sabato 14 marzo 2020


NEMESI
Philip Roth

Capitolo primo 
Newark equatoriale
 Il primo caso di polio quell’estate si verificò agli inizi di giugno, subito dopo il Memorial Day, in un quartiere italiano povero all’altro capo della città rispetto al nostro. Dall’angolo sudoccidentale di Newark, nella zona ebraica di Weequahic, noi non ne venimmo a conoscenza, e non venimmo a conoscenza nemmeno dei casi successivi, una decina, sparpagliati in quasi tutti i quartieri tranne il nostro. Solo il 4 luglio, quando in città si registravano già quaranta casi, sulla prima pagina del quotidiano della sera comparve un articolo dal titolo Autorità sanitaria allerta i genitori contro la polio, in cui si riportavano i consigli alla famiglia del dottor William Kittell, direttore del servizio sanitario locale: tenere sotto stretta osservazione i propri figli e contattare un medico se un bambino mostrava sintomi come mal di testa, mal di gola, nausea, torcicollo, dolori alle articolazioni o febbre. Pur riconoscendo che, in quella fase precoce della stagione, quaranta casi di polio erano piú del doppio rispetto al consueto, intendeva mettere ben in chiaro che la città, con i suoi 429 000 abitanti, non si trovava affatto di fronte a un’epidemia di poliomielite. Quell’estate, come ogni estate, c’erano motivi di apprensione e si rendeva necessario adottare le corrette precauzioni igieniche, ma sarebbe stato ingiustificato, in quella fase, un allarmismo come quello mostrato dai genitori, «piuttosto comprensibilmente», ventotto anni prima, durante il manifestarsi della malattia nella forma piú grave mai registrata: l’epidemia di polio del 1916 nel Nordest degli Stati Uniti, quando si erano riscontrati piú di 27 000 casi, con 6000 morti. E a Newark 1360 casi e 363 morti. Anche negli anni con un numero di casi nella media, quando le probabilità di contrarre la polio erano molto minori che nel 1916, una malattia capace di paralizzare un giovanotto rendendolo permanentemente invalido, deforme o impossibilitato a respirare al di fuori di quel cilindro metallico chiamato polmone d’acciaio – e capace anche di portare dalla paralisi dei muscoli respiratori alla morte – creava grande inquietudine nei genitori del nostro quartiere, e turbava la tranquillità d’animo dei bambini che nei mesi estivi erano liberi dalla scuola e potevano giocare fuori per tutta la giornata fin nel lungo crepuscolo serale. L’apprensione per le atroci conseguenze cui andava incontro chi si ammalava gravemente di polio era peggiorata dal fatto che non esistesse alcuna medicina in grado di curare la malattia, né alcun vaccino capace di immunizzare da essa. La polio – o paralisi infantile, come la si chiamava quando si pensava che infettasse soprattutto i bambini piccoli – poteva colpire chiunque, senza alcuna ragione apparente. Benché a soffrirne di solito fossero i minori di sedici anni, anche gli adulti potevano venirne contagiati, come era accaduto al presidente degli Stati Uniti in carica. Franklin Delano Roosevelt, la piú celebre vittima della poliomielite, aveva contratto la malattia quando era nel pieno vigore dei suoi trentanove anni e, da allora, per camminare aveva bisogno che qualcuno lo sostenesse e, anche cosí, per reggersi in piedi doveva portare pesanti tutori ortopedici in cuoio e acciaio che lo fasciavano dalle anche ai piedi. L’istituzione caritatevole fondata da FDR mentre era alla Casa Bianca, la March of Dimes, raccoglieva denaro per la ricerca e per l’assistenza finanziaria alle famiglie degli ammalati; una guarigione parziale o anche completa era possibile, ma perlopiú solo dopo mesi o anni di costose terapie ospedaliere e fisioterapiche. Nel corso dell’annuale campagna di raccolta fondi, per contribuire alla lotta contro la malattia nelle scuole i giovani americani donavano i loro dimes, le monete da dieci centesimi, e al cinema li lasciavano cadere nei barattoli per la questua fatti girare dalle maschere, mentre in tutto il paese, alle pareti di negozi e uffici e nei corridoi delle scuole, comparivano manifesti che proclamavano «Anche tu puoi dare il tuo aiuto!» e «Contribuisci a combattere la polio!», manifesti con bambini in sedia a rotelle – una bella bimba con i tutori ortopedici alle gambe che si succhiava timidamente il dito, un bimbo ammodo, anche lui con i tutori ortopedici, che sorrideva eroico e pieno di speranza –, manifesti che rendevano l’eventualità di prendersi la malattia molto piú spaventosamente reale per