giovedì 19 marzo 2020


L'ULTIMO UOMO
Mary Shelley
È tempo di leggere o rileggere questo romanzo, per scoprire che si tratta di un’opera straordinariamente moderna, nata dalla percezione lucida e impietosa delle contraddizioni culturali e politiche del primo Ottocento, un testo sovversivo che mette in scena la fine di una civiltà che su quei presupposti si era fondata. L’idea di famiglia, di Stato, di religione propria dell’episteme romantica viene attaccata nella visione apocalittica di una donna che appare oggi non certo una sopravvissuta, come lei stessa ebbe a definirsi, e neppure «l’ultima donna» di cui la critica del tempo si era beffata, ma al contrario un’anticipatrice.
 Con questa opera Mary Shelley ha infatti contribuito a fondare quel filone di scrittura fantastica al femminile che rappresenta metaforicamente sulla pagina la fine della civiltà e che sarebbe arrivata fino ai nostri giorni e agli esiti narrativi di Angela Carter e Ursula Le Guin. 

L'ULTIMO UOMO

Libro I

  INTRODUZIONE

  Visitai Napoli nel 1818. L’8 dicembre di quell’anno, io e il mio compagno attraversammo il golfo, per visitare le antichità sparse sulle coste di Baia.46 Le calme acque del mare, traslucide e brillanti, ricoprivano i frammenti di antiche ville romane a cui si erano intrecciate le alghe marine, e che assumevano sfumature adamantine in virtù del gioco variegato dei raggi del sole; l’elemento blu e semitrasparente era come quello che potrebbe aver sfiorato Galatea sul suo cocchio di madreperla, o quello che, più adeguatamente del Nilo, Cleopatra potrebbe aver scelto come via per la sua magica nave. Sebbene fosse inverno, l’aria sembrava più quella dell’inizio della primavera, e il mite tepore contribuiva a suscitare quelle sensazioni di sereno piacere che sono riservate dal destino a ogni viaggiatore quando si attarda, restio ad abbandonare le tranquille insenature e i radiosi promontori di Baia.

  Visitammo i cosiddetti Campi Elisi e Averno, vagammo attraverso varie rovine di templi, terme e luoghi classici, e infine entrammo nella cupa caverna della Sibilla Cumana. I nostri Lazzeroni47 portavano le torce che bruciavano con fiamme irregolari e brillavano rosse, quasi tetre, nei foschi passaggi sotterranei, circondati da un’oscurità assetata e desiderosa di assorbire sempre più l’elemento della luce. Attraversammo un arco naturale che conduceva a una seconda galleria, e chiedemmo se non fosse possibile entrare anche là. Le guide indicarono il riflesso delle torce sull’acqua che la pavimentava, lasciandoci trarre le nostre conclusioni, ma aggiungendo che era un peccato, poiché essa conduceva alla Caverna della Sibilla. La nostra

  curiosità e il nostro entusiasmo furono eccitati da questo fatto, e insistemmo per tentare di attraversarla. Come in genere accade in imprese come queste, le difficoltà diminuirono analizzando la situazione. Scoprimmo, a ogni lato del sentiero umido, «terra asciutta per le piante dei piedi».48 Arrivammo infine in una caverna larga, deserta, scura che, i Lazzeroni ci assicurarono, era la Caverna della Sibilla. Restammo piuttosto delusi… E tuttavia la esaminammo con attenzione, come se le sue pareti nude e rocciose potessero ancora recare traccia di visitatori celesti. Su di un lato c’era una piccola apertura. Dove conduce? chiedemmo: possiamo entrarvi? «Questo poi, no»,49 disse il selvaggio dall’aria incolta che reggeva la torcia; «si può proseguire solo per un breve tratto, e nessuno di solito la visita».

  «Voglio provarci lo stesso», disse il mio compagno; «potrebbe condurre alla vera caverna. Devo andare solo, o vuoi accompagnarmi?».

  Manifestai il mio entusiasmo a proseguire, ma le nostre guide si opposero vivamente a una tale decisione. Con grande loquacità, nel loro nativo dialetto napoletano a noi poco familiare, ci dissero che c’erano degli spettri, che il tetto sarebbe potuto crollare, che la caverna era troppo stretta per permetterci di passare, che all’interno c’era un profondo burrone ricolmo d’acqua, e che avremmo potuto affogare. Il mio amico diede un taglio all’arringa togliendo la torcia all’uomo, e procedemmo da soli.

  Il passaggio, che in un primo momento ci permetteva di passare solo a fatica, si fece ben presto più stretto e angusto; eravamo quasi piegati in due, e tuttavia continuammo ad avanzare. Alla fine entrammo in uno spazio più ampio, e il soffitto basso si rialzò; ma, mentre ci rallegravamo con noi stessi per questo cambiamento, la torcia fu spenta da una corrente d’aria e rimanemmo completamente al buio. Le guide di solito si portano il necessario per riaccendere la luce, ma noi non avevamo nulla, e la nostra unica risorsa era tornare da dove eravamo venuti. Procedemmo a tentoni tutto intorno, nello spazio divenuto più largo, per trovare l’entrata, e dopo un po’ credemmo di esserci riusciti. Ci eravamo però in realtà imbattuti in un nuovo passaggio, che con ogni evidenza saliva. Anch’esso si chiudeva, come il precedente; e tuttavia, qualcosa che somigliava a un raggio (non potevamo dire proveniente da dove) diffondeva nello spazio un’incerta luce crepuscolare. A poco a poco gli occhi si abituarono a quella debole luce e ci accorgemmo così che non c’era alcun passaggio diretto che ci conducesse oltre. Era però possibile arrampicarsi, su per un lato della caverna, fino a un basso arco situato in alto, che prometteva un sentiero più agevole dal quale, scoprimmo allora, proveniva questa luce. Con notevole difficoltà ci arrampicammo su, e giungemmo a un altro passaggio, che era ancora più illuminato, e conduceva a un altro pendio simile al precedente.

  Dopo un susseguirsi di salite, che solo la nostra determinazione ci permise di superare, giungemmo in una vasta caverna dalla volta arcuata, simile a quella di una cattedrale. La luce del cielo filtrava grazie a un’apertura situata nel mezzo, coperta però dalla crescita rigogliosa dei rovi e del sottobosco che, come un velo, oscuravano il giorno e donavano all’ambiente una tonalità solennemente religiosa. Era uno spazio ampio, quasi circolare; da un lato c’era un rialzo in pietra a mo’ di sedile, all’incirca della grandezza di un giaciglio greco. Il solo segno che la vita era passata di lì era lo scheletro di una capra, del perfetto candore della neve: l’animale non si era probabilmente accorto dell’apertura mentre pascolava sulla collina soprastante, ed era caduto a capofitto. Secoli erano forse trascorsi da questa catastrofe, e al disastro provocato in superficie aveva posto riparo, nel corso di molte centinaia di estati, la crescita della vegetazione.

  Il resto delle suppellettili della caverna era costituito da mucchi di foglie, frammenti di corteccia, e da una bianca sostanza trasparente, simile alla parte interna della membrana verde che protegge il chicco del granturco non ancora maturo. Affaticati dagli sforzi per raggiungere questo luogo, ci sedemmo sul trono roccioso; dall’alto ci raggiungevano il tintinnio dei campanelli delle pecore e le grida di un pastorello.

  Alla fine il mio amico, che aveva raccolto alcune delle foglie sparpagliate all’intorno, esclamò: «Questa è la caverna della Sibilla; queste sono le foglie della Sibilla».50 Esaminandole scoprimmo che tutte le foglie, le cortecce e gli altri materiali recavano dei caratteri, tracciati con cura. Ciò che ci parve più stupefacente era che tali segni erano scritti in varie lingue: in antico caldeo, in geroglifici egiziani, antichi come le piramidi, e in altre lingue sconosciute al mio compagno. Cosa ancor più strana, alcuni erano in idiomi moderni, inglese e italiano. Potemmo decifrare poco per via della fioca luce, ma sembrava contenessero profezie, relazioni dettagliate di eventi trascorsi solo di recente, nomi, ora ben noti, ma di età moderna, e spesso sulle loro esili ed esigue pagine erano riportate esclamazioni di esultanza o di dolore, di vittoria o di sconfitta. Questa era certamente la caverna della Sibilla: in realtà non era esattamente come la descrive Virgilio, ma considerando che questa terra, nel suo insieme, era stata così sconvolta dal terremoto e dal vulcano, il cambiamento non destava poi meraviglia, anche se le tracce della rovina erano state cancellate dal tempo; e dovevamo probabilmente al caso, che aveva chiuso la bocca della caverna, e alla vegetazione che crescendo rapidamente aveva reso impervia alla tempesta l’unica sua apertura, la conservazione delle foglie. Facemmo una frettolosa selezione di quelle foglie la cui scrittura almeno uno di noi due era in grado di capire; poi, carichi del nostro tesoro, dicemmo addio all’oscura caverna ipetrale e, dopo molte difficoltà, riuscimmo a ricongiungerci alle nostre guide.

  Durante il nostro soggiorno a Napoli, tornammo spesso in questa caverna, talvolta soli, sfiorando il mare illuminato dal sole, e ogni volta aggiungemmo qualcosa alla nostra raccolta. Da allora, quando le circostanze del mondo non mi hanno imperiosamente richiamato altrove, o la mia disposizione d’animo non ha impedito tale studio, sono stata impegnata’ nella decifrazione di questi sacri resti. Il loro significato, portentoso ed eloquente, ha spesso ripagato la mia dura fatica recandomi sollievo nel dolore, e spingendo l’immaginazione a viaggi arditi, attraverso l’immensità della natura e la mente dell’uomo. Per un po’ il mio lavoro non fu solitario; ma quel tempo è passato e, con l’unico e incomparabile compagno delle mie fatiche, si perde per me anche la loro più preziosa ricompensa:
.
  Di mie tenere frondi altro lavoro

  Credea mostrarte; e qual fero pianeta
M
  Ne’nvidiò insieme, o mio nobil tesoro?51
 Presento al pubblico le mie ultime scoperte sulle sottili pagine sibilline. Sparse e sconnesse com’erano, sono stata costretta ad aggiungere dei nessi e a ritoccare il lavoro fino a dargli una forma coerente. Ma la sostanza principale riposa sulle verità contenute in queste rapsodie poetiche e sull’intuizione divina che la fanciulla cumana ottenne dal cielo.

  Mi sono spesso interrogata sul soggetto dei suoi versi e sulla veste inglese della poesia latina. Talvolta ho pensato che, oscuri e caotici come sono, devono la loro forma presente a me, che li ho decifrati, proprio come accadrebbe se si affidassero a un altro artista i frammenti dipinti che formano la copia del mosaico della trasfigurazione a opera di Raffaello in San Pietro; egli li metterebbe insieme in una forma il cui stile sarebbe forgiato dalla sua mente e dal suo talento individuale. Nelle mie mani le foglie della Sibilla Cumana hanno senza dubbio subito delle distorsioni e hanno perduto parte del loro interesse e dei loro pregi. La mia unica scusa per averle così trasformate è che, nel loro stato originario, risultavano inintelligibili.

  Le mie fatiche hanno rallegrato lunghe ore di solitudine, e mi hanno allontanata da un mondo che ha distolto da me il suo volto un tempo benigno, per condurmi verso un altro mondo risplendente di immaginazione e potenza. Si chiederanno forse i miei lettori come potessi trovare sollievo in una narrazione che tratta di miseri e dolorosi cambiamenti. Questo è uno dei misteri della nostra natura che ha totale controllo su di me e alla cui influenza non posso sfuggire. Confesso di non essere rimasta impassibile allo sviluppo di questa storia, e di essermi depressa, anzi di aver sofferto, in alcune parti della narrazione che ho fedelmente trascritto dal materiale in mio possesso. Tuttavia la natura umana è tale che l’eccitazione della mente mi era cara, e che l’immaginazione, pittrice di tempeste e terremoti, o, peggio, le burrascose e rovinose passioni dell’uomo, rendevano più dolci i miei dolori reali e i miei infiniti rimpianti, rivestendo quelli fittizi dell’idealità che toglie al dolore la sua fitta mortale.  Non so in realtà se questa apologia sia necessaria. Perché sarà il valore dell’adattamento e della traduzione che deciderà fino a che punto abbia ben impiegato il mio tempo e i miei mezzi imperfetti, per dare forma e sostanza alle fragili e sottili foglie della Sibilla
CAPITOLO I

  Sono nato in un lembo di terra circondato dal mare, in una regione oscurata dalle nuvole, che, quando mi si presenta alla mente la superficie del globo con il suo oceano sconfinato e i suoi continenti selvaggi, privi di sentieri, mi appare solo come una macchia irrilevante nell’immenso tutto. E tuttavia, se valutata sul metro del potere della mente, questa isola superava di gran lunga paesi ben più vasti e più popolati, a tal punto è vero che solo la mente dell’uomo ha creato tutto ciò che era buono o grande per lei, e che la Natura stessa non è stata che il suo primo ministro. L’Inghilterra, situata nel torbido mare del lontano Nord, visita ora i miei sogni nelle sembianze di una nave grande e ben equipaggiata, che sapeva dominare i venti e cavalcare orgogliosamente le onde. Nei giorni della mia infanzia essa era per me l’universo. Quando salivo sulle colline del mio paese, e vedevo distendersi fino all’estremo limite dell’orizzonte pianure e montagne punteggiate dalle abitazioni dei miei conterranei e rese fertili dal loro duro lavoro, il centro esatto del mondo era fissato per me in quel luogo, e il resto del globo terrestre era come una favola, che non sarebbe costato alcuno sforzo né all’immaginazione né alla ragione dimenticare.

  Le mie vicende sono state, sin dall’inizio, un’esemplificazione del potere che la volubilità può avere sul corso mutevole della vita dell’uomo. Per quanto mi riguarda, ciò avvenne quasi per eredità. Mio padre era uno di quegli uomini ai quali la natura aveva concesso con prodigalità gli invidiati doni dell’ingegno e dell’immaginazione, lasciando poi che il vascello della sua esistenza fosse sospinto da questi venti senza aggiungere la ragione quale timone, o il giudizio come pilota del viaggio. La sua origine era oscura, ma le circostanze lo portarono ben presto all’attenzione pubblica, e la sua piccola proprietà patema venne in breve tempo dissipata sul palcoscenico sontuoso della moda e dello sfarzo in cui era un attore. Durante i brevi anni di spensierata gioventù, era adorato dai nobili sfaccendati del tempo, non ultimo dal giovane sovrano, che sfuggiva gli intrighi delle fazioni e gli ardui doveri degli affari reali, per trovare immancabile divertimento e allegrezza d’animo in sua compagnia. Gli impulsi di mio padre, che non tenne mai sotto controllo, lo ponevano sempre in difficoltà dalle quali solo il suo ingegno poteva trarlo d’impaccio; la crescente pila di debiti d’onore e d’affari, che avrebbe trascinato a terra chiunque altro, veniva da lui sopportata con animo lieve e ilarità indomabile, mentre la sua compagnia era così necessaria alle tavole e alle assemblee dei ricchi, che la sua negligenza veniva considerata veniale, e lui stesso ricevuto con adulazione inebriante.

  Questo genere di popolarità, come ogni altra, è fugace, e le difficoltà di ogni tipo contro cui doveva combattere aumentavano spaventosamente se paragonate ai poveri mezzi di cui disponeva per trarsi d’impaccio. A quei tempi il re, preso dalla sua passione per mio padre, era solito venirgli in aiuto, rimproverandolo poi gentilmente; mio padre faceva le più rassicuranti promesse di cambiamento, ma la sua indole socievole, il desiderio ardente della consueta dose di ammirazione e, soprattutto, il demone del gioco d’azzardo che lo possedeva del tutto, rendevano passeggere le sue buone risoluzioni e vane le sue promesse. Con l’acuta sensibilità del suo carattere, intuì che il suo potere all’interno del brillante circolo era al tramonto. Il re si sposò, e l’altezzosa principessa d’Austria, che divenne, in qualità di regina d’Inghilterra, colei che dettava la moda, guardava con occhi severi ai suoi difetti, e con disprezzo all’affetto che il consorte reale provava per lui. Mio padre sentì che la sua rovina era vicina, ma anziché approfittare di quest’ultima calma prima della tempesta per salvarsi, cercò di dimenticare il male previsto offrendo sacrifici ancora maggiori alla divinità del piacere, arbitro crudele e ingannevole del suo destino.

  Il re era un uomo di indole eccellente, ma si faceva facilmente influenzare; ora era diventato un pronto discepolo della sua imperiosa consorte. Fu indotto a guardare con estrema disapprovazione, e infine con avversione, alle imprudenze e alle follie di mio padre. È vero che la sua presenza dissipava queste nuvole; la sua calorosa franchezza, le sue brillanti battute, il suo comportamento fiducioso erano irresistibili: egli perdeva la sua influenza solo quando, da lontano, storie sempre nuove dei suoi errori venivano riversate alle orecchie del suo amico reale. L’abile manovra della regina era volta a prolungare queste assenze, e a mettere insieme le accuse. Alla lunga il re fu indotto a vedere in lui una fonte di eterna inquietudine, sapendo che avrebbe dovuto pagare l’effimero piacere della sua compagnia con prediche tediose, e con ancor più penosi racconti di eccessi, la cui verità non poteva confutare. Il risultato fu che egli avrebbe fatto ancora un tentativo per redimerlo, e in caso di esito negativo, lo avrebbe abbandonato per sempre.

