And now the News
di Theodore Sturgeon
di Theodore Sturgeon
The Magazine of Fantasy and Science Fiction, dicembre 1956
Abbiamo parlato e discusso del grande Theodore Sturgeon già in modo abbastanza ampio nelle pagine di questa serie di antologie. Sia sufficiente dire, qui, che Sturgeon è stato uno dei migliori talenti che abbiano operato nel campo della fantascienza e che la sua morte prima che potesse ricevere il Grand Master Award of the Science Fiction Writers of America non ha fatto altro che accentuare la tragedia e la perdita di cui tutti abbiamo sofferto.
Sturgeon ha scritto, come molti scrittori, di alcune delle sue personali ossessioni. Nel caso di «E adesso le notizie...» non so se fosse da ascrivere a quell'elenco — ma so che si tratta d'una formidabile, avvincente, storia di ossessioni, una storia con la quale mi sono sempre identificato dal momento che io stesso sono un serio cacciatore di notizie. E so che lo sei anche tu, Isaac. M.H.G.
Io, Marty, sono arrivato a sviluppare la mia passione per le notizie in maniera molto chiara e lineare. Fu negli anni Trenta che divenni consapevole delle notizie, e dal momento che mio padre possedeva un chiosco di giornali, ho avuto le più ampie possibilità di saziare il mio appetito. Quello era il decennio di Hitler, che venne seguito dal mezzo decennio della seconda guerra mondiale. Per un periodo di tredici anni, dal 1929 al 1942, le notizie riguardavano soprattutto un accumularsi di disastri. La depressione, il nazismo, e la guerra, mi hanno certamente turbato nell'arco degli anni, e dal momento che Ted Sturgeon era un mio contemporaneo, devono aver disturbato anche lui.
Naturalmente, ho sentito un sacco di gente dire: «Ma perché i giornali non stampano le buone notizie?» In un certo senso sarei dispiaciuto se lo facessero, poiché è ciò che è insolito che fa notizia. Puoi usare quattromila parole per descrivere uno spettacolare incidente aereo, ma come fai a trovare più di cento parole per descrivere un volo dove tutto è filato liscio come l'olio? Se cominciassero a fare un gran baccano su un volo sicuro, ciò significherebbe soltanto a indicare che ciò viene considerato molto insolito. Una volta sono stato visto baciare mia moglie in pubblico, e questo è arrivato sulla pagina dei pettegolezzi del New York Post, il che mi ha depresso, poiché significava chiaramente che per una coppia sposata baciarsi in pubblico era un fenomeno raro equivalente a quello di un uomo che morde un cane. I.A.
E ADESSO LE NOTIZIE
Il nome dell'uomo era MacLyle, e guardandolo vi sareste magari convinti che non era il suo vero nome, ma diciamo che questa è fantasia, d'accordo? MacLyle aveva un buon lavoro in — già — una fabbrica di sapone. Lavorava duro e guadagnava bene; sposò una ragazza chiamata Esther. Comperò una casa nei sobborghi e una volta che l'ebbe pagata l'affittò a certa gente e comperò un'altra casa più fuori e una seconda macchina e un congelatore e una falciatrice elettrica e un libro su come farsi un giardino, e s'impegnò nella degna impresa di dare ai suoi bambini tutte le cose che lui non aveva mai avuto.
Aveva abitudini e aveva hobby come chiunque altro e (come chiunque altro) i suoi erano un po' diversi da quelli di tutti gli altri. Quello che infastidiva maggiormente sua moglie, fino a quando non ci si abituò, era l'abitudine delle notizie, o magari l'hobby delle notizie. MacLyle leggeva il giornale del mattino sul treno delle 8 e 14 e il giornale della sera su quello delle sei e 10 pomeridiane, e il giornale locale che il suo sobborgo utilizzava per gli annunci sui cani smarriti e le vendite all'asta gli prendeva quaranta minuti dopo la cena. E quando leggeva un giornale, lo leggeva sul serio, non pasticciava le cose. Prima leggeva la prima pagina, e poi la seconda, e così via, fino in fondo. Non gl'importavano molto i libri, ma li rispettava in maniera mistica, e aveva l'abitudine di dire che un giornale era una specie di libro, e perciò faceva il diavolo a quattro se una parte mancava oppure era stata rovesciata, oppure se le pagine erano fuori squadra. Inoltre ascoltava le notizie alla radio. C'erano tre stazioni in città che trasmettevano un notiziario ogni ora, una allo scoccar dell'ora, una alla mezza, e una cinque minuti prima dell'ora, e di solito lui riusciva a prendere tutti e tre i notiziari. Durante questi periodi di cinque minuti vi guardava direttamente negli occhi mentre gli parlavate e avreste giurato che vi stava ascoltando, ma non era così. Questa era una particolare sofferenza per sua moglie, ma soltanto per cinque anni o giù di lì. Poi lei aveva smesso di sforzarsi per farsi sentire quando la radio parlava d'inondazioni e di assassini, di scandali e di suicidi. Altri cinque anni, e lei riprese a parlare in mezzo alle trasmissioni, ma quando la gente è sposata da dieci anni, cose del genere non hanno importanza; parlano comunque in codice, e i nove decimi dei loro discorsi possono venir captati in qualunque momento come se fossero un nastro della telescrivente. MacLyle ascoltava anche le notizie delle 7 e 30 sul Canale 2 e delle 7 e 45 sul Canale 4 alla televisione.
Adesso, si potrebbe immaginare da tutto questo che MacLyle fosse un tipo irritabile con abitudini fisse e una pignoleria neurotica, ma questo non era affatto il caso. Fondamentalmente MacLyle era un tizio ragionevole che amava la moglie e i figli, amava il suo lavoro e si godeva la vita. Rideva facilmente, parlava bene e pagava i conti. Giustificava la sua preoccupazione per le notizie in molti modi. Citava Donne: «...la morte di qualsiasi uomo mi sminuisce, poiché io sono legato all'intera umanità...» Il che è roba molto robusta e difficile da contestare. Faceva notare che prendeva sempre i treni, e i treni lo facevano essere puntuale, ma che, proprio a causa dei treni, vedeva sempre le stesse facce alle stesse ore, ogni giorno dopo altri interminabili giorni, e dopo aver viaggiato su quei treni il suo mondo immediato era piuttosto circoscritto, e soltanto una continua consapevolezza di ciò che stava accadendo dovunque sulla Terra lo manteneva conscio de! fatto che viveva in un luogo più grande di un sottile universo con la sua casa a un'estremità e il suo ufficio all'altra, e un binario di ferrovia nel mezzo.
È difficile dire quando MacLyle cominciò ad andare in pezzi, o anche soltanto perché, anche se è ovvio che ciò aveva a che fare con tutte le notizie a cui si era esposto. Cominciò a reagire, dapprima molto lievemente; vale a dire, potevate capire che stava ascoltando. Vi azzittiva, e se cercavate di finire quello che stavate dicendo, correva a cacciare la testa vicino alla griglia dell'altoparlante. Sua moglie e i suoi figli avevano imparato a stare zitti quando arrivavano le notizie, cinque minuti prima dell'ora fino a cinque minuti dopo l'ora (con MacLyle che cambiava stazione) e ogni ora alla mezza, e dalle 7 e 30 alle 8 per la Tv, e durante i quaranta minuti che impiegava a leggere il giornale locale. Non era così ovvio quando leggeva il suo giornale, poiché tutto quello che faceva era d'immobilizzarsi sopra le pagine come un catatonico, stringendo gli angoli superiori fino a quando i fogli non fremevano, annodando la mandibola e respirando dalle narici con un fischio soffocato.