bambini che quanto al resto erano in salute. A Newark, in basso com’era, le estati erano molto umide, ed essendo la città in parte circondata da vasti acquitrini – gran fonte di malaria ai tempi in cui anche quella era una malattia incontrollabile –, c’erano sciami di zanzare da scacciare e schiacciare quando la sera ce ne stavamo seduti sulle sedie da spiaggia in vicoli e vialetti cercando all’aperto un po’ di requie dall’afa dei nostri appartamenti, dove per mitigare il caldo infernale non avevamo altro che docce fredde e acqua ghiacciata. Si era prima dell’avvento dell’aria condizionata nelle case, all’epoca in cui i piccoli ventilatori elettrici neri piazzati su un tavolo per creare un po’ di brezza all’interno offrivano ben poco sollievo quando la temperatura si avvicinava ai quaranta gradi, come quell’estate accadde spesso anche per una settimana o dieci giorni di fila. All’esterno, la gente accendeva candele di citronella e si spruzzava di insetticida Flit per tenere a bada zanzare e mosche, già responsabili di aver portato malaria, febbre gialla e tifo, e ora, come sospettavano in molti – a partire dal sindaco Drummond, che aveva lanciato in tutta Newark la campagna «Schiaccia la mosca» –, forse anche la polio. Quando una mosca o una zanzara riuscivano a penetrare oltre le zanzariere di un appartamento o a volare dentro una porta aperta, l’insetto veniva accanitamente inseguito con scacciamosche e Flit, per paura che, posandosi con le sue zampe cariche di germi su un bambino addormentato, lo infettasse con la polio. Dato che allora nessuno conosceva la fonte del contagio, era lecito sospettare pressoché di tutto, inclusi gli scheletrici gatti randagi che prendevano d’assalto i bidoni della spazzatura nel nostro cortile, i cani inselvatichiti che vagabondavano affamati intorno alle case defecando nelle strade e sui marciapiedi, e i piccioni che tubavano negli abbaini imbrattando di guano gessoso i gradini davanti alle porte. Nei primi mesi del manifestarsi della polio – prima che il servizio sanitario la riconoscesse come epidemia –, l’ufficio d’igiene si dedicò al sistematico sterminio dell’enorme popolazione cittadina di gatti randagi, anche se nessuno sapeva se avessero a che fare con la polio piú dei gatti domestici. Però si sapeva per certo che la malattia era estremamente contagiosa e poteva venire trasmessa ai sani attraverso la mera prossimità fisica con chi ne era già infetto. Per tale ragione, quando il numero di casi in città continuò stabilmente ad aumentare – e con esso la paura della comunità –, molti bambini del nostro quartiere si sentirono proibire dai genitori di fare uso della grande piscina pubblica all’Olympic Park nella vicina Irvington, di frequentare i cinema locali «ad aria refrigerata» e di prendere l’autobus per il centro o attraversare il Down Neck fino a Wilson Avenue per vedere la nostra squadra della minor league, i Newark Bears, giocare a baseball al Ruppert Stadium. Ci diffidarono dall’usare i bagni pubblici, dal bere alle fontane, dal dare un sorso alla bibita di un compagno, dal prendere freddo, dal giocare con estranei, dal procurarci libri in biblioteca, dal parlare ai telefoni pubblici, dal comprare cibo per strada e dal mangiare senza esserci prima puliti a fondo le mani con acqua e sapone. Dovevamo lavare frutta e verdura prima di mangiarle, e dovevamo tenerci a distanza da chiunque avesse l’aria malata o lamentasse qualcuno dei sintomi rivelatori della polio. Sottrarsi al caldo della città per venir mandati a un campo estivo in montagna o in campagna era considerata la miglior protezione dalla polio per un bambino. E anche trascorrere l’estate al mare sulla Jersey Shore, a un centinaio di chilometri di distanza. Le famiglie che se lo potevano permettere affittavano una camera da letto con uso cucina in una pensione di Bradley Beach, un chilometro e mezzo di sabbia, passeggiata e villette che da alcuni decenni andava per la maggiore fra gli ebrei del North Jersey. Madri e figli vi trascorrevano l’intera settimana andando in spiaggia a respirare la fresca e fortificante aria dell’oceano, mentre i padri li raggiungevano per il weekend e nelle vacanze. Naturalmente si era a conoscenza di casi di polio sia nei campi estivi sia nelle cittadine sulla costa ma, dal momento che non erano cosí numerosi come quelli che si registravano a Newark, tutti ritenevano che le aree urbane, con i loro marciapiedi luridi e l’aria stagnante, facilitassero il contagio, e