  Quella che ne seguì deve essere stata una scena molto interessante e carica di intensa passione. Un re potente, distintosi per una bontà che lo aveva fino a questo momento reso mite, e ora altero nei suoi ammonimenti, nei quali alternava supplica e rimprovero, scongiurava il suo amico di seguire i suoi veri interessi, di evitare con decisione quelle fascinazioni che lo stavano di fatto rapidamente abbandonando, e di impiegare le sue grandi capacità in un campo degno, in cui lui, il suo sovrano, gli sarebbe stato di aiuto e sostegno, e lo avrebbe preceduto per aprirgli la strada. Mio padre avvertì la magnanimità di questo gesto di benevolenza; per un attimo gli fluttuarono davanti agli occhi sogni ambiziosi; e pensò che sarebbe stato bene scambiare le sue attuali occupazioni con più nobili doveri. Con sincerità e fervore fece la promessa richiestagli: a garanzia del rinnovato favore, ricevette dal re suo signore una somma di denaro per pagare i debiti urgenti e per iniziare sotto buoni auspici la nuova carriera. Quella stessa notte, pur colmo di gratitudine e di buoni propositi, perse al tavolo da gioco l’intera somma, anzi il doppio. Infatti, cercando di rimediare alle prime perdite, mio padre rischiò una posta doppia, e così incorse in un debito d’onore che era assolutamente incapace di pagare. Si vergognava a rivolgersi nuovamente al re, e così volse le spalle a Londra, ai suoi falsi divertimenti e alle sue incalzanti miserie; con la povertà come unica compagna, si seppellì in solitudine tra le colline e i laghi del Cumberland. L’ingegno, i motti di spirito, il fascino personale, i suoi modi seducenti e il talento sociale di lui furono a lungo ricordati e riportati di bocca in bocca. A chiedere dove fosse ora questo favorito del momento, questo compagno della nobiltà, questo raggio eccellente che indorava col suo splendore alieno le riunioni di cortigiani e gaudenti, si sentiva dire che era caduto in disgrazia, un uomo finito; non uno pensò che spettasse a lui ripagare i piaceri con servigi concreti, o che il suo lungo regno di brillante ingegno meritasse una rendita quando si fosse ritirato dalle scene. Il re si rammaricava per la sua assenza; amava ripetere i suoi detti, narrare le avventure che avevano vissuto insieme, ed esaltare le sue qualità, ma qui finivano le sue reminiscenze.

  Intanto mio padre, dimenticato, non poteva dimenticare. Si lamentava per la perdita di ciò che gli era più necessario dell’aria o del cibo: l’eccitazione del piacere, l’ammirazione dei nobili, la vita lussuosa e ricercata dei grandi. Conseguenza ne fu una febbre nervosa, durante la quale fu assistito dalla figlia di un povero contadino, sotto il cui tetto egli abitava. Ella era amabile, dolce e, soprattutto, gentile con lui; né può suscitare stupore il fatto che l’ultimo idolo di bellezza raffinata dovesse apparire, anche se in uno stato decaduto, un essere di straordinaria, elevata natura alla modesta ragazza di campagna. L’attaccamento tra i due condusse all’infausto matrimonio di cui io fui il frutto.

  Nonostante la tenerezza e la dolcezza di mia madre, suo marito continuava a deplorare il proprio stato di degradazione. Non avvezzo all’operosità, non sapeva come contribuire al sostentamento della sua crescente famiglia. Talora pensò di rivolgersi al re; orgoglio e vergogna per un po’ lo trattennero e, prima che le necessità divenissero così imperiose da costringerlo a uno sforzo qualsiasi, morì. Per breve tempo prima di questa catastrofe, egli guardò avanti, al futuro, e contemplò con angoscia la situazione desolante in cui avrebbe lasciato sua moglie e i figli. Il suo ultimo sforzo fu una lettera al re, piena di commovente eloquenza, e di occasionali sprazzi di quel brillante spirito che era parte integrante del suo carattere. Egli fece lascito all’amicizia del re, suo signore, della vedova e degli orfani, e si sentì in questo modo certo che la loro prosperità sarebbe stata garantita più dalla sua morte che dalla sua presenza. Questa lettera fu affidata alle cure di un gentiluomo che, egli non ne dubitava, avrebbe eseguito l’ultimo e ben poco dispendioso compito di consegnarla nelle mani del re.

  Morì nei debiti, e la sua piccola proprietà fu immediatamente sequestrata dai creditori. Mia madre, senza un soldo e con il carico di due bambini, aspettò settimana dopo settimana, e mese dopo mese, nell’attesa stremante di una risposta che non venne mai. La sua esperienza di vita non oltrepassava la dimora del padre; e il palazzo del signore della tenuta era la più raffinata forma di magnificenza che potesse concepire. Quando mio padre era in vita le erano diventati familiari, grazie a lui, i nomi dei reali e di coloro che appartenevano al circolo di corte; ma tali cose, mal accordandosi con la sua esperienza personale, le apparivano, dopo la perdita di colui che aveva dato loro sostanza e realtà, vaghe e fantastiche. Se pure avesse potuto raccogliere il coraggio sufficiente per rivolgersi ai nobili menzionati dal marito, il cattivo esito della richiesta di lui la indussero a bandire tale idea. Non vedeva perciò nessuna via di scampo da una terribile povertà: la costante preoccupazione, unita al dolore per la perdita dell’essere straordinario che lei continuava a contemplare con ardente ammirazione, il duro lavoro, e una salute delicata, la liberarono alla lunga dalla triste catena di bisogno e miseria.

  La condizione dei suoi orfani era particolarmente desolante. Suo padre era un emigrante che proveniva da un’altra parte del paese, ed era morto da molto tempo ormai: essi non avevano dunque alcun parente che li prendesse per mano; erano reietti, senza amici, e il più misero gesto di carità era per loro una questione di favore; erano trattati semplicemente come figli di contadini, e tuttavia erano più poveri dei più poveri che, morendo, li avevano affidati, lascito ingrato, alla parca carità della terra.

  Io, che ero il più grande, avevo cinque anni quando mia madre morì. Un ricordo dei discorsi dei miei genitori, e le notizie sugli amici di mio padre che mia madre si sforzò di farmi restare in mente nella vaga speranza che avrei potuto un giorno trarne beneficio, mi fluttuavano in testa come un sogno indistinto. Mi convinsi di essere diverso e superiore rispetto ai miei protettori e ai miei compagni, ma non sapevo in che modo o per quale motivo. Il senso di oltraggio, associato al nome del re e della nobiltà, mi si avvinghiò addosso; ma non ero in grado di ricavare da tali sensazioni alcuna conclusione che mi servisse da guida nell’azione. La prima vera percezione che ebbi di me stesso fu quella di un orfano indifeso tra le valli e le brughiere del Cumberland. Ero al servizio di un fattore, e col bastone in mano, il cane al mio fianco, conducevo al pascolo negli altopiani vicini un numeroso gregge. Non posso dire molto in lode di un tale tipo di vita, in cui le sofferenze superavano di gran lunga i piaceri. Avevo libertà, familiarità con la natura, e una sprezzante solitudine; ma tutto ciò, per quanto fosse romantico, non si conciliava con l’amore per l’azione e il desiderio di comunione umana, propri della gioventù. Né la cura del gregge, né il cambio delle stagioni erano sufficienti a domare il mio animo ardente; la vita all’aperto e il tempo ozioso furono le tentazioni che mi indussero ben presto ad abitudini illecite. Mi unii ad altri, senz’amici come me; li riunii in una banda, di cui io ero il capo. Tutti pastori, mentre le nostre greggi erano sparse per i pascoli, progettavamo e mettevamo in pratica molte monellerie, anche dannose, che ci attiravano contro la rabbia e la vendetta degli abitanti delle campagne. Io ero la guida e il protettore dei miei compagni, e a mano a mano che mi distinguevo tra di loro, le loro malefatte venivano generalmente fatte espiare a me. Ma se, in loro difesa, sopportavo la punizione e il dolore con lo spirito di un eroe, esigevo poi da parte loro, come ricompensa, lode e obbedienza.

  A questa scuola il mio carattere si fece duro, ma fermo. La sete di ammirazione e la scarsa capacità di autocontrollo che ereditai da mio padre, assecondati dalle avversità, mi resero intrepido e sprezzante. Ero burrascoso come gli elementi della natura e incolto come gli animali di cui mi occupavo. Spesso mi paragonavo a loro, e trovando che la superiorità consistesse soprattutto nel potere che avevo su di loro, presto mi persuasi che era solo in virtù del potere che io ero inferiore ai maggiori sovrani della terra. Del tutto privo di ogni insegnamento morale e perseguitato dall’inquietante sensazione di essere stato degradato dalla mia vera posizione nella società, vagabondavo tra le colline della civile Inghilterra, un selvaggio rozzo come il fondatore dell’antica Roma, allevato da una lupa. Riconoscevo una sola legge, quella del più forte, e il mio maggior vanto era di non sottomettermi mai.

  Ma lasciatemi ritrattare, almeno in parte, quanto ho appena pronunciato sul mio conto. Mia madre, morendo, in aggiunta alle sue altre lezioni, quasi dimenticate e mal utilizzate, aveva affidato alla mia tutela fraterna, con solenne esortazione, l’altra sua figlia; e all’adempimento di questo dovere dedicai il meglio delle mie capacità, con tutto lo zelo e l’affetto di cui la mia natura era capace. Mia sorella aveva tre anni meno di me e io ne avevo avuto cura quando era piccola; e anche quando fummo allontanati l’uno dall’altra, destinati per via del nostro sesso a occupazioni diverse, lei continuò a essere oggetto del mio amore premuroso. Orfani nel senso più pieno del termine, eravamo poverissimi tra i poveri, e disprezzati tra i senza onore. Se la mia audacia e il mio coraggio mi guadagnarono una sorta di avversione rispettosa, la sua fanciullezza e il suo sesso non suscitarono tenerezza, dimostrando anzi che lei era un essere debole, le furono causa di infinite mortificazioni. La sua stessa disposizione d’animo non l’aiutava ad attenuare gli effetti negativi della sua situazione infelice.

  Era un essere singolare e, come me, aveva ereditato molto del carattere particolare di nostro padre. Tutto il suo volto era espressivo: gli occhi non erano scuri, ma impenetrabilmente profondi; sembrava si potessero scoprire spazi infiniti nel loro sguardo intellettuale e percepire che l’anima, che era la loro anima, accogliesse nella propria visuale un intero universo di pensiero. Era pallida e bella, e i capelli d’oro le si ammassavano sulle tempie, facendo contrastare il loro intenso colore col marmo vivente che riposava al di sotto. Il grezzo vestito contadinesco, poco consono in apparenza alla raffinatezza dei sentimenti che il viso esprimeva, vi si accordava in realtà in modo strano. Era come uno dei santi di Guido,52 col cielo nel cuore e nello sguardo, così che quando la si vedeva si poteva pensare solo all’interiorità, e il vestito e persino i lineamenti diventavano secondari rispetto alla luce della mente che irradiava sul suo viso.

  Tuttavia, pur se amabile e piena di nobili sentimenti, la mia povera Perdita53 (perché questo era il nome fantasioso che mia sorella aveva ricevuto dal genitore morente), non aveva un carattere propriamente santo. I suoi modi erano freddi e scostanti. Se fosse stata allevata da chi la considerava con affetto, avrebbe potuto essere diversa; ma, privata di amore e di cure, ripagò la mancanza di gentilezza con diffidenza e silenzio. Era remissiva con coloro che avevano autorità su di lei, ma una nube perenne le dimorava sulla fronte; sembrava che si aspettasse ostilità da chiunque le si avvicinasse, e le sue azioni erano improntate dalla stessa sensazione. Tutto il tempo di cui poteva disporre lo trascorreva in isolamento. Era solita vagabondare fin nelle zone più solitarie, e scalare cime pericolose: poteva così, in quei luoghi non visitati da esseri umani, avvolgersi nella solitudine. Passava spesso intere ore passeggiando su e giù per i sentieri dei boschi; intrecciava ghirlande di fiori ed edera, o guardava il tremolio delle nuvole e il balenio delle foglie; talora si sedeva sulle sponde di un corso d’acqua, e mentre i suoi pensieri sostavano, gettava fiori o ciottoli nelle acque, osservando come questi restavano a galla mentre quelli andavano a fondo; oppure faceva salpare barchette di cortecce d’alberi o di foglie, con una piuma per vela, e seguiva la navigazione della sua flotta tra le rapide e le secche del torrente. Nel frattempo la sua fervida fantasia in tesseva migliaia di combinazioni; sognava di «toccanti episodi per terra e per mare»…54 Si perdeva con gioia in queste fantasticherie da lei stessa create, e tornava con spirito recalcitrante agli ottusi dettagli della vita quotidiana.

  La povertà era la nube che oscurava la sua gioia, e tutto quanto di buono c’era in lei sembrava destinato a morire per la mancanza del ristoro gioviale dell’affetto. Non aveva neppure il vantaggio, a me riservato, della memoria dei suoi genitori; si aggrappò a me, suo fratello, come al suo unico amico, ma tale alleanza completò l’avversione che i suoi protettori provavano per lei, e ogni errore veniva da loro ingigantito fino a farlo apparire un crimine. Se fosse stata allevata in quella sfera dell’esistenza alla quale, per eredità, si confaceva la delicata struttura della sua mente e della persona, sarebbe stata quasi oggetto di adorazione, perché le sue virtù erano eminenti come i suoi difetti. Tutta la genialità che faceva nobile il sangue di suo padre, rendeva illustre anche il suo, e una marea generosa scorreva nelle sue vene: falsità, invidia o meschinità erano agli antipodi della sua natura; il suo viso, quando illuminato da sentimenti piacevoli, avrebbe potuto appartenere a una regina delle nazioni; i suoi occhi erano luminosi e il suo sguardo impavido.

  Sebbene, per via della nostra condizione e dei nostri caratteri, fossimo entrambi tagliati fuori dalle consuete forme di rapporti sociali, eravamo molto diversi fra noi. Io avevo sempre bisogno degli stimoli della compagnia e degli applausi. Perdita era sufficiente a se stessa. Nonostante le mie abitudini sregolate, il mio era un carattere sociale, il suo solitario. La mia vita trascorreva tra realtà tangibili, la sua era un sogno. Si può persino affermare che io amavo i miei nemici, perché provocando la mia eccitazione mi portavano in qualche modo felicità; Perdita provava quasi avversione per i suoi amici, perché interferivano con i suoi umori visionari. Tutte le mie sensazioni, persino quelle di esaltazione e trionfo, si tramutavano in amarezza se non condivise; Perdita, persino nella gioia, correva incontro alla solitudine, e poteva passare giorni e giorni senza dar voce alle proprie emozioni, o ricercare un sentimento affine in un’altra anima. Anzi, poteva amare e indugiare con tenerezza sullo sguardo e sulla voce di un amico, mentre il comportamento esteriore esprimeva il più freddo riserbo. Una sensazione per lei si trasformava in un sentimento, e non parlava fino a quando non avesse mescolato le sue percezioni degli oggetti esterni con altre che nascevano spontaneamente nella sua mente. Era come un suolo fertile che si imbeveva dell’aria e della rugiada celesti, e le restituiva di nuovo alla luce nelle forme più amabili di fiori e frutti; ma poi era anche spesso scura e dura come quel suolo, rastrellato e di nuovo seminato con semi invisibili.

  Mia sorella abitava in una casetta il cui prato ben tenuto declinava verso le acque del lago di Ulswater; un faggeto si stendeva su per la collina alle sue spalle, e un torrente gorgogliante, che scendeva dolcemente dal pendio, correva tra le sponde ombreggiate dai pioppi fino a gettarsi nel lago, lo vivevo con un fattore, in una casa costruita molto in alto tra le colline: dietro la casa si apriva un oscuro dirupo, esposto a nord, così che la neve restava nelle sue fenditure per tutta l’estate. Prima dell’alba conducevo il mio gregge ai pascoli e lo sorvegliavo per tutto il giorno. Era una vita di duro lavoro perché pioggia e freddo erano più frequenti del sole; ma disprezzavo gli elementi con orgoglio. Il mio fedele cane faceva la guardia alle pecore (quando io sgattaiolavo via per raggiungere i compagni all’appuntamento, e quindi procedere alla realizzazione dei nostri piani. A mezzogiorno ci incontravamo di nuovo, e gettato via con disprezzo il cibo contadino, costruivamo il nostro focolare per poi accendere la fiamma rallegrante, destinata a cuocere la selvaggina rubata nelle riserve confinanti. Poi veniva il racconto delle fughe dell’ultimo minuto, dei combattimenti coi cani, degli agguati e delle ritirate, mentre, come zingari, ci stringevamo intorno alla pentola. La ricerca di un agnello disperso o gli stratagemmi coi quali cercavamo di evitare le punizioni, riempivano le ore pomeridiane; la sera il mio gregge andava al suo ovile, e io da mia sorella.

  Succedeva in realtà raramente che, per usare una vecchia espressione, ce la cavassimo senza pagare scotto alcuno. La nostra selvaggina prelibata era spesso ripagata con percosse e prigionia. Una volta, a tredici anni, fui mandato per un mese nella prigione della contea. Ne uscii, i miei costumi affatto migliorati, l’odio nei confronti dei miei oppressori decuplicato. Pane e acqua non domarono il mio sangue, né l’isolamento e la segregazione mi ispirarono pensieri miti. Ero iroso, insofferente, infelice; le mie uniche ore di gioia erano quelle in cui concepivo progetti di vendetta; questi vennero perfezionati durante la mia forzata solitudine, così che per tutta la stagione seguente (venni liberato all’inizio di settembre), continuai a procurare a me e ai miei compagni selvaggina eccellente in abbondanza. Fu un inverno glorioso. Il gelo pungente e le pesanti nevicate resero gli animali mansueti, e tennero i signori di campagna vicino ai focolari; prendemmo più selvaggina di quella che potevamo mangiare, tanto che il mio fedele cane, grazie ai nostri rifiuti, divenne florido.

  Così passarono gli anni; e gli anni non fecero che aggiungere nuovo amore per la libertà, e disprezzo per tutto ciò che non era selvaggio e rude come me. All’età di sedici anni ero rapidamente cresciuto fino ad avere l’aspetto di un uomo; ero alto e atletico, abituato a imprese di forza, e avvezzo all’inclemenza degli elementi. La mia pelle era scurita dal sole e il mio passo reso fermo dalla consapevolezza della forza. Non temevo e non amavo nessuno. Negli anni successivi ho riflettuto con stupore su quello che ero allora; sarei diventato indicibilmente indegno se avessi proseguito quella mia carriera senza legge. La mia vita era come quella di un animale, e il mio spirito correva il rischio di degenerare fino a essere uguale a quello che pervade la natura bruta. Fino ad allora, le mie abitudini selvagge non mi avevano provocato alcun danno irreparabile; la mia forza fisica era cresciuta e fiorita sotto la loro influenza, e la mente, sottostando alla stessa disciplina, si era imbevuta di tutte le virtù dell’audacia. Ma ora la mia vantata indipendenza mi istigava ogni giorno ad atti di tirannia, e la libertà stava diventando licenziosità. Ero alla soglia dell’età virile; passioni, forti come alberi di una foresta, si erano già radicate in me, e stavano per oscurare, con la loro malefica crescita rigogliosa, il sentiero della mia vita.