Naturalmente tutto questo gravava non poco su sua moglie Esther, che tentava del suo meglio per ragionare con lui. Dapprima lui le aveva risposto, con voce pacata, che un uomo deve tenersi in contatto, sai; ma molto presto MacLyle aveva smesso di dare una qualunque risposta, riservandole il trattamento in cui un suburbano diventa così esperto, al punto d'ignorare perfino il vicino di casa che comincia a manovrare il suo tosaerba sul prato a un'ora indecente del mattino della domenica. Non dite sì e non dite no, non grugnite neppure, e non muovete la testa e neanche le sopracciglia. Dopo un po' il vostro interlocutore se ne va. Ben presto non sentite più queste seccature intempestive, non più di quanto mostrate di sentirle.
A questo punto è necessario dire di nuovo che MacLyle era, al di fuori di questa sua peculiarità, un tipo amichevole e cordiale. Gli piaceva la gente e li invitava e andava a trovarli, ed era uno di quegli adulti che riescono davvero ad ascoltare le interminabili avventure di un bambino della prima elementare, e d'interessarsene davvero. Non dimenticava mai cose come il fatto che la ruota di riserva perdeva un po', oppure l'antigelo o gli anniversari, e tirava sempre su in tempo le controfinestre esterne, ma non faceva mai pesare la sua affidabilità su nessuno. La prima cosa, nel corso della sua vita, che non accettò come naturale fu quella nuova cosa cominciata così in piccolo ma cresciuta così in fretta.
Così, dopo «una maturazione» di qualche settimana, sua moglie prese il toro per le corna e passò un intero pomeriggio ad «azzoppare» ogni ricevitore in casa. C'erano tre radio e due televisori, e lei non capiva nulla del loro funzionamento, ma aveva un buon cervello e si mise al lavoro con tanta determinazione e l'apriscatole d'un coltello da tasca. Da ogni ricevitore tolse una valvola, e una per volta, così da non far confusione, le portò in cucina e picchiò meticolosamente la loro base contro il bordo del lavello, facendo attenzione a non infrangere il vetro e a non piegare i piedini, fino a quando non vide le viscere della valvola che rotolavano libere all'interno.
Poi rimise le valvole e i pannelli al loro posto.
MacLyle tornò a casa, mise la macchina in garage, baciò la moglie, accese la radio nel soggiorno e andò ad appendere il cappello. Quando tornò la radio avrebbe già dovuto scaldarsi, ma non era così. Girò per un po' le manopole, diede dei colpi all'apparecchio, e qualche scossone, grugnendo, e poi si accorse dell'ora. Cominciò a sentirsi prendere un po' dal panico, si precipitò di nuovo in cucina e accese la piccola radio d'avorio sulla mensola. La radio si accese prontamente e allegramente cominciò a produrre un limpido ronzio da sessanta cicli, ma nient'altro. Da quel momento MacLyle cominciò a comportarsi male, mettendosi a urlare ai quattro venti l'informazione che gli apparecchi, tutti e due, non funzionavano, come se la cosa non fosse ormai più che evidente, e poi salì di corsa nella camera dei ragazzi, svegliandoli in modo esplosivo. Accese la loro radio ed ebbe in risposta un'altra nota di sessanta cicli, stavolta con un fragoroso gracchiare microfonico quando picchiò sullo chassis, cosa che fece per quattro volte, dopo di che l'apparecchio tacque del tutto.
Esther aveva progettato la faccenda fino a quel punto, ma non oltre, ed era così che funzionava la sua mente. Aveva immaginato di poter controllare la cosa, ma aveva immaginato male. MacLyle discese le scale come un portatore di bare, e rimase silenzioso e scosso fino alle 7 e 30, l'ora delle notizie in televisione. L'apparecchio del soggiorno non volle produrre alcun suono, così MacLyle salì di nuovo nella camera dei ragazzi, facendoli sussultare proprio mentre stavano per riaddormentarsi, e questa volta il più piccolo cominciò a piangere. MacLyle se ne infischiò. Quando scoprì che anche quell'apparecchio non restituiva nessuna immagine, quasi scoppiò in lacrime anche lui. Ma poi sentì il suono. Un apparecchio televisivo ha un numero spaventoso di valvole e Esther non sapeva distinguere quelle audio da quelle video. MacLyle si sedette davanti allo schermo buio e ascoltò le notizie. «Ogni cosa sembra sotto controllo in India nel territorio di confine sconvolto dai tumulti» disse il televisore. Rumori di folla e la «Marcia Turca» di Mozart come sottofondo. «E poi...» Non più musica: il fragore della folla aumenta: farfugli e un urlo. Di nuovo lo speaker: «Sei ore più tardi, la scena era questa». Un silenzio totale così lungo che MacLyle allungò il braccio e pestò il televisore col pugno. Poi, con un lento crescendo, la musica di «Nel Giardino d'un Monastero» di Ketelbey. «Su una nota un po' più allegra, eccovi le sei finaliste al concorso di Miss Continuum». Musica di fondo, «Blue Room», interminabile, interrotta soltanto una volta quando l'annunciatore disse, con una risata infantile: «... e parlava sul serio!» MacLyle si picchiò le tempie. Il ragazzino continuava a singhiozzare. Esther, immobile in fondo alla scala, si torceva le mani. Continuò così per trenta minuti. Quando scese a pianterreno, MacLyle disse soltanto che voleva il giornale — quello locale. Così Esther affrontò il grande ignoto e gli disse schiettamente che non l'aveva comperato e aveva disdetto l'abbonamento, per sempre, il che, naturalmente, portò a una completa e tumultuosa confessione delle sue attività durante quel pomeriggio.
Soltanto una donna sposata da più di quattordici anni può conoscere un uomo abbastanza bene da trattarlo tanto male. Era ben conscia di essere dalla parte del torto, ma ciò veniva del tutto scavalcato dal fatto che era una donna logica. Non sarebbe stato logico continuare ad essere paziente, così la sua pazienza era alla fine. Quello che ti offende buttalo via, sì, perfino il tuo occhio e la mano destra. Si rese conto troppo tardi che le notizie facevano parte in maniera così intrinseca di suo marito che nel buttarle via aveva buttato via anche lui. E lui se ne andò via, mentre lei, bianca in volto, ascoltava il fragore della porta del garage, la portiera della macchina che pronunciava le sue sillabe secche, limpide come Esce in un dramma, il gemito dell'avviamento, il lamento del motore. Si disse che era contenta, andò in cucina e buttò dalla mensola l'inutile radio d'avorio, e si ritirò in camera piangendo.
Eppure poiché la vita, quella vera, offre pochi tagli netti, lo vide ancora una volta. Di mattina, alle tre meno sette minuti, divenne consapevole di una debole musica che arrivava da qualche parte; inesplicabilmente la cosa la spaventò, e girò in punta di piedi per la casa alla ricerca della fonte della musica. Non era in casa. Così s'infilò l'impermeabile di suo marito e scese lentamente i gradini che portavano nel garage. E là, proprio fuori, nel vialetto di accesso, dove le travi di acciaio non potevano interferire con la ricezione radio, c'era l'auto nel punto in cui era sempre stata, e MacLyle era nel sedile del guidatore appisolato sopra il volante. La musica veniva dalla radio nella macchina. Lei si strinse addosso di più l'impermeabile, si avvicinò alla macchina, aprì la portiera e disse il suo nome. Proprio in quel momento, la radio fece: «... e adesso le notizie». E MacLyle si rizzò a sedere e l'azzittì con furore. Lei arretrò e rimase immobile là per un attimo in una strana transizione dalla resa incondizionata alla totale sconfitta. Poi lui chiuse la portiera della macchina e si sporse in avanti, con la mano sul controllo del volume e lei rientrò in casa.
