PRIMA DI NOI
Giorgio Fontana
Sellerio, 896 pp., 22 euro
Recensione di Andrea Frateff-Gianni
11 Marzo 2020 alle 13:03
Ci vuole del coraggio, oltre a una notevole dose di spavalderia letteraria, per cominciare al giorno d’oggi un romanzo di quasi novecento pagine con la parola “issatosi”. Lo fa Giorgio Fontana in Prima di noi, appena pubblicato da Sellerio. Il giovane scrittore non ancora quarantenne – ma già Premio Campiello nel 2014 con Morte di un uomo felice – racconta, attraverso la storia di una famiglia, tutto il Novecento italiano. Si parte narrando le vicende di Maurizio, il capostipite dei Sartori. Si comincia così con la storia di un soldato disertore che dopo la sconfitta di Caporetto trova rifugio in un paesino del Friuli e mette incinta la figlia del fattore che lo sta ospitando, Nadia Tassan. E’ lui il fondatore di questa stirpe di cui seguiremo le vicissitudini, fino ad arrivare al tempo abitato da Letizia, laureata precaria del nuovo millennio, vittima di violentissimi attacchi di panico, residente nella periferia est milanese. Dal Friuli a Milano, dal 1917 al 2012. In mezzo: due guerre, Mussolini e il fascismo. La Resistenza e la lotta partigiana. Gli scioperi nelle fabbriche e le rivolte studentesche. Gli anni del terrorismo, il sogno anarchico e le stragi. “Per decenni, per quasi un secolo la famiglia Sartori aveva costruito una nave partendo dal poco legno disponibile: di generazione in generazione era uscita dal fango e dall’oscurità alzando alberi, tessendo vele, rinforzando lo scafo e accumulando cordame”, scrive Fontana quasi alla fine del libro. Attraverso la vita degli altri sette discendenti, Gabriele e Renzo, Eloisa e Davide, Diana, Libero e Dario, vivremo assieme all’epopea di questa famiglia bizzarra anche la storia di un paese che cambia. La scrittura è fluente e rapida e particolarmente sagaci sono i tratti del romanzo dove viene fatta letteralmente a pezzi la campagna lombarda e l’hinterland milanese “dal cielo sempre bianco”, con paesi con nomi così ridicoli come Cesate, Abbiategrasso, Caronno Pertusella, Crescenzago se paragonati al suono dei nomi altisonanti della provincia friulana come Collalto, Rive d’Arcano, Spilimbergo, Maniago, Istrago.
Il romanzo è torrenziale, ma Fontana non perde un colpo e il suo lavoro ricorda per risolutezza sia il De Lillo di Underworld che lo Scibona de Il Sopravvissuto, che in questo caso vengono mixati con maestria al Fenoglio di Una questione privata e ai Buddenbrook di Thomas Mann. Con Prima di noi Fontana riesce, in un momento storico dove il massimo sforzo che facciamo è scorrere la timeline di Twitter, a vincere una ambiziosissima sfida: quella di tenere l’attenzione del lettore vigile fino alla conclusione del romanzo.
Particolarmente adatte per descrivere il lavoro di Fontana risultano infine essere le parole di Claudia Durastanti riportate in quarta di copertina: “Questo romanzo è un proiettile che entra nel Novecento italiano, passa la storia da parte a parte e fuoriesce dal presente trasformando il lettore dopo essergli entrato nella testa, quanto nel cuore”. Insomma, un cannonata.
PRIMA DI NOI
Copertina
Una famiglia del Nord Italia, tra l’inizio di un secolo e l’avvento di un altro, una metamorfosi continua tra esodo e deriva, dalle montagne alla pianura, dal borgo alla periferia, dai campi alle fabbriche. Il tempo che scorre, il passato che tesse il destino, la nebbia che sale dal futuro; in mezzo un presente che sembra durare per sempre e che è l’unico orizzonte visibile, teatro delle possibilità e gabbia dei desideri. È questo il paesaggio in cui vivono e muoiono i personaggi di Giorgio Fontana, i Sartori, da quando il primo di loro fugge dall’esercito dopo la ritirata di Caporetto e incontra una ragazza in un casale di campagna. Poi un figlio perduto in Nordafrica, due uomini sopravvissuti e le loro nuove famiglie, per arrivare ai giorni nostri: quelli di una giovane donna che visita la tomba del bisnonno, quasi a chiudere un cerchio. Quattro generazioni, dal 1917 al 2012, che si spostano dal Friuli rurale alla Milano contemporanea affrontando due guerre mondiali e la ricostruzione, la ricerca del successo personale o il sogno della rivoluzione, la cattedra in una scuola e la scrivania di una multinazionale. È circa un secolo, che mai diventa breve: per i Sartori contiene tutto, la colpa, la vergogna, la rabbia, la frenesia, il viaggio. Sempre lo scontro e quasi mai la calma, o la sensazione definitiva della felicità. Ma i Sartori non ne hanno bisogno, e forse nella felicità neppure credono. Perché se in ogni posto del mondo bisogna battersi e lottare allora è meglio imparare ad accettare le proprie inquietudini, e stare lì dove la vita ci manda. Romanzo storico e corale, vasto ritratto narrativo del Novecento italiano, il racconto dei Sartori affronta il fardello di un passato che sembra aver lasciato in eredità solo fatica e complessità, persino nei più limpidi gesti d’amore. Se gli errori e le sfortune dei padri ricadono sui figli, come liberarsene? Esiste una forza originaria capace di condannare un’intera famiglia all’irrequietezza? Come redimere se stessi e la propria stirpe? La risposta a queste domande è nella voce di un tempo nuovo, nello sguardo di chi si accinge a viverlo, nelle parole di uno scrittore di neppure quarant’anni che ha voluto affrontare con le armi della letteratura la povertà e il riscatto, la fede e la politica, il coraggio dei deboli e la violenza dei forti. Giorgio Fontana è nato a Saronno nel 1981 e vive a Milano. Con questa casa editrice ha pubblicato Per legge superiore (2011), Morte di un uomo felice (Premio Campiello 2014) e Un solo paradiso (2016). È sceneggiatore per Topolino, collabora con diverse testate e insegna scrittura.
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La mia guerra comincia ora 1917-1919
1 Issatosi per un momento sul carro, il fante Maurizio Sartori guardò la massa di uomini che avanzava lungo la strada. Un ferito al suo fianco sputò e si calò l’elmetto sul viso, mentre un cane abbaiava al blindato, correndo con la lingua penzoloni. I cannoni abbandonati giacevano nella luce grigia. Tre commilitoni tornarono in colonna ubriachi persi, agitando sacchi di farina e salami rubati dai casolari, e tocchi di formaggio sulla punta delle baionette: «Dio, che festa!», gridavano. Più in là, fin dove arrivava la vista, la piana era interminabile e confusa nella pioggia, e il fumo dei magazzini incendiati si avvitava in piccole volte. A ogni chilometro cercavano di aggiungersi gruppi di civili, ricacciati ai margini della strada o lungo i campi fradici. Le donne avevano sacchi di iuta in spalla e pacchi sottobraccio, mentre bambini magri e sporchi tiravano palle di terra eccitati dalla fuga. La gente si univa a loro sgomitando, bestemmiando, accanto a buoi e pecore e galline. Maurizio si calò di nuovo a terra e Ballarin gli strinse un braccio. «Allora d’accordo?», sussurrò. «Appena si riesce, col calabrese?». La croce di rame gli penzolava fuori dalla divisa e aveva gli occhi lucidi, come sbigottiti, due sassi di torrente. Anche lui era ubriaco. Maurizio annuì. Poco dopo passarono il Tagliamento. La colonna si era assottigliata per adattarsi al percorso e i blindati e i cavalli rendevano goffa la marcia. Tutti spingevano e intimavano l’un l’altro di spicciarsi, perché di lì a breve i genieri avrebbero fatto saltare il ponte. Ora la massa era impenetrabile e Maurizio ebbe un moto d’affanno: si chinò dal parapetto per osservare un istante l’acqua cupa e turbinosa, la piena del fiume che li avrebbe difesi. Pensava, senza volerlo, ai morti. Quasi subito i morti smettono di somigliarci. Ne aveva visti tanti e nessuno aveva i tratti dei vivi; erano incomprensibili e stupidi come bestie o pietre. Sentì il fiato mancare. Quando finalmente arrivò sul lato opposto si asciugò il sudore dalla fronte e Ballarin baciò la sua croce di rame: «Bon», disse. «Stavolta è finita davvero». Nel giro di pochi minuti esplosero i botti. Maurizio si voltò insieme a migliaia d’altri e vide un pezzo centrale del ponte chinarsi, sgretolarsi e finire giù nel fiume. Gli uomini rimasti sulla struttura si agitavano e nella distanza si sparse una nube di polvere scura. Dopo un secondo di silenzio, tutti urlarono di gioia. Scapparono al termine di quella notte: lui, Ballarin e il calabrese. Si erano tenuti ai margini del bosco e il tenente era così sbronzo da non accorgersi di nulla. Maurizio diede un ultimo sguardo alla distesa di corpi scomposti sull’erba, alle sentinelle che agitavano rami di legno infuocato e sfrigolante nel piovischio. Se qualcuno li aveva visti, nessuno aveva tentato di fermarli. Non c’era un sentiero, la terra