che invece stanziarsi a portata d’occhio o d’orecchio del mare, oppure in campagna o in montagna, fornisse a un bambino la miglior garanzia possibile di evitare la malattia. Cosí i pochi privilegiati sparivano dalla città per tutta l’estate, mentre noialtri restavamo lí a fare esattamente quel che non avremmo dovuto, dato che il «sovraffaticamento» era un’altra delle sospette cause di polio: giocavamo inning su inning e partite su partite di softball sul torrido asfalto del campo giochi della scuola, correndo per tutto il giorno nel caldo estremo, bevendo assetati dalle proibite fontane pubbliche, per poi, nelle pause fra le riprese, sedere su una panchina appiccicati l’uno all’altro stringendo in grembo i guantoni sudici e logori che in campo usavamo per asciugarci il sudore dalla fronte e impedire che ci finisse negli occhi; facevamo i buffoni e ce la spassavamo nelle nostre polo grondanti e nelle nostre scarpe da ginnastica puzzolenti, incuranti del fatto che tali imprudenze avrebbero potuto condannare chiunque di noi al carcere a vita in un polmone d’acciaio e al concretizzarsi delle piú terrificanti paure fisiche. Non si faceva vedere mai piú di una decina di femmine nel campo giochi della scuola, perlopiú bambine di otto o nove anni che se ne stavano a saltare la corda dove l’estremità del campo sfociava in una viuzza chiusa al traffico. Quando non saltavano la corda, le bambine usavano la strada per giocare alla settimana, a correre fra le basi, al gioco delle cinque pietre oppure a far allegramente rimbalzare per tutto il giorno una palla di gomma rosa. A volte, quando le femmine saltavano contemporaneamente due corde che giravano in direzioni opposte, uno dei maschi correva da loro senza essere stato invitato e, spintonando via la bambina che stava per saltare, balzava al centro e si esibiva nella parodia di una delle loro canzoncine preferite, aggrovigliandosi a bella posta fra le corde svolazzanti. «I, mi chiamo Ippopotamo…!» Le bambine si mettevano a strillare «Smettila! Smettila!» e chiamavano in aiuto l’animatore di gioco, il quale, da qualunque punto si trovasse nel campo, si limitava a urlare in direzione dell’attaccabrighe (di solito era quasi sempre lo stesso): «Piantala, Myron! Lascia in pace le bambine, se no ti spedisco a casa!» E con ciò il guazzabuglio si placava. Poco dopo le corde ricominciavano a volteggiare schioccando nell’aria e la cantilena riprendeva a passare da una saltatrice all’altra: A, mi chiamo Agnes Mio marito si chiama Alphonse, Veniamo dall’Alabama Portiamo albicocche! B, mi chiamo Bev Mio marito si chiama Bill, Veniamo dalle Bermuda Portiamo barbabietole! C, mi chiamo… Con le loro voci infantili, le bambine accampate all’estremità opposta del campo giochi improvvisavano in quella vena dalla A alla Z e ritorno, allitterando le ultime parole di ogni verso, non sempre in modo del tutto congruo. Nel loro entusiastico saltare e piroettare – tranne quando Myron Kopferman e i suoi pari interferivano facendo loro il verso – esibivano un’energia stupefacente, e a meno che per il caldo non venissero invitate dall’animatore a ritirarsi all’ombra della scuola, non sgombravano quella strada dal venerdí di giugno in cui si concludeva il secondo quadrimestre fino al martedí successivo al Labor Day, quando cominciava il primo quadrimestre e non potevano piú saltare la corda se non dopo la scuola e durante l’intervallo. Quell’anno l’animatore del campo giochi era Bucky Cantor, il quale, poiché non ci vedeva bene ed era costretto a portare occhiali con le lenti spesse, era uno dei pochi giovani a non essere in guerra a combattere. Dall’anno prima Mr Cantor era il nuovo insegnante di educazione fisica della scuola di Chancellor Avenue, perciò conosceva già molti di noi frequentatori abituali del campo giochi per averli avuti in classe. Quell’estate aveva ventitre anni, ed era diplomato alla South Side, una scuola superiore di Newark con una frequentazione mista per razza e religione, e poi al Panzer College of Physical Education and Hygiene di East Orange. Era alto poco piú di un metro e sessanta e, benché fosse un ottimo atleta ed eccellesse negli sport, la scarsa altezza e la vista debole gli avevano impedito di entrare nelle squadre di football, baseball e basket, costringendolo a limitare al lancio del giavellotto e al sollevamento pesi la propria partecipazione ai campionati fra college. Su quel corpo compatto troneggiava una testa notevole, una combinazione