Dopo che il notiziario si concluse e lui si fu ripreso dalle coltellate di un teppista, dalle angosce sferraglianti di un treno deragliato, dal terrore di un C-119 che era stato sul punto di precipitare, e dal fascino di un funzionario ministeriale, socio fondatore di un club Noi Non Ci Fidiamo Di Nessuno, dicendo, esattamente con queste parole, che c'è un po' di buono nel peggiore di noi e un po' di cattivo nel migliore di noi, tutte cose che lui avvertì acutamente, mise in moto la macchina (facendola rullare giù per il vialetto perché la batteria era quasi scarica) e guidò il più lentamente possibile fino in città.
In un garage aperto tutta la notte fece lavare e oliare la macchina mentre aspettava, poi l'automat si aprì e lui si sedette per tre ore a bere caffé, tenendo strette le mascelle fino a quando i denti posteriori non cominciarono a fargli male, e producendo occasionali, quasi inaudibili rumori in fondo alla gola. Alle nove si rimise in piedi. Passò l'intera giornata insieme al suo stupidissimo avvocato, passando in rassegna tutti i suoi beni, vendendo, convertendo, stabilendo, fino a quando non si ritrovò con una modesta somma in contanti e sua moglie avrebbe avuto un reddito adeguato fino a quando i suoi figli non fossero andati all'università, e allora la casa sarebbe stata venduta, gli inquilini della casa più vecchia sfrattati, e Esther sarebbe stata libera di trasferirsi nella casa più piccola con il valore di quella più grande aggiunto al capitale di base. L'avvocato avrebbe potuto anche avere dei timori per MacLyle, se non fosse stato per il fatto che questi si era mostrato gioviale e loquace per tutto il tempo, comportandosi come un uomo felice, una rara forma di follia, ma accettabile. Fu un duro lavoro, ma ce la fecero in un giorno, dopo di che MacLyle strinse la mano dell'avvocato, lo ringraziò profusamente e prese una stanza in un albergo.
Quando si svegliò, la mattina dopo, balzò fuori dal letto sentendosi di molti anni più giovane, aprì la porta, raccolse il giornale del mattino e diede un'occhiata ai titoli di testa.
Non riuscì a leggerli.
Grugnì per la sorpresa, chiuse lentamente la porta, e si sedette sul letto con il giornale sulle ginocchia. Le sue mani si mossero senza sosta su di esso, lisciandolo ancora, e ancora, fino a quando il palmo delle mani divenne ombreggiato e i caratteri confusi. Quei simboli marciavano urlanti attraverso la pagina come una parata di estranei, con addosso qualche irriconoscibile uniforme, origini sconosciute, destinazione sconosciuta, e il motivo di quella marcia era solo vagamente immaginabile. Seguì il profilo delle lettere con il mignolo, misurò la lunghezza d'una parola fra l'indice e il pollice e li sollevò tenendoli davanti ai suoi occhi meravigliati. D'un tratto si alzò in piedi e si avvicinò alla scrivania, dove segni e simboli e note stampate erano intrappolati come una collezione di farfalle sotto vetro: il menu della prima colazione, qualcosa sul servizio di guardaroba, qualcosa sull'ora in cui si doveva lasciare libera la camera. Allora li ricordò tutti ed ebbe un'idea del loro significato — ma non poteva leggerli. Nel cassetto c'erano della carta da lettere e buste, con una fotografia dell'albergo con nessun altro edificio intorno, il che non era affatto vero, e una scritta che, per quanto lui ne sapeva, avrebbe potuto essere in cirillico. Moduli per telegrammi, l'orario delle partenze degli autobus, un tampone assorbente, tutti coperti di geroglifici e rune, per quanto lo riguardava. Un elenco telefonico pieno di nomi illeggibili con simboli strani.
S'impose di recitare l'alfabeto. «A» disse con chiarezza, e «Eh?», ma non suonò giusto e lui non riusci a immaginare cosa sarebbe suonato giusto al suo posto. Produsse un piccolo sorriso sciocco e scrollò brevemente la testa. Ma, sorriso o no, sentì che aveva paura. Si sentiva contento, o sollevato... comunque in gran parte felice, ma sempre un po' spaventato.
Chiamò la ricezione e disse che gli preparassero il conto, si vestì e scese giù. Diede al portiere il biglietto del parcheggio e aspettò fino a quando non gli portarono la macchina davanti all'ingresso. Sali, accese la radio e si avviò verso ovest.
Guidò per alcuni giorni in uno stato di paura perpetua, di gelido spavento, ma (malgrado tutto) felice — paure e spaventi come sulle montagne russe, come davanti a un film dell'orrore — ricordando il significato dei segnali di stop ma senza essere capace di leggere la parola STOP scritta di traverso, facendo attenzione alla forma dei segnali di attraversamento dei binari ferroviari. I ristoranti apparivano ristoranti, le stazioni di rifornimento stazioni di rifornimento; se l'immagine di Washington denotava un dollaro e quella di Lincoln cinque, non c'è bisogno di saper leggere i numeri. MacLyle se la cavava benissimo. Guidò fino a quando non fu bene addentro in uno di quegli stati quadrati tutti montagne e proseguì fino a quando non riconobbe la parte dove, molti anni prima, si era sposato, e aveva passato una vacanza andando a caccia. Evitando il capanno che aveva usato allora, prese delle strade secondarie fino a quando non arrivò proprio in quella baracca abbandonata dove aveva trovato rifugio una notte. Era ancora in piedi, un po' marcita ma soltanto sui bordi. Vagò molto a lungo dentro e fuori di essa, mandando a memoria i particolari poiché non riusciva a compilare un elenco, e poi tornò dentro la macchina e guidò fino alla città più vicina, non molto vicina e non molto città. All'emporio comperò scandole, farina, chiodi e pittura — ogni genere di pittura, in piccoli barattoli, come pure grandi contenitori di vernice da interni — e prodotti in scatola e utensili. Ordinò un mulino a vento a prezzi ribassati e un generatore, ottanta chili di argilla per modellare, due teglie per il pane e una terrina per l'insalata, e un'amaca da giungla, residuato dell'ultima guerra. Pagò in contanti e promise di tornare due settimane dopo per le cose che l'emporio non teneva e doveva ordinare, e inviò un telegramma (poiché era possibile dettarlo per telefono) al suo avvocato per farsi mandare ottanta dollari al mese, tutto quello che gl'importava di prendere per sé dai suoi beni. Prima di andarsene rimase fermo a fissare con meraviglia uno strumento musicale di ottone chiamato oficleide che si ergeva polveroso e maestoso in un angolo. (Anche se potrebbe essere più facile per il lettore chiamarlo corno inglese o sassofono — cosa che soddisferebbe gli scopi narrativi altrettanto bene — qui abbiamo smesso di dire bugie. Il vero nome di MacLyle è nascosto, la sua città natale velata, e la sua occupazione mimetizzata, ma, maledizione, era davvero un'obsoleta oficleide di ottone da cinquanta pollici, a dodici chiavi, del 1824). Il negoziante gli spiegò come suo nonno avesse portato l'insolito strumento fin là dal suo vecchio paese e come nessuno l'avesse più suonato per due generazioni salvo per un concertista di tuba itinerante che era diventato verde pallido dopo tre note e l'aveva prontamente messo giù come se fosse pieno di percussori. MacLyle gli chiese che suono avesse e l'uomo gli rispose: terribile. Due settimane più tardi MacLyle tornò a prendersi il resto della roba, annuendo e sorridendo senza dire una sola parola. Non poteva più leggere, e adesso non poteva neppure parlare. Ancora peggio, aveva perduto la capacità di capire le parole. Pagò gli acquisti con un biglietto da cento dollari e un'espressione malinconica, e poi con un altro biglietto da cento dollari, e il negoziante, pensando che fosse diventato sordo e muto, l'imbrogliò in pieno, ma allo stesso tempo si sentì talmente dispiaciuto per lui da offrirgli l'oficleide. MacLyle caricò tutto felice la sua auto e se ne andò. E questa è la prima parte della storia su un MacLyle in cattivo stato.