era marcia, e il bosco ribolliva di rumori e schiocchi. Il calabrese biascicava di avere male alla pancia e li pregò di rallentare: Maurizio disse che non c’era tempo, ma del resto era difficile tenere un buon passo con quella fanghiglia. Proseguirono per un’ora senza il coraggio di dirsi la verità: si erano persi; o meglio, non avevano mai avuto una direzione. Maurizio aveva distanziato gli altri, ma quando la massa di alberi si ruppe in una radura sentì di colpo le gambe cedere, e si lasciò cadere con la faccia a terra. I contorni della boscaglia iniziavano ad emergere dall’alba, ancora sbavati nella nebbia. Meglio andarsene così, a questo punto. Doveva solo aspettare che li trovassero e farsi fucilare dai carabinieri contro un tronco; e provò quasi sollievo al pensiero della fine, come tante altre volte gli era capitato: a vent’anni aveva già implorato Cristo di liberarlo per sempre dalla fame o dalla fatica o dalla paura. Ma dietro di lui c’era quel mona di Ballarin che aveva preso a gridare: «O lo seppelliamo, o siamo degli infami». Maurizio schiacciò il volto nel fango quasi a soffocarsi; non servì. Rotolò su un fianco e Ballarin apparve trascinando a fatica il corpo molle del calabrese. Veniva verso di lui come l’immagine di un affresco, una di quelle minacciose figure di santi che scrutava impaurito, da bambino, nella chiesa del suo villaggio sul Piave. Il calabrese doveva essere morto da poco: il taglio al ventre che aveva nascosto, dicendo di essere pronto alla fuga, l’aveva dissanguato. «O lo seppelliamo, o siamo degli infami», ripeté Ballarin. «Sei matto? Dobbiamo correre». «E allora tu cosa ci fai lì?». «Prendo fiato». «Ecco, e ora che ti sei riposato mi dai una mano». Il calabrese gli scivolò dalla spalla e lui cercò di caricarselo addosso di nuovo: era tutto talmente assurdo che Maurizio scoppiò a ridere. Ballarin era inferocito. «È uno di noi, Sartori». «E cosa vuoi fare, trascinarlo fino al primo camposanto che troviamo?». «No. Lo seppelliamo qua e gli lascio la mia croce sulla tomba». «Tu sei un mona». «E tu un infame. Ti meriti di morire peggio di lui, hai capito? Carogna! Giuda!». Poi ansimò, si guardò intorno smarrito, mentre la luce colorava piano il mondo: «Come siamo finiti, Sartori. Come abbiamo fatto a finire così?». Maurizio si mise sui calcagni e lo fissò quasi incuriosito. Ballarin aveva il viso contorto, fango sui denti e negli occhi: lasciò scivolare il corpo del calabrese – l’ennesima pietra, l’ennesima bestia – e finì in ginocchio nel fango. «Oh, mamma», cominciò a gemere. «Mamma, perché? Perché?». Maurizio contò fino a dieci, quindi si alzò e superò con decisione il compagno e il cadavere. Dopo qualche passo sentì lo strillo: «Non scappare! Giuda!». Un passo, un altro. «Ti sparo, Sartori. Guarda che lo giuro sulla Madonna, adesso ti uccido». «E sparami», gridò lui senza voltarsi. Ma l’altro non sparò. Maurizio attese che il dolore gli squarciasse la schiena; e invece era sempre vivo, inesorabilmente vivo. Ballarin singhiozzava piano nella distanza. Lui portò le mani sulle orecchie per non ascoltarlo e tenendole ben ferme imboccò il sentiero dalla parte opposta della radura. Avanzava. Ripensava ai mesi passati. Un modo per non impazzire come Ballarin, si diceva. Sorridi, Sartori. Concentrati sui fatti, quello che ti sei lasciato indietro e non rivedrai più. I geloni e la merda ghiacciata e gli scoppi che rompevano la notte. I controlli per la misura di barba e baffi mentre la gente crepava di colera, che Dio stramaledica Cadorna e l’Italia intera. Una granata che l’aveva mancato per un soffio e poi ecco due corpi in volo. Lo scintillio dei quadranti fosforescenti degli orologi, le baracche con le travi marce, il ragazzino che mordeva la gamella in lacrime chiamando la mamma. E le sere in cui i commilitoni gli chiedevano di cantare, perché sapevano della sua bella voce: lui a volte diceva no e a volte si schiariva la gola battendo la mano aperta sul petto, partiva con un’aria. E le corse fra i reticolati per menare colpi a caso di baionetta in mezzo al fumo e i «Savoia, Savoia!» col fiato mozzo e senza capirci niente, e qualcuno prendeva il fucile per la canna e rompeva il calcio sulla testa di chi gli stava di fronte – «Savoia, Savoia!», gracchiavano tutti – e i proiettili fischiavano attorno, e qualcun altro era avvinghiato nel fango, il sangue colava sugli occhi, e un mattino il basso divenne alto e poi tornò basso e tutto era pieno di braccia e gambe molli e Maurizio era stanco, stanchissimo, urlava, era vivo. E i cunicoli. I razzi verdi delle segnalazioni all’artiglieria. Il tanfo. Le croci di legno sulla costa del monte come una macchia di piante matte. E i depositi, i camminamenti, gli scavi, le trincee prese e perse, il sole sulle tempie a luglio, le ferite zuppe di pus, una lettera mai spedita, il nuovo prete che faceva la spia, i carabinieri con i fucili puntati alle spalle di chi tardava negli assalti. E il tedesco che aveva incrociato durante una tregua, mentre era sceso a recuperare cadaveri. Era molto più alto di lui, i mustacchi grigi; come lui trasportava corpi senza vita con l’aiuto dei compagni. Quei morti talmente stupidi, bestie o pietre. Si erano fissati un attimo, il tedesco gli aveva detto qualcosa: e chissà perché, Maurizio mica sapeva quella lingua; il suono gli era parso una preghiera o un insulto; così aveva scosso la testa e se n’era andato. Gettò la divisa e il berretto e tenne addosso solo camicia e mantella. Si tolse gli scarponi e vide che le fiacche sulle dita dei piedi erano ormai esplose e colavano sangue e pus. Li rimise e proseguì. Per tornare a casa doveva risalire verso nord, ma temeva fosse troppo rischioso; perciò decise di rimanere in pianura. Era un buon piano, o forse no. Una decisione giusta o una decisione come tante – a quel punto non importava. Un giorno l’avrebbe detto ai figli, se fosse sopravvissuto, se mai ne avrebbe avuti: Qualsiasi cosa scegli, il mondo ti chiava comunque. Dormì un’ora di sonno stravolto e fu svegliato da un attacco di diarrea. Più tardi nella pioggia intravide la sagoma di una città e se ne tenne lontano girandole attorno. Ogni tanto degli scoppi laceravano il silenzio. Maurizio incrociava contadini in fuga o gruppi di sbandati come lui; ma nessuno gli fece domande, quasi fosse un appestato o uno spettro, o il reduce di un disastro che riguardava lui soltanto. La sera, zoppicando attraverso l’ennesimo campo deserto, contemplò il tramonto: le nubi si erano diradate e la luce spaccava il cielo in strisce viola e azzurro pallido. Poco lontano si alzavano le montagne. Maurizio pensò a Ballarin: l’avevano preso? Aveva sepolto il calabrese? Era sulle sue tracce con un colpo in canna? Colto da un fremito improvviso, roso dalla fame e dalla febbre, accelerò il passo. Ecco la notte. La pianura si alzò. Maurizio risalì il fianco di un colle basso ed erboso. Nuove luci oscillavano nella distanza; proseguì ancora finché non ne vide alla sua destra una simile alle altre, in nulla diversa, soltanto più isolata. Lì si fermò. 2 Come gli avrebbe confessato molto tempo dopo con un misto di fierezza e sconforto, Nadia Tassan non dimenticò mai la sera in cui era andata al pozzo e aveva incontrato il suo biondino. L’avrebbe chiamato così fino alla fine, nonostante tutto. L’uomo che non si sarebbe mai liberato di una privata furia, e che pure ai suoi occhi sarebbe rimasto sempre lo stesso, la bellissima e terribile visione di quella notte: il corpo nervoso, i denti stranamente in buon ordine, e lo sguardo di chi ha vissuto da preda credendosi a volte predatore. Lui la vide al pozzo con uno scialle addosso, mentre faceva calare la corda verso il basso. Dopo il tonfo si fregò i palmi, un gesto buffo, e poi cominciò a tirare. In quel momento Maurizio decise di sbucare fuori dall’oscurità: il secchio cadde di nuovo sbattendo contro la pietra. «Scusa», disse lui con un filo di voce. Cercò di schiarirsi la gola, senza successo: «Scusa», tossì. Lei gridò qualcosa in friulano. Dalla casa giunse un rumore secco; l’abbaiare di un cane. Maurizio alzò le mani e disse in italiano: «Scusa, non parlo la tua lingua. Voglio solo un pezzo di polenta e un po’ d’acqua. Sono giorni che cammino». La ragazza si strinse nello scialle. Sotto il chiarore debole della luna e delle stelle pareva graziosa; Maurizio rimase incantato dal suo viso. Stavolta anche lei parlò in italiano: «Sei un soldato?». «Sì». «Stai scappando?». «Sì. Ti prego, non so cosa fare». In quel momento uscì dal casolare un uomo con una lunga barba: il padre, pensò Maurizio. Quando vide che stringeva una roncola, capì di avere scelto la luce sbagliata dove fermarsi. «Chi sei?», disse l’uomo. «Un soldato», ripeté