  Anelavo a imprese ben al di là delle mie prodezze infantili. Evitavo i miei antichi compagni, e ben presto li persi. Essi avevano raggiunto l’età in cui erano indotti a occupare le posizioni a loro destinate nella vita; mentre io, un reietto, senza nessuno che mi guidasse o mi spronasse ad andare avanti, ero incerto. I vecchi cominciavano ad additarmi come esempio da evitare, i giovani a stupirsi di fronte a me che ero diverso da loro; li odiavo, e presi, ultima e peggiore degradazione, a odiare me stesso. Mi aggrappai alle mie feroci abitudini, anche se in parte le disprezzavo, e continuai la mia guerra contro la civiltà, anche se nutrivo un certo desiderio di appartenerle.

  Rimuginavo ancora e ancora su tutto quello che mia madre mi aveva narrato sulla precedente vita di mio padre; contemplavo i pochi resti che gli appartenevano rimasti in mio possesso, ed essi parlavano di una raffinatezza superiore a quella che si può incontrare tra case di montagna; ma nulla di tutto ciò servì a guidarmi a un tipo di vita diverso e più piacevole. Mio padre aveva avuto rapporti con i nobili, ma tutto quello che io sapevo al riguardo era l’abbandono che ne era seguito. Il nome del re, a cui mio padre morente aveva indirizzato le sue ultime preghiere, e che le aveva brutalmente ignorate, veniva associato solo a pensieri di scortesia, ingiustizia, e conseguente risentimento. Io ero nato per qualcosa di più grande di ciò che ero. E più grande sarei diventato. Ma la grandezza, almeno secondo le mie distorte percezioni, non era necessariamente alleata della bontà, e i miei pensieri selvaggi erano liberi da considerazioni morali quando si abbandonavano a sogni di distinzione. Così mi posi su un piedistallo, mentre un mare di malvagità scorreva ai miei piedi; ero sul punto di abbandonarmici e di travolgere come un torrente tutti gli ostacoli pur di raggiungere l’oggetto dei miei desideri, quando un’influenza del tutto inesplicabile si impossessò della corrente del mio destino e cambiò il suo corso turbolento in quello che, al confronto, era come il gentile serpeggiare di un ruscelletto che circonda un prato


CAPITOLO II

  Vivevo lontano dagli attivi ritrovi degli uomini e alle nostre dimore montane le voci di guerre o di cambiamenti politici giungevano soltanto come eco. L’Inghilterra era stata teatro di gravi lotte nel periodo della mia adolescenza. Nell’anno 2073, l’ultimo dei suoi re, l’amico di lunga data di mio padre, aveva abdicato per assecondare la nobile forza delle rimostranze dei suoi sudditi, ed era stata istituita una repubblica. Al monarca detronizzato e alla sua famiglia furono assicurate ampie tenute; egli ricevette il titolo di conte di Windsor, e il Castello di Windsor, un’antica tenuta reale, con le sue vaste proprietà terriere, fu una parte delle ricchezze a lui destinate. Egli morì subito dopo, lasciando due bambini, un figlio e una figlia.

  L’ex regina, una principessa della casa d’Austria, aveva a lungo incitato suo marito a opporre resistenza alle necessità dei tempi. Altezzosa e temeraria, serbava in cuore l’amore per il potere e un implacabile disprezzo per colui che si era spogliato di un regno. Fu solo per amore dei figli che accettò di restare, privata della regalità, membro della repubblica inglese. Quando divenne vedova, rivolse tutti i suoi pensieri all’educazione di suo figlio Adrian, secondo conte di Windsor, così da realizzare i suoi scopi ambiziosi; ed egli si nutrì del latte materno, e fu cresciuto col fermo proposito di riconquistare la corona perduta. Adrian aveva ora quindici anni. Sua grande passione era lo studio, ed era imbevuto di sapere e di talento in misura molto superiore rispetto ai suoi coetanei: correva voce che avesse già iniziato a contrastare le opinioni materne, e a abbracciare principi repubblicani. Ma, comunque stessero le cose, l’altezzosa regina non confidò a nessuno i segreti della sua educazione familiare. Adrian fu allevato in solitudine, e tenuto lontano dai compagni della sua stessa età e del suo rango. Alcune circostanze sconosciute indussero sua madre ad allontanarlo dalla propria diretta tutela; e sentimmo dire che lui era in procinto di visitare il Cumberland. Migliaia di storie erano pronte a spiegare il comportamento della contessa di Windsor, nessuna proba- bilmente vera, ma ogni giorno si faceva più certo che avremmo avuto tra di noi il nobile rampollo dell’ultima casa reale inglese.

  C’era un’ampia tenuta con annesso un palazzo, appartenente a questa famiglia, a Ulswater. Una delle sue propaggini era costituita da un ampio parco, disegnato con grande gusto, e abbondantemente fornito di selvaggina. Avevo spesso depredato queste riserve, e lo stato di incuria della proprietà facilitava le mie incursioni. Quando fu deciso che il giovane conte di Windsor avrebbe visitato il Cumberland, giunsero degli operai per predisporre la casa e i terreni all’accoglienza. Gli appartamenti vennero restituiti al loro originario splendore, e il parco, una volta restaurato, venne custodito con insolita cura.

  Ero molto turbato da queste notizie, che risvegliavano tutù i miei ricordi sopiti, i sentimenti di offesa rimasti sospesi, e ne facevano sorgere uno nuovo, di vendetta. Non ero più in grado di prestare attenzione alle mie occupazioni; dimenticai tutti i miei piani e gli stratagemmi; sembrava stessi per iniziare una nuova vita, e non certo sotto buoni auspici. Il tiro alla fune, pensai, stava per cominciare. Egli sarebbe giunto trionfante al distretto nel quale il mio genitore era fuggito col cuore a pezzi, e vi avrebbe trovato i suoi disgraziati discendenti in miserabile povertà, quegli stessi che, con una fiducia rivelatasi poi così vana, erano stati lasciati in eredità al re suo padre. Che lui sarebbe venuto a conoscenza della nostra esistenza, e ci avrebbe trattato, pur vicinissimo, con lo stesso disprezzo che il padre aveva usato da lontano e assente, mi sembrava la conseguenza certa di tutto quello che era accaduto precedentemente. Così dunque avrei incontrato il nobile adolescente… il figlio dell’amico di mio padre. Egli sarebbe stato circondato da servitori, con i nobili e i figli dei nobili a fargli da cortigiani. Tutta l’Inghilterra risuonava del suo nome, il suo arrivo si udiva, come un tuono, fin da molto lontano, e io, illetterato e incolto quale ero, se mi fossi messo in contatto con lui avrei fornito, con la mia stessa persona, a giudizio dei suoi raffinati seguaci, la prova dell’opportunità di quell’ingratitudine che, in realtà, mi aveva reso l’essere spregevole che apparivo.

  Con la mente completamente occupata da queste idee, si può quasi dire che fossi costretto, come da una malia, a frequentare ossessivamente la futura dimora del giovane conte. Osservavo il progredire dei lavori di risanamento, ed ero lì quando scaricarono i vagoni e diversi pezzi lussuosi, portati da Londra, vennero tirati fuori e trasportati all’interno della dimora. Faceva parte del piano dell’ex regina circondare il figlio di una magnificenza principesca. Vidi così ricchi tappeti e tende di seta, ornamenti d’oro e metalli riccamente sbalzati, mobili e suppellettili finemente decorati, in modo che solo ciò che era di splendore regale potesse raggiungere lo sguardo di chi discendeva da un re. Rimasi a guardare tutto questo, poi volsi lo sguardo al mio misero vestito. Da dove scaturiva questa differenza? Da dove se non da ingratitudine, da falsità, e dalla mancanza, da parte del padre del principe, di qualsiasi nobile solidarietà e munificenza? Senza dubbio anche a lui, il cui sangue ricevette la marea impura dalla madre orgogliosa, a lui, il centro riconosciuto della ricchezza e della nobiltà del regno, avevano insegnato a ripetere con disprezzo il nome di mio padre, e a farsi beffa della mia giusta richiesta di protezione. Mi sforzavo di pensare che tutta questa grandezza era solo un’infamia ancor più evidente, e che, piantando la sua bandiera ricamata d’oro vicino al mio stendardo lacero e annerito, egli proclamava non la sua superiorità, ma la sua bassezza. E tuttavia lo invidiavo. La scuderia coi suoi bei cavalli, le armi di preziosa manifattura, le lodi che lo circondavano, l’adorazione, i servitori scattanti, il rango elevato e l’alta stima… li consideravo come strappati a me con la forza, e li invidiavo tutti con rinnovata e tormentosa amarezza.

  A coronare la mia vessazione di spirito, Perdita, la visionaria Perdita, sembrò risvegliarsi con trasporto alla vita reale quando mi disse che stava per arrivare il conte di Windsor.

  «E ciò ti fa piacere?», osservai imbronciato.

  «In verità sì, Lionel», rispose; «e quasi muoio dalla voglia di vederlo; egli è il discendente dei nostri re, il primo nobile della nazione: tutti lo ammirano e lo amano, e dicono che il rango sia il suo merito minore; è generoso, coraggioso e affabile».

  «Hai imparato una bella lezione, Perdita», dissi, «e la ripeti così alla lettera, che dimentichi nel frattempo le prove che noi abbiamo sulle virtù del conte; la sua generosità nei nostri confronti è resa evidente dalla nostra ricchezza, il suo coraggio dalla protezione che ci offre, la sua affabilità dalla considerazione che ha per noi. Il suo rango il merito minore, dici? Certo, tutte le sue virtù derivano solo dalla sua posizione; in quanto ricco, dicono sia generoso; in quanto potente, coraggioso; in quanto ben servito, è affabile. Che lo chiamino pure così, che tutta l’Inghilterra lo consideri tale, noi lo conosciamo: è il nostro nemico, il nostro meschino, vile, arrogante nemico. Se fosse dotato di una sola particella delle virtù che a tuo dire gli appartengono, ci tratterebbe con giustizia, fosse anche solo per

  mostrare che, se proprio deve colpire, non dovrebbe essere un nemico caduto in disgrazia. Suo padre offese mio padre; suo padre, inattaccabile sul suo trono, osò disprezzare colui che si umiliò fino a essere indegno di se stesso solo quando accondiscese ad associarsi con l’ingrato reale. Anche noi, discendenti dell’uno e dell’altro, dobbiamo essere nemici. Scoprirà che io so riconoscere le offese inflittemi; imparerà a temere la mia vendetta!».

  Pochi giorni dopo il conte arrivò. Tutti gli abitanti, anche quelli provenienti dalle più misere abitazioni, andarono a ingrossare il fiume di gente che si riversava fuori a incontrarlo; persino Perdita, nonostante la mia recente filippica, scivolò furtivamente nei pressi della via principale, per osservare l’idolo di tutti i cuori. Quasi impazzito via via che incontravo i gruppi di gente del paese che, scappata dalle cime velate di nuvole, col vestito della festa, il migliore, scendeva giù dalle colline, e guardando le sterili rocce intorno a me, esclamai: «Esse non gridano, lunga vita al conte!». Né, quando giunse la notte accompagnata da una pioggerella fine e dal freddo, volli tornare a casa, perché sapevo che ogni dimora risuonava delle lodi per Adrian; quando sentii che le membra mi si intorpidivano e diventavano gelide, la sofferenza serviva da nutrimento per la mia insana avversione, anzi, quasi ne trionfavo, perché sembrava fornirmi il motivo e la scusa per l’odio verso il mio avversario che ostentava indifferenza. Tutto veniva attribuito a lui, poiché io confondevo così radicalmente l’idea di padre e figlio, da dimenticare che quest’ultimo avrebbe potuto ignorare completamente che il padre ci avesse abbandonato a noi stessi; e mentre mi colpivo con la mano la testa dolorante, urlai: «Sentirà parlare di tutto ciò! Sarò vendicato! Non subirò come un vile! Saprà che, pur se povero e senza amici, non mi sottometterò docilmente all’offesa!».

  Ogni giorno, ogni ora aggravavano questi torti esagerati. Le lodi a lui rivolte erano altrettanti morsi di vipera inflitti al mio petto vulnerabile. Se lo vedevo da lontano cavalcare un bel cavallo, il sangue mi ribolliva di rabbia; l’aria sembrava avvelenata dalla sua presenza, e la mia stessa lingua natale si trasformava in un infimo gergo, poiché ogni frase che udivo era associata al suo nome e al suo onore. Desideravo ardentemente dare sollievo a questo doloroso rancore con qualche misfatto che gli desse la misura della mia ostilità. Era il colmo dell’ingiuria che lui provocasse in me tali sensazioni intollerabili e non si degnasse in alcun modo di fornire una qualsiasi dimostrazione della consapevolezza che io vivevo, addirittura, per provarle.

  Presto si venne a sapere che Adrian amava molto il parco e le riserve. Non andava mai a caccia, ma passava ore intere a guardare le frotte di animali, amabili e quasi domestici, dei quali erano rifornite, e ordinò che venisse loro prestata cura maggiore di sempre. Ecco un appiglio per i miei piani di trasgressione, e mi ci aggrappai con tutta la brutale irruenza che mi derivava dalla mia vita attiva. Proposi ai pochi compagni rimastimi, i più determinati e sregolati della banda, di cacciare di frodo nelle sue tenute; ma tutti si ritirarono di fronte al pericolo; così fui lasciato a compiere la mia vendetta da solo. All’inizio le mie sortite passarono inosservate; allora mi feci ancora più audace, fino a che impronte sull’erba umida di rugiada, rami spezzati e tracce delle uccisioni mi tradirono di fronte ai guardacaccia, che fecero guardia migliore; fui preso e mandato in prigione. Entrai nelle sue mura oscure con uno slancio di estasi trionfante: «Ora si accorgerà di me», esclamai, «e mi sentirà sempre più!». Trascorsi un solo giorno in isolamento; il pomeriggio venni liberato, come mi fu detto, per ordine del conte stesso. Questa notizia mi fece precipitare giù dal piedistallo d’onore che mi ero innalzato. Mi disprezza, pensai; ma dovrà imparare che sono io a disprezzarlo, e che considero con pari noncuranza le sue punizioni e la sua clemenza. La seconda notte dopo il mio rilascio, fui nuovamente catturato dai guardacaccia, di nuovo imprigionato, e poi rilasciato; e di nuovo, tanta era la mia caparbietà, la quarta notte mi trovò nel parco proibito. I guardacaccia erano più arrabbiati del loro padrone per la mia ostinazione. Avevano ricevuto l’ordine che, se fossi stato preso un’altra volta, avrebbero dovuto condurmi dal conte, e la sua indulgenza faceva prevedere una conclusione che ritenevano mal si adattasse al mio crimine. Uno di loro, che era stato il capo tra coloro che mi avevano catturato, era deciso a soddisfare il suo risentimento personale prima di passarmi ai poteri superiori.

  Il tardo tramonto della luna e l’estrema cautela che fui costretto a usare in questa terza spedizione richiesero tanto tempo che, quando mi accorsi che la notte oscura cedeva al chiarore, qualcosa di simile a uno spasmo di paura si impossessò di me. Scivolai vicino alla felce, strisciando sulle mani e sulle ginocchia e cercando il riparo ombroso del sottobosco; in alto gli uccelli si svegliavano con canti a me sgraditi e il vento fresco del mattino, giocando tra i rami, mi faceva sospettare il rumore di passi a ogni svolta. Il cuore mi batteva veloce mentre mi avvicinavo alle palizzate; la mano ne aveva raggiunta una, un salto mi

  avrebbe portato dall’altra parte, quando due guardie, tesami un’imboscata, mi balzarono addosso: una mi buttò a terra con un pugno, e cominciò a frustarmi con violenza. Mi alzai in piedi, e trovandomi un coltello a portata di mano glielo affondai nel braccio destro, che era alzato, infliggendogli una ferita ampia e profonda alla mano. La rabbia e le urla dell’uomo ferito, le grida di imprecazione del suo compagno, alle quali io risposi con pari furia e asprezza, riecheggiarono per la valle; il mattino avanzava sempre più, e la sua celestiale bellezza mal si accordava con la nostra contesa brutale e rumorosa. Io e il mio nemico stavamo ancora lottando, quando l’uomo ferito esclamò: «Il conte!». Mi liberai con un balzo dalla stretta erculea della guardia, ansimando per lo sforzo; gettai sguardi furiosi ai miei persecutori e mi misi con la schiena contro un albero, deciso a difendermi fino alla fine. I miei vestiti erano strappati e macchiati, come le mani, del sangue dell’uomo che avevo ferito; una mano serrava saldamente gli uccelli morti, la preda duramente guadagnata, l’altra il coltello; i capelli arruffati; la faccia imbrattata recava le stesse tracce di colpevolezza che testimoniavano contro di me sull’arma gocciolante che stringevo in mano; tutto il mio aspetto era selvaggio e miserabile. Alto e muscoloso come ero per costituzione, dovevo sembrare, cosa che di fatti ero, la più infima canaglia che mai calpestò la terra.

  Il nome del conte mi fece trasalire e tutto il sangue indignato che riscaldava il mio cuore mi affluì al volto; non lo avevo mai visto prima; me lo figuravo come un giovane altezzoso, presuntuoso, che mi avrebbe rimproverato, se pure si fosse degnato di parlarmi, con tutta l’arroganza della superiorità. La mia risposta era pronta; un rimprovero che io ritenevo dovesse ferirlo esattamente al cuor.e. Nel frattempo egli sopraggiunse e la sua comparsa spazzò via, con lieve brezza d’occidente, la mia rabbia tempestosa: un bel ragazzo, alto e snello, con una fisionomia che lasciava trapelare l’eccesso di sensibilità e raffinatezza, mi si parò innanzi. I raggi mattutini tingevano d’oro i suoi capelli di seta, e spandevano luce e gloria sul suo viso radioso. «Che succede?», esclamò. Gli uomini cominciarono a difendersi con zelo, ma egli li congedò dicendo: «Due di voi contemporaneamente addosso a un semplice ragazzo… Vergogna!». Mi si avvicinò: «Verney», gridò, «Lionel Verney, ci incontriamo dunque in questo modo per la prima volta? Siamo nati per essere l’uno amico dell’altro, e anche se la cattiva sorte ci ha diviso, vorrai forse non riconoscere il legame ereditario di amicizia che io confido d’ora in avanti ci unirà?».