La moglie di MacLyle, Esther, si trovò in una singolare posizione. Gli amici e i vicini le facevano domande estemporanee alle quali non sapeva rispondere, e l'unica persona che aveva qualche informazione, l'avvocato di MacLyle, era vincolata dall'obbligo di non dirle niente. Lei non era stata, sia in senso letterale che legale, abbandonata, dal momento che a lei e ai bambini venivano passati gli alimenti. Sentiva la mancanza di MacLyle, ma in maniera selettiva; sentiva la mancanza del vecchio e affidabile MacLyle, il quale l'aveva, in realtà, lasciata molto tempo prima di quella lunga e sconcertante notte in cui se n'era andato via in macchina. Lei voleva riavere quel vecchio MacLyle, non l'estraneo uscito dai binari con quell'orribile e spastica ossessione per le notizie. Fra tutte le molte sgradevoli sfaccettature della personalità di quell'estraneo, ce n'era una che ardeva più luminosa di tutte: era il tipo d'uomo che se ne sarebbe andato — come lui aveva fatto — per tutto il tempo che se n'era andato. Ergo, MacLyle era quella persona indesiderabile soltanto per il tempo in cui se ne sarebbe stato via, e rintracciarlo, se fosse tornato contro la sua volontà, sarebbe servito soltanto a restituirle una persona che non era la persona della quale lei sentiva la mancanza.
Eppure era insoddisfatta di se stessa, malgrado fosse lei la parte lesa e avesse delle ferite meno dolorose dei tormenti del rimorso. Si era sempre vantata di essere una buona moglie, e aveva fatto molte cose in passato che andavano contro la ragione e i suoi desideri puramente perché s'inquadravano con la sua immagine di buona moglie. Così, a mano a mano che il tempo passava, si allontanava dall'area del «cosa devo fare» per entrare nello spettro del «cosa dovrebbe fare una buona moglie?» e dopo averci riflettuto con molta attenzione, andò a trovare uno psichiatra. Era uno psichiatra piuttosto intelligente, il che significa che capì quello che era ovvio un po' più in fretta della maggior parte della gente. Per esempio, divenne consapevole in soli quattro minuti di conversazione con la moglie di MacLyle, Esther, che lei non era venuta da lui per se stessa e, inoltre, volle ascoltarla fino in fondo prima di decidersi a curarla. Quando lei ebbe finito e lui ebbe tirato fuori abbastanza dettagli corroborativi per avere un quadro completo, lo psichiatra s'immerse in un lungo silenzio e rifletté. Confrontò il caso MacLyle nelle sue linee generali con le sue letture e la sua esperienza, riconobbe la sfida, il valore clinico del caso, il probabile valore del ciondolo con diamante portato dalla sua visitatrice. Unì le punte delle dita, abbassò la sua giovane e belle testa, e fissò attraverso le ciglia la moglie di MacLyle, Esther, e raccolse il guanto. Davanti alla prospettiva di riavere il proprio marito sano di corpo e di mente, lei lo ringraziò con calma e lasciò lo studio in preda a un miscuglio di emozioni. Lo psichiatra discretamente intelligente tirò un profondo sospiro e cominciò a prendere accordi con un altro strizzacervelli perché si prendesse cura dei suoi pazienti, tutti e due, mentre era via, poiché calcolava che sarebbe rimasto via per un bel po'.
Gli fu tremendamente facile rintracciare MacLyle. Non si avvicinò neppure all'avvocato. Le solide fondamenta di tutti gli agenti delle assicurazioni che cercano gii scomparsi che hanno lasciato debiti, nonché dell'Ufficio delle Persone Smarrite, nel loro modus operandi, sono un pezzo di psicologia applicata secondo il quale un uomo può cambiare nome e indirizzo, ma cambierà di rado — potrà cambiare di rado — le cose che fa, soprattutto le cose che lo fanno divertire. Il fanatico degli sci non scappa in Florida, anche se potrebbe andare a Banff invece del solito Mount Tremblant. È improbabile che un filatelico si metta ad infilzare farfalle. Perciò quando lo psichiatra trovò, fra le carte di MacLyle, alcuni pieghevoli ricchi di fotografie delle torreggiami Montagne Rocciose, di orsi che si nutrivano sul ciglio della strada, e specialmente un bel po' di souvenirs messi insieme, stagione dopo stagione, d'un particolare luogo di villeggiatura nel quale non aveva mai condotto sua moglie e che non aveva mai più visitato da quando l'aveva sposata, la cosa era valsa un sondaggio, partito sotto forma d'una richiesta, fatta alla polizia di quello stato, d'informazioni su un uomo che corrispondeva a questa descrizione, il quale guidava una certa macchina con targa non dello stato, oltre alla richiesta che l'uomo non venisse arrestato o comunque avvertito, e che soltanto lui, lo psichiatra intelligente, ne venisse informato. Buttò anche altre lenze, ma fu quella ad agganciare il pesce. Fu questione di settimane prima che una macchina della polizia dello stato passasse per l'emporio favorito di MacLyle: dopo, fu soltanto questione di minuti prima che l'informazione finisse nelle mani dello psichiatra. Non disse niente alla moglie di MacLyle, Esther, salvo, arrivederci per un bel po', e che il conto doveva pagarlo adesso, quindi decollò portando con sé una valigia di trucchi ed espedienti.
Affittò una macchina all'aeroporto più vicino al nascondiglio di MacLyle e guidò per un percorso lungo, in salita, che gli fece venire una sete da morire, fino a quando non arrivò all'emporio. Una volta lì, ebbe un colloquio con il proprietario, apprendendo all'incirca milleottocento variazioni specifiche sul fatto che gli affari andavano male, sul caldo che faceva, sulla pioggia che non si decideva a cadere, e quanta invece ne sarebbe servita, la tragedia di essere accusato di far prezzi troppo alti quando chiunque avesse il cervello che Dio dà a un'oca avrebbe dovuto sapere che tutto costava un mucchio di soldi, a doverlo spedire fin lassù, specialmente nei piccoli quantitativi concessi dagli affari che andavano così male, e tutto il resto. E fra una cosa e l'altra apprese otto o dieci voci su MacLyle — l'esatta ubicazione della sua baracca, il fatto che sembrava essere diventato sordomuto e per giunta incapace di leggere, e che doveva essere matto poiché chi se non un matto avrebbe voluto ottantaquattro differenti barattoli da mezza pinta di vernice per interni o, se era per quello, ostinarsi a vivere là fuori quando non c'era nessun bisogno che lo facesse.
Dopo un po' lo psichiatra riuscì a sganciarsi e si allontanò in macchina, e il paesaggio divenne più alto, più polveroso e più desolante col passare di ogni miglio, fino a quando lo psichiatra cominciò a pregare che non si guastasse niente nella macchina, e infatti dieci minuti più tardi qualcosa si guastò. Qualunque macchina che producesse un rumore come quello che aveva cominciato a sentire aveva decisamente dei guai al motore, e lui la fermò su un lato della strada per preoccuparsene. Spense il motore, ma il rumore continuò imperterrito, e lui si rese conto che il rumore non proveniva dalla macchina e neppure da lì vicino, ma da qualche punto più in alto. C'era ancora un miglio da percorrere in salita, e lui guidò con crescente stupore, poiché quel fragore diventava in continuazione più forte e impossibile. Era una specie di musica, ma non assomigliava a nessuna musica in voga in quei giorni su questo o qualunque altro pianeta. Era un assolo di ottoni... con muscoli. Le note alte, delle quali pareva esistessero circa due ottave, erano selvagge e non musicali, quelle di mezzo erano ruvide, ma le note basse erano come la voce di quelle montagne, salivano immense fino al cielo, calde e più naturali di quanto qualunque altra cosa avrebbe potuto essere, fondamentali come le zanne di un orso. Eppure tutte le note erano perfette — gli intervalli erano perfetti — quell'orribile fragore era accordato come un organo elettronico. Lo psichiatra aveva un buon orecchio, anche se per un po' si chiese per quanto tempo avrebbe conservato gli orecchi, e in brevi istanti fu in grado di riassumere tutto ciò che sapeva dei suoni, compreso il fatto che quel fragore stava in realtà eseguendo uno dei più semplici esercizi di digitazione di Czerny, Libro Primo, quel piccolo, monotono orrore che fa do mi fa sol la sol fa mi, re fa sol la si la sol fa, mi sol la... eccetera, salendo con estrema lentezza la scala per poi scendere di colpo, e ricominciare.