lui. «Mi chiamo Maurizio Sartori. Sono veneto, del Piave». «E da dove vieni?». «Ero con l’esercito sui monti». Indicò un punto lontano dietro di sé. «Sei scappato». «No, no. Mi sono perso». «Sei un disertore». «Signore, glielo giuro». L’uomo appoggiò la mano sinistra sulla lama della roncola. «Io ho due figli in guerra», disse. «Un terzo mi è già morto. Magari per colpa di uno come te». «No». «Ah, no? Io dico di sì». Maurizio capì che avrebbe dovuto prepararsi, difendersi in qualche modo: nella voce di quel vecchio c’era la voce di Ballarin, c’era la voce di un fante ferito cui aveva negato un pezzo di pane, e quella del ragazzino appena arrivato in trincea che gli aveva chiesto se si sarebbero salvati – e lui aveva risposto di no lasciandolo solo, perché gli doleva la pancia. E Maurizio sapeva benissimo cosa dicevano in realtà quelle voci. Tuttavia fu la ragazza a parlare: «Papà, ma non vede com’è conciato? Sembra Piero. Abbia un poco di compassione, la prego». I due uomini la fissarono, entrambi sorpresi in modo diverso. Un refolo freddo e profumato passò in mezzo a loro. Poi il vecchio strinse le sopracciglia e si grattò la barba. «Non mi piace», disse. «Non voglio un uomo in casa». «Ha soltanto chiesto un aiuto. Guardi che faccia: chissà cosa gli sarà successo. Un poco di pietà cristiana». «Dici che sembra Piero. Ma Piero non sarebbe mai scappato». «Si è perso, papà». Maurizio deglutì e attese. «Sei armato?», gli domandò il vecchio. «No». «E va bene, entra. Ma per poco». «Grazie. Dio la benedica». L’uomo non rispose. Maurizio si aggiustò la mantella sulle spalle e diede un’ultima occhiata alla notte fuori. Mentre varcava la soglia del casale, disse sottovoce alla ragazza: «Grazie. Perché hai...». «Non lo so. Vedi di meritartelo, d’accordo?». Lui annuì tre volte di fila. Lei gli toccò le dita furtivamente, quasi una carezza, e chinò il mento: «Mi chiamo Nadia, in ogni modo». 3 Il giorno successivo il padre di Nadia, Martino Tassan, apparve più tranquillo e conciliante: offrì a Maurizio di restare ancora un poco, non per compassione ma perché aveva bisogno d’aiuto nei campi: i figli maschi erano tutti al fronte. Lui accettò subito. Stava malissimo e in quelle condizioni non sarebbe andato lontano; meglio aspettare, anche perché la strada diventava sempre meno sicura. Nel frattempo capì più o meno dov’era finito: ai piedi delle montagne oltre le quali, su e chissà in che direzione, da qualche parte, c’era anche la sua valle. Nei dintorni parlavano friulano e Maurizio non capiva nulla, benché ogni tanto incontrasse gente dei paesi vicini dal dialetto simile al suo. I Tassan avevano un po’ di terra a mezzadria e qualche bestia – una vacca, un asino, pecore e galline. Il padrone era scappato come tanti con l’arrivo dei nemici, così potevano tenersi tutto: non era molto, ma comunque era meglio della fame che Maurizio aveva patito da bambino. Inoltre il casolare, per quanto buio e sporco, non era poi tanto brutto; e Martino Tassan apprezzava la lena di Maurizio, il fatto che parlasse poco. Giorno dopo giorno iniziò a fidarsi. Il resto della famiglia era poca cosa. Giovanni aveva otto anni, era magro come una biscia, e spesso rideva da solo annusandosi le mani. Maria, la sorella minore, era sui quindici anni: bruttina e leggermente zoppa, si limitava a guardare Maurizio sottecchi senza mai avere il coraggio di rivolgergli la parola. Infine c’erano la moglie Maddalena, che ancora nutriva sospetti nei suoi confronti, e nonna Gianola, stesa su un pagliericcio accanto al focolare. E sì, Nadia. A volte Nadia era gentile come la sera in cui l’aveva accolto: lo chiamava biondino quando i suoi genitori non la sentivano, gli rammendava la mantella e i pantaloni. Altre volte era sprezzante: lo prendeva in giro perché dopo il lavoro gli si gonfiavano i capelli in testa per il sudore, oppure lo ignorava. Questo modo di fare dava sui nervi a Maurizio; ma nel contempo vi percepiva un moto d’interesse. Ed era l’unica creatura femminile ad avergli sfiorato la mano da due anni a quella parte, senza chiedere soldi in cambio. Un giorno la accompagnò in paese per comprare del sale. Le notizie passavano di bocca in bocca, ma erano confuse: i tedeschi avanzavano in pianura, l’esercito ripiegava sul Piave, si combatteva in Carnia, forse i soldati erano pronti ad arrendersi, forse invece stavano per lanciare un contrattacco. Di certo c’era soltanto l’invasione, ogni ora più vicina. Nadia e Maurizio sedettero su una panca ai margini della piazza. Il mercato era affollato: uova, carne secca, pesce, verze: tutti cercavano di prendersi qualcosa finché c’era tempo. Nugoli di bimbi correvano urlando fra le gambe delle donne, che parevano vecchie anche quando erano giovani, i visi lunghi e duri, il falcetto legato al fianco. A una decina di metri, tre contadini giocavano a carte su un tavolo di legno, dividendosi un orcio di vino. Nadia teneva il pacchetto di sale in grembo; faceva dondolare la treccia e sbirciava Maurizio. «Dovresti essere anche tu al fronte», disse a un certo punto. Lui non rispose. «Non parli?», lo incalzò. «No». «Eppure hai un dovere». «Che dovere?». «Sei un soldato». «Senti. Non ho mica chiesto io, di combattere: voglio soltanto vivere libero e tranquillo». «Ma se tutti ragionassero così, i tedeschi ci avrebbero mangiati vivi». «Se tutti ragionassero così, non ci sarebbero più guerre». «O forse sei solo un vigliacco», disse Nadia fissandolo. Maurizio le restituì un’occhiata incredula. Una ragazza si permetteva di parlargli in quel modo? «Un vigliacco», disse ancora. «O sbaglio?». Lui tirò su con il naso e scrutò il cielo arrossato, oltre i tetti e il campanile, la sera che calava in fretta, e a breve l’inverno li avrebbe sepolti, e chissà dov’era Ballarin, dov’erano i suoi genitori e i suoi fratelli – ma che andassero in mona, lui se ne fregava, se n’era sempre fregato – ed ecco che quella scema si permetteva di dirglielo in faccia. Fosse stata sua sorella l’avrebbe riempita di sberle. Invece abbassò gli occhi dalle nuvole a lei, che continuava a fissarlo senza muoversi, e borbottò: «Sì, forse». Poi aggiunse: «E ora che te l’ho detto?». Il volto di Nadia si aprì. Lo prese per mano: «Ora che me l’hai detto, possiamo diventare amici». Maurizio guardò quelle piccole dita fra le sue, impaurito, quasi incredulo. Erano dure e secche e bellissime. D’istinto ficcò le mani in tasca e si alzò dalla panca. «Dobbiamo tornare», disse. Ogni giorno vedeva, in lontananza, gruppi di sfollati nella pioggia battente. Due volte qualcuno si era spinto fino al casolare dei Tassan, chiedendo ospitalità; entrambe le volte il vecchio aveva rifiutato. Maurizio sapeva di aver ricevuto un dono inestimabile. Aveva passato il Tagliamento all’ultimo minuto utile; era fuggito senza che nessuno lo fermasse; e adesso aveva un posto dove mangiare e dormire. Si chiese cosa ciò significasse e come avrebbe dovuto ripagare il destino. Perché lui, perché non chiunque altro. Raggiunse i margini del bosco e osservò la piana dalla gobba del colle, nascosto dietro un castagno. Gli sfollati avanzavano. Mentre contemplava quelle famiglie di cui non sapeva nulla e che gli parevano come un secondo esercito in fuga, senz’armi, più disperato e sconvolto, mentre guardava quei corpi che apparivano minuscoli da lontano, stringeva i pugni e pensava: Non mi avrete. Una sera lui e Martino Tassan si misero uno davanti all’altro a bere l’ultima grappa rimasta. Nel focolare ardeva una fiamma bassa e corposa. Maurizio aveva freddo, si sentiva la febbre, ed era contento di poter bere. I tedeschi infine erano arrivati in paese e nel giro di poco avrebbero bussato al casolare. «Dicono che tagliano le mani e i piedi alla gente», disse Tassan. «Io non ci credo. Sono cristiani pure loro, no? Però sono tanti. E si prendono tutto, questo sì». Maurizio annuì. «Tu cosa faresti?», gli chiese il vecchio. «Scapperei, credo». «E dove?». «Non lo so, signore. Ma non starei qui». «E se i miei figli tornano dal fronte? Cosa trovano?». «Ma almeno voi sareste in salvo». Martino Tassan fece un sorso di grappa e si alzò a deporre un ciocco nel focolare. Nonna Gianola russava appena. Quando tornò al tavolo parlò lentamente: «Io non me ne vado nemmeno se mi sparano in testa». Infilò una mano nella barba e passò la lingua sulle labbra. «Nemmeno se sparano in testa alle mie figlie, me ne vado. È chiaro?». «Certo, signore. Non volevo mancare di rispetto». «La cjasa è del paron, la terra è del paron, è tutto del paron. Ma sono io a coltivarla, e ora lui non c’è. Quindi non la lascio. È chiaro?». «Certo». «Nemmeno se davvero tagliano le mani e i piedi. Gli canto anche l’evviva, guarda. Gli do questa grappa, to’». Sollevò il bicchiere, strizzando le palpebre più volte. La voce era diventata cattiva. «Ma che non tocchino le mura». Maurizio annuì ancora. «E tu? Non vuoi dare una mano sui monti?». «Si capisce», rispose cauto. Forse Nadia gli aveva raccontato qualcosa? «Ma preferisco rimanere qui, dare una mano a voi». «Però là ci sono i tuoi compagni». «Quali compagni? Non saprei nemmeno a che battaglione unirmi, dove andare». «Guarda che non sono basuâl», sorrise Martino Tassan dopo un attimo: ed era strano, nella luce dorata e ballerina del fuoco; era come se il sorriso appartenesse a un’altra persona. «Come dice?». «Non sono scemo. L’ho capito subito che eri uno scappato». Maurizio non parlò. «Ma ci fai comodo. Mangi poco, lavori tanto». «Faccio quel che devo». «Lavori tanto, parli poco. Sembri quasi un furlan». Ripresero a bere. Un altro giro e un altro ancora. Maurizio sentiva l’ubriachezza montare. Tassan si grattò la barba sulla guancia spingendovi la lingua contro. «Quindi», disse alla fine, «aiutiamoci e speriamo che finisca in fretta». E con questo, pensò Maurizio, ce l’ho fatta. 