di tratti sbilenchi e obliqui: zigomi larghi e pronunciati, fronte alta, mascella spigolosa e un naso lungo e dritto con un ponte sporgente che faceva somigliare il suo profilo affilato a una silhouette su una moneta. Le labbra carnose erano altrettanto ben definite dei muscoli, e la carnagione era brunita tutto l’anno. Fin dall’adolescenza portava i capelli a spazzola, in stile militare. Un’acconciatura che metteva particolarmente in risalto le orecchie, non perché fossero troppo grosse – non lo erano –, e neppure perché fossero particolarmente appiccicate alla testa, ma perché, viste di lato, avevano la forma di un asso di picche in un mazzo di carte, o delle ali di un mitologico piede alato, non essendo arrotondate in cima, come di consueto sono le orecchie, ma praticamente a punta. Prima che il nonno lo soprannominasse Bucky, per breve tempo i compagni di gioco della sua infanzia lo avevano chiamato Asso, e non solo per la sua precoce maestria negli sport, ma proprio per la forma poco comune di quelle orecchie. Il complesso delle superfici inclinate del suo viso conferiva agli occhi grigio fumo dietro le lenti – occhi lunghi e sottili come quelli di un asiatico – un aspetto profondamente incavato, come se giacessero al fondo di un cratere. La voce che proveniva da quel viso dai tratti cosí netti era, inaspettatamente, un po’ stridula, ma ciò non nuoceva alla forte impressione esercitata dal suo aspetto fisico. Aveva la faccia ferrea, inalterabile, straordinariamente baldanzosa di un giovane uomo ben piantato su cui si poteva fare affidamento. Un pomeriggio, ai primi di luglio, arrivarono due auto piene di italiani dell’East Side High, ragazzi dai quindici ai diciotto anni che si fermarono all’imbocco della strada residenziale dietro la scuola, dove era situato il campo giochi. L’East Side si trovava nella zona dell’Ironbound, lo slum industriale dove fino a quel momento si erano registrati la maggior parte dei casi di polio in città. Non appena li vide accostare, Mr Cantor lasciò cadere il guantone – stava giocando con noi come terza base in una partita a prendere – e si precipitò verso il punto dove i dieci estranei si erano riversati fuori dalle due auto. I ragazzini del campo giochi già avevano preso a imitare il suo atletico trotterellare con i piedi rivolti all’interno, la determinazione con cui si sollevava leggermente verso l’alto mentre si muoveva sugli avampiedi e il lieve dondolio delle spalle possenti. Alcuni di loro avevano fatto proprio ogni tratto della sua andatura dentro e fuori il campo da gioco. – Che volete? – disse Mr Cantor. – Veniamo ad attaccare la polio, – rispose uno degli italiani. Era il primo a essere sceso tutto tronfio da una delle due auto. – Giusto? – disse, voltandosi per farsi bello davanti alle coorti che gli coprivano le spalle e che, a Mr Cantor, apparivano fin troppo desiderose di fomentare una rissa. – A me pare che veniate ad attaccare briga, – ribatté Mr Cantor. – Perché non vi togliete di torno? – No, no, – insistette l’italiano, – prima vi attacchiamo un po’ di polio. Noi ce l’abbiamo e voi no, perciò abbiamo pensato che potevamo venire qui e attaccarvela –. E mentre parlava si dondolava avanti e indietro per far vedere che era un duro. La sfacciataggine dei pollici infilzati nei passanti dei calzoni serviva a mostrare il suo disprezzo tanto quanto lo sguardo. – Io sono l’animatore del campo giochi, – disse Mr Cantor, indicando noi ragazzini dietro le sue spalle. – Vi chiedo di allontanarvi dal campo. Questo non è il vostro posto, e vi chiedo cortesemente di andarvene. Cosa mi dite? – Da quando in qua c’è una legge che vieta di attaccare la polio, signor Animatore del campo giochi? – Sentite, con la polio non si scherza. E c’è una legge che vieta di turbare l’ordine pubblico. Preferirei non dover chiamare la polizia. Che ne dite di andarvene di vostra spontanea volontà prima che faccia venire gli agenti a portarvi via? A quelle parole, il capo della banda, che era quindici centimetri buoni piú alto di Mr Cantor, fece un passo avanti e sputò sul marciapiede, lasciando un viscoso grumo di saliva a pochi centimetri dalla punta delle scarpe da ginnastica di Mr Cantor. – E questo che significa? – gli domandò Mr Cantor. Serbava ancora un tono di voce calmo e, con le braccia saldamente incrociate sul petto, era la personificazione dell’irremovibilità. Nessun teppista dell’Ironbound avrebbe avuto la meglio su di lui avvicinandosi ai suoi ragazzini. – Te