Vide il cielo azzurro quasi sotto i suoi pneumatici anteriori e sterzò di colpo, e si trovò nel cortile erboso della baracca di un prospettore minerario rimessa a nuovo, ma di questa non si accorse subito perché davanti ad essa era seduto quello che descrisse a se stesso, strappato com'era stato dal suo distacco professionale, come l'uomo dall'aspetto più folle che avesse mai visto.
Era seduto sotto un abete rosso Englemamann deformato dal vento. Era scalzo. Indossava una maglietta e un cappello che aveva la forma conica di una di quelle tende da boy-scout quando uno dei boy-scout si è dimenticato a casa il palo. E stava suonando, o comunque si stava esercitando con l'oficleide, e sulle sue spalle c'era un po' di muschio di aghi di abete, una pioggia che scendeva dall'albero tutte le volte che arrivava al si bemolle basso, o ancora più giù. Soltanto un topo rimasto intrappolato dentro un basso tubo durante le prove di una banda può sapere esattamente cosa significhi trovarsi così vicino a un'oficleide in funzione.
Senza alcun dubbio era MacLyle, con un aspetto ben nutrito e soddisfatto. Quando vide la macchina dello psichiatra continuò a suonare, ma nel vedere l'occhio dello psichiatra sbatté le palpebre, sorrise con un lieve movimento dell'angolo del labbro che occhieggiava da dietro la grande coppa del bocchino e fece girare tre dita della mano destra, tutto quello che poteva fare a mo' di saluto senza smettere di suonare. E neppure si fermò finché non ebbe scalato quella particolare ottava alla quale stava lavorando per poi scendere sull'altro versante. Poi mise giù con cautela l'oficleide, che appoggiò all'abete, e si alzò in piedi. Lo psichiatra era diventato consapevole, mentre quelle ultime, stupende note si perdevano fra le montagne, del suo estremo isolamento con quell'insolito paziente, della salute e del vigore fin troppo palesi dell'uomo, e della presenza di un precipizio nel quale era stato sul punto di far precipitare la sua automobile qualche istante prima, tirando su il finestrino e bloccando la portiera, provando una viva gratitudine per la presenza di quei dispositivi. Ma il caloroso buonumore e il genuino benvenuto del volto bruciato dal sole di MacLyle allontanarono la paura, e perfino la prudenza, e quasi ancora prima di sapere quello che stava facendo, lo psichiatra aveva riaperto la portiera e si stava sporgendo fuori dalla macchina, pensando: «giocondo» è una parola desueta ma, per Dio!, costui è quello che è, un uomo giocondo. Lo chiamò per nome ma, o MacLyle non lo sentì, o non gliene importava; si limitò a porgergli una grande mano calda, e lo psichiatra l'afferrò. Sentì i calli duri e piatti nella mano di MacLyle, e la forza controllata che un elefante usa per sollevare con la proboscide un bambino guarnito di lustrini; sorrise a questa immagine poiché, dopotutto, MacLyle non era un uomo particolarmente grande e grosso, soltanto era quella la sensazione che ispirava. E d'un tratto il sorriso comparve là e non volle andarsene.
Lo psichiatra disse a MacLyle di essere uno scrittore che cercava d'immedesimarsi un po' in quel magnifico paese e di essere arrivato fin là lasciandosi semplicemente guidare dalle curve delle strade, capitando infine lassù. Ma prima ancora di essere arrivato a metà del suo discorso divenne consapevole degli occhi di MacLyle i quali, in qualche indescrivibile maniera, sembravano letteralmente inchiodati su di lui, ma non sul significato delle parole che stava dicendo; era esattamente come se lui si trovasse là a fischiettare un motivetto. MacLyle pareva più che disponibile ad ascoltare il suono delle sue parole fino a quando non fosse finito, e anche a goderlo profondamente, ma quella godibilità era tutto quello che riusciva a ricavarne. Lo psichiatra terminò comunque il suo discorso e MacLyle aspettò un momento come per vedere se ci sarebbe stato dell'altro, e quando vide che non c'era altro, esibì un altro di quei luminosi sorrisi e drizzò la testa in direzione della baracca. Quindi, fece strada al suo visitatore, il quale si diffuse in alcuni dei luoghi comuni del tipo, «ma che bello questo posto». Quando entrarono, lo psichiatra lanciò un grido a quella schiena insensibile: «Non riesce a sentirmi?». E MacLyle, senza voltarsi, gli fece soltanto segno di proseguire.
Entrarono in mezzo a un tale disordine e a un miscuglio indescrivibile di colori che lo psichiatra si fermò di botto sbattendo le palpebre. Una parete era stata tolta e sostituita con pannelli di vetro; sovrastava il precipizio e dava l'impressione che il piccolo edificio galleggiasse sulla nebbia. Tutte le rimanenti pareti erano coperte da semplici copriletti di ciniglia bianca, e il pavimento era bianco, e pareva esserci molta più luce dentro che fuori. Di fronte alla grande finestra c'era uno smisurato cavalletto fatto di pali scortecciati, intaccati e legati insieme con grosso spago da imballaggio, e su di esso un'enorme tela, per la maggior parte astratta, realizzata con i colori più puri e intransigenti. Parte di essa si riferiva senza alcun dubbio a quella stanza, o per lo meno, nella porzione più vicina, alla sua atmosfera di confusione colorata, e più oltre a tutto l'infinito. L'oficleide era raffigurata nel quadro, riprodotta minuziosamente, assomigliando al serbatoio di qualche gigantesca macchina infernale, e in primo piano alcuni fiori; ma la figura centrale gli causò un moto di ripulsa — ancora di più respingeva tutto quello che aveva intorno. Non assomigliava esattamente a qualcosa di familiare e, in una maniera che lo turbò, ne fu felice.
Ammucchiati sul pavimento su ciascun lato del cavalletto c'erano altri dipinti, alcuni pure imbrattature, altri pieni di linee tracciate con il righello e piani sovrapposti, ma ogni cosa era realizzata con quei colori dolorosamente puri. Si rese conto di come venivano utilizzate le molte dozzine di colori di pittura acquistati in piccoli barattoli, che avevano tanto incuriosito il negoziante.
Nei posti più impensati, in giro per la stanza, c'erano sculture d'argilla, per la maggior parte montate su piedistalli fatti di sezioni di tronchi d'albero grandi abbastanza da reggersi sulle loro estremità segate. Alcuni piedistalli erano scortecciati, altri dipinti, e in alcuni la trama della corteccia o i suoi rigonfiamenti o le fenditure del legno erano stati riprodotti nel modello, e in altri l'argilla era stata tagliata o premuta nella corteccia fin giù sul pavimento. Parte dell'argilla era dipinta, parte no, parte lo sarebbe stata, ovviamente, in seguito. C'erano forme libere e fantocci grotteschi, una donna marsupiale e una chitarra con le gambe, e alcuni, ma non in numero eccessivo, dei simbolismi che preoccupano perfino gli psichiatri abbastanza intelligenti. Non c'era in giro nessuna mobilia che avesse, appunto, la funzione della mobilia. C'erano scaffali a tutte le altezze e di diversa lunghezza, dov'erano appoggiati chiodi da botte, pezze di stoffa, scatole di generi alimentari, strumenti e utensili per cucinare. C'era una specie di tavolo, ma era soprattutto un banco da lavoro, con una morsa a un'estremità e all'altra, mezzo finito, un tornio da vasaio a pedale, rozzo ma straordinariamente ingegnoso.