4 Ma ciò che non seppe comprendere – e come poteva? Anche a distanza d’anni se lo sarebbe chiesto: con che parte del cuore o con quale genere d’istinto uno come lui poteva coglierlo? – ciò che non comprese fu l’effetto di quella mano che aveva carezzato la sua, giorni prima; quanto fosse duraturo l’incantesimo. Nadia gli era piaciuta fin da subito. Il suo corpo aveva movenze selvatiche: una coscia massaggiata con forza, il passo veloce con cui si muoveva in casa, il seno che lasciava intravedere senza accorgersene. La sbirciava di soppiatto ogni giorno di più, sapendo che uno sguardo di troppo era sufficiente per farsi cacciare. E più ancora, Maurizio era stupefatto dalla sua capacità di ascoltare. Nessuno l’aveva mai ascoltato: sua madre era una donnetta piagnucolosa, i fratelli una banda di cretini interessati solo a cacciare i gatti o picchiarsi fra loro. E suo padre. Un vecchio bastardo come suo padre prima di lui. Maurizio invece era stato il primo della famiglia ad andare più in là di venti chilometri dal paese. Il primo a parlare con dei terroni, il primo ad ascoltare frasi dal suono strano o storie di luoghi remoti, e il primo a sentir dire da un commilitone (oh, lo ricordava bene: una notte in cui la neve era caduta interminabile, silenziosa) che Dio era una lurida menzogna inventata dai re per rimanere re, e divorata dai servi per consolarsi. Non si era mai reso conto di come fosse vasto e terribile il mondo, e quanto luminose potessero essere certe parole. E adesso le sue parole – confuse e piene di rabbia, ancora vergini, ancora incerte – avevano trovato il più ambito dei luoghi dove fermarsi: il corpo di una ragazza. Presero l’abitudine di vedersi per una mezz’ora al giorno, con regolarità, in momenti diversi e fingendo di essersi incrociati per caso. Sedevano sulla staccionata e parlavano, nient’altro. Lei gli raccontava del fratello più grande, Toni, che era partito allegro e pieno d’orgoglio e mandava loro cartoline dove sognava sempre di morire da eroe in Albania. (Bravo mona, pensava Maurizio). E del più giovane, Piero, salito in Trentino e prigioniero degli austriaci. Ma la sorte dei fratelli la rabbuiava, e così parlavano d’altro: dell’inverno che sarebbe giunto, della malattia di nonna Gianola, della grotta dentro il bosco dove si diceva che il diavolo giocasse a carte (c’era il segno di uno zoccolo sulla roccia); del pessimo carattere del vicino Angelo Dorigo e dei suoi litigi con il padre, di com’era buona la zuppa di verdure e farina, dei tedeschi che bevevano il grasso dei maiali bolliti. Di un socialista venuto a far comizi al paese di Maurizio, prima della guerra, e che quasi era stato linciato. Della maestra cattiva che lui aveva da piccolo. Parlavano delle lettere di zia Elena, mandata dal governo in Sicilia insieme ad altri sfollati. Qui non va tanto bene, leggeva Nadia ad alta voce: non sai cosa ci tocca patire. Il mio povero Arturo non trova lavoro perché la gente si fa il pane in casa e di fornai come lui non c’è bisogno. Mi manca il latte per Luigina, e ho paura che Santo prenda la malaria. Qui tanti hanno la malaria. Santo si è pure messo a rubare la frutta: diventerà un delinquente. Ci mancate tanto, tua Elena. E parlavano dei loro sogni, una materia che sembrava proibita, persino assurda: chi poteva pensare a una cosa remota come il futuro? Invece in quei momenti Nadia ragionava come se la guerra non esistesse. Confidava a Maurizio che avrebbe voluto vivere a Udine. Sì, un giorno sarebbe partita, persino fuggita, aggiungeva sottovoce, senza il consenso del padre. Voleva studiare o imparare a fare bene la sarta o viaggiare in nave – come doveva essere dormire su una nave? – o chissà. Maurizio capiva bene quei desideri; ribatteva che lui si sentiva destinato a grandi cose, sebbene non gli fossero ancora chiare. «Di sicuro non voglio tornare a casa», diceva. «Di sicuro lassù non ci torno». «Sono contenta», rispondeva Nadia con un sorriso. «E perché?». «Così. Perché sono contenta». «Sei contenta che io sia qui?». «Be’. Un poco». «Un poco». «Sì, biondino, ma non abituarti mica». E Maurizio rideva. Un’altra cosa che aveva riscoperto, nelle mezz’ore con Nadia: ridere. Scavava nei ricordi per trovare un’altra risata tanto franca, priva di paura o ferocia; ma non la trovava. Poi Maddalena Tassan chiamava la figlia dicendole di spicciarsi, di non stare così a lungo con il forestiero. Lui si scusava e rimaneva solo per qualche minuto ancora, mentre la luce spariva in fretta dalla pianura, la sera bruniva i colli e tutta la terra che lui intuiva presente, vastissima, un insieme di possibilità sotto forma di campi e alberi e persone e carri e bestie e oggetti e armi che lui fissava con aria di sfida, acuendo la vista: voleva arrivare a Udine e ben oltre: benché fosse impossibile si sforzava di vedere l’Europa intera, la immaginava gravare sull’Italia, e insieme ad essa la guerra che la attraversava come un incendio, un caos di cui lui aveva una minima, inutile coscienza: ma che avrebbe cambiato le cose, seminato nuove speranze, e forse regalato un’occasione a chi sapeva attendere. Perciò il fante Maurizio Sartori attendeva, lavorava e digiunava. Erano tre cose che aveva sempre saputo fare alla perfezione. Per ingraziarsi Tassan passava anche un giorno intero senza toccare un pezzo di polenta, affinché le donne mangiassero una razione doppia. Le giornate si fecero corte e gelide. I tedeschi si erano presi il Friuli e trattavano con le poche autorità rimaste. Al paese cui apparteneva il casale di Tassan, il parroco don Alfredo era stato eletto sindaco dal comandante degli occupanti. Riuscì a limitare le requisizioni di cibo e danaro, ma i soldati continuarono a bussare ubriachi di casa in casa. In quanto clandestino, Maurizio avrebbe dovuto presentarsi e iscriversi nella lista della popolazione civile, per prestare servizio come operaio. Invece decise di fingersi morto, scomparso, un animale in letargo. Il casale era lontano a sufficienza da essere fuori portata dalle scorribande delle truppe: solo una volta un ufficiale era giunto dai Tassan con la pistola in mano, intimando di avere farina e vino. Il vecchio non aveva fatto storie. L’ufficiale tremava con il pacchetto e la bottiglia in mano: allontanandosi li aveva gettati nel campo e aveva sparato un colpo in aria, gridando qualcosa nella sua lingua. Soffiava un vento aspro e la pioggia mutava in neve. Maurizio tagliava la legna, la ordinava in piccole cataste dietro la stalla. Digiunava. Si caricava la gerla sulle spalle e marciava. Le mezz’ore con Nadia erano una ricompensa inestimabile, e a ogni suo sorriso rispondeva con un altro, cercando di non farsi notare dai genitori e da nonna Gianola, che gli era sempre parsa più sveglia e cattiva di quanto non sembrasse. Digiunava. Lavorava. Se qualcuno passava di lì correva a nascondersi, e i pochi che sapevano di lui scuotevano la testa e tacevano. Di tanto in tanto ripensava a Ballarin e al calabrese e a tutti gli altri che con lui avevano diviso il tempo della trincea e della ritirata. Li immaginava simili a spettri vaganti senza pace nella foschia di quei mattini, traditi dal Dio cui si erano tanto raccomandati. Una volta li sognò persino: sognò che correvano lungo una cengia, esili, color quarzo, finché non scomparirono di là da una montagna immensa, infuocata e irreale, una montagna eretta da demoni – l’inferno che il suo sonno aveva partorito. 