  Mentre parlava, i suoi occhi onesti, fissi su di me, sembravano leggermi fin dentro l’anima: il mio cuore, il mio selvaggio vendicativo cuore, sentì penetrare al suo interno l’influsso di questa dolce benevolenza; mentre la sua voce vibrante, come una melodia dolcissima, risvegliò una muta eco dentro di me, scuotendo il sangue vitale nel mio corpo fin nelle sue profondità. Desideravo rispondere, dargli atto della sua bontà, accettare la sua profferta di amicizia; ma le parole, delle parole adeguate, non erano concesse al rude montanaro; avrei voluto porgergli la mano, ma la macchia di colpevolezza che la segnava mi trattenne. Adrian provò pietà per le mie esitazioni: «Vieni con me», disse, «ho molte cose da dirti. Vieni a casa con me… Sai chi sono?»

  «Sì», esclamai, «credo di conoscerti ora, e penso che tu perdonerai i miei errori… il mio crimine».

  Adrian sorrise gentilmente; dopo aver impartito alcuni ordini ai guardacaccia, mi venne vicino, prese il mio braccio col suo e camminammo insieme fino al palazzo.

  Non fu il suo rango. Dopo tutto quanto ho detto, sicuramente non si sospetterà che, sin dall’inizio, fosse il rango di Adrian a sottomettere il mio cuore fin nel profondo e a far prostrare tutto il mio spirito davanti a lui. Né ero d’altronde io l’unico che si rendesse conto così intimamente della sua perfezione: tutti erano affascinati dalla sua sensibilità e dalla sua gentilezza. La sua vivacità, l’intelligenza, e lo spirito attivo di benevolenza, completavano la conquista. Pur così giovane, era profondamente colto e imbevuto dello spirito dell’alta filosofia che dava un tono di irresistibile persuasione ai suoi discorsi con gli altri, tanto da somigliare a un musicista ispirato, che faceva vibrare, con infallibile abilità, la «lira della mente»,55 traendone un’armonia divina. Il suo aspetto lo faceva a malapena sembrare di questo mondo. L’esile struttura fisica era pervasa, fino a esserne sopraffatta, dall’anima che l’abitava all’interno: era tutto spirito. «Organizzate anche un solo attacco contro»56 il suo petto, e sarebbe bastata a vincere la sua forza; ma la potenza del suo sorriso avrebbe domato un leone affamato, o indotto una legione di uomini armati a deporre le loro armi ai suoi piedi.

  Passai il giorno con lui. All’inizio non fece riferimento al passato, o almeno a nessun episodio personale. Desiderava probabilmente infondermi fiducia, e darmi il tempo di raccogliere i miei pensieri dispersi. Parlò di argomenti generali, e mi suggerì idee che io non avevo mai concepito prima. Ci sedemmo nella sua biblioteca, ed egli parlò degli antichi sapienti greci e del potere che avevano conquistato sulle menti degli uomini, grazie solamente alla forza dell’amore e della saggezza. La stanza era decorata da molti dei loro busti, ed egli me ne descrisse il carattere. Mentre parlava, io mi sentii dominato da lui; e tutto il mio vantato orgoglio e la mia forza erano sottomessi dai dolci accenti di questo ragazzo dagli occhi blu. Il territorio circoscritto e ordinato della civiltà che io, dalla mia giungla selvaggia, avevo prima d’ora considerato inaccessibile, mi aprì grazie a lui il suo cancello; feci un passo al suo interno e sentii, mentre entravo, che calpestavo il mio suolo nativo.

  Quando sopraggiunse la sera si volse al passato. «Ho una storia da raccontarti», disse, «e molte spiegazioni da darti riguardo al passato; forse puoi aiutarmi a renderla più breve. Ricordi tuo padre? Non ebbi mai la gioia di vederlo, ma il suo nome è uno dei miei primi ricordi che inciso nel libro della mia mente come il prototipo di tutto ciò che di galante, amabile e affascinate è dato nell’uomo. E il suo ingegno non era più ricco della bontà che traboccava dal suo cuore, e che egli riversava in misura così generosa sui suoi amici, da lasciare, ahimè!, ben poco per se stesso».

  Incoraggiato da questo elogio cominciai a raccontare, in risposta alle sue domande, quanto ricordavo del mio genitore; egli intanto mi fornì un resoconto delle circostanze che avevano portato a ignorare la lettera testamentaria di mio padre. Quando il padre di Adrian, allora re d’Inghilterra, avvertì che la sua situazione si faceva più pericolosa e la sua linea di condotta più incerta, desiderò sempre più il suo vecchio amico, colui che poteva innalzare una barriera contro l’ira impetuosa della sua regina e fare da mediatore con il parlamento. Dopo aver lasciato Londra, la sera fatale della sua sconfitta al tavolo da gioco, il re non aveva più avuto sue notizie; e quando, dopo anni, si diede da fare per ritrovarlo, ogni traccia era andata perduta. Con rimpianto ancor più vivo si aggrappò alla sua memoria; e diede incarico al figlio, se mai avesse dovuto incontrare questo valevole amico, di concedergli a suo nome qualsiasi aiuto e di assicurarlo che, fino alla fine, il suo affetto sarebbe sopravvissuto alla separazione e al silenzio.

  Poco tempo prima che Adrian visitasse il Cumberland, l’erede del nobiluomo cui mio padre aveva affidato il suo ultimo appello al re suo signore, mise questa lettera, con i sigilli intatti, nelle mani del giovane conte. Era stata ritrovata insieme a un mucchio di vecchie carte, e solo il caso la riportò alla luce. Adrian la lesse con profondo interesse; e vi trovò quel vitale spirito di genialità e ingegno che aveva sentito commemorare così spesso. Scoprì il nome del luogo in cui mio padre si era ritirato e in cui morì; venne a sapere dell’esistenza dei suoi orfani. Nel breve intervallo tra il suo arrivo a Ulswater e il nostro incontro nel parco era stato occupato nel fare domande sul nostro conto e nel predisporre, a nostro beneficio, una varietà di piani che dovevano precedere il momento in cui egli si sarebbe presentato.

  Il modo in cui parlava di mio padre gratificava la mia vanità; il velo che delicatamente stendeva sulla sua benevolenza, come se si trattasse di un doveroso adempimento dell’ultima volontà del re, leniva il mio orgoglio. Altri sentimenti, meno ambigui, furono chiamati in gioco dal suo conciliante modo di fare e dal generoso calore delle sue parole: rispetto, di cui prima raramente avevo fatto esperienza, ammirazione, e amore… Egli aveva toccato il mio cuore duro come roccia col suo potere magico, e ora ne sgorgava il torrente dell’affetto, indistruttibile e puro. La sera ci separammo; egli mi strinse la mano: «Dobbiamo rivederci. Vieni da me domani». Io afferrai quella mano gentile, cercai di rispondere, un fervente «Dio ti benedica!» fu tutto ciò cui la mia ignoranza fu in grado di dare forma in parole; poi fuggii veloce come una saetta, quasi soffocato dalle mie nuove emozioni.

  Non riuscivo ad aver pace. Cercai le mie colline; le spazzava un vento occidentale e in alto brillavano le stelle. Continuai a correre, incurante delle cose che mi circondavano, ma cercando con la fatica fisica di dominare lo spirito che combatteva dentro di me. «Questo», pensai, «è potere! Non essere forte di membra, duro di cuore, feroce e intrepido; ma gentile, compassionevole e indulgente». D’un tratto mi fermai, mi strinsi convulsamente le mani, e col fervore di un nuovo proselita, esclamai: «Non dubitarne, Adrian, anch’io diventerò saggio e buono!», e poi, quasi sopraffatto, piansi ad alta voce.

  Superato questo accesso di passione, mi sentii più sereno. Mi distesi a terra, e lasciando briglia sciolta ai miei pensieri, passai mentalmente in rivista tutta la mia vita precedente; e come srotolando un gomitolo cominciai, passo dopo passo, a mettere in luce i molteplici errori del mio cuore e a scoprire quanto, fino a questo momento, fossi stato brutale, selvaggio e indegno. Non potevo comunque allora provarne rimorso, perché mi sembrava di essere nato a nuova vita; la mia anima gettò via il fardello dei vecchi peccati per iniziare un nuovo corso all’insegna dell’innocenza e dell’amore. Nulla di aspro o di rude rimase a stridere con le dolci sensazioni che gli avvenimenti di quella giornata avevano suscitato in me; ero come un bambino che balbettava la propria devozione alla madre, e la mia anima duttile veniva rimodellata da una mano espertissima, senza che io volessi né potessi resistere.

  Questo fu l’inizio della mia amicizia con Adrian, e devo commemorare questo giorno come il più fortunato della mia vita. Cominciai allora a divenire un essere umano. Fui ammesso all’interno dei sacri confini che separano la natura intellettuale e morale dell’uomo da quella che appartiene agli animali. Per poter dare risposte adeguate alla generosità, alla saggezza e alle cortesie del mio nuovo amico furono chiamati in gioco i miei migliori sentimenti. Lui, con la nobile bontà che gli era propria, provava un piacere infinito nel concedere fino alla prodigalità i tesori della sua mente e delle sue fortune al figlio così a lungo negletto dell’amico del padre, la prole di quell’essere carico di talento i cui meriti e il cui ingegno egli aveva sentito celebrare fin dall’infanzia.

  Dopo aver abdicato, l’ultimo re si era ritirato dalla sfera politica, ma la cerchia familiare gli procurava ben poca soddisfazione. L’ex regina non aveva alcun talento per la vita domestica, mentre le virtù di coraggio e audacia che lei possedeva erano rese nulle dall’abdicazione del marito: lo disprezzava, né si curava di mascherare i propri sentimenti. Il re, per accondiscendere alle sue pretese, aveva rinnegato i suoi vecchi amici ma, sotto la guida di lei, non ne aveva acquisiti di nuovi. In tale deserto di comprensione umana ricorse al figlio, ancora quasi bambino, il cui precoce sviluppo di talento e sensibilità ne fecero un degno depositario delle confidenze del padre. Adrian non era mai stanco di ascoltare i racconti, di frequente ripetuti, dei vecchi tempi in cui mio padre aveva ricoperto un ruolo eminente. Le penetranti osservazioni dell’amico venivano ripetute al ragazzo, ed egli le teneva a mente; il suo ingegno, le sue malie, le sue stesse colpe venivano quasi santificate dal rimpianto dell’affetto; e la sua perdita era sinceramente compianta. Persino l’avversione della regina per l’amico prediletto non riuscì a privarlo dell’ammirazione di suo figlio: era pungente, sarcastica, sprezzante… ma mentre ella poneva la sua pesante censura egualmente sulle sue virtù e sui suoi errori, sull’amicizia devota e sugli amori mal riposti, sul disinteresse e sulla prodigalità, sull’innata grazia dei modi e la facilità con cui cedeva alla tentazione, il suo doppio colpo risultava troppo pesante, e mancava il bersaglio. Né la sua rabbiosa avversione impedì ad Adrian di immaginare mio padre, come aveva detto, come il prototipo di tutto ciò che di galante, amabile e affascinante è dato nell’uomo. Non fu dunque strano che, quando egli venne a sapere dell’esistenza della prole di questo celebrato personaggio, avesse deciso di concederle tutti i vantaggi che il suo rango gli permetteva di procurare con abbondanza. Quando mi trovò, un pastore che vagabondava per le colline, un cacciatore di frodo, un selvaggio illetterato, la sua benevolenza non venne per questo meno. In aggiunta alla convinzione da lui nutrita che suo padre fosse in certo grado colpevole di negligenza nei nostri confronti, e che egli era tenuto a ogni possibile atto di riparazione, si compiaceva nel dirmi che sotto tutta la mia rudezza balenava una nobiltà d’animo che poteva essere distinta dal semplice coraggio animale, e che io avevo ereditato una somiglianza d’espressione con mio padre, che provava che non tutte le sue virtù e i suoi pregi erano morti con lui. Qualunque cosa potesse essere ciò che era arrivato fino a me, il mio giovane e nobile amico decise che non avrebbe dovuto disperdersi per mancanza di cultura.

  Conformemente a questo piano, nei nostri incontri successivi indusse in me il desiderio di poter partecipare di quella formazione che ingentiliva il suo stesso intelletto. La mia mente vivace, una volta impossessatasi di questa nuova idea, vi si aggrappò con estrema avidità. All’inizio il grande obiettivo della mia ambizione fu quello di emulare i meriti di mio padre, e rendermi degno dell’amicizia di Adrian. Ma presto si svegliò la curiosità, e con essa un serio desiderio di conoscenza, che mi spinsero a passare giorni e notti immerso nella lettura e nello studio. Avevo già una buona familiarità con quello che potrei definire il panorama della natura, il cambiamento delle stagioni e i vari volti del cielo e della terra. Ma fui al tempo stesso sbigottito e incantato dall’improvviso ampliamento di visione quando la cortina che era stata gettata davanti al mondo dell’intelletto venne ritirata, e io vidi l’universo, non solo come mi si presentava ai sensi esteriori, ma anche come era apparso ai più saggi tra gli uomini. La poesia e le sue creazioni, la filosofìa e le sue ricerche e classificazioni, risvegliarono le idee sopite nel mio spirito e, al tempo stesso, me ne diedero di nuove.

  Mi sentii come il navigatore che dall’albero maestro avvistò per primo le sponde dell’America, e come lui mi affrettavo a riferire ai miei compagni le mie scoperte in territori sconosciuti. Ma ero incapace di risvegliare nel petto altrui la stessa ardente sete di conoscenza che viveva nel mio. Persino Perdita non riusciva a comprendermi. Io avevo vissuto in quello che viene generalmente chiamato il mondo della realtà, e per me, scoprire che c’era un significato più profondo in tutto quello che vedevo, al di là di ciò che gli occhi mi comunicavano, significava rendersi conto dell’esistenza di un nuovo mondo. La visionaria Perdita vedeva in tutto ciò solo una nuova glossa per un vecchio modo di leggere le cose, e quello che a lei era consueto era sufficientemente inesauribile per soddisfarla. Mi ascoltava come aveva fatto quando le raccontavo le mie avventure, e talvolta provava anche un certo interesse per questo tipo di informazioni, ma non le considerava, come me, una parte integrante del suo essere. Io invece, avendole conquistate, non avrei potuto sbarazzarmene più di quanto ci si potrebbe liberare del senso universale del tatto.

  Entrambi condividevamo l’amore per Adrian: anche se lei, non avendo ancora abbandonato l’infanzia, non poteva apprezzare come me la grandezza dei suoi meriti, o come me provare consonanza con le sue ricerche e le sue opinioni. Ero sempre con lui. C’erano una dolcezza e una sensibilità nella sua indole che davano un tono delicato e soprannaturale alla nostra conversazione. Inoltre egli era allegro come un’allodola che canti gioiosa dalla sua torre alta quasi fino al cielo, elevato nel pensiero come un’aquila che s’innalzi in volo, innocente come la colomba dallo sguardo mite. Poteva far dileguare come per magia la serietà di Perdita, ed estirpare il dolore pungente dalla torturante attività propria della mia natura. Rivolsi indietro lo sguardo ai miei desideri inquieti e alle doloróse lotte coi miei simili come a un sogno agitato, e mi sentii enormemente cambiato, quasi fossi trasmigrato in un’altra forma e questa, col suo giovane complesso sensorio e il suo meccanismo nervoso, avesse alterato il riflesso dell’universo sensibile nello specchio della mente. Ma non era così; avevo la stessa forza, lo stesso serio e ardente desiderio di comprensione umana, la stessa brama per l’esercizio della vita attiva. Le mie virtù virili non mi abbandonarono perché Urania l’incantatrice risparmiò le ciocche di Sansone57 mentre egli dormiva ai suoi piedi; ma tutto era reso più dolce e umano. Adrian non mi istruì soltanto nelle fredde verità della storia e della filosofia. Mentre mi insegnava come dominare grazie a loro il mio spirito sprezzante e incolto, offrì al mio sguardo la pagina vivente del suo stesso amore, e mi diede modo di arrivare a sentire e comprendere il suo carattere straordinario.

  L’ex regina d’Inghilterra si era sforzata, persino durante l’infanzia, di infondere nell’animo del figlio disegni ambiziosi e audaci. Si accorse che egli era dotato di genio e talento fuori del comune, e coltivò queste qualità con l’intento di usarle per perseguire i suoi progetti. Stimolò il suo ardente desiderio di conoscenza e il suo coraggio impetuoso; tollerò persino il suo indomabile amore per la libertà, nella speranza che avrebbe portato, come spesso accade, alla passione per il comando. Si sforzò di crescerlo coltivando in lui un senso di risentimento e un desiderio di vendetta nei confronti di coloro che avevano contribuito a determinare l’abdicazione del padre. Ma ciò non le riuscì. I racconti fornitigli, per quanto distorti, di una grande e saggia nazione che rivendicava il proprio diritto a governarsi da sé, suscitavano la sua ammirazione: fin da giovane egli divenne per principio un repubblicano. E tuttavia la madre non disperava. All’amore per il dominio e all’altezzoso orgoglio della nascita ella univa un’ambizione determinata, pazienza e dominio di sé. Si dedicò allo studio del carattere del figlio. Con lodi, divieti ed esortazioni cercò di trovare e toccare le corde giuste; e sebbene la melodia che seguiva il suo tocco le sembrasse discordante, costruì le proprie speranze sulle capacità del figlio, e si sentì certa che, alla lunga, avrebbe avuto ragione di lui. Quella sorta di esilio in cui egli viveva ora derivava da altre cause.