Si chiese dove dormisse MacLyle, così glielo domandò, e ancora una volta MacLyle reagì come se le parole non fossero parole, ma una serie di suoni gradevoli, drizzando la testa e aspettando di vedere se ce ne sarebbero stati altri. Così lo psichiatra ricorse al linguaggio dei segni, formando un cuscino con entrambe le mani, appoggiandovi sopra la testa, chiudendo gli occhi. Li riaprì e vide MacLyle che annuiva vigorosamente per poi andare accanto a una delle pareti coperta di ciniglia bianca. Da dietro la ciniglia tirò fuori un'amaca, un'estremità della quale era fissata alla parete. Portò l'altra estremità accanto alla grande finestra e l'agganciò a un uncino avvitato a un massiccio montante fra i pannelli. Giacere su quell'amaca voleva dire oscillare fra il cielo e la terra come la tomba di Maometto, con tutto il cielo e lo scenario che letteralmente circondavano il dormiente. La sua ammirazione per quest'idea s'interruppe però quando MacLyle prese a invitarlo quasi con frenesia a salire sull'amaca. Arretrò con circospezione, protestando, cercando di far capire a MacLyle che l'aveva soltanto chiesto, che aveva voluto soltanto sapere: no, no, non era stanco, dannazione; ma MacLyle divenne insistente al punto da sollevare da terra lo psichiatra come un bambino che faceva i capricci all'ora di andare a letto e lo trasportò di peso fin sull'amaca. Qualunque impulso di prenderlo a calci o di litigare fu soffocato dalla natura di quell'amaca, e di tutte le altre, a non tollerare carichi che si spostassero, e dalla vicinanza di quell'ampia finestra che, adesso se ne accorse, era montata in modo da sporgere verso l'esterno, permettendo a chi si trovava sull'amaca di buttar l'occhio, fuori, fino a una profondità in verticale di almeno centocinquanta metri. Perciò: va bene, concluse, se lo dici tu. Dopotutto, ho sonno.
Così, nelle due ore successive giacque sull'amaca, osservando MacLyle che si affaccendava, rimuginando tra sé pensieri più o meno professionali.
Non parla, o non può parlare (diagnosticò): afasia motoria. Non capisce o non può capire il parlato: afasia sensoria. Non vuole o non può leggere: alessia. E che altro?
Guardò tutta quell'arte — se era arte, e quella che lo era per caso — e i congegni: il cantilenante mulino all'esterno, il contrappeso a ghigliottina per il chiudiporta. Lasciò che i suoi occhi seguissero un tratto di tessuto che pendeva con discrezione giù dal palo centrale, al quale quest'amaca era legata, e le carrucole e gli infissi ai quali era appesa, e la sua estensione che giungeva lungo il soffitto fino alla parete di fondo, e comprese alla fine che, una volta tirata, avrebbe aperto i due lunghi e stretti sportelli orizzontali per consentire una completa ventilazione. Una piccola porta dietro alla ciniglia conduceva a quella che, lo dedusse con precisione, era una primitiva toilette, costruita così da sovrastare il precipizio, la più perfetta soluzione, senza bisogno di tubature, che avesse mai visto per una latrina.
Osservò MacLyle che si arrabattava. Era l'unica parola per descriverlo, e le sue azioni erano il miglior esempio di arrabattarsi che avesse mai visto. MacLyle sollevava, spostava e metteva giù le cose, arretrava per giudicare l'effetto, tornava avanti per appoggiare una mano approvatrice su ciò che aveva mosso. Effetto netto, niente di tangibile — eppure non si poteva dire che non ci fosse nessun effetto, a causa dell'immensa soddisfazione che l'uomo irradiava. Se ne stava lì per interi minuti, con la testa dritta, sorridendo lievemente, contemplando il tornio da vasaio mezzo completato, per poi esplodere in una frenetica attività, segando, piallando, trapanando. Aggiungeva i nuovi pezzi finiti alle manovelle e alle aste di collegamento già completate, accarezzava il tornio come se fosse un bambino obbediente, e si allontanava, lasciando il resto del lavoro a qualche altro momento. Con una raspa da legno rimosse con molta attenzione il naso da una delie sue figure di argilla già asciutte, e ne montò meticolosamente uno nuovo. C'era sempre una profonda decisione a ciò che stava producendo, e al modo in cui lo faceva, e quell'impressione di totale appagamento in tutto ciò a cui si dedicava. E c'era tempo, pareva sempre che ci fosse tempo abbastanza per ogni cosa, e che ci sarebbe sempre stato.
Qui c'è un uomo, rifletté lo psichiatra abbastanza intelligente, in ritiro, ma in un ritiro del quale la mia scienza non ha ancora descritto niente. Giacché, osserviamo: ha reagito verso il primitivo supplendo lui stesso con le proprie mani e la propria genialità ai propri bisogni, eppure non c'è niente di primitivo in quegli stessi bisogni. Lavora continuamente per conseguire le comodità alle quali la sua storia lo ha condizionato nel passato: lampadine elettriche, ventilazione incrociata, eliminazione dei rifiuti priva d'inconvenienti. Mostra una profonda umiltà visto quanto poco paga se stesso per il proprio lavoro: sta fabbricando un tornio da vasaio in apparenza per produrre i propri contenitori per cucinare, e dal momento che il legno costa poco e l'argilla è gratis, i suoi contenitori gli possono soltanto costar meno di quelli prodotti in alluminio dalle macchine grazie ad una valutazione molto bassa dei propri sforzi.
Le sue capacità sono inferiori alle sue energie (rifletté lo psichiatra). I suoi lavori di falegnameria, come i suoi dipinti e le sue sculture, mostrano una considerevole intelligenza, ma soltanto un moderato addestramento; può costruire ma non abbellire, tracciare ma non disegnare, e raggiungere risultati artisticamente piacevoli solo evitando di cancellare il tremito casuale, il taglio accidentale, in questo modo nel suo lavoro la vera creazione è, come ogni effetto casuale, rara e imprevedibile. Perciò la sua ricompensa è costituita soltanto dalla soddisfazione — una generalizzazione che più ampia non potrebbe essere.
Quale soddisfazione? Non nel possesso stesso delle cose, poiché quest'uomo avrebbe potuto comperare di meglio per meno. Non nella stessa eccellenza, poiché era ovvio che si sentiva soddisfatto con qualcosa di meno della perfezione. Forse la libertà della routine, dal dominio del lavoro? Ben difficilmente poiché, malgrado tutte le complessità di quella baracca ingombra, là c'era un suo ordine, e anche un suo sistema; la presenza di una sveglia lasciava capire molto in verità. Non era dominato dalla regolarità, la usava, se ne serviva. E la sua soddisfazione? Ebbene, doveva trovarsi in quel circolo chiuso, da lui stesso a lui stesso, e altresì nel fatto della non comunicazione!
Ritirata... ritirata. Ritiratevi nella vita selvaggia e non congegnerete un sistema di ventilazione incrociata, né metterete a punto uno sciacquone a gravità di centocinquanta metri per il vostro cesso. Ritiratevi nell'infanzia, e non progetterete né fabbricherete un tornio da vasaio. Ritiratevi dalla gente e non darete il benvenuto a un estraneo come se...
Un momento.