5 Giunse il Natale, triste e freddo; il Natale se ne andò, ed ecco un nuovo anno; in paese macellarono una bestia in piazza e i tedeschi la pretesero; la chiesa di Sant’Anna del villaggio vicino fu devastata; la razione di farina per i censiti venne ridotta. Arrivarono gli ultimi profughi, che vagavano per i campi implorando cibo, e nonna Gianola disse che ci mancavano pure loro, potevano anche morire di fame. Un soldato cercò di stuprare Maria ma un altro lo fermò e porse le sue scuse a Maddalena, una mano sul cuore. Fu sancito l’ordine di requisire tutte le campane di ogni chiesa tranne una. Durante una distribuzione del sale, Maurizio ne mise un pizzico sulla lingua e rabbrividì per il piacere. Piero Tassan scrisse dal suo carcere in Austria: lavorava in miniera, aveva tanta fame, li pensava. Toni in Albania non era ancora diventato un eroe. E una sera del marzo 1918 Maurizio e Nadia rimasero sulla staccionata più della solita mezz’ora. Nonostante il gelo, non avevano abbandonato il loro rito: battevano le mani per riscaldarsi mentre parlavano, o facevano piccoli saltelli sul posto. Sui campi deserti soffiava da ovest il garbìn e le stelle ribollivano vivide. Quasi sottovoce, quella sera, Nadia gli disse che avrebbe voluto ritrarlo. «In che senso?», chiese Maurizio. «Nel senso che voglio disegnarti». «Fai disegni?». Lei annuì; lui alitò sulle dita. All’orizzonte le montagne erano macchie nella notte. «E non me l’hai mai detto?». «Non si possono mica dire tutti insieme, i segreti». «Sì, ma questo è bello». «Insomma. E poi non lo faccio quasi più; solo che ora mi è venuta voglia». «E come facciamo?». «Eh, come facciamo. Vado a prendere carta e matita, tu vai nella stalla e io ti disegno». «I tuoi non vorranno. Non sta bene». «Facciamo svelti». «È tardi». «Cos’è, biondino? Hai paura?». Maurizio si strinse nelle spalle. Nadia ricomparve dopo un minuto con una candela, due fogli e una matita. Gli disse di seguirlo nella stalla, quindi accese la candela e la depose a terra, facendo attenzione alla paglia. La fiamma illuminava uno spazio minimo. La vacca sbuffò agitando la coda. Maurizio era inquieto: «Cosa devo fare?». «Siediti di fianco alla candela». «Non puoi farlo domani? Sono stanco». «Smettila. Con un poco d’ombra è più bello». Lui sospirò e prese a cercare la posizione migliore. Prima si mise sui calcagni, ma non avrebbe retto molto in quel modo; si rassegnò a sedersi con le gambe incrociate. D’istinto pettinò i capelli sporchi, umettò le dita e cercò di togliersi un po’ di terra dal viso. Nadia sorrise. «Che ridi?». «Mi diverti. Ti metti in posa». «Cerco di stare comodo». «D’accordo, d’accordo». Si fece seria e stese con cura uno dei fogli su un pezzo di legno. Maurizio la vide avvicinarsi fin quasi a sfiorarlo, poi allontanarsi un passo. Cominciò a tracciare un segno con la matita, subito corretto da qualche colpo laterale. Maurizio la fissava grato, come se nelle ultime settimane avesse colpevolmente dimenticato quanto fosse bella: il mento cosparso di lentiggini, la treccia sfilacciata dai riflessi color rame; e quegli occhi grigi e tondi, accesi sotto il fazzoletto bianco. Gli sguardi si incrociarono di nuovo. Nadia scosse la testa imbarazzata e tenne ferma la matita sul foglio, come in attesa di ispirazione. Fu allora, forse – ma nei ricordi di Maurizio questa immagine sarebbe rimasta per sempre sfocata, figlia del chiaroscuro in cui erano immersi – fu forse allora che lui si mosse verso di lei. Erano così vicini. Si mosse verso di lei e le carezzò la guancia. Nadia ebbe un brivido che la mano di Maurizio percepì con pura delizia. Un’altra carezza, un altro brivido. Maurizio era terrorizzato. Lentamente avvicinò la sua bocca e la accostò al naso di Nadia. La candela tremò sotto il suo corpo. Dal naso passò alle sopracciglia, guidato dall’istinto, e quindi scese verso la bocca di lei, che era rimasta immobile e nervosa. La baciò. Nadia rispose al bacio con una sete improvvisa, arrivando a mordergli le labbra. Lui si ritrasse e poi tornò all’attacco, stringendole una coscia con la mano destra. La matita cadde. La candela si spense. Maurizio armeggiò con la gonna. Lei gli chiese di fare piano; lui avrebbe voluto mangiarsela in tutta furia, ma rallentò. Il corpo di Nadia era bianco, con tre grossi nei sul fianco destro. I seni piccoli e puntuti. Maurizio la rimirò attonito: era talmente diversa dalle puttane di Caporetto. Era una donna vera e lo voleva. La sentì reprimere un grido – era minuscola e fragile sotto il suo corpo – e nel giro di un paio di minuti lui venne in silenzio, stringendo le palpebre. Rimasero vicini per un po’. Nadia era immobile e non parlava. Riaccese la candela, che lanciò una fiamma vivida. Dietro di loro la mucca sbuffò ancora e si rigirò. Le pecore mandarono un belato. E solo dopo quello che a Maurizio apparve un tempo interminabile, il tempo necessario per navigare intorno alla terra o perdersi in qualche paese lontano, Nadia si voltò verso di lui e lo carezzò sulla guancia con delicatezza, un gesto che sembrava mondare ogni istante del suo passato. «Ciao, biondino», gli disse con un sorriso. «Ciao», rispose Maurizio al colmo della gioia. 6 Martino Tassan sapeva? E sua moglie? E la nonna, e la sorella minore, e il fratellino? Dopo l’estasi delle prime settimane – avevano fatto l’amore altre volte, con la massima cautela ma godendone sempre di più – il peso dell’ansia si fece troppo gravoso per Maurizio. Era incredibile che fosse accaduto, e incredibile che non li avessero scoperti. Troppa fortuna non portava bene. «Se ci trovano è la fine», le disse. «Tuo padre mi sgozza». Nadia si offrì di difenderlo senza chiedere nulla in cambio. Nulla in cambio, ripeté – e questo, a Maurizio che temeva già di doverla chiedere in sposa, apparve come il più grande dei doni. Nel segreto delle notti, esplorando il corpo di quella ragazza, aveva trovato la libertà a lungo cercata: prima di ricadere sfinito a terra poteva sentirsi distante da qualunque umana preoccupazione. Eppure durava così poco, ed era così rischioso. Per un periodo decisero di non toccarsi più. Ma quando la primavera cominciò a bruciare nell’estate, tornarono ad amarsi nel fitto del bosco. C’era una grande pozza blu che emergeva di colpo fra le querce, nell’aria fresca e odorosa di legno. E c’era un momento, un giorno ogni tanti, quando Martino Tassan scendeva in paese e la madre stava con la nonna; allora correvano lì. Il furore senza nome di Maurizio Sartori trovava un luogo dove placarsi: cos’era dunque quel desiderio? Non la carne. Non solo, non più. Si sentiva debole, mentre accarezzava le guance di Nadia, e Nadia lo stringeva. L’amore era simile alla fame, lo istupidiva e rendeva la testa leggera. Aveva sempre creduto che la debolezza fosse il peggiore dei mali: soltanto un uomo vigile e forte avrebbe potuto resistere alle botte del padre, al freddo, alle bombe, alle angherie degli ufficiali e dei carabinieri, alla stortura del mondo – quel mondo che tanto odiava perché sopprimeva di continuo gli attimi di pace. Così lui era stato forte, eppure aveva perso tutto. Nessuno gli aveva mai spiegato l’amore: forse poteva studiarlo? Impararlo? «Ciao», gli diceva la sua insegnante baciandolo sulla fronte. Arrivò luglio. Nadia gli fece altri due ritratti, uno di profilo e uno in cui aveva un’espressione arcigna. Piovve, tornò il sole, riprese a piovere. I campi si riempirono di covoni. Maria portava fuori Giovanni per mano, gli diceva di respirare bene per guarire dai suoi malanni. Le nuvole erano impalpabili, filacci evanescenti sopra le cime delle Alpi: talvolta Maurizio riconosceva una forma, ma subito scompariva. Le vigne erano cariche d’uva e i tedeschi passavano a soppesare contenti i grappoli. Fra gli arbusti crescevano fiori gialli. Morì un vecchio e un gatto entrò nella sua stanza e tutti dissero che era terribile, portava disgrazia. Una sera, di ritorno dai campi, Maurizio si mise a cantare a gola spianata. Gli uscì senza volerlo, un sorso di felicità o un modo per combattere la schiena rotta dal dolore; non lo faceva da tanto tempo. Martino Tassan lo guardò stupito e dal casolare uscirono Maddalena, Maria e Giovanni. «Che bella voce», disse la figlia più piccola. Maurizio si strinse nelle spalle. Lei gli tirò la maglia: «Ancora, ancora!». Lui intonò Quel mazzolin di fiori. La cantava al fronte insieme ai compagni, marciando o spalando neve e aveva iniziato a detestarla – ma in quel momento era solo ciò che era: una canzone innocua, forse appena triste. Nadia arrivò quando stava per attaccare la terza strofa; la concluse imbarazzato e carezzò i bambini che dicevano ancora, ancora. Martino e Maddalena li riportarono nel casolare mentre Nadia gli si avvicinava: «Cos’è questa novità?». Lui sorrise appena: «Non si possono mica dire tutti insieme, i segreti». Venne a trovarli don Alfredo. Era un tipo minuto e con spessi occhiali cerchiati