l’ho detto cosa significa. Vi attacchiamo la polio. Non vogliamo che voialtri restate senza. – Senti, piantala con questa stronzata del «voialtri», – disse Mr Cantor facendo un rapido, furibondo passo avanti per piazzarsi a pochi centimetri dalla faccia dell’italiano. – Ti do dieci secondi per far dietrofront e portar via tutti di qui. L’italiano sorrise. In effetti non aveva smesso di sorridere da quando era sceso dall’auto. – E dopo? – domandò. – Te l’ho detto. Chiamo i poliziotti per farvi mandar via e tenervi lontani da qui. A questo punto l’italiano sputò di nuovo, stavolta proprio a fianco delle sue scarpe da ginnastica, e Mr Cantor si rivolse al ragazzo che era di turno alla battuta e che, al pari del resto di noi, lo stava osservando in silenzio tener testa ai dieci italiani. – Jerry, – disse, – corri nel mio ufficio. Telefona alla polizia. Digli che stai chiamando da parte mia. Digli che ho bisogno di loro. – Cosa mi fanno, mi sbattono dentro? – chiese il capo degli italiani. – Mi mettono al fresco per aver sputato sul tuo prezioso marciapiede di Weequahic? Anche il marciapiede è tuo, quattrocchi? Mr Cantor non rispose, si limitò a restare piantato lí fra i ragazzini interrotti mentre giocavano a softball nel campo d’asfalto alle sue spalle, e le due macchinate di ragazzi italiani, ancora in piedi nella strada all’imbocco del campo giochi come se ognuno di loro fosse in procinto di buttare a terra la sigaretta e sguainare un’arma. Ma quando Jerry tornò dall’ufficio di Mr Cantor nel seminterrato – dove, secondo le istruzioni, aveva telefonato alla polizia –, le due auto con i loro sinistri occupanti se n’erano andate. Quando, solo qualche minuto dopo, arrivò la volante, Mr Cantor fu in grado di dare ai poliziotti entrambi i numeri di targa, che aveva memorizzato nel corso di quella situazione di stallo. Solo una volta che i poliziotti se ne furono andati, i ragazzini dietro la recinzione cominciarono a farsi beffe degli italiani. Venne fuori che c’erano sputi su tutta l’ampia area di marciapiede su cui si erano disposti i ragazzi italiani, due metri quadri di una poltiglia viscida e disgustosa che appariva senza ombra di dubbio un terreno di cultura ideale per la malattia. Mr Cantor mandò due ragazzi nello stanzino del bidello nel seminterrato della scuola a prendere un paio di secchi e riempirli di acqua bollente e ammoniaca, per poi versare l’acqua sul marciapiede finché ogni centimetro tornò lindo come prima. E a guardare i ragazzini che lavavano via quella poltiglia, Mr Cantor si rammentò di quando a dieci anni gli era toccato ripulire dopo aver ammazzato un ratto nel retro del negozio di alimentari del nonno. – Non c’è niente di cui preoccuparsi, – disse Mr Cantor ai ragazzi. – Non torneranno. Nella vita, – continuò, citando una delle frasi preferite di suo nonno, – capita sempre qualcosa di bizzarro, – e tornò alla partita e tutti ripresero a giocare. I ragazzi che l’avevano osservato dall’altro lato della recinzione di rete metallica alta due piani erano rimasti impressionati dalla maniera in cui Mr Cantor aveva affrontato gli italiani. I suoi modi decisi e sicuri, la sua forza da pesista, il fatto che ogni giorno si unisse a noi con entusiasmo per giocare a softball… tutto ciò lo aveva reso una figura amata dagli habitué del campo giochi fin dal giorno in cui era arrivato; ma dopo l’episodio con gli italiani divenne un vero e proprio eroe, un fratello maggiore idolatrato, protettivo ed eroico, soprattutto per quelli tra noi i cui fratelli maggiori erano via in guerra. Fu qualche giorno dopo che due fra i ragazzi presenti quando erano arrivati gli italiani non si presentarono al campo giochi della Chancellor per giocare a softball. La mattina entrambi si erano svegliati con la febbre alta e il torcicollo, ed entro la sera del giorno dopo si sentivano braccia e gambe debolissime e respiravano con difficoltà, perciò dovettero essere portati in ospedale con l’ambulanza. Uno dei due, Herbie Steinmark, era un simpatico alunno di terza media goffo e cicciottello che, a causa della sua inettitudine negli sport, di solito veniva messo a giocare come esterno destro ed era sempre l’ultimo a battere, mentre l’altro, Alan Michaels, anche lui di terza media, era fra i due o tre migliori atleti del campo giochi, e uno dei piú affezionati a Mr Cantor. Quelli di Herbie e Alan erano i primi casi di polio del quartiere. Nel giro di quarantott’ore ci furono altri undici casi e, anche se nessuno