Forse un estraneo che avesse avuto qualcosa da comunicare, o qualche modo per comunicare, non sarebbe stato altrettanto benvenuto. Un pensiero inquietante, quello. Correre il rischio di fare qualcosa che non piacesse a MacLyle sarebbe stato, forse, un po' meno egoistico di quanto la sfida giustificasse.
MacLyle cominciò a cucinare.
D'un tratto, nell'osservarlo, lo psichiatra si trovò a riflettere che quell'individuo ritirato in se stesso e privo di favella era felice, come nel proprio utero; inoltre, aveva assolto tutti i suoi obblighi e responsabilità e non dava fastidio a nessuno.
Era intollerabile.
Era intollerabile poiché era una violazione della direttiva primaria della psichiatria — per lo meno della scuola di psichiatria alla quale lui aderiva, e lui non aveva nessuna intenzione di confondersi prendendo in considerazione altre teorie meno sperimentate — È funzione della psichiatria riadattare l'aberrante alla società, ripristinando o accrescendo la sua utilità verso di essa. Cedere, razionalizzare il comportamento di quell'uomo equilibrato, avrebbe significato andar contro la scienza stessa; poiché quella particolare psichiatria trovava i suoi approcci di maggior successo nel metodo scientifico, e non era proficuo dibattere se fosse oppure no una scienza. Per colui che la praticava, lo era, e questo bastava; doveva bastare. Operativamente parlando, ciò che era stato trovato vero, anche statisticamente, doveva essere la Verità, e ogni altra cosa, anche soltanto possibile, tenuta fuori a tutti i costi dalla valigetta degli strumenti. Nessuna Verità conosciuta permetteva ad un'entità sociale di separarsi in quel modo, e, tanto per cominciare, quello psichiatra abbastanza intelligente non era disposto a dare a quel... a quel suicidio... la sua benedizione.
Doveva, quindi, trovare un modo per comunicare con MacLyle, e una volta trovato, doveva comunicargli gli errori nel suo modo di agire. Senza venir buttato giù dal dirupo.
Fu conscio che MacLyle lo stava guardando, ammiccando. Gli sorrise in risposta ancor prima di sapere quello che stava facendo, e obbedì al suo cenno di richiamo. Si calò giù dall'amaca e si avvicinò al banco di lavoro, dove MacLyle stava riempiendo delle scodelle di terracotta con uno stufato fumante. Le scodelle erano poste sopra degli ampi piatti ed erano circondate da una fascia di pomodori affettati con cura. Li assaggiò. Era ovvio che erano stati fatti macerare nel vino e poi spruzzati d'una salsa verde scura che, dopo aver studiato con cura il sapore che lasciava in bocca, identificò per basilico fresco tritato insieme ad aglio fresco e sale. L'effetto era ricco e armonioso.
Seguì l'esempio di MacLyle, quando questi prese su la sua scodella, e uscirono fuori, accucciandosi sotto il vecchio abete per mangiare. Fu un'occasione tranquilla e piacevole durante la quale lo psichiatra ebbe ampie possibilità di valutare il suo uomo e pianificare la sua campagna. Adesso era del tutto sicuro di come procedere, e tutto quello che gli serviva era un'occasione, che gli si presentò quando MacLyle si alzò, si stiracchiò, sorrise, ed entrò nella baracca. Lo psichiatra lo seguì fino alla soglia e lo vide infilarsi sopra l'amaca e addormentarsi quasi all'istante.
Lo psichiatra raggiunse la sua macchina e tirò fuori la sua borsa di espedienti. Era già il tardo pomeriggio quando MacLyle emerse dal suo pisolino stiracchiandosi e sbadigliando, e trovò il suo visitatore sotto l'abete, che stava sollevando l'oficleide, intento a giocherellare con i tasti con espressione perplessa e indagatrice. MacLyle si avvicinò e prese a sua volta l'oficleide, prendendogliela di mano con un affabile sorriso del tipo ti-facciovedere-io, mise in posizione quel mostruoso congegno, e fece scorrere la lingua all'interno del bocchino grande come una mezza tazza. Ebbe appena il tempo di corrugare le labbra all'insù a causa dello strano sapore che sentì, prima che le sue iridi ruotassero rapidamente sparendo del tutto alla vista, crollando infine come un paracadute afflosciato al suolo. Lo psichiatra riuscì soltanto a strappar via appena in tempo l'oficleide per impedire che il bocchino gli spaccasse i denti davanti.
Lo psichiatra appoggiò con molta attenzione l'oficleide contro l'albero e raddrizzò gambe e braccia di MacLyle. Per un momento si concentrò sul polso, e gli girò la testa di lato in modo che la saliva non gli scendesse nella gola inflaccidita, e poi tornò alla sua valigetta di trucchi del mestiere.
Tornò indietro e s'inginocchiò accanto a MacLyle, il quale non si contrasse neppure al morso dell'ipodermica: un'attenta mescolanza di tranquillizzanti Frenquel, clorpromazina e reserpina, e una dose giudiziosa di scopolamina, un ipnotico.
Lo psichiatra prese dell'acqua e con la spugna pulì con cura la bocca dell'uomo, volendo evitare un altro collasso la volta successiva che avesse inghiottito. Poi non ci fu nient'altro che aspettare e progettare.
Esattamente in orario, stando all'orologio da polso dello psichiatra, MacLyle gemette e tossì debolmente. Subito lo psichiatra con voce ferma e tranquilla gli disse di non muoversi. E anche di non pensare. Si tenne fuori dalla portata immediata della vista sfocata di MacLyle, e gli spiegò che doveva aver fiducia in lui, poiché era là per aiutarlo, e di non preoccuparsi per il fatto che si sentiva scombussolato e disorientato. «Lei non sa chi è e come è arrivato qui» lo psichiatra informò MacLyle. Inoltre disse a MacLyle, il quale aveva superato i quarant'anni, che la sua età era di trentasette anni, e che lui sapeva quello che stava facendo.
MacLyle se ne stava disteso là obbediente; rimuginò su tutto questo, e aspettò altre informazioni. Non sapeva dove si trovava e come avesse fatto ad arrivar fin là. Sapeva che doveva fidarsi di quella voce, il cui proprietario era là per aiutarlo; lui aveva trentasette anni e l'altro conosceva il suo nome. Giacque in mezzo a tutte queste informazioni, e fermentò tra esse. I farmaci lo tenevano cosciente, docile e sottomesso, senza furberie né malignità. Lo psichiatra osservava ed esultava: o tu, azaciclonolo, intonò in silenzio fra sé, tu grazioso piperidil, aitante idrocloruro, sottile serpasil...
Fiducioso, lasciò MacLyle ed entrò nella baracca dove, dopo debite ricerche, trovò qualche indumento decente e delle calze, portò il tutto fuori e ne vestì il suo paziente supino. Aiutò MacLyle ad attraversare la radura e a salire sulla sua macchina, canticchiando a bocca chiusa mentre lo faceva, poiché non c'è nessuno più felice di uno specialista che si trovi davanti al perfetto fiorire della sua specialità. MacLyle affondò nei cuscini e lanciò un'occhiata interrogativa alla baracca e al bagliore dell'ultima luce del giorno riflessa dalla svasatura dell'oficleide; ma lo psichiatra gli disse con fermezza che quelle cose non avevano niente a vedere con lui, niente del tutto, e MacLyle sorrise sollevato e si mise a guardare il paesaggio che scorreva via, passivo come un pechinese. Quando passarono davanti all'emporio, MacLyle si agitò, ma non disse niente. Invece chiese allo psichiatra se la stazione di Ardsmere era stata già riaperta, al che lo psichiatra a stento riuscì a trattenersi dal ronfare di felicità come un gatto mentre gli rispondeva. La stazione di Ardsmere, due fermate prima del sobborgo in cui MacLyle abitava, era stata distrutta e ricostruita quasi sei anni prima; così adesso seppe di sicuro che MacLyle stava vivendo in un periodo precedente alle sue difficoltà — un tempo durante il quale, naturalmente, MacLyle era stato in grado di parlare. Mugolò musicalmente il suo apprezzamento per la clorpromazina (che aveva contribuito a tener tranquillo MacLyle) e proseguì con un'altra canzoncina solfeggiata a bocca chiusa, bambola mia, scopolamina, che l'hai reso così suggestionabile... Ma tutte queste cose lo psichiatra le tenne per sé, e rispose con voce grave che, si, la stazione di Ardsmere era stata rimessa a nuovo. E aveva qualcos'altro in mente?