  L’ex regina aveva anche una figlia, che aveva allora dodici anni, la sua bella sorellina, come Adrian amava chiamarla: un essere amabile e vivace, tutto sensibilità e sincerità. Con loro, i suoi figli, la nobile vedova risiedeva permanentemente a Windsor, e non ammetteva visitatori, eccetto i suoi sostenitori, viaggiatori provenienti dalla sua nativa Germania, e pochi ministri stranieri. Tra questi, riscuoteva molta stima presso di lei il principe Zaimi, ambasciatore in Inghilterra dei liberi stati della Grecia, e sua figlia, la giovane principessa Evadne, trascorreva molto tempo nel castello di Windsor. In compagnia di questa ragazza vivace e intelligente, la contessa era solita assumere un atteggiamento più rilassato rispetto a quello adottato di solito. I suoi progetti sui figli imponevano una limitazione a tutte le parole e le azioni che riguardavano loro: ma Evadne era un trastullo ch’ella non poteva in alcun modo temere. E le sue doti e la sua vivacità non recavano un sollievo di poco conto alla monotona vita della contessa.

  Evadne aveva diciotto anni. Sebbene a Windsor trascorressero molto tempo insieme, l’estrema giovinezza di Adrian impediva che nascessero sospetti sulla natura della loro relazione. Ma egli era ardente e tenero di cuore oltre la comune natura dell’uomo, e aveva già imparato ad amare, mentre la bella fanciulla greca sorrideva benevola al ragazzo. Era strano per me, che pur essendo più grande di Adrian non avevo mai amato, essere testimone della totale dedizione di cuore del mio amico. Non c’erano gelosia, inquietudine né sfiducia nel suo sentimento che era fatto di devozione e fede. La sua vita era completamente assorbita dall’esistenza dell’amata, e il suo cuore batteva all’unisono solo con le pulsazioni che vivificavano quello di lei. Questa era la legge segreta della sua vita: egli amava ed era amato. L’universo era per lui una dimora da abitare con la persona prescelta; non dunque uno schema di società né un concatenamento di eventi, che potevano procurargli gioia o dolore. Che importava, se anche la vita e il sistema dei rapporti sociali erano una regione selvaggia, una giungla minacciata dalla tigre! Attraverso la cortina dei suoi errori, nelle profondità dei suoi recessi selvaggi, c’era un sentiero libero, cosparso di fiori, che avrebbero potuto percorrere sicuri e gioiosi. La loro via sarebbe stata come il passaggio del Mar Rosso, che avrebbero potuto attraversare coi piedi asciutti, anche se un muro di distruzione incombeva da entrambi i lati.

  Ahimè! Perché devo ricordare la sfortunata illusione di questo incomparabile campione dell’umanità? Che cos’è nella nostra natura che ci spinge sempre e inesorabilmente verso la pena e l’infelicità? Non siamo creati per la gioia e, anche se disposti in ogni modo a ricevere emozioni piacevoli, la delusione è il pilota che, immancabilmente, guida il vascello della nostra vita e senza alcuna pietà, ci conduce verso le secche. Chi più di questo giovane altamente dotato, era fatto per amare ed essere amato, e per raccogliere gioia inalienabile da una passione senza macchia? Se il suo cuore avesse dormito solo pochi anni ancora, egli avrebbe potuto essere salvato; ma si svegliò nella sua infanzia, quando aveva la forza ma non la sapienza, e fu rovinato, proprio come un bocciolo fiorito troppo presto viene bruciato dal gelo mortale.

  Non accusai Evadne di ipocrisia o di voler ingannare il suo innamorato; ma la sua prima lettera che vidi mi convinse che lei non lo amava. Era scritta con eleganza e, considerato che era straniera, con grande padronanza della lingua. La grafia stessa era mirabilmente bella, e c’era qualcosa anche nella carta e nelle sue pieghe che persino io, che non ero innamorato e per di più inesperto in tali questioni, intuivo come raffinato. C’erano molta gentilezza, gratitudine e dolcezza nelle sue frasi, ma non amore. Evadne aveva due anni più di Adrian; e chi, a diciotto anni, ha mai amato qualcuno tanto più giovane? Confrontai le sue lettere pacate con quelle febbrili di Adrian. L’anima del mio amico sembrava riversarsi stilla a stilla nelle lettere che scriveva, che palpitavano sulla carta portando con sé una parte della vita dell’amore, che era la sua vita. L’atto stesso della scrittura lo consumava, e sempre vi lasciava cadere delle lacrime, solo per l’eccesso di emozione che si risvegliava nel suo cuore.

  Adrian aveva l’anima dipinta sul volto, e la dissimulazione o l’inganno erano agli antipodi dell’impavida franchezza della sua natura. Evadne gli chiese in modo pressante che il racconto dei loro amori non venisse riferito a sua madre; e dopo aver per un po’ contestato il punto, egli le cedette. Una concessione vana: il comportamento di Adrian tradì in breve il suo segreto agli occhi acuti dell’ex regina che, con la stessa accorta prudenza che caratterizzava tutto il suo comportamento, nascose la propria scoperta, ma si affrettò ad allontanare suo figlio dalla sfera dell’attraente fanciulla greca. Fu mandato nel Cumberland; ma il piano di corrispondenza tra gli amanti, escogitato da Evadne, le rimase effettivamente nascosto. Così l’assenza di Adrian, concertata allo scopo di separarli, li unì in un legame più forte che mai. Con me egli discorreva incessantemente della sua amata della Ionia. Il suo paese, i suoi antichi annali, le sue recenti memorabili lotte, erano tutti fatti per partecipare alla gloria e all’eccellenza di lei. Egli si rassegnò a starle lontano, perché fu lei a ordinare una tale sottomissione: non fosse stato per il suo ascendente egli avrebbe infatti dichiarato la propria devozione davanti a tutta l’Inghilterra, e avrebbe resistito, con irremovibile fermezza, all’opposizione di sua madre. La prudenza femminile di Evadne le fece comprendere quanto sarebbe stata inutile, da parte di lui, qualsiasi dichiarazione delle sue decisioni fino a che gli anni non avessero dato peso al suo potere. Forse c’era anche una segreta avversione a legarsi di fronte al mondo con una persona che non amava; non amava, almeno, con quell’appassionato trasporto che il cuore le diceva avrebbe un giorno potuto provare per un altro uomo. Egli obbedì a tale ingiunzione, e trascorse un anno in esilio nel Cumberland.

CAPITOLO III

  Felici, mille volte felici furono i mesi e le settimane e le ore di quell’anno. L’amicizia, mano nella mano con l’ammirazione, la tenerezza e il rispetto costruivano un pergolato di delizie nel mio cuore che, fino a poco prima, era arido come un deserto dell’America mai calpestato da essere umano, come il vento senza dimora o il mare sterile. Un’insaziabile sete di conoscenza e uno sconfinato affetto per Adrian mi tenevano occupati il cuore e la mente, e così ero felice. Quale felicità è così vera e limpida come la gioia traboccante e loquace dei giovani? In barca, sul mio lago nativo, vicino ai ruscelli costeggiati dai pallidi pioppi, nelle valli e sulle colline, gettato il bastone, con un gregge ben più nobile di sciocche pecore cui badare, un gregge di idee appena nate, leggevo o ascoltavo Adrian; e le sue parole, riguardassero il suo amore o le sue teorie per il miglioramento dell’uomo, comunque mi incantavano. Talvolta ritornava il mio umore insofferente alle regole, l’amore per il pericolo, la resistenza all’autorità, ma soltanto in sua assenza; sotto la dolce influenza dei suoi cari occhi, ero docile e buono come un bimbo di cinque anni che ubbidisce agli ordini della madre.

  Dopo una permanenza di circa un anno a Ulswater, Adrian andò in visita a Londra e tornò pieno di buoni progetti per noi. Devi cominciare la vita, disse: hai diciassette anni, e un ulteriore ritardo renderebbe sempre più fastidioso il necessario periodo di apprendimento. Prevedeva che la sua vita sarebbe stata una vita di lotte, e io dovevo condividerne le fatiche. Perché io fossi più preparato a tale compito, dovevamo ora separarci. Egli trovava che il mio nome fosse un buon mezzo per l’avanzamento, e mi aveva procurato il posto di segretario privato dell’ambasciatore a Vienna, dove avrei dovuto iniziare la mia carriera sotto i migliori auspici. Nel giro di due anni, sarei dovuto tornare al mio paese con un nome ben conosciuto e una reputazione già solida.

  E Perdita? Perdita doveva diventare l’allieva, l’amica e la sorella più piccola di Evadne. Con la sua consueta saggezza, egli aveva provveduto, alla sua indipendenza in questa situazione. Come rifiutare le offerte di questo generoso amico? Io in verità non desideravo rifiutarle, ma nel profondo del cuore feci il voto di consacrare la vita, il sapere, il potere – tutte cose che, se avevano un valore qualsiasi, lui mi aveva concesso – tutto, tutte le mie capacità e le mie speranze, a lui e a lui soltanto.

  Questo mi ripromettevo nel dirigermi verso la mia meta, carico delle più ardenti aspettative: poter finalmente realizzare tutte le speranze di gloria e di piacere che, durante l’adolescenza, ci figuriamo per la vita adulta. Ritenevo che fosse ormai arrivato il momento in cui, messe da parte le occupazioni infantili, dovessi entrare nella vita. Persino nei Campi Elisi Virgilio descrive le anime dei felici come avide di bere all’onda che li avrebbe ricondotti a questa spirale mortale. I giovani si trovano raramente nell’Eliso perché i loro desideri, andando al di là del possibile, li lasciano poveri come debitori senza denari. I più saggi filosofi ci avvertono dei pericoli del mondo, degli inganni degli uomini e dei tradimenti del nostro stesso cuore: e tuttavia ognuno di noi fa salpare con coraggio il proprio naviglio dal porto, spiega le vele, e lotta faticosamente sui remi per raggiungere le innumerevoli correnti del mare della vita. Ben pochi, nel rigoglio della giovinezza, ormeggiano i propri vascelli sulle «spiagge dorate»,58 e raccolgono le conchiglie dipinte che le cospargono. Ma tutti alla fine del giorno, con le assi spaccate e le vele lacerate cercano di guadagnare la riva, ma o fanno naufragio prima di averla raggiunta, oppure trovano un porto battuto dalle onde, una spiaggia deserta, sulla quale gettarsi e morire senza essere compianti.

  Ma ora basta con la filosofia! La vita mi si staglia innanzi, e io corro a prenderne possesso. Speranza, gloria, amore e innocente ambizione mi fanno da guida, e la mia anima non conosce paura. Ciò che è stato, seppur dolce, è passato; il presente è bello solo perché sta per cambiare, e quello che verrà mi appartiene già tutto. Ho forse paura che il mio cuore palpiti? Aspirazioni elevate mi fanno pulsare il sangue, gli occhi sembrano penetrare nell’oscura mezzanotte del tempo, e discernere nel profondo delle sue tenebre, la realizzazione di tutti i desideri della mia anima.

  Ora un po’ di riposo! Durante il viaggio potrei sognare, e con ali vigorose raggiungere la sommità dell’alto edificio della vita. Ora che sono arrivato alla sua base, le mie ali sono ripiegate, le scale maestose mi si parano innanzi, e passo dopo passo devo ascendere il mirabile tempio:

  Parla! Quale porta è aperta?59

  Guardatemi nella nuova funzione. Un diplomatico: un giovane di belle speranze, il favorito dell’ambasciatore, parte di una compagnia sempre alla ricerca del piacere, in una gaia città. Tutto era insolito e degno di ammirazione per il pastore del Cumberland. Con uno stupore che toglieva il respiro mi affacciai sulla gaia scena, i cui attori erano

 

  i gigli gloriosi come Salomone,

  Che non si affaticano, e neppure girano.60

 

  Presto, troppo presto entrai nel turbine vertiginoso, dimenticando le ore di studio e la compagnia di Adrian. Ancora mi erano propri l’appassionato desiderio di comprensione, e l’ardente ricerca di un oggetto agognato. La visione della bellezza mi rapiva e le maniere affascinanti degli uomini e delle donne conquistavano la mia totale fiducia. Quando un sorriso mi faceva battere il cuore, lo chiamavo rapimento; e sentivo il sangue della vita fremermi nel corpo, quando mi avvicinavo all’idolo che per un momento adoravo. Il puro fluire delle pulsioni animali era per me il paradiso, e alla fine della notte desideravo soltanto rinnovarne l’inebriante illusione. La luce abbagliante delle stanze adornate, le forme attraenti avvolte in splendide vesti, i movimenti di una danza, gli accordi voluttuosi della splendida musica cullavano i miei sensi in un sogno incantevole.

  E non è questa a suo modo felicità? Mi appello ai moralisti e ai saggi. Chiedo se nella calma delle loro misurate fantasticherie, se nelle profonde meditazioni che riempiono le loro ore, provano l’estasi di un giovane novizio alla scuola del piacere. E se i raggi calmi dei loro occhi alla ricerca del cielo possono eguagliare i lampi della passione conturbante che acceca i suoi;


    ancora, se l’influenza della fredda filosofia pervade la loro anima di una gioia uguale alla sua, impegnata


  In questa diletta fatica dei giovanili bagordi.61

  Ma in verità, né le meditazioni solitarie dell’eremita né i tumultuosi rapimenti del gaudente sono in grado di soddisfare il cuore dell’uomo. Dal primo otteniamo speculazioni inquietanti, dall’altro disgusto. Lo spirito langue sotto il peso del pensiero, e si abbatte nell’aridità di relazioni che hanno come unico scopo il divertimento. Non c’è gioia nel loro vuoto piacere, e sotto le ridenti increspature di queste acque basse si celano rocce acuminate.

  Così mi sentii quando delusione, stanchezza e solitudine mi spinsero a ripiegarmi sul mio cuore, per ottenere la gioia di cui era stato privato. Il mio umore languente chiedeva qualcosa che parlasse agli affetti; e non trovandolo, mi avvilii. Così, nonostante i piaceri spensierati che accompagnarono il suo inizio, l’impressione che mi resta della mia vita a Vienna è di melanconia. Goethe ha detto che in gioventù non possiamo essere felici se non amando.62 Io non amavo; ma ero divorato dall’inquieto desiderio di rappresentare qualcosa per gli altri. Divenni la vittima dell’ingratitudine e della fredda civetteria. Poi mi persi d’animo, e immaginai che la mia scontentezza mi desse il diritto di odiare il mondo. Mi chiusi in solitudine; feci ricorso ai libri, e di nuovo il desiderio di godere della compagnia di Adrian divenne una sete ardente.

  L’emulazione, che nei suoi eccessi assumeva quasi le caratteristiche venefiche dell’invidia, era un pungolo a questi sentimenti. In questo periodo il nome e le imprese di un mio compatriota riempivano il mondo di ammirazione. I resoconti di ciò che aveva fatto, le congetture sulle sue azioni future erano gli immancabili argomenti di conversazione del momento. Non ero tanto irritato per me, quanto perché avevo la sensazione che le lodi tributate a questo idolo fossero foglie strappate agli allori destinati ad Adrian. Ma è tempo ch’io inizi a raccontare qualcosa di questo beniamino della fama, il favorito di quel mondo che ama solo eventi mirabili.

  Lord Raymond era l’unico discendente di una famiglia nobile ma ridotta alla povertà. Fin dalla prima gioventù si compiaceva del proprio nobile lignaggio e rimpiangeva amaramente la mancanza di ricchezze. Il suo primo desiderio era arricchirsi, e i mezzi per ottenere lo scopo erano per lui considerazioni secondarie. Altezzoso, e tuttavia pronto a vibrare per ogni dimostrazione di rispetto; ambizioso, ma troppo orgoglioso per mostrare la propria ambizione; desideroso di conquistare onori, e tuttavia appassionato seguace del piacere. Fece il suo ingresso in società e fu accolto sulla soglia da qualche offesa, reale o immaginaria; da qualche rifiuto, laddove meno se lo aspettava; da qualche delusione dura da sopportare per il suo orgoglio. Fremette per un’ingiuria che non poté vendicare e abbandonò l’Inghilterra giurando di non tornarvi, fino a che non fosse giunto il momento felice in cui la patria avrebbe riconosciuto il potere di colui che ora disprezzava.

  Divenne un avventuriero nelle guerre greche. La sua temerarietà e l’ingegno notevole richiamarono su di lui l’attenzione di tutti. Divenne l’eroe prediletto di questo popolo in rivolta. Soltanto la sua origine straniera – egli rifiutò sempre di rinunciare alla fedeltà vero il suo paese natale – gli impedì di ricoprire le maggiori cariche dello Stato. Anche se altri potevano collocarsi più in alto in base al titolo e alla formalità cerimoniale, Lord Raymond si trovava tuttavia in una posizione al di sopra e al di là di tutto questo. Egli guidava le armate greche alla vittoria; i loro trionfi erano tutti suoi trionfi. Quando compariva, intere città si riversavano in strada per incontrarlo; sulle melodie nazionali vennero adattate nuove canzoni che inneggiavano alla sua gloria, al suo valore e alla sua generosità.

  Tra i turchi e i greci fu stabilita una tregua. Proprio allora Lord Raymond, per un caso imprevisto, entrò in possesso di un’immensa fortuna in Inghilterra, e tornò, coronato di gloria, per ricevere quegli onori prima negati alle sue aspirazioni. Il suo cuore orgoglioso si ribellava a questo cambiamento. In cosa il disprezzato Raymond non era lo stesso? Se questo mutamento era causato dalla conquista del potere sotto forma di ricchezza, quel potere lo avrebbero sentito come un giogo di ferro. Il potere, dunque, fu la meta cui tesero tutti i suoi sforzi, l’arricchimento il bersaglio al quale sempre mirava. Con scoperta ambizione o impenetrabile intrigo, il suo fine era lo stesso: ottenere nel suo paese la posizione più importante.

  Questo racconto mi riempì di curiosità. Gli eventi che si susseguirono al suo ritorno in Inghilterra mi procurarono sensazioni ancor più vive. Tra gli altri suoi vantaggi, Lord Raymond era estremamente bello, tutti lo ammiravano ed era l’idolo delle donne. Era affabile, le sue parole erano dolci come miele, un esperto nell’arte della seduzione. Cosa non poteva ottenere quest’uomo nell’indaffarato mondo inglese? Mutamenti seguirono a mutamenti; non mi giunse l’intera storia, perché Adrian aveva smesso di scrivere, e Perdita era un corrispondente laconico. Girava voce che Adrian fosse divenuto – come scrivere la parola fatale? – pazzo, e che Lord Raymond fosse il favorito dell’ex regina, destinato a essere il futuro consorte della figlia. Anzi, di più, si diceva che questo aspirante nobile facesse rivivere il diritto della Casa di Windsor alla corona e che, qualora la malattia di Adrian si fosse rivelata incurabile e avesse potuto sposare sua sorella, la fronte dell’ambizioso Raymond poteva cingersi del magico cerchio della regalità.