di loro era stato presente quel giorno al campo, nel quartiere si sparse la voce che la malattia era stata portata a Weequahic dagli italiani. Siccome fino a quel momento nel loro quartiere si era registrato il maggior numero di casi di polio in città, mentre nel nostro non se ne era registrato nessuno, ci si convinse che, fedeli a quel che avevano detto, quel pomeriggio gli italiani avessero attraversato la città con l’intenzione di contagiare gli ebrei con la polio, e ci fossero riusciti. La madre di Bucky Cantor era morta di parto, e lui era stato cresciuto dai nonni materni in un caseggiato di dodici famiglie in Barclay Street, a poca distanza da Avon Avenue, in una delle zone piú povere della città. Il padre, da cui aveva ereditato i problemi alla vista, faceva il contabile per un grande magazzino del centro e aveva una smodata passione per le scommesse sui cavalli. Poco dopo la morte della moglie e la nascita del figlio, era stato condannato per aver derubato il datore di lavoro allo scopo di saldare i debiti di gioco, e si era scoperto che si riempiva le tasche dal giorno in cui era stato assunto. Trascorse due anni in prigione e, dopo essere stato scarcerato, non tornò piú a Newark. Invece di avere un padre, il ragazzo, il cui vero nome era Eugene, ricevette i suoi insegnamenti sulla vita dal pingue e laborioso nonno, una sorta di orso nel cui negozio di alimentari in Avon Avenue lui lavorava dopo la scuola e la domenica. Aveva cinque anni quando il padre si risposò e prese un avvocato per ottenere che il figlio andasse a vivere con lui e la nuova moglie a Perth Amboy, dove aveva trovato un posto al cantiere navale. Il nonno, invece di prendere anche lui un avvocato, salí in macchina e andò dritto a Perth Amboy, dove ebbe luogo una discussione nel corso della quale, a quanto si dice, il nonno minacciò di spezzare il collo al suo ex genero se avesse osato intromettersi in qualunque modo nella vita di Eugene. Dopodiché il padre di Eugene non si fece mai piú vivo. Fu a forza di sollevare casse di derrate in negozio insieme al nonno che il ragazzo cominciò a sviluppare braccia e torace, e fu a forza di correre innumerevoli volte al giorno su e giú per le tre rampe di scale che portavano all’appartamento che cominciò a sviluppare le gambe. E fu dall’intrepidezza del nonno che imparò a far fronte a qualunque ostacolo, incluso l’essere figlio di un uomo che suo nonno avrebbe definito per tutta la vita «un personaggio alquanto equivoco». Da ragazzo voleva essere forte fisicamente, proprio come il nonno, e non voleva portare occhiali spessi. Ma ci vedeva cosí poco che, quando la notte se li toglieva per andare a letto, distingueva a stento la sagoma dei pochi mobili della camera. All’epoca in cui aveva dovuto mettere il suo primo paio di occhiali, all’età di otto anni, il nonno, che dei propri svantaggi non si era mai dato troppo pensiero, lo aveva informato che adesso ci avrebbe visto bene come chiunque altro. E sull’argomento non ci fu piú altro da aggiungere. La nonna era una donnina affettuosa e dal cuore tenero, un buon, solido contrappeso genitoriale al nonno. Sopportava le avversità con coraggio, anche se le venivano le lacrime agli occhi quando qualcuno le menzionava la figlia ventenne morta di parto. Era molto amata dai clienti del negozio, e a casa, dove non stava mai con le mani in mano, seguiva distrattamente Life Can Be Beautiful e le altre soap opera radiofoniche che piacevano a lei, quelle in cui l’ascoltatore era sempre teso, sempre sul chi vive, e si aspettava da un momento all’altro un’ennesima disgrazia. Nelle poche ore al giorno in cui non aiutava in negozio, si dedicava anima e corpo al benessere di Eugene, assistendolo quando aveva morbillo, orecchioni e varicella, e verificando che i suoi vestiti fossero sempre puliti e aggiustati, che facesse i compiti, che voti e pagelle fossero firmati, che andasse regolarmente dal dentista (come in quel periodo capitava a pochi bambini poveri), che il cibo cucinato fosse sostanzioso e abbondante, e che il conto delle lezioni di ebraico che frequentava alla sinagoga in vista del bar mitzvah venisse saldato. A parte il terzetto delle consuete malattie infettive infantili, il bambino godeva di un’incrollabile buona salute, aveva denti forti e regolari, e nel complesso un senso di benessere fisico che doveva aver qualcosa a che vedere con il modo in cui lei gli aveva fatto da madre, cercando di compiere tutto ciò che, all’epoca, era