MacLyle soppesò la cosa con attenzione, ma dal momento che a tutte le domande immediate era stata data risposta — sapeva con convinzione incrollabile di essere al sicuro fra le mani di quell'uomo, chiunque fosse, che conosceva (pensò) la sua giusta età e si aspettava che lui si sentisse disorientato; gli aveva anche detto di non pensare — scosse placidamente la testa e tornò ad osservare la strada che si dipanava sotto le loro ruote. «Caduta massi» mormorò quando passarono accanto a un cartello. Lo psichiatra guidava felice giù per la montagna e attraverso i pianori, per tornare alla città dove aveva affittato la macchina. La lasciò alla stazione ferroviaria («Attenti al Treno» compitò MacLyle) e riservò dei posti in uno scompartimento del treno — gli aerei erano troppo aperti e pubblici per i suoi scopi, e troppo veloci per la tariffa oraria che aveva d'un tratto deciso di applicare.
Ebbero il tempo per una cena silenziosa e socievole prima della partenza del treno, e poi finalmente furono a bordo, con il terreno che correva solido sotto di loro, una destinazione davanti a loro e le giunture dei binari che applaudivano.
Lo psichiatra spense tutte le luci tranne una per la lettura e si sporse in avanti. Le pupille di MacLyle si dilatarono subito a quella luce più debole, e lo psichiatra si appoggiò comodamente contro lo schienale e gli chiese come si sentiva. MacLyle si sentiva bene, e lo disse. Lo psichiatra gli chiese quanti anni aveva, e MacLyle gli rispose trentasette, ma pareva dubbioso.
Sapendo che la scopolamina stava cessando i suoi effetti, ma che le altre droghe, i tranquillanti, sarebbero durati ancora per un po', lo psichiatra tirò un profondo respiro e rimosse la suggestione ipnotica; disse a MacLyle la verità sulla sua età, e lo riportò al presente. MacLyle parve perplesso per qualche minuto, e poi i suoi lineamenti si stabilizzarono in un'espressione che poteva venir descritta come non infelice. «Inserviente» fu tutto quello che disse, fissando il pulsante sul divisorio con la sua piccola targhetta metallica, e annunciò che adesso era in grado di leggere.
Lo psichiatra annui saggiamente e non gli offrì nessun commento, essendo disponibilissimo a lasciare che un paziente cuocesse nel proprio brodo fintanto che produceva sostanza.
D'un tratto, MacLyle volle sapere perché aveva perso la capacità di leggere e di parlare. Lo psichiatra sollevò un po' le sopracciglia e parecchio le spalle, ed esibì uno di quei sorrisi «Me-Lo-Dica-Lei», e poi si alzò in piedi e suggerì che ci dormissero sopra. Fece venire l'inserviente, e come ripensamento, disse all'uomo di tornare con i giornali della sera. Non c'è niente di meglio dei giornali della sera per orientare un espatriato culturale. L'inserviente tornò con i giornali. MacLyle non prestò nessuna attenzione a questo, in un senso o nell'altro. Soprappensiero s'infilò il pigiama di riserva dello psichiatra e andò a letto.
Lo psichiatra non seppe se MacLyle l'avesse svegliato di proposito, oppure se fosse stato il treno nel rallentare per rifornirsi d'acqua, o le due cose insieme; comunque, si svegliò verso le tre del mattino e trovò MacLyle in piedi accanto alla sua cuccetta, che lo fissava. Chiuse gli occhi, li strizzò e poi li riaprì, e MacLyle era ancora là e adesso notò che la lampada per la lettura di MacLyle era accesa e i giornali erano sparpagliati dappertutto sul pavimento. MacLyle disse, con voce priva d'inflessioni: «Lei è una specie di dottore».
Lo psichiatra lo ammise.
MacLyle proseguì: «Be', questo dovrebbe aver senso per lei. Anni fa, quand'ero ancora all'università, ero venuto quassù a sciare. Un incidente... il tizio con cui mi trovavo si ruppe una gamba. Una frattura composta. Cercai di metterlo quanto più comodo possibile, e andai a cercare aiuto. Tornai. Era scivolato giù per il versante della montagna, nel dibattersi, immagino. Un crepaccio in fondo; ci vollero due giorni per trovarlo, tre per tirarlo fuori. Congelamento. Cancrena».
Lo psichiatra cercò di dar l'impressione di seguire quel discorso.
MacLyle disse ancora: «Una cosa ricorderò sempre, lui che scostava continuamente le bende per guardarsi la gamba. Sapeva che era andata, ma non poteva fare a meno di osservare quella roba che si diffondeva tutt'intorno e verso l'alto. Non gli piaceva farlo... doveva farlo. Cercai di farlo smettere, ma alla fine dovetti aiutarlo, altrimenti si sarebbe fatto del male.
Ogni dieci, quindici minuti, giù fino al capanno, per quindici ore, a guardare sotto le bende».
Lo psichiatra cercò di pensare a qualcosa da dire, ma non ci riuscì. Così, si diede un'aria saggia e aspettò.
MacLyle disse: «Quel Donne, quel John Donne che avevo l'abitudine di declamare... ci ho sempre creduto».
Lo psichiatra cominciò a citare, sbagliando il verbo, la frase che diceva per chi la campana...
«Sì, quello, ma specialmente "la morte di qualsiasi uomo mi diminuisce, perché io sono coinvolto con tutta l'umanità". Io ci ho sempre creduto» ribadì MacLyle. «Anzi, credo in molto di più. Non soltanto la morte. Anche la maledetta follia mi diminuisce, perché sono coinvolto con tutti. Quelli che in continuazione spadroneggiano sugli altri mi diminuiscono. Tutti quelli che hanno fame di soldi fatti in fretta mi diminuiscono». Prese su un foglio di giornale e lo lasciò scivolar via; il foglio svolazzò fino a un angolo dello scompartimento come un'immensa falena.
«Stavo venendo diminuito a morte, e dovevo guardare quello che mi stava succedendo, come quel ragazzo con la cancrena, ecco perché». Il treno, che adesso procedeva a passo d'uomo, sobbalzò all'improvviso e si fermò. Gli occhi di MacLyle guizzarono verso il finestrino, dove le insegne al neon e le luci dei semafori si lasciavano incorniciare con riluttanza. MacLyle si sporse più vicino allo psichiatra. «Dovevo disimpegnarmi dall'umanità prima di venir diminuito del tutto, tutto quello che l'umanità faceva era colpa mia. Così, l'ho fatto, e adesso eccomi qua, di nuovo coinvolto». D'un tratto MacLyle andò alla porta. «E per questo la ringrazio».
Con voce incerta, lo psichiatra gli chiese cosa avesse intenzione di fare.
«Fare?» rispose MacLyle in tono allegro. «Ebbene, andrò fuori e diminuirò subito l'umanità». Uscì in corridoio chiudendo la porta dietro di sé prima che lo psichiatra avesse avuto anche soltanto il tempo di alzarsi. MacLyle la riaprì di colpo e si sporse dentro. Disse, con la voce più equilibrata immaginabile: «Ora, intendiamoci, dottore, questa è soltanto l'opinione di un uomo». E se ne andò. Uccise quattro persone prima che lo prendessero.
FINE