di ferro; lui e la moglie di Tassan erano cugini per parte di madre. Ogni giorno pedalava in bici su e giù per la zona cercando di assicurarsi che i parrocchiani stessero bene, e la cosa lo rendeva molto fiero. Accettò un piatto di polenta, ma la lasciò raffreddare perdendosi nei racconti. Parlò delle manovre per evitare l’arresto dei figli di Ferruccio Santarossa, e del modo in cui era riuscito a sottrarre del rame che i tedeschi volevano a tutti i costi. Parlò delle benedizioni notturne nelle case, dei bilanci da far quadrare nelle discussioni con il comandante. «Il problema è che quelli sentono il fiato sul collo». Staccò un pezzo di polenta dal piatto. «Per questo vogliono prendersi tutto. Anche le macchine da cucire, ora». «Oh, Signor», disse Maddalena portandosi una mano alla bocca. «Ne hai una?». «Me l’ha lasciata mia sorella Elena». «Nascondila bene», disse il prete. Per un po’ rimase in silenzio. Solo alla fine indicò Maurizio e parlò con Tassan: «Questo è un tuo parente?». «No», disse lui. «Ospiti uno sbandato?». «So parlare anch’io», disse Maurizio. «Zitto», disse Tassan. E poi, rivolto al prete: «Sì. Gli devo un favore». Lui fece un lungo respiro con il naso ed espirò piano, come a valutare la situazione. «Come ti pare», disse. «Io però non posso aiutarvi. Sono già nei guai con i ragazzi del paese». «Non c’è problema». «Nessuno ha chiesto il suo aiuto», disse Maurizio. La notte seguente, dopo avere fatto l’amore in piedi contro un albero – Maurizio le teneva una mano sulla bocca – Nadia gli chiese perché odiasse tutti. «Ma cosa dici». «È vero. Odi tutti, e non capisco perché». Lui fece una smorfia, come se masticasse una radice amara. Nadia si rassettò la gonna. «Quando è venuto don Alfredo –». «È un prete». «Non voglio sentirti parlare così». «È un prete», ripeté Maurizio staccando un pezzo di corteccia e rigirandoselo fra le dita. «Non mi importa se sei un senzadio. È una brava persona che si dà da fare». «Hai visto come mi ha trattato?». «Stava solo cercando di capire». Restarono un po’ ad ascoltare il vento fra le querce e lo strillo roco delle civette. Nadia si strinse a Maurizio e lo fissò. «Perché odi tutti?». «Ancora. Se l’altro giorno cantavo». «Sì, ma a parte quei momenti sei sempre arrabbiato. E quando parliamo trovi sempre il lato brutto delle cose». «Non è vero». «Sì che è vero. Perché?». «Perché la vita è uno schifo», sbottò. «Va bene? Come vivi, stai male. Vivi, e la gente ti obbliga a stare peggio; o ti comanda di ammazzare altra gente. Se potessi mettere insieme le bombe dell’esercito, le farei cadere sul creato volentieri. Pensa che bel silenzio, dopo. Pensa che pace». Nadia sospirò e gli sfiorò la barba: «Però non odi me, vero?». I lineamenti della ragazza erano confusi nel buio, ma lui poteva distinguerne il sorriso. «No», disse. «Sei l’unica cosa che non odio a questo mondo». 7 L’estate scoloriva. Giovanni soccorse una rondine ferita che Tassan strozzò senza che lui lo vedesse. Piovve per giorni, tornò un caldo torrido e la corda del pozzo si ruppe. Don Alfredo li visitò di nuovo e Maurizio rimase in stalla a fare smorfie alla mucca. Molti dicevano che la guerra stava per finire. Le lettere di Piero non arrivavano più. «E anche stasera, polenta e soffietti», diceva Tassan schiacciando un pezzo di polenta e soffiandoci sopra – una cosa che faceva sempre ridere Maria. Dal suo giaciglio, nonna Gianola aveva cominciato ad annunciare che la sua ora sarebbe giunta presto, e non la smetteva di biascicare rosari. Maurizio avrebbe voluto spaccarle il collo come aveva fatto il vecchio con la rondine. E poi successe. Verso metà settembre, un giorno che sapeva di sambuco, Nadia lo prese da parte e gli disse di essere incinta. Maurizio tacque. Era incinta, disse lei, ne era sicura, aveva anche parlato con un’amica, e non sapeva come fare. Poteva nascondere il gonfiore un poco, ma prima o poi avrebbero dovuto dirlo a suo padre. Maurizio tacque. Lei gli raccolse una mano e se la mise sulla pancia e lui la ritrasse e lei sospirò. «Mi spiace», diceva. «Non so come mai è successo». E Maurizio la vide per ciò che era: una ragazzina. Quanti anni aveva? Sedici? Diciassette? Sentì la bocca asciugarsi di colpo. Quanto era stato stupido. L’amore, l’amore – macché. Un cazzo e una mona, e adesso il peggiore dei guai. «Mi spiace», ripeteva Nadia, e lui la abbracciò masticando a vuoto. Per un mese e mezzo il tempo sembrò rallentare, e anche molti anni dopo Maurizio avrebbe ripensato a quel principio d’autunno come a una sorta di rara e incomprensibile tregua. L’armistizio venne proclamato proprio quando la gravidanza di Nadia iniziava ad apparire troppo evidente. Maurizio attese ancora qualche giorno per capire se le notizie fossero affidabili. Quindi fuggì. E sì, sì, certo: alcune sere, dopo avere stretto Nadia di nascosto, gli era passato per la testa di chiederla in sposa. Temeva la roncola di Tassan, ma con un po’ di coraggio l’avrebbe convinto: benché privo di soldi o piani restava comunque un bravo ragazzo. Un lavoratore. Ma alla fine comprese che non avrebbe mai potuto farlo, e la ragione era molto semplice. Non poteva meritarsi o governare quella felicità, né recarne un’altra in dono. Era come con la guerra, in fondo. La stessa cosa. Per fare bene la guerra occorrevano coraggio e devozione, ci voleva un cuore puro; lui invece sapeva soltanto fuggire. Perciò fuggì. Poco prima dell’alba del quindici novembre 1918, il fante e disertore Maurizio Sartori si mise per strada deciso a tornare dalla sua famiglia. Non aveva più scritto loro, dando per scontato che se la sarebbero cavata. Magari invece erano morti tutti; era morto il medico che leggeva loro le lettere, era morto il prete del paese, morto il becchino, morti i suoi fratelli, gli sterpi cresciuti nella casa. Che importava. Bruciasse pure il mondo intero, lui restava solo e condannato a se stesso. Si addentrò fra gli alberi e risalì la china del colle verso le montagne. Sapeva che il percorso era pericoloso, che poteva perdersi o essere trovato e fucilato per l’antica diserzione: ma ogni prospettiva era migliore dell’ira di Martino Tassan. Cercò di tenere un buon passo. Il bosco era ripido e fitto, un intrico di fango e rami caduti. Si costrinse ad avanzare anche da sfinito, ignorando se si fosse perso o meno. Le suole erano incatramate di melma, i pantaloni già sporchi fino alle cosce. Solo al tramonto mangiò metà del pane che aveva rubato e dormì un sonno breve, interrotto dai brividi. Riprese a salire attraversando la foresta, immerso in un vapore sottile. Guadò un torrente, le scarpe infilate nei pugni, e stringendo i denti per il freddo. Ecco una piana, un enorme larice caduto, un casolare poco distante. L’odore degli abeti e l’aria crepitante dell’alpe gli davano alla testa. Dalla terra si alzò una nebbia scura. Maurizio non vedeva più i piedi. Le civette gridavano e lui era certo che lì intorno ci fosse altro ancora, qualche spirito pronto a coglierlo e punirlo per quella fuga, cento volte peggiore della diserzione, mille volte più infame di ogni morte data in guerra. Aveva paura. Restò immobile a lungo allargando le mani davanti a sé, poi si accoccolò contro una radice. Al risveglio la nebbia si era un poco diradata. All’alba superò un colle calvo e ricoperto dalla neve, e ore dopo incontrò un altro torrente, più grande, e decise di seguirlo. I corvi strepitavano fra i rami; Maurizio tirava loro un sasso facendoli alzare in volo. Poi il torrente si ingrossò di colpo e incrociò un altro corso d’acqua, e Maurizio capì che quello era il Piave. Si fermò. Inerte sotto la pioggia guardava quella distesa che si era riempita di sangue nei mesi appena trascorsi, e qualcosa si mosse dentro di lui: ma non era gioia, né consolazione. Stava semplicemente tornando a casa. Gettò una mano nell’acqua e si lavò il fango dal viso. Percorse gli ultimi chilometri quasi di corsa. Il cielo sopra i colli gli veniva addosso, pallido e spettrale. Bussò e la madre gridò quando lo vide entrare in casa. Il padre gli disse che anche suo fratello maggiore era tornato da poco; era stato prigioniero in Slovenia ed era molto malato. Del più giovane invece non si sapeva. Sua sorella Elisa era morta di parto un anno prima. Esterina invece stava bene. Maurizio ascoltò tutto a capo chino: senza che se ne fosse accorto, aveva cominciato a piangere sommessamente. «Ma dov’eri finito?», chiese sua madre baciandolo e scambiando quelle lacrime per sollievo. «Non abbiamo più avuto notizie». «È una storia lunga». «Niente cartoline, niente lettere». «È lunga, madre». «Pensavamo fossi morto». Maurizio alzò le spalle, e la voce rotta lo sorprese per quanta delusione conteneva, per quanta vergogna. «No», disse. «Io non muoio mai». 