  Tale storia dava fiato alle trombe delle molte voci che già circolavano, rendendo intollerabile una mia ulteriore permanenza a Vienna, lontano dall’amico della mia gioventù. Ora devo adempiere alla mia promessa; ora devo schierarmi al suo fianco, farmi suo alleato e sostenitore fino alla morte. Addio ai raffinati piaceri di corte, agli intrighi politici, al labirinto di passioni e follie! Salve a te, Inghilterra! Inghilterra, terra natale, accogli il tuo figlio! Tu sei la scena di tutte le mie speranze, il maestoso teatro dove si recita l’unico dramma che può avvincermi, anima e corpo, nel suo svolgersi. Una voce cui era assolutamente impossibile resistere, una forza onnipotente mi trascinarono là. Dopo un’assenza di due anni approdai a riva, non osando fare domande, timoroso di qualsiasi osservazione. La mia prima visita sarebbe stata a mia sorella, che abitava in una piccola dimora, un dono di Adrian, ai confini della foresta di Windsor. Da lei avrei appreso la verità sul nostro protettore; avrei ascoltato il motivo per cui si era sottratta alla protezione della principessa Evadne, e sarei stato informato sull’influenza che questo eccelso e trionfante Raymond esercitava sul destino del mio amico.

  Non ero mai stato prima d’allora nelle vicinanze di Windsor; la fertilità e la bellezza della campagna circostante mi colpirono, suscitando in me un’ammirazione crescente mano a mano che mi avvicinavo all’antico bosco. Le rovine delle querce maestose che nel corso dei secoli erano cresciute, fiorite e decadute segnavano i limiti un tempo raggiunti dalla foresta; gli steccati distrutti e il sottobosco abbandonato dimostravano che gli alberi più giovani, nati all’inizio del diciannovesimo secolo e ora nel pieno della maturità, non erano più stati piantati in questa parte. La modesta dimora di Perdita era situata ai margini della parte più antica; davanti si stendeva la foresta di Bishopgate Heath, che verso oriente sembrava sconfinata, mentre a occidente si univa a Chapel Wood e al boschetto di Virginia Water. Sul dietro, la casetta era ombreggiata dai venerabili padri della foresta, sotto i quali venivano a pascolare i cervi; gli alberi secolari, per la maggior parte ormai vuoti e decadenti, formavano grovigli fantastici in forte contrasto con la bellezza regolare delle piante più giovani, che, discendenza di un’epoca più recente, si ergevano dritte, pronte ad avanzare impavide nel tempo a venire, mentre gli altri, stremati, disseccati e spezzati, si avvinghiavano l’uno all’altro, e i loro deboli rami sospiravano quando il vento li investiva come un equipaggio battuto dalle intemperie.

  Una leggera cancellata circondava il giardino della casa che, col suo tetto basso, sembrava sottomettersi alla maestà della natura e farsi piccola tra i venerabili resti dei tempi dimenticati. I fiori, figli della primavera, adornavano il giardino e le finestre a battenti; mischiata alla semplicità, c’era un’aria di eleganza che rivelava il gusto gentile della sua ospite. Col cuore che batteva entrai nel recinto; non appena fui davanti all’ingresso, udii la sua voce, che era sempre stata melodiosa, e che mi assicurò, ancor prima di vederla, che stava bene.

  Ancora un momento e Perdita apparve; mi stava di fronte nel fresco rigoglio della sua femminilità giovane e fiorente, diversa e tuttavia uguale alla ragazza di montagna che avevo lasciato. Gli occhi non potevano essere più profondi di quelli dell’infanzia, né il volto più eloquente, ma l’espressione era cambiata e migliorata; l’intelligenza abitava la sua fronte; quando sorrideva, il viso era abbellito dalla più dolce sensibilità, e la voce bassa e modulata sembrava accordata dall’amore. La sua figura era modellata secondo le proporzioni più femminili; non era alta, ma la vita di montagna aveva dato una libertà tale ai suoi movimenti che l’andatura leggera rendeva appena percebile il suo passo quando, lieve e agile, attraversò l’ingresso per venirmi incontro. Quando ci eravamo lasciati, l’avevo stretta al petto con un calore che non conosceva pudore; ci rincontrammo, e nacquero dei nuovi sentimenti: quando ci guardammo l’un l’altro, l’infanzia sparì, quasi fossimo attori maturi su questa mutevole scena. Ma la pausa durò solo un attimo; la marea dei ricordi e il sentimento naturale sinora frenati fluirono nuovamente nei nostri cuori come un fiume in piena; con la più tenera emozione ci trovammo, in un breve attimo, serrati l’una nelle braccia dell’altro.

  Passato questo accesso di passione, con la mente più calma ci sedemmo insieme parlando del passato e del presente. Accennai alla freddezza delle sue lettere; ma i pochi minuti che avevamo trascorso insieme bastarono a spiegarne l’origine. Erano nati in lei nuovi sentimenti, ai quali era incapace di dare espressione scrivendo a colui che aveva conosciuto soltanto nell’infanzia. Ma ora che ci eravamo incontrati, la nostra intimità si rinnovò come se nulla fosse intervenuto a frenarla. Le raccontai minutamente gli avvenimenti del mio soggiorno all’estero, e poi l’interrogai sui mutamenti che si erano verificati in patria, le cause dell’assenza di Adrian, e della sua vita ritirata.

  Le lacrime che offuscarono gli occhi di Perdita quando pronunciai il nome del nostro amico e il suo colorito più acceso sembravano confermare la verità delle voci che mi avevano raggiunto. Il loro contenuto era tuttavia per me troppo terribile per dar credito immediato al mio sospetto. Regnava dunque l’anarchia nel sublime universo dei pensieri di Adrian, la pazzia disperdeva quelle legioni ben equipaggiate, egli non era più il signore della sua anima? Diletto amico, questo mondo malvagio non offriva clima adatto al tuo animo gentile; tu ne consegnasti il governo alla falsa umanità, che lo spogliò delle sue foglie prima dell’inverno e abbandonò nuda la sua tremante esistenza al soccorso malvagio dei venti più tempestosi. Hanno forse perso quegli occhi gentili, quegli «specchi dell’anima»,63 il loro significato, o rivelano soltanto nel loro balenio la terribile storia delle sue aberrazioni? E quella voce, non «profonde più la sua musica eccellente»?64 Orribile, cento volte orribile! Mi stendo un velo sugli occhi nel terrore del cambiamento, mentre le lacrime sgorganti testimoniano la mia partecipazione a questa inimmaginabile rovina.

  Accogliendo la mia richiesta, Perdita mi fornì un resoconto dettagliato delle tristi circostanze che condussero a questo evento.

  L’animo leale e fiducioso di Adrian, dotato com’era di ogni grazia naturale, provvisto di straordinarie facoltà intellettive, e immune anche solo dall’ombra di un difetto (a meno che la sua intrepida autonomia di pensiero non dovesse essere interpretata come tale), era consacrato, quasi come una vittima sacrificale, al suo amore per Evadne. Alla custodia di lei egli affidò i tesori della sua anima, le sue aspirazioni alla perfezione e i progetti per il miglioramento dell’umanità. Quando cominciò a sorgere in lui l’età virile, i suoi piani e le sue teorie, lungi dall’essere modificate per motivi personali o di prudenza, acquistarono nuovo vigore grazie alle capacità che sentiva nascergli dentro; e il suo amore per Evadne si radicò profondamente, poiché ogni giorno era sempre più certo che il sentiero da lui seguito era pieno di difficoltà, e che doveva ricercare la propria ricompensa non negli applausi o nella gratitudine dei suoi simili, e ancor meno nel successo dei suoi progetti, ma nell’approvazione del suo stesso cuore, nell’amore e nella comprensione di colei che doveva alleviargli ogni fatica e compensare ogni sacrificio.

  In solitudine, e durante molti vagabondaggi lontano dai ritrovi degli uomini, maturò le sue opinioni per la riforma del governo inglese e per il miglioramento del popolo. Sarebbe stato un bene se avesse nascosto i suoi sentimenti fino al momento in cui avesse ottenuto quel potere che doveva assicurargli la loro effettiva attuazione. Ma egli era schietto di cuore; così intrepido e irrequieto non poteva sopportare l’attesa degli anni che dovevano passare. Non solo rifiutò seccamente di accondiscendere ai piani della madre, ma divulgò la sua intenzione di usare la propria influenza per diminuire il potere dell’aristocrazia, per realizzare un maggiore livellamento di privilegi e ricchezze, e per introdurre in Inghilterra un perfetto sistema di governo repubblicano. In principio la madre considerò le sue teorie come i folli vaneggiamenti dell’inesperienza. Ma esse erano organizzate in modo così sistematico, e le argomentazioni così ben sostenute, che sebbene ancora in apparenza incredula, cominciò a temerlo. Cercò di ragionare con lui ma, trovandolo inflessibile, imparò a odiarlo.

  Strano a dirsi, questo sentimento fu contagioso. Il suo entusiasmo per una bontà che non esisteva, il disprezzo per il carattere sacro dell’autorità, il suo ardore e la sua imprudenza, tutto questo era agli antipodi del modo di vita consueto; i potenti del mondo lo temevano; i giovani e gli inesperti non capivano l’elevato rigore delle sue convinzioni morali, e provavano avversione per lui perché era una creatura diversa da loro. Evadne prendeva parte alle sue teorizzazioni solo in modo distaccato. Riteneva ch’egli facesse bene ad affermare la propria volontà, ma avrebbe voluto che tale volontà fosse stata più comprensibile alla moltitudine. Non aveva nulla dello spirito di un martire, e non era incline a condividere la vergogna e la sconfitta di un patriota caduto in disgrazia. Era consapevole della purezza dei suoi moventi, della generosità del suo carattere, del suo sincero e ardente attaccamento a lei, e provava per lui un grande affetto. Adrian ripagava tale spirito di gentilezza con la più appassionata gratitudine, e fece di lei il custode del tesoro di tutte le sue speranze.

  In questo periodo Lord Raymond tornò dalla Grecia. Non potevano esservi due persone più diverse di lui e Adrian. Le incongruenze del suo carattere facevano di Raymond un uomo di mondo. Le sue passioni erano violente, e spesso lo dominavano, così che non era sempre in grado di conformare la sua condotta all’ovvia linea dell’interesse personale, ma in ogni caso la gratificazione di sé era per lui oggetto della massima importanza. Egli considerava la struttura della società solo come una parte del congegno che sosteneva la trama su cui era tracciata la sua vita. La terra gli si stagliava davanti come una strada maestra, costruita per lui, i cieli come un baldacchino, innalzato per lui.

  Adrian sentiva di far parte di un grande insieme. Non solo riconosceva la sua affinità con il genere umano, ma tutta la natura gli era simile: le montagne e il cielo erano suoi amici, i venti celesti e i prodotti della terra suoi compagni di gioco, mentre lui stesso, non più che il fulcro di questo specchio maestoso, sentiva la sua vita mescolarsi all’universo dell’esistenza. La sua anima era tutta partecipazione, ed era dedita all’adorazione della bellezza e della perfezione. Adrian e Raymond vennero ora in contatto, e tra di loro nacque uno spirito di avversione. Adrian disdegnava le ristrette vedute del politico, e Raymond considerava con sommo disprezzo le visioni ben intenzionate del filantropo.

  Con l’arrivo di Raymond prese corpo la tempesta che con un unico colpo crudele devastò i giardini di delizia e i sentieri riparati che Adrian immaginava di essersi garantito come rifugio da sconfitte e ingiurie. Raymond, il liberatore della Grecia, il bel soldato, il cui aspetto recava traccia di tutto quello che era peculiare della sua regione natale, Evadne lo teneva nel cuore come sommamente caro: Raymond era dunque amato da Evadne. Sopraffatta dalle sue nuove sensazioni, ella non si soffermò ad analizzarle, o a disciplinare la sua condotta con un sentimento diverso da quello tirannico che improvvisamente usurpò l’impero del suo cuore. Cedette alla sua influenza, e la conseguenza fin troppo naturale per un animo cui non si addicevano le emozioni delicate, fu che le attenzioni di Adrian le divennero sgradite. Diventò capricciosa; il comportamento gentile di un tempo si trasformò in scontrosità e indifferenza. Quando intuiva la supplica appassionata o patetica del suo volto espressivo, allora si inteneriva, e per un po’ riprendeva la sua antica dolcezza. Ma queste oscillazioni scossero fin nel profondo l’anima sensibile del giovane; non sentiva più di avere il mondo ai suoi piedi perché possedeva l’amore di Evadne; avvertiva in ogni fibra che l’infausta tempesta dell’universo mentale stava per attaccare il suo fragile essere, che tremava in attesa del suo arrivo.

  Perdita, che allora abitava con Evadne, si accorse della tortura che subiva Adrian. Mia sorella lo amava come fosse un caro fratello maggiore, un parente che la guidava, la proteggeva e istruiva, senza l’autoritarismo tirannico che spesso hanno i congiunti. Ne adorava le virtù, e con un misto di disprezzo e indignazione vide che Evadne, per amore di chi la notava appena, accatastava sul suo capo dispiaceri terribili. Nella sua disperazione solitaria Adrian era solito cercare spesso mia sorella, e manifestava con parole velate la sua infelicità, mentre fermezza e agonia si dividevano il trono del suo spirito. Presto, ahimè!, fu pronto a essere conquistato. La collera non entrava a far parte delle sue emozioni. Con chi avrebbe dovuto essere in collera? Non con Raymond, che era inconsapevole dell’infelicità che provocava; non con Evadne, per lei la sua anima piangeva lacrime di sangue… Povera ragazza, confusa, schiava e non tiranno, per la cui sorte futura egli si affliggeva, in preda all’angoscia. Una volta uno scritto di Adrian cadde nelle mani di Perdita; c’erano tracce di lacrime, e certo chiunque avrebbe egualmente potuto versarne:

  «La vita», cominciava così, «non è come la descrivono gli scrittori dei romanzi fantastici; compiere tutti i passi di una danza, e dopo varie piroette arrivare a una conclusione, dopo di che tutti i danzatori possono sedersi e riposare. Finché c’è vita c’è azione e cambiamento. Andiamo avanti, ogni pensiero legato a quello che gli era vicino, ogni atto a un atto precedente. Né la gioia né il dolore muoiono sterili della progenie che, in eterno generata e generante, intreccia la catena della nostra vita:

 

  Un dia llama à otro dia

  Y assi llama, y encadena

  Llanto à llanto, y pena à pena.65

 

  In verità la delusione è la divinità guardiana della vita umana: siede sulla soglia del tempo non ancora nato e dispone in ordine gli eventi via via che si presentano. Un tempo il cuore mi si adagiava lieve in petto; tutta la bellezza del mondo era doppiamente meravigliosa, irradiata dalla luce solare diffusa dalla mia stessa anima. Oh, perché l’amore e la rovina sono in eterno congiunti in questo nostro sogno mortale? E così, quando facciamo del nostro cuore un rifugio per quella bestia apparentemente gentile, la sua compagna vi entra con lei, e distrugge impietosamente ciò che avrebbe potuto essere una dimora e un rifugio».66

  A poco a poco la sua salute venne scossa dall’infelicità, poi anche l’intelletto cedette alla stessa tirannia. Le sue maniere sfuggivano ormai al suo controllo: talvolta era feroce, talvolta assorto in una muta malinconia. Improvvisamente Evadne lasciò Londra per Parigi; egli la seguì, e la raggiunse quando la nave stava per salpare; nessuno seppe ciò che accadde tra loro, ma da allora Perdita non lo aveva più visto; egli viveva in reclusione, nessuno sapeva dove, assistito da persone scelte dalla madre per tale compito.

  CAPITOLO IV

  Il giorno seguente Lord Raymond, mentre si stava recando al castello di Windsor, passò a casa di Perdita. Il colorito più acceso e gli occhi scintillanti di mia sorella mi svelarono in parte il suo segreto. Egli aveva un perfetto dominio di se stesso, si rivolse a noi con cortesia, sembrò subito prender parte al nostro stato d’animo ed essere in sintonia con noi. Ne esaminai la fisionomia, che mutava mentre parlava, e tuttavia era bella in ogni cambiamento. L’espressione consueta dei suoi occhi era dolce, sebbene talora potesse addirittura farli brillare di ferocia, la carnagione era pallida, e ogni tratto esprimeva forte caparbietà, il suo sorriso era gradevole, sebbene il disprezzo gli increspasse troppo spesso le labbra… labbra che agli occhi femminili costituivano il vero trono della bellezza e dell’amore. La voce, solitamente gentile, faceva spesso trasalire per un’improvvisa nota discordante, che rivelava come il tono basso abituale fosse più frutto di studio che opera di natura. Così carico di contraddizioni, inflessibile eppure altezzoso, gentile eppure feroce, tenero e insieme noncurante, in virtù di qualche strana abilità trovava facile via all’ammirazione e all’amore delle donne, adulandole o tiranneggiandole a seconda dell’umore, ma, in ogni mutamento, un despota.

  In quel momento Raymond desiderava evidentemente mostrarsi amabile. Ingegno, ilarità e osservazioni profonde si mescolavano nel suo discorso, rendendo ogni frase che pronunciava quasi un lampo di luce. Presto conquistò la mia avversione latente; mi sforzavo di guardare lui e Perdita e di tenere a mente qualunque cosa avessi udito contro di lui. Ma sembrava così pieno d’ingegno e così affascinante che dimenticai tutto tranne il piacere che mi procurava la sua compagnia. Con l’idea di introdurmi sulla scena della politica e della società inglese, di cui dovevo presto diventare parte, mi raccontò un gran numero di aneddoti e mi descrisse molti personaggi; il suo eloquio ricco e forbito scorreva fluente, inondandomi piacevolmente tutti i sensi. Non fosse stato che per una cosa soltanto, avrebbe trion-

  fato totalmente. Alluse ad Adrian, e ne parlò con quella riserva con la quale i saggi di questo mondo trattano sempre gli idealisti. Si accorse della nube che si stava addensando, e cercò di disperderla; ma la forza dei miei sentimenti non mi avrebbe permesso di sorvolare così superficialmente su questo argomento sacro. Dissi dunque con enfasi: «Permettetemi di sottolineare che io sono devotamente legato al conte di Windsor: egli è il mio migliore amico e il mio benefattore. Rispetto profondamente la sua bontà, concordo con le sue opinioni e compiango amaramente la sua attuale, spero momentanea, malattia. Quella malattia, per la sua peculiarità, mi rende oltremodo doloroso sentirlo nominare se non in termini di rispetto e affetto».