considerato necessario per un bambino nell’età della crescita. Lei e il marito litigavano di rado: ciascuno dei due sapeva quali erano i propri compiti e come meglio svolgerli, e ciascuno vi si dedicava con un trasporto il cui esempio non andava sprecato con il giovane Eugene. Il nonno vegliava sullo sviluppo virile del ragazzo, era sempre all’erta per sradicare qualunque debolezza – oltre a quella della vista – potesse aver ereditato dal padre naturale e per insegnargli che ogni impegno nella vita di un uomo è permeato di responsabilità. Per Eugene non era sempre facile mostrarsi all’altezza delle pretese del nonno, ma quando ci riusciva gli elogi non mancavano. Ci fu la volta in cui, ad appena dieci anni, trovò un grosso ratto grigio nella penombra del magazzino sul retro del negozio. Fuori faceva già buio quando vide il ratto che entrava e usciva da una pila di scatoloni che lui e il nonno avevano svuotato. Il suo primo impulso, ovviamente, fu darsi alla fuga. Invece, sapendo che il nonno era impegnato con una cliente, senza far rumore allungò una mano per prendere il pesante e capiente badile per il carbone con cui stava imparando ad alimentare la caldaia che scaldava il negozio. Trattenendo il fiato, avanzò in punta di piedi fino a bloccare in un angolo il ratto in preda al panico. Quando sollevò il badile nell’aria, il ratto si rizzò sulle zampe posteriori e digrignò i suoi spaventosi denti, preparandosi a compiere un balzo. Ma prima che potesse staccarsi da terra, lui calò svelto il badile e, colpendo il roditore dritto sul cranio, gli spaccò la testa. Sangue misto a pezzi di osso e di materia cerebrale defluí nelle fessure tra le assi di legno del pavimento mentre – non riuscendo del tutto a trattenere l’improvviso impulso a vomitare – lui usava la pala del badile per raccogliere l’animale morto. Era pesante, piú pesante di quanto avrebbe mai immaginato, e lí disteso nel badile sembrava piú grosso e piú lungo di quando era ritto sulle zampe posteriori. Stranamente, nulla – nemmeno l’appendice senza vita della coda e i quattro piedi immobili – sembrava altrettanto morto del paio di baffi fini come aghi e macchiati di sangue. Mentre brandiva l’arma alta sul capo, non aveva fatto caso ai baffi; non aveva fatto caso ad altro che alla parola «Ammazzalo!» che gli risuonava nel cervello come se fosse stato il nonno a pronunciarla. Aspettò che la cliente uscisse con la sua borsa della spesa, poi, reggendo il badile dritto di fronte a sé – e con un’espressione impassibile per mostrare quanto poco si fosse turbato –, portò il ratto morto nel negozio per mostrarlo al nonno prima di procedere verso la porta. Uscito in strada, scosse via la carcassa dal badile e lo scaricò nelle fogne attraverso la grata di ferro all’angolo. Poi rientrò in negozio e, con spazzolone, sapone da bucato, stracci e un secchio d’acqua, pulí il pavimento dal vomito e dalle tracce del ratto, e lavò il badile. Fu in seguito a quel trionfo che il nonno cominciò a chiamare l’occhialuto bambino di dieci anni Bucky, per la connotazione di ostinatezza e insieme di ardimentosa ed energica forza di volontà che il soprannome portava con sé. Il nonno, Sam Cantor, era giunto da solo in America negli anni Ottanta dell’Ottocento, come piccolo immigrato da un villaggio ebraico della Galizia polacca. Aveva imparato a non aver paura nelle strade di Newark, dove piú di una volta si era trovato col naso rotto dopo una zuffa con qualche banda antisemita. La violenza contro gli ebrei, cosí comune in città durante la sua infanzia nello slum, aveva contribuito non poco a formare la sua visione della vita, e di conseguenza quella del nipote. Incoraggiava il nipote a farsi valere come uomo e a farsi valere come ebreo, e a tener presente che non si finisce mai di lottare e che, nell’incessante schermaglia della vita, «quando devi pagare il prezzo, lo paghi». Per il ragazzo, il naso rotto nel mezzo della faccia del nonno era sempre stato una testimonianza di come, per quanto ci avesse provato, il mondo non fosse riuscito a schiacciarlo. Il vecchio era già morto per un attacco di cuore nel luglio del 1944, quando i dieci italiani si presentarono in macchina al campo giochi e, tutto da solo, Mr Cantor li respinse, ma ciò non significa che in quello scontro non fosse presente anche lui. Un ragazzo che aveva perso la madre alla nascita e il padre in prigione, un ragazzo i cui genitori non figuravano affatto tra i suoi primi ricordi, non avrebbe