8 Riprese la sua vita, fingendo che nulla fosse accaduto. Va bene, si mangiava anche meno di prima e certo meno di quanto avesse mangiato dai Tassan; e diversi suoi amici erano morti o dispersi; e moltissimi prigionieri non erano ancora stati liberati. Però la guerra era finita, così dicevano tutti, e tutti gli chiedevano com’era il fronte, cos’era successo, se avesse combattuto sul Piave. Ma lui nicchiava, si stringeva nelle spalle. Lavorava e taceva. La notte si svegliava braccato dal rimorso e aspettava l’ora di alzarsi con una mano calata sulle palpebre. Lavorava e taceva e ogni sera si sedeva sulla staccionata a scrutare la strada che rompeva il paese in due: una solitaria replica delle sue mezz’ore con Nadia, il tempo felice in cui lei gli parlava di sogni. Guardava l’imbocco della carreggiata masticando erba, come se da un momento all’altro potesse arrivare qualcuno con un messaggio di salvezza. Finché, un mese dopo, non arrivò. Un misero carretto trainato da un asino entrò in paese, lungo la strada grigia di brina. Maurizio era sulla riva del Piave. Il carretto si muoveva lentamente, simile a qualunque altro: eppure più si avvicinava, più il viso del conducente gli metteva ansia. Poi se ne accorse. Era Martino Tassan. Sulle prime pensò di nascondersi, ma il villaggio era piccolissimo e avrebbe trovato subito la casa dei suoi genitori. Mentre il vecchio lo superava senza averlo visto – si era acquattato dietro un cespuglio secco – Maurizio valutò che avrebbe potuto raggiungerlo in fretta. Non era ancora entrato in paese, era mezzogiorno e per strada non c’era nessuno. Avrebbe potuto raggiungerlo alle spalle e rompergli la testa con un sasso di fiume. Ma non aveva senso. Uscì dal suo nascondiglio e corse dietro al carro strillando più forte che poteva: «Signore! Sono qui, signore». Tassan tirò le briglie all’asino e si fermò. Scese da cassetta e Maurizio vide che in mano non aveva la roncola. Tuttavia il respiro gli morì in bocca quando incrociò lo sguardo dell’uomo: era talmente carico di furia che avrebbe potuto spazzarlo via dalla terra. «Ti devo ammazzare?», chiese. «Come?». «Parla. Ti devo ammazzare?». Maurizio tacque. Lui gli venne incontro stringendo i pugni come a farli scoppiare. «Hai tradito i tuoi compagni. Sei venuto a casa mia. Hai mangiato sotto il mio tetto. Hai sedotto mia figlia. L’hai messa incinta. E poi sei scappato». Martino Tassan era a pochi passi e Maurizio non riusciva a muoversi. «Ti basta per morire? Secondo me sì. Secondo me adesso devo prenderti e tirarti il collo». «Sì», biascicò. «Come hai detto?». «Sì. Ha ragione». La bocca del vecchio assunse una piega amara. «Nemmeno per la tua vita, combatti». «So le mie colpe. Che devo fare?». «Devi essere un uomo, dio can. E invece continui a fare il verme». Sputò per terra. «Tenere un uomo in casa, con mia figlia. Basuâl, basuâl che sono stato. Dovrei ammazzarti, ma lei mi ha implorato di non farlo. Lo sa il Signore cosa le passa in testa, ma ti vuole bene veramente. E non voglio che mio nipote venga su senza un padre, anche se è un padre di merda. Quindi devi tornare. Farlo crescere come un bravo cristiano». Sputò ancora e una specie di sorriso allucinato fece capolino, per spegnersi subito: «E poi tu vuoi morire. L’ho capito, io. Vigliacco come sei preferiresti essere sotto terra, e invece». Maurizio abbassò gli occhi. «Allora?», disse Tassan. «Va bene». «Devo legarti?». «No. Vengo». «E farai come ti ho detto». «Sì». «Vai a chiamare i tuoi. Io ti aspetto qui». Maurizio ebbe un lampo di incertezza: «E se scappo?». Il vecchio si sedette sul carro e schiacciò il cappello sulla fronte. «Provaci», disse. Partirono un’ora dopo. Maurizio sedeva al fianco di Tassan, in silenzio, le mani buttate tra le gambe. Ripensò alle volte in cui lui avrebbe potuto tradirlo, o venderlo al nemico in cambio di un po’ di farina, e non l’aveva fatto. Si sentì l’ultimo degli uomini: Ballarin era nel giusto quando gli aveva dato del Giuda. «Come sta la famiglia?», domandò. «Giovanni è morto di spagnola», disse Tassan con voce piatta. «Oh, Dio». «Anche Maria ha rischiato». Passarono il Piave sull’unico ponte rimasto in piedi nella zona, e proseguirono scendendo verso sud. L’asino era vecchio e arrancava. Tacquero per il resto del tempo, e Maurizio era così impaurito che si concentrò unicamente sul paesaggio reso immobile dall’inverno, le faggete ischeletrite, i mucchi di neve dura. Ogni tanto una cornacchia tagliava il cielo. Quando il sole era ormai calato si fermarono in un paese. C’era una sola locanda, e le camere erano tutte libere. Tassan ne prese una. Ai tavoli nel centro della sala – il pavimento era coperto di fango e segatura – tre uomini li fissavano dietro un grosso piatto di polenta. Anche Tassan chiese polenta e vino. Maurizio non aveva fame, ma bevve volentieri. Finita la cena salirono le scale. La proprietaria aveva soltanto una piccola candela, che Tassan proteggeva con la mano a conca: la fiamma ricordò a Maurizio la luce accanto alla quale aveva fatto l’amore con Nadia, per la prima volta. La stanza era poco più di un ripostiglio con un letto, paglia avvolta in un telo color noce. Tassan chiuse la porta e infilò la chiave nei pantaloni; quindi si tolse la giacca, grattandosi via dai denti i pezzi di polenta. «Tu dormi per terra», disse. «Sì, certo», disse Maurizio. Tolse le scarpe e si decise a chiedere: «Ma come mi ha ritrovato?». «Una sera mi hai detto il nome del tuo paese. Ci ho messo un po’, a ricordarmelo. E poi è morto Giovanni, e mettersi per strada non è stato facile. Ma alla fine ce l’ho fatta». Maurizio si raggomitolò di fianco alla paglia, vigile e teso. Era sicuro che il vecchio l’avrebbe ammazzato. Tutta quella farsa, il viaggio, la notte insieme nella locanda: solo un modo per prolungare l’angoscia. Dopo un minuto Tassan cominciò a russare, ma Maurizio riteneva stesse fingendo. Forse avrebbe potuto tentare di calarsi dalla finestra – ma c’era, una finestra? Non ci aveva fatto caso, e ora nel buio non poteva distinguere niente. Dal pavimento sentiva filtrare gli ultimi strepiti degli avventori, e la voce della proprietaria che li minacciava. Determinato a resistere, stirò le gambe e le braccia: il freddo lo assalì più intenso, gli spifferi nella camera lo punsero ovunque. Poi ci fu come uno stacco improvviso, un istante di pace. Maurizio vi cedette e raccolse le gambe, chiuse gli occhi: e quando li riaprì sul suo petto c’era qualcosa, come se un gatto gli si fosse acciambellato addosso. Allungò le mani e incontrò un corpo dal pelo ispido, nerissimo, visibile nonostante il buio. Maurizio gridò. Nulla uscì dalla sua bocca. Si accorse che il corpo aveva delle braccia, e lunghe dita affusolate che lo carezzavano: provò ad agitarsi e respirare, ma senza riuscirci. L’essere lo teneva inchiodato a terra con un peso sproporzionato rispetto alle sue dimensioni. Annaspò riuscendo a inghiottire almeno un poco d’aria, e nel buio vide brillare prima un occhio e quindi l’altro: i due globi luminosi lo inchiodavano irridendolo. Aiuto, pensò, aiuto, cercò di urlare. Strinse le braccia pelose del mostro con le sue mani, provando a liberarsi: ma invano. Non aveva più fiato. Quando ormai si sentiva sul punto di cedere giunse una voce – Sveglia, diceva, sveglia – «Sveglia», risuonò nella realtà: la voce ferma di Martino Tassan, e il suo viso che lo scrutava, illuminato dalla candela. Maurizio si alzò a sedere di colpo, ansimando. «Ho avuto un incubo», balbettò. «Sì». «Cristo. Un sogno brutto». «Cos’era?». Maurizio fissò spaventato il vecchio. Tastò il pavimento, i pantaloni, le scarpe accanto al giaciglio. Era sveglio. Annuì e si asciugò il sudore dalle labbra. «Non lo so», disse. «Stavo come soffocando». Tassan aggrottò le sopracciglia. «C’era qualcosa che mi toglieva il respiro», si spiegò. «Una cosa nera, cattiva. Piena di peli». «Un mostro?». «Non lo so – una cosa. Mi teneva fermo. Non ricordo». Tassan lo ascoltava preoccupato. La candela si spense. Maurizio sussultò; Tassan tirò una bestemmia e tastò per terra alla ricerca dei cerini. Dopo qualche secondo la fiamma apparve di nuovo. «Il cjalcjut», disse a bassa voce, custodendo la luce. «Come?». «Il cjalcjut. Sai cos’è?». «No». «È uno spirito che ti prende nel sonno». Si guardò intorno nervoso, chinando la barba sulla lingua di fuoco. «Arriva di notte e si siede sul petto, come ha fatto a te, per soffocarti». Fece un segno della croce e Maurizio represse un brivido. Sapeva che là fuori, nell’oscurità, c’erano mostri e streghe e diavoli pronti a tentarti e ucciderti; anche lui aveva ascoltato quelle storie da bimbo, e ci aveva sempre creduto. Come poteva non crederci? «Il cjalcjut», ripeté. «Sì. A volte entra dal buco della serratura. A volte ti prende quando sei per strada di notte, agli incroci. Ma mio nonno diceva che è il sogno mandato da chi ti vuole morto». La voce di Martino Tassan si indurì e divenne quasi solenne, come quella di un prete o di un vagabondo: «Sono io, sai». «Come dice?». «Sono io che ti voglio morto». «Ma aveva detto che –». «Non me ne frega niente di cosa avevo detto. Io voglio ammazzarti, e questa è la verità». Schiacciò una narice e con l’altra soffiò il catarro a terra. La voce era ancora più roca. «Ogni notte ho pregato che tornassero i miei figli, e mi sei capitato in casa tu – con quello che hai fatto. Non ti meriti di vivere: ecco perché è arrivato il cjalcjut. Hai capito?». Maurizio fissava la roncola infilata nella cintura di Martino Tassan. «Hai capito come funziona?», ripeté il vecchio. «Tu dovevi morire stanotte soffocato. Invece ti ho preso in tempo». Erano due uomini in una stanza davanti a un’esile luce di bronzo. Erano soli. Maurizio fece roteare gli occhi alla ricerca di un’arma per difendersi. «Perché sei così?», disse Tassan. «Un uomo non si comporta così». Maurizio non rispose. «Perché ci hai fatto questo?», chiese ancora. Aveva un tono supplicante, quasi sfinito, il peso di troppi dolori come troppa legna nella gerla che di colpo va in pezzi. «Non lo so. Ho avuto paura». «Piantala. Paura di cosa?». «Di lei». «Sì, va bene. Ma non può essere solo questo». «Non ho onore», aggiunse Maurizio. Il vecchio annuì. «Non ho onore e non valgo nulla». Sentì la voce arrochirsi. «E anch’io mi chiedo perché sono così. Ma non lo so. Mi faccio schifo, ma non lo so». «Sì, è vero. Non hai onore e non vali nulla. Dovevi morire. Ma adesso – non so». Fece un sospiro, si guardò intorno come alla ricerca di qualcosa; quindi si arrese. «Una volta ho rischiato di ammazzare uno che non c’entrava. Mi avevano rubato il maiale e ho rischiato di ammazzare uno. Ed era innocente». Passò le dita a uncino nella barba. «Ora Dio mi sta dicendo di pareggiare i conti». «In che senso?». «Nel senso che tu torni e fai il padre di tuo figlio, e io non ti tocco. Va bene?». Maurizio fu scosso da un fremito. Si sentiva di nuovo al centro di un gioco vasto e incontrollabile, tirato qui e là da forze arcane, proprio come quando un ufficiale gli comandava di uscire all’alba per ammazzare degli sconosciuti perché, perché, perché così si doveva. No, avrebbe voluto rispondere, no, non me ne frega niente di mio figlio, di te e del maiale e del cjalcjut: ammazzami e facciamola finita, una volta per tutte liberami da questa terra a cui non appartengo, dove ho avuto e ho dato soltanto del male. Invece mandò giù un grumo di saliva, e disse di sì. 9 Davanti al casale Nadia lo aggredì e lo prese a schiaffi e pugni, alla cieca e urlando, graffiandolo in viso. Il pancione le era cresciuto ed era più bella che mai. Maurizio subì le botte senza nemmeno il coraggio di chiederle scusa. I bambini e la moglie osservavano la scena, e pure il vecchio, ancora con le redini in mano. Quando Nadia ebbe finito, rientrò in casa ansimando. Quella sera a cena Maurizio sedette a terra in un angolo buio, lontano dal focolare, e guardò la famiglia mangiare la zuppa e le patate. Nonna Gianola continuava a ripetere il rosario come l’estate precedente. Lui restò a terra tutto il tempo. Era il suo posto. «Non so che uomini verranno fuori da un sangue come quello», disse Martino Tassan, indicandolo col mento. «Non lo so proprio». «C’è anche il suo di mezzo», disse Nadia. «E il mio». «Questo ci ha dato il Signore», disse Maddalena. Nessun altro parlò di lui e nessuno gli rivolse la parola. Maurizio guardò i ceppi ardere sul focolare, le scintille ballare, finché non sentì gli occhi pesanti. Si svegliò nel punto in cui si era seduto, prima dell’alba. La vecchia dormiva russando. Oltre l’uscio l’aria gelida lo aggredì; poco lontano i monti piovevano sulla valle cattivi, coperti di neve, e lui si domandò come doveva essere calarsi nell’acqua di un fiume e lì morire in solitudine e vergogna. Tassan lo raggiunse poco dopo con gli ordini per la giornata. Quella notte Nadia lo portò nella stalla. Lo fece sedere sul pagliericcio, prese la sua mano e se la mise sulla pancia. Lui ebbe paura di sentire qualcosa, ma non sentì nulla. «Perché?», gli chiese. Maurizio taceva. «Perché?». «Non lo so. Non so cosa dire». «Sono la più disgraziata di tutte. Innamorarmi di una bestia del genere». «Non so cosa dire», ripeté Maurizio. «Mi hai lasciata sola». «Sì». «Avrei voluto ucciderti con le mie mani. E anche mio padre». «Sarebbe stato giusto». «Eppure sei di nuovo qui». Chinò la testa nella paglia. «Secondo te cosa vuol dire?». «Non lo so». «Pensaci bene. Pensa bene a cosa vuol dire». Maurizio strinse d’istinto il corpo di quella ragazzina che aveva tradito e che ancora lo amava senza motivo, contro tutte le ragioni, come un soldato abbandonato dalla truppa e che pure si ostina a difendere una quota persa perché, perché, perché così si doveva. Strinse quel corpo caldo, che recava con sé un’altra vita. Cosa aveva fatto. Una pietà troppo grande lo avvolse e distrusse, e poté solo annuire balbettando: «Ho capito, ho capito»; e poté solo ascoltare Nadia che lo vinceva con le solite parole: «Troviamo un modo di volerci bene, biondino?». La guerra era finita: ma Martino Tassan conosceva la vita abbastanza per sapere che le parole dei re non spengono le fiamme in un istante. Così seppe che un proiettile aveva scovato suo figlio Toni in Albania, proprio il giorno successivo all’armistizio. Tornò invece Piero, dopo mesi di silenzio passati a peregrinare sul confine, con una brutta ferita al collo e il mignolo della mano destra mozzo. Il bambino nacque e fu chiamato Gabriele, come il padre di Maurizio: un tributo inutile e tardivo. L’imbarazzo che tutti provavano sotto quel tetto si stemperò nella gioia. Non era certo il primo bambino nato in quel modo, né sarebbe stato l’ultimo. Nessuno avrebbe più parlato di quella storia: e la notte del cjalcjut restò come un monito segreto fra il vecchio e il ragazzo. Maurizio e Nadia si sposarono nella parrocchia di don Alfredo, e poi fecero una festa con il violinista e il suonatore di fisarmonica, risero e mangiarono le braciole di maiale e i ravioli e si ubriacarono e ballarono come se fossero felici e puri. Passò del tempo. Nonna Gianola morì un mattino all’alba. La zia Elena non tornò più dalla Sicilia ma continuò a mandare lettere dicendo che le cose si erano sistemate. Nessuno venne a reclamare la diserzione di Maurizio; il mondo ancora una volta l’aveva graziato o dimenticato. Lui lavorava nei campi, e la sera cullava suo figlio, lo baciava sulla fronte, baciava sua moglie, non beveva, cantava quando gli veniva chiesto. Espiava. Il venti giugno 1919 una lontana cugina dei Tassan, capitata in paese per caso, disse che suo marito aveva bisogno di un manovale per la sua piccola ditta di costruzioni a Udine. Maurizio si offrì. Non sapeva di muratura ma avrebbe imparato in fretta, e comunque l’occasione andava colta. Anche Nadia era d’accordo. La cugina non sembrava molto convinta, ma nel giro di qualche giorno l’affare venne concluso. Perciò al termine dell’estate la famiglia traslocò in un piccolo appartamento del quartiere Grazzano. Le piastrelle del pavimento erano per gran parte rotte, le finestre davano sulla roggia che correva lungo la strada, e i muri erano tutti scrostati. Appena deposti i sacchi di iuta a terra, Nadia diede un bacio sulla guancia a Maurizio e gli chiese nuovamente: «Troviamo un modo di volerci bene, biondino?». «Lo troviamo, te lo giuro», disse lui. Il giorno dopo Nadia comprò un cartoncino e con una matita disegnò lei e Maurizio e il piccolo Gabriele. Li disegnò con grande attenzione, tornando più volte sul ritratto, e lei appariva radiosa e lui lievemente all’erta – due giovani sposi con un dono da custodire. Maurizio le disse che era molto bello. Che sperava sarebbero rimasti così per sempre. Lei lo carezzò e nascose il disegno in un cassetto. Ma ogni sera di quell’autunno Maurizio si metteva da solo alla finestra a fissare il suo nuovo orizzonte, i passanti per strada, i palazzi della città che un tempo aveva sognato e ora abitava, ma non libero come aveva creduto – bensì rinchiuso nella più terribile delle prigioni, l’amore. Udine veniva inghiottita dal buio. Il cosmo si spegneva in un crepuscolo vastissimo e consunto, le nubi rotte da un’ultima pulsazione di luce. La guerra è finita, si diceva il fante Maurizio Sartori, lo sbandato, il fuggitivo, l’uomo senza onore. È finita davvero per tutti, per i vivi e per i morti. Ma la mia no: la mia comincia ora
. 2 Lungo la roggia 1930-1939
. 2 Lungo la roggia 1930-1939