  Raymond replicò, ma non c’era nulla di conciliante nella sua risposta. Capii che in cuor suo disprezzava chi si dedicava a idoli diversi da quelli mondani. «Ogni uomo», disse, «ha un sogno: amore, onore e piacere; voi sognate l’amicizia, e vi consacrate a un pazzo. Bene, se questa è la vostra vocazione, senza dubbio siete nel giusto se la seguite».

  Un pensiero sembrava assillarlo, e lo spasimo di dolore che per un attimo gli contrasse il volto trattenne la mia indignazione. «Felici sono i sognatori», proseguì, «che non vengano risvegliati! Come vorrei riuscire a sognare! Ma “il giorno vasto e abbagliante”67 è l’elemento in cui vivo; l’accecante bagliore della realtà capovolge per me la scena. Persino il fantasma dell’amicizia se n’è andato, e l’amore…». Si interruppe, e non riuscii a indovinare se le labbra gli si increspavano per il disprezzo della passione o del fatto di esserne schiavo.

  Questo racconto può essere preso come un esempio del mio rapporto con Lord Raymond. Diventammo intimi, e ogni giorno avevo l’occasione di ammirare sempre più le sue doti potenti e versatili che, insieme al suo eloquio, gradevole e arguto, e alle sue ricchezze diventate immense, ne facevano l’uomo temuto, amato e odiato più di qualunque altro in Inghilterra.

  La mia discendenza, che suscitava interesse, se non rispetto, il mio precedente legame con Adrian, il favore dell’ambasciatore del quale ero stato segretario, e ora la mia familiarità con Lord Raymond mi procurarono facile accesso ai salotti e ai circoli politici dell’Inghilterra. Ai miei occhi inesperti parve, in un primo momento, che fossimo alla vigilia di una guerra civile: ogni partito era violento, astioso e ostinato. Il parlamento era diviso in tre fazioni: gli aristocratici, i democratici e i monarchici. Dopo che Adrian aveva dichiarato la propria predilezione per la forma di governo repubblicana, il partito monarchico era quasi scomparso, senza una guida o nessuno che organizzasse i suoi sostenitori; ma quando Lord Raymond si fece avanti proponendosi come loro capo, rifiorì con forza raddoppiata. Alcuni erano monarchici per pregiudizio e per antica consuetudine; molti, inclini alla moderazione, temevano allo stesso modo l’imprevedibile tirannia del partito popolare e il dispotismo inflessibile degli aristocratici. Più di un terzo dei membri si schierò con Raymond, e il loro numero era costantemente in aumento. Gli aristocratici fondavano le loro speranze sulla loro preponderante ricchezza e influenza; i riformatori sulla forza della nazione stessa; i dibattiti erano violenti, e più violenti ancora i discorsi tenuti nei crocchi dei politici quando si riunivano per predisporre le loro misure. Si scambiavano epiteti vergognosi, si minacciava persino di resistere fino alla morte; assembramenti di popolo turbavano il quieto ordine del paese; se non in una guerra, come poteva finire tutto ciò? Proprio quando le fiamme distruttrici erano pronte a irrompere le vidi indietreggiare; placate dalla mancanza dell’esercito, dall’avversione nutrita da tutti per ogni tipo di violenza, eccetto quella verbale, e dalla gentilezza cordiale, se non addirittura l’amicizia, che i capi delle opposte fazioni mostravano l’un l’altro quando si incontravano in privato. Per migliaia di motivi fui spinto a seguire con attenzione incessante il corso degli eventi, e a considerare ogni rivolgimento con profonda preoccupazione.

  Non potei non accorgermi che Perdita amava Lord Raymond; e mi parve che anche lui considerasse la bella figlia di Verney con ammirazione e tenerezza. Tuttavia sapevo che stava sollecitando la realizzazione del suo matrimonio con la presunta erede della contessa di Windsor, e riponeva grandi aspettative sui vantaggi che da ciò gli sarebbero derivati. Tutti gli ex amici della regina erano suoi amici e non passava settimana in cui non si tenessero consultazioni in sua presenza a Windsor.

  Non avevo mai visto la sorella di Adrian. Avevo sentito dire che era graziosa, affabile e affascinante. Perché avrei dovuto vederla? A volte siamo colti dalla sensazione indefinibile che da un evento scaturirà un cambiamento imminente; non sappiamo se in meglio o in peggio; tuttavia lo temiamo, e cerchiamo allora di fuggire quell’evento. Ecco dunque perché evitavo questa damigella dai nobili natali. Per me lei era tutto e niente; il suo stesso nome menzionato da un altro mi faceva trasalire e tremare; le infinite discussioni sulla sua unione con Lord Raymond erano per me una vera agonia. Mi pareva che, ritiratosi Adrian dalla vita attiva, ed essendo questa bella Idris probabilmente una vittima dei progetti ambiziosi della madre, io dovevo farmi avanti per proteggerla da un’influenza indebita, difenderla dall’infelicità e garantirle la libertà di scelta, il diritto di ogni essere umano. E tuttavia come potevo fare tutto ciò? Lei stessa avrebbe rifiutato la mia interferenza. Dato che devo essere per lei oggetto di indifferenza o disprezzo, meglio, molto meglio evitarla e non espormi, di fronte a lei e al mondo sprezzante, al rischio di giocare il folle gioco di un Icaro appassionato e sciocco.

  Un giorno, molti mesi dopo il mio ritorno in Inghilterra, lasciai Londra per andare a trovare mia sorella. La sua compagnia era la mia principale consolazione e delizia, e il mio spirito si risollevava sempre di fronte alla prospettiva di vederla. I suoi discorsi erano pieni di giudizio e di saggezza; nel suo piacevole rifugio, fragrante del profumo dei fiori più dolci, ornato di magnifici calchi, vasi antichi, e copie dei quadri più raffinati di Raffaello, Correggio e Claude,68 che lei stessa dipingeva, immaginavo di essere in un nascondiglio di fate incontaminato e inaccessibile alle dispute assordanti dei politici e alle frivole occupazioni di moda. Questa volta mia sorella non era sola; non potevo sbagliare nel riconoscere la sua compagna: era Idris, l’oggetto che non avevo ancora mai visto della mia folle idolatria.

  Con quali termini di stupore e piacere, con quali espressioni scelte e dolce fluire di parole, riuscirò a presentare la donna più graziosa, più saggia, la migliore che vi sia? Come esprimere in un misero insieme di vocaboli l’alone di gloria che la circondava, le mille grazie che, infaticabili, erano al suo servizio? La prima cosa che colpiva osservando quel volto affascinante era la sua assoluta bontà e franchezza; il candore dimorava nella fronte, la semplicità negli occhi, una benevolenza celeste nel sorriso. La sua figura snella e alta si inchinava graziosamente, come un pioppo all’occidente ventoso, e il passo, simile a quello di una dea, era come di un angelo alato, appena sceso dall’alto dei piani celesti; un leggero colorito tingeva lievemente la trasparenza perlacea della carnagione; la voce somigliava al suono basso e pacato di un flauto. E più facile forse descriverla per contrasto. Ho narrato minuziosamente le perfezioni di mia sorella, e tuttavia era completamente diversa da Idris. Perdita, anche quando amava, era timida e riservata; Idris era schietta e fiduciosa. L’una si ritirava nella solitudine, così da potersi proteggere dalle delusioni e dalle offese; l’altra procedeva in pieno giorno, fiduciosa che nessuno le avrebbe fatto del male. Words- worth ha paragonato una donna amata a due begli elementi della natura; ma i suoi versi mi parvero sempre come un contrasto più che una similitudine:

 

  Una violetta vicino a una pietra muscosa Quasi nascosta alla vista,

  Bella come una stella quando solo una Ne brilla in cielo.69

 

  La dolce Perdita era la violetta, che tremava anche solo nell’affidarsi all’aria ed evitava di essere osservata; tuttavia veniva tradita dai suoi pregi, e ripagava con le sue mille grazie la fatica di coloro che la cercavano nel suo sentiero solitario. Idris era come la stella, posta nell’unico solitario splendore della sera fragrante, pronta a distribuire luce e gioia al mondo suo suddito, protetta da qualsiasi contaminazione dalla distanza incommensurabile che la separava da tutto quanto non era come lei affine al cielo.

  Trovai questa visione di bellezza nel rifugio di Perdita, in seria conversazione con la sua ospite. Quando mia sorella mi vide, si alzò e, presomi per mano, disse: «Eccolo, proprio secondo i nostri desideri; questo è Lionel, mio fratello».

  Anche Idris si alzò; chinò su di me i suoi occhi di un blu celestiale e con grazia particolare disse: «Non c’è quasi bisogno di presentazione; abbiamo un ritratto, molto stimato da mio padre, che dice immediatamente quale sia il vostro nome. Verney, so che vorrete riconoscere questo legame e, come amico di mio fratello, sento di potermi fidare di voi».

  Poi, con le palpebre inumidite da una lacrima e con voce tremante, proseguì: «Cari amici, non pensiate che sia strano che io ora, venendovi a trovare per la prima volta, chieda la vostra assistenza, e vi confidi i miei desideri e le mie paure. Solo con voi oso parlare; ho sentito spettatori imparziali che vi lodavano; voi siete amici di mio fratello, perciò dovete essere anche miei amici. Che posso dire? Se vi rifiutate di aiutarmi, sono veramente perduta!». Alzò lo sguardo, mentre lo stupore teneva muti i suoi ascoltatori; poi, come trasportata dai suoi sentimenti, esclamò: «Mio fratello! amato, infelice Adrian! Come parlare delle tue sventure? Avrete senz’altro entrambi sentito la storia corrente; forse anche voi credete alla menzogna, ma lui non è pazzo! Se anche lo affermasse un angelo sceso dai piedi del trono di Dio, mai, mai lo crederei. E stato denigrato, tradito, imprigionato… Salvatelo! Verney, voi dovete farlo; scovatelo in qualsiasi parte dell’isola egli sia rinchiuso; trovatelo, salvatelo dai suoi persecutori, restituitelo a se stesso, a me. Su tutta la vasta terra io non ho altri da amare se non lui!».

  Il suo fervido appello, espresso in modo così dolce e appassionato, mi riempì di stupore e compassione; e quando aggiunse, con voce e sguardo vibranti: «Accettate di impegnarvi in questa impresa?», giurai, con vigore e sincerità, di consacrare me stesso, nella vita e nella morte, alla salvezza e al benessere di Adrian. Parlammo allora del piano che avrei seguito, e discutemmo dei mezzi possibili per scoprire la sua dimora. Mentre eravamo intenti in questi gravi discorsi, Lord Raymond entrò senza preavviso: vidi Perdita tremare e farsi mortalmente pallida, mentre le guance di Idris si avvampavano del rossore più vivo. Doveva essere rimasto stupito, o forse seccato dalla nostra riunione; ma non lasciò trasparire niente di tutto questo; salutò le mie compagne e si rivolse a me con un cenno cordiale. Idris apparve indecisa per un attimo, e poi con estrema dolcezza disse: «Lord Raymond, ho fede nella vostra bontà e nel vostro onore».

  Con un sorriso altezzoso, egli inchinò il capo e rispose con enfasi: «Davvero avete fede in me, Lady Idris?».

  La fanciulla si sforzò di leggere il suo pensiero, e poi rispose con dignità: «Come volete. E certamente meglio non compromettersi con alcuna dissimulazione».

  «Perdonatemi», egli replicò, «se vi ho offeso. Che voi vi fidiate di me o no, fate assegnamento sul fatto che io farò tutto ciò che è in mio potere per esaudire i vostri desideri, qualunque essi possano essere».

  Idris ringraziò con un sorriso e si alzò per prendere congedo. Lord Raymond chiese il permesso di accompagnarla al castello di Windsor, cosa alla quale Idris acconsentì, e abbandonarono insieme la casetta. Io e mia sorella restammo davvero come due sciocchi che immaginino di aver ottenuto un tesoro dorato, fino a che la luce del giorno non rivela loro che era di piombo; due farfalle stupide e sfortunate che avevano giocato nei raggi del sole ed erano state prese nella tela del ragno. Mi appoggiai alla finestra, e guardai quelle due creature gloriose fino a che non scomparvero nelle radure della foresta. Poi mi voltai. Perdita non si era mossa; stava seduta, gli occhi fissi a terra, le guance pallide, le labbra smorte, immobile e rigida, ogni lineamento segnato dalla pena. Quasi spaventato, avrei voluto prenderle la mano; ma ella rabbrividendo la ritrasse, e lottò per riprendere il controllo di sé. La supplicai di parlarmi: «Non ora», rispose, «e neppure tu, mio caro Lionel, devi parlarmi; non puoi dire niente, perché non sai niente. Ti vedrò domani; nel frattempo, addio!». Si alzò e attraversò la stanza per uscire; poi si fermò sulla porta, appoggiandosi a essa come se i suoi pensieri vorticosi e intensi le avessero sottratto le forze necessarie a sostenersi, e disse: «Probabilmente Lord Raymond ritornerà. Digli, ti prego, che deve scusarmi per oggi, perché non mi sento bene. L’incontrerò domani, se lo desidera, e anche te. Sarebbe meglio che tornassi a Londra con lui; là puoi fare le ricerche che abbiamo concordato riguardo al conte di Windsor, e tornare a trovarmi domani, prima di proseguire per il tuo viaggio… Fino ad allora, addio!».

  Parlò in modo esitante e finì con un profondo singhiozzo. Diedi il mio consenso alla sua richiesta e lei mi lasciò. Mi sentivo come se dall’ordine sistematico del mondo fossi sprofondato nel caos, oscuro, contraddittorio, inintelligibile. Che Raymond sposasse Idris era più che mai intollerabile; tuttavia la mia passione, sebbene un gigante fin dalla nascita, era troppo strana, tempestosa e inattuabile, perché non mi accorgessi al tempo stesso della disperazione di Perdita. Come dovevo agire? Lei non si era confidata con me; non potevo chiedere una spiegazione a Raymond senza il rischio di tradire quello che forse era il segreto che ella custodiva più gelosamente. Avrei ottenuto da lei la verità il giorno seguente… nel frattempo… Ma, mentre ero assorto in riflessioni sempre più numerose, Lord Raymond ritornò. Chiese di mia sorella e io riferii il suo messaggio. Dopo una breve riflessione, mi chiese se non stessi per tornare a Londra e se non lo volessi accompagnare: acconsentii. Era molto pensieroso, e rimase in silenzio per gran parte della cavalcata; alla fine disse: «Vi chiedo scusa per essermi così appartato; la verità è che stasera viene discussa la mozione di Ryland,70 e io sto riflettendo sulla mia replica».

  Ryland era il capo del partito popolare, un uomo ostinato, e a suo modo eloquente; aveva ottenuto il permesso di presentare un disegno di legge che trasformava in tradimento il tentativo di cambiare lo stato attuale del governo inglese e le leggi in vigore nella repubblica. Questo attacco era diretto contro Raymond e i suoi complotti per la restaurazione della monarchia.

  Raymond mi chiese se ero disposto ad accompagnarlo quella sera in Parlamento. Mi ricordai della mia ricerca di informazioni su Adrian e, sapendo che mi avrebbe occupato molto tempo, mi scusai. «Tutt’altro», disse il mio compagno, «posso liberarvi da ciò che al momento vi è d’impedimento. Voi vi state apprestando a fare ricerche sul conte di Windsor. Io posso rispondere subito a tutte le vostre domande: egli si trova nella residenza del duca di Athol, a Dunkeld. Al primo manifestarsi della sua malattia, viaggiò da un luogo all’altro fino a che, giunto in quel romantico luogo di reclusione si rifiutò di abbandonarlo, e prendemmo accordi con il duca perché potesse continuare a risiedervi».

  Fui ferito dal tono indifferente con cui mi riferiva queste notizie, e risposi con freddezza: «Vi sono debitore per le vostre informazioni, e me ne servirò».

  «Fatelo, Verney», disse lui, «e se resterete della stessa opinione, vi faciliterò il compito. Ma prima siate testimone, vi scongiuro, dei risultati della contesa di questa notte, e del trionfo che sto per ottenere, se così posso chiamarlo, perché temo che la vittoria significhi per me una sconfitta. Cosa posso fare? Le mie speranze più care sembrano essere vicine al compimento. L’ex regina mi concede la mano di Idris; Adrian è del tutto inadatto a succedere alla guida della contea, e quella contea nelle mie mani diventa un regno. Ve lo giuro sul Dio che regna sovrano, è la verità; l’insignificante contea di Windsor non soddisferà più colui che erediterà i diritti che devono appartenere in eterno alla persona che li possiede. La contessa non può assolutamente dimenticare di essere stata una regina, e disdegna l’idea di lasciare un’eredità mutilata ai propri figli; il suo potere e il mio ingegno ricostituiranno il trono, e questa fronte sarà cinta da un diadema regale.

  Ioposso farlo… posso sposare Idris».

  Si interruppe bruscamente, il volto gli si oscurò e, sotto l’influenza delle passioni interiori, la sua espressione cambiò più e più volte. Chiesi: «Lady Idris vi ama?»

  «Che domanda», rispose ridendo. «Lo farà, naturalmente, così come io l’amerò, quando saremo sposati».

  «Iniziate tardi», dissi io, ironicamente, «il matrimonio viene considerato in genere la tomba, e non la culla dell’amore. Dunque presto l’amerete, ma non l’amate ancora?»

  «Non impartitemi lezioni, Lionel; farò il mio dovere con lei, statene certo. Amore! Devo rendere il mio cuore insensibile contro di esso; scacciarlo dalla sua torre di dominio, barricarlo fuori: la fontana dell’amore deve cessare di zampillare, le sue acque essere prosciugate, e tutti i pensieri appassionati che lo accompagnano morire… e cioè, l’amore che mi domina, non quello che io domino. Idris è una creaturina gentile, graziosa, dolce; è impossibile non provare affetto per lei, e io le voglio sinceramente bene; solo non si può parlare di amore… Amore, il tiranno e il domatore del tiranno; amore, fin qui mio conquistatore, ora mio schiavo; il fuoco divoratore, la bestia indomabile, il serpente dal dente velenoso… no… no… io non avrò niente a che fare con quell’amore. Ditemi, Lionel, acconsentite al mio matrimonio con questa giovane dama?».