potuto sperare in un miglior surrogato per renderlo forte da ogni punto di vista – perciò di rado si lasciava tormentare dal pensiero dei genitori perduti, anche se la sua biografia era stata determinata dalla loro assenza. Mr Cantor aveva vent’anni e frequentava il terzo anno di college quando, domenica 7 dicembre 1941, la flotta del Pacifico della marina statunitense fu bombardata e quasi distrutta nell’attacco giapponese a sorpresa su Pearl Harbor. Lunedí 8 si presentò all’ufficio di reclutamento davanti al municipio per unirsi alla lotta. Ma a causa della sua vista nessuno lo accettò, né l’esercito, né la marina, né la guardia costiera, né i marines. Fu dichiarato inabile alla leva e rispedito al Panzer College per continuare gli studi come futuro insegnante di educazione fisica. Il nonno era morto da poco e, per quanto quel pensiero fosse irrazionale, Mr Cantor sentiva di averlo deluso, di non aver soddisfatto le aspettative del suo granitico mentore. A che gli servivano forza muscolare e prestanza atletica se non poteva metterle a frutto come soldato? Se sollevava pesi fin dalla prima adolescenza non era solo per avere la forza di lanciare un giavellotto… ma per avere la forza di essere un marine. L’America era entrata in guerra e lui era ancora lí con le mani in mano mentre tutti gli uomini abili della sua età si stavano addestrando a combattere i giapponesi e i tedeschi, compresi i suoi due piú cari amici del Panzer, che la mattina dell’8 dicembre si erano messi in fila con lui davanti all’ufficio di reclutamento. La nonna, con cui ancora viveva facendo il pendolare con il Panzer, lo udí piangere in camera sua la notte in cui i suoi compagni Dave e Jake partirono alla volta di Fort Dix per cominciare l’addestramento base senza di lui, lo udí piangere come non sapeva che Eugene potesse piangere. Si vergognava a farsi vedere in abiti civili, si vergognava quando guardava i cinegiornali tra un film e l’altro, si vergognava quando, tornando a Newark in autobus da East Orange alla fine di una giornata di studio, sedeva a fianco di qualcuno che stava leggendo sul giornale della sera la grande notizia del giorno: Bataan cade, Corregidor cade, Wake Island cade. Provava la vergogna di uno che avrebbe potuto fare la differenza mentre le forze statunitensi nel Pacifico subivano una colossale disfatta dopo l’altra. A causa della guerra e della chiamata alle armi, nelle scuole i posti per gli insegnanti maschi di educazione fisica erano cosí numerosi che, ancor prima di diplomarsi al Panzer nel giugno del 1943, si era già assicurato un impiego alla scuola di Chancellor Avenue, fondata solo dieci anni prima, ed era stato ingaggiato come animatore estivo del campo giochi. Il suo obiettivo era insegnare educazione fisica e allenare le squadre studentesche alla Weequahic, la scuola superiore sorta accanto alla Chancellor. Mr Cantor ne era attratto perché entrambe le scuole avevano un corpo studentesco a stragrande maggioranza ebraica ed eccellenti credenziali accademiche. Voleva insegnare a quei ragazzini a eccellere negli sport oltre che nello studio, e a dare il giusto valore alla sportività e a quel che si poteva imparare attraverso la competizione su un campo da gioco. Voleva insegnare loro quel che suo nonno aveva insegnato a lui: la durezza e la determinazione, a essere fisicamente coraggiosi e fisicamente in forma, a non lasciarsi mettere i piedi in testa o svillaneggiare da chi diceva che gli ebrei, solo perché sapevano usare il cervello, erano delle checche e dei rammolliti. Secondo le notizie dilagate al campo giochi dopo che Herbie Steinmark e Alan Michaels erano stati portati in ambulanza al reparto di isolamento del Beth Israel Hospital, i due ragazzi erano completamente paralizzati e, incapaci di respirare da soli, venivano tenuti in vita dentro polmoni d’acciaio. Anche se non tutti quella mattina si erano presentati al campo, c’erano ancora abbastanza ragazzini per formare quattro squadre per un torneo a girone dell’intera giornata di partite da cinque inning ciascuna. Mr Cantor valutò che, oltre a Herbie e Alan, mancavano quindici o venti della novantina di habitué del campo giochi – tenuti a casa dai genitori, presumeva, per timore della polio. Conoscendo bene l’atteggiamento protettivo dei genitori ebrei del quartiere e le apprensioni materne delle guardinghe madri, era anzi stupito che non ne mancassero molti di piú. Forse era servito il discorso che aveva fatto loro il giorno prima.