo potere     di ispirazione di Florentino Ariza.
    «Lo dice sul serio?» gli chiese.
    «Fin da quando sono nato» disse Florentino Ariza,  «non ho  detto  una     sola cosa che non sia sul serio.»
    Il  capitano  guardò  Fermina  Daza  e  vide  sulle sue ciglia i primi     fulgori di una brina invernale.  Poi guardò Florentino Ariza,  la  sua     padronanza invincibile,  il suo amore impavido, e lo turbò il sospetto     tardivo che è la vita, più che la morte, a non avere limiti.
    «E fino a quando crede che possiamo continuare con questo  andirivieni     del cazzo?» gli domandò.
    Florentino  Ariza  aveva la risposta pronta da cinquantatré anni sette     mesi e undici giorni, notti comprese.
    «Per tutta la vita» disse.