  Chinò su di me il suo sguardo penetrante, e il mio cuore, incontrollabile, mi si gonfiò in petto. Risposi con voce calma, ma in realtà quanto lontano dalla calma era il pensiero che si rispecchiava nelle mie tranquille parole! «Mai! Non posso in alcun modo approvare che Lady Idris venga data in sposa a uno che non l’ama».

  «Perché voi stesso l’amate».

  «Vostra Signoria avrebbe potuto risparmiarsi questo sarcasmo; non l’amo, non oso amarla».

  «Lei comunque», proseguì con fare altezzoso, «non vi ama. Non sposerei una sovrana regnante se non fossi certo che il suo cuore fosse libero. Ma, Lionel!, un regno è una parola potente, e dolcemente sonanti sono i termini che compongono lo stile della regalità. Non erano forse re gli uomini più potenti dei tempi antichi? Alessandro era un re; Salomone, il più saggio degli uomini, era un re; Napoleone era un re; Cesare morì nel tentativo di diventarlo, e Cromwell, il puritano e l’uccisore di un re, aspirava alla regalità. Il padre di Adrian cedette lo scettro già spezzato dell’Inghilterra; ma io solleverò la pianta caduta, riunirò il suo corpo smembrato, e la innalzerò al di sopra di tutti i fiori del campo.

  «Non dovete stupirvi del fatto che vi riveli spontaneamente la dimora di Adrian. Non crediate ch’io sia malvagio o sciocco al punto da fondare la progettata sovranità su di una frode, e così facile da scoprire come la verità o la menzogna della follia del conte. Torno prorio ora dalla sua dimora. Prima di prendere una decisione sul mio matrimonio con Idris, decisi di vederlo ancora una volta, di persona, per valutare le sue possibilità di guarigione: e irrecuperabilmente pazzo».

  Feci uno sforzo per cercare di prendere fiato.

  «Non starò a raccontarvi i dettagli», proseguì Raymond, «i tristi particolari. Lo vedrete, e giudicherete da solo; sebbene io tema che questa visita, inutile per lui, sarà intollerabilmente penosa per voi. Da allora la mia anima è rimasta gravata da un peso enorme. Eccelso e gentile com’è anche nell’eclissi della ragione, io non lo venero come fate voi, ma darei tutte le mie speranze di una corona e la mia mano destra per giunta, pur di vederlo tornare in sé».

  La sua voce esprimeva la più profonda compassione: «Creatura tra tutte incomprensibile», esclamai, «dove condurranno le vostre azioni, in tutto questo labirinto di propositi in cui sembrate perduto?»

  «Dove in verità? A una corona, una corona d’oro, incastonata di gemme, spero; e tuttavia non oso crederlo e anche se sogno una corona e veglio per ottenerne una, di tanto in tanto un diavolo intrigante mi sussurra che quello ch’io cerco è un copricapo da buffone, e che, se fossi saggio, lo calpesterei, e prenderei in sua vece ciò che vale tutte le corone dell’Est e le presidenze dell’Ovest».

  «E cos’è questo?»

  «Se faccio la mia scelta, allora lo saprete; al momento non oso parlarne, e nemmeno pensarvi».

  Di nuovo si fece silenzioso, e dopo una pausa si volse ridendo verso di me. Quando il disprezzo non ispirava il suo divertimento, quando una gaiezza genuina dipingeva i suoi lineamenti con un’espressione gioiosa, la sua bellezza diventava preminente, divina. «Verney», disse, «il mio primo atto ufficiale quando diventerò re d’Inghilterra sarà di unirmi ai greci, conquistare Costantinopoli e sottomettere tutta l’Asia. Ho intenzione di essere un guerriero, un conquistatore; il nome di Napoleone dovrà sottomettersi al mio; e gli entusiasti, invece di visitare la sua tomba rocciosa, ed esaltare i meriti dei caduti, dovranno adorare la mia maestà e magnificare le mie gesta illustri».

  Ascoltavo Raymond con profondo interesse. E non potevo essere che tutt’orecchi di fronte a uno che sembrava governare, nella sua avida immaginazione, la terra intera, e che provava sgomento solo quando tentava di dominare se stesso. Dunque dalla sua parola e dalla sua volontà dipendeva la mia stessa felicità, il destino di tutto quanto mi era caro. Mi sforzai di indovinare il significato nascosto delle sue parole. Non faceva cenno al nome di Perdita; e tuttavia non potevo aver dubbi che era l’amore per lei che provocava quei tentennamenti di propositi da lui dimostrati. E chi era tanto degno di amore quanto una creatura dai sentimenti così elevati come mia sorella? Chi meritava la mano di questo re, da solo elevatosi di rango, più di colei che aveva lo sguardo di una regina di intere nazioni? E che lo amava come lui amava lei, nonostante la delusione soffocasse in lei la passione, e che contro di questa combattesse duramente l’ambizione di lui?

  La sera andammo insieme in Parlamento. Raymond, pur sapendo che i suoi progetti sarebbero stati discussi e decisi durante l’atteso dibattito, era allegro e spensierato. Un brusio, come di mille sciami di api ronzanti, ci stordì appena entrammo nel caffè, dove si radunavano in crocchi politici dalla fronte inquieta e dalla voce sonora e profonda. Gli uomini del partito aristocratico, i più ricchi e influenti d’Inghilterra, sembravano meno agitati degli altri, perché il problema doveva essere discusso senza il loro intervento. Ryland e i suoi sostenitori si trovavano vicino al camino. Ryland era uomo di oscuri natali e immense ricchezze, ereditate dal padre, un manifatturiero. Era stato testimone, da giovane, dell’abdicazione del re e della fusione delle due Camere dei Lords e dei Comuni; aveva simpatizzato con queste usurpazioni popolari, e si era poi prefisso il compito, nella sua vita, di consolidarle e accrescerle. Da allora, l’influenza dei proprietari terrieri era aumentata. All’inizio Ryland non aveva osservato con dispiacere le macchinazioni di Lord Raymond, che eliminavano molti avversari dei suoi sostenitori. Ma la cosa stava ora andando troppo in là. La parte più povera della nobiltà salutava con piacere il ritorno della sovranità, come un evento che le avrebbe consentito di reimpossessarsi del potere e dei diritti ora perduti. Si risvegliava nelle menti degli uomini lo spirito, quasi scomparso, della regalità; ed essi, schiavi volontari, sudditi autonominatisi tali, erano pronti a chinare il capo sotto questo giogo. Rimanevano ancora alcuni spiriti saldi, virili, veri pilastri dello Stato; ma la parola repubblica era divenuta stantia all’orecchio della gente, e molti (gli eventi avrebbero deciso se si trattava di una maggioranza) si struggevano per gli orpelli e la pompa legati alla dignità regale. Ryland si era sollevato per resistere; solo la sua tolleranza aveva permesso la crescita di questo partito; ma il tempo dell’indulgenza era finito, e con un solo gesto egli avrebbe spazzato via le ragnatele che accecavano i suoi concittadini.

  L’entrata di Raymond nel caffè fu salutata dai suoi amici quasi con un urlo. Gli si raccolsero intorno, si contarono, e riferirono in dettaglio i motivi per cui avrebbero ora potuto contare sull’aggiunta di questo e quest’altro parlamentare, che non aveva ancora reso nota la sua posizione. Sbrigate le incombenze ordinarie della Camera, i capi presero posto nella sala. Il clamore continuò fino a che Ryland si alzò per parlare: allora si potevano udire anche i commenti appena sussurrati. Quando il capo dei democratici si alzò in piedi tutti gli occhi si concentrarono su di lui: la corporatura pesante, la voce sonora e i modi, pur non gentili, comunque imponenti. Volsi lo sguardo dal suo volto segnato da lineamenti marcati, ferrei, a Raymond, il cui volto, velato da un sorriso, non ne tradiva di solito la preoccupazione; tuttavia le labbra tremavano leggermente, e la mano era aggrappata alla panca su cui sedeva, con una presa convulsa che faceva sussultare di continuo i muscoli.

  Ryland iniziò lodando la situazione attuale dell’impero britannico. Richiamò alla loro memoria gli anni passati; le contese meschine che al tempo dei nostri padri condussero quasi alla guerra civile, l’abdicazione dell’ultimo re, e l’istituzione della repubblica. Descrisse questa repubblica e dimostrò come essa desse, a ogni cittadino dello Stato, il privilegio di diventare persona importante, e di assurgere persino a una temporanea sovranità. Mise a confronto lo spirito regio e quello repubblicano: dimostrò come l’uno tendesse a rendere schiave le menti degli uomini, mentre tutte le istituzioni dell’altro servivano a risvegliare anche nel più meschino tra noi qualcosa di grande e buono. Dimostrò come l’Inghilterra fosse divenuta potente, e i suoi abitanti valorosi e saggi, per mezzo della libertà di cui godevano. Mentre parlava, ogni cuore si gonfiò d’orgoglio, e ogni volto arrossì di piacere nel ricordare che ciascuno di loro lì dentro era inglese e sosteneva e contribuiva al felice stato di cose or ora ricordato. Il fervore di Ryland cresceva, gli occhi si illuminavano, la voce assumeva il tono della passione. C’era un uomo, egli proseguì, che desiderava alterare tutto ciò, e riportarci a quei giorni segnati da impotenza e contese, un uomo che avrebbe osato accreditarsi l’onore dovuto a tutti coloro che rivendicavano l’Inghilterra come luogo natale, un uomo che poneva il proprio nome e titolo al di sopra del nome e del titolo del suo paese. Vidi in questo frangente che Raymond cambiò colore mentre gli occhi, distolti dall’oratore, erano volti a terra. Gli ascoltatori si voltavano l’uno verso l’altro; ma nel frattempo la voce dell’oratore riempiva loro le orecchie, il tuono delle sue denunce ne influenzava i sensi. La stessa audacia del linguaggio gli conferiva autorevolezza; tutti sapevano che diceva la verità, una verità nota, ma non riconosciuta. Egli strappò alla realtà la maschera con la quale era stata travestita; e le argomentazioni di Raymond, che prima avanzavano circospette, prese furtivamente in trappola, erano ora come un cervo inseguito, addirittura in scacco, come potevano notare tutti quelli che osservavano l’incontenibile cambiamento del suo volto. Ryland concluse chiedendo formalmente che ogni tentativo di ricostituire il potere regale dovesse essere dichiarato tradimento, e traditore colui che osasse cambiare l’attuale forma di governo. Grida di evviva e rumorose acclamazioni seguirono la fine del suo discorso.

  La sua mozione fu approvata; poi Lord Raymond si alzò. L’espressione affabile, la voce melodiosa, i modi tranquillizzanti: dopo la potente voce d’organo del suo avversario, la sua grazia e la sua amabilità sopraggiunsero come il dolce soffio di un flauto. Egli si alzava, disse, per parlare in favore della mozione dell’onorevole membro, con l’aggiunta di un piccolo emendamento. Era pronto a tornare ai vecchi tempi, e a commemorare le dispute dei nostri padri, e l’abdicazione del monarca. Con nobiltà e grandezza, disse, l’ultimo e illustre sovrano d’Inghilterra si era sacrificato per il bene apparente del suo paese, e si era spogliato di un potere che avrebbe potuto essere mantenuto solo col sangue dei suoi sudditi… Questi sudditi che non si chiamavano più così, questi, suoi amici ed eguali, avevano conferito per sempre, a lui e alla sua famiglia, determinati privilegi e onorificenze in segno di gratitudine. Era stata loro destinata un’ampia tenuta e, tra i pari della Gran Bretagna, detenevano inoltre il rango più elevato. Tuttavia si poteva supporre che non avessero dimenticato il loro antico patrimonio; ed era difficile che il suo erede dovesse lottare come un pretendente qualsiasi, se avesse tentato di riguadagnare quello che, per antico diritto ed eredità, gli apparteneva. Egli non diceva che avrebbe favorito un tale tentativo; ma sosteneva che un tale tentativo sarebbe stato perdonabile; e, se il pretendente non si fosse spinto fino al punto di dichiarare guerra, e di innalzare un vessillo sul regno, la sua colpa doveva essere considerata con occhio indulgente. Nel suo emendamento egli proponeva che nella proposta di legge si facesse un’eccezione a favore di chiunque rivendicasse il potere sovrano spettante di diritto ai conti di Windsor.

  Raymond concluse non senza aver dipinto, con colori vividi e accesi, lo splendore di un regno contrapposto allo spirito commerciale del repubblicanesimo. Sostenne che sotto la monarchia inglese ogni individuo era, allora come ora, in grado di raggiungere il potere e un’elevata posizione sociale, con un’unica eccezione, quella della funzione di primo magistrato; posizione ben più elevata e nobile di quella che potesse offrire una federazione timorosa e incline al baratto. E quanto a quest’unica eccezione, a cosa si riduceva? La natura delle ricchezze e dell’influenza limitava con forza la lista dei candidati a pochi tra i più facoltosi; e c’era seriamente da temere che, davanti a occhi imparziali, il malumore e le contese generate da questa lotta triennale ne avrebbero controbilanciato i vantaggi. Riesco a malapena a ricordare il fluire del suo linguaggio e i graziosi giri di parole, l’arguzia e le piacevoli celie che davano vigore e autorità al suo discorso. I suoi modi, all’inizio timidi, divennero decisi, il suo volto mutevole si illuminò di uno splendore sovrumano e la sua voce, varia come la musica, era, come quella, incantevole.

  Sarebbe inutile ricordare il dibattito che seguì quest’arringa. I rappresentanti di partito tennero i loro discorsi, e rivestirono la questione di luoghi comuni, ne nascosero il semplice significato dietro un velo intessuto di vacue parole. La mozione fu bocciata; Ryland si allontanò colmo di rabbia e disperazione; e Raymond, allegro ed esultante, si ritirò per sognare del suo futuro regno
CAPITOLO V

  Esiste un sentimento come l’amore a prima vista? E se sì, in cosa si differenzia dall’amore che cresce a poco a poco e si fonda su una lunga frequentazione? Forse i suoi effetti non sono così stabili ma, fino a quando durano, sono altrettanto impetuosi e intensi. Privi di gioia, noi camminiamo nei labirinti ciechi della società finché non afferriamo la traccia che, attraverso quel labirinto, ci conduce fino al paradiso. La nostra fioca natura, simile a una torcia spenta, dorme in un vuoto informe fino a che non la raggiunge il fuoco, vita della vita, luce della luna, e gloria del sole. Che importa, se il fuoco viene acceso dall’acciarino e dalla pietra focaia, nutrito con cura fino a che si sviluppa nella fiamma, e trasmesso poi lentamente allo scuro lucignolo, oppure se la forza radiosa della fiamma e del calore si trasforma rapidamente in un potere affine, e accende insieme il falò e la speranza? I miei impulsi vitali vennero scossi fin nella sorgente più intima del mio cuore: dall’alto, dal basso, tutt’intorno, la Memoria mi avvolgeva come un manto. Non ci fu un momento nel tempo a venire in cui mi sentii come nel tempo passato. L’animo di Idris aleggiava nell’aria che respiravo; i suoi occhi erano sempre e per sempre chinati sui miei; il ricordo del suo sorriso accecava il mio timido sguardo, e mi faceva camminare come chi è immerso non nell’eclissi, né nell’oscurità e nel vuoto… bensì in una luce nuova e brillante, troppo insolita e abbagliante per i miei sensi umani. Ogni foglia, ogni minima piccola particella dell’universo recava impresso (come A, è inciso sul giacinto)71 il talismano della mia esistenza… Lei vive! Esiste! Non ebbi tuttavia il tempo di analizzare i miei sentimenti, di ricondurmi all’ordine, di porre un freno alla mia passione indomabile; tutto era una sola idea, un solo sentimento, una sola consapevolezza… Questa passione era la mia vita!

  Ma il dado era tratto: Raymond avrebbe sposato Idris. Le campane del felice matrimonio mi risuonavano nelle orecchie; sentivo le congratulazioni della nazione che seguivano l’unione; il nobile ambizioso si levava con rapido volo d’aquila dall’umile terreno alla supremazia regale… e all’amore di Idris. Eppure, no! Lei non lo amava, aveva chiamato me suo amico, a me aveva sorriso, a me aveva affidato la più cara speranza del suo cuore, il bene di Adrian. Questa riflessione sciolse il mio sangue raggelato, e ancora la marea della vita e dell’amore rifluì in avanti impetuosa, per calare di nuovo appena i miei pensieri irrequieti mutavano.

  Il dibattito si concluse alle tre del mattino. La mia anima era in tumulto; attraversai le strade con passo rapido e smanioso. Ero davvero pazzo quella notte. L’amore, che ho chiamato un gigante, fin dalla sua nascita, lottava con la disperazione! Il mio cuore, campo di battaglia, era ferito dal piede d’acciaio dell’uno, bagnato dalle lacrime dell’altra. Il giorno, per me detestabile, spuntava; mi ritirai nei miei appartamenti, mi gettai su un divano. Dormii… Era sonno? Il pensiero era ancora vivo… L’amore e la disperazione ancora guerreggiavano, e io mi dibattevo per la pena insopportabile.

  Mi svegliai mezzo inebetito; avvertivo un pesante senso di oppressione, ma non sapevo perché; entrai, per così dire, nella camera del consiglio del cervello, e interrogai i vari ministri del pensiero lì raccolti. Troppo presto ricordai tutto; troppo presto le mie membra fremettero sotto il potere tormentoso; presto, troppo presto, seppi di essere uno schiavo!

  Improvvisamente, non annunciato, Lord Raymond entrò nel mio appartamento. Venne dentro con fare gaio, cantando la canzone tirolese della libertà;72 mi degnò di un grazioso cenno di capo e si gettò su un sofà posto di fronte alla copia di un busto di Apollo Belvedere.73 Dopo una o due frivole osservazioni alle quali risposi in modo scontroso, esclamò improvvisamente, guardando il busto: «Mi chiamano come quel vincitore! Non è una cattiva idea; la testa servirà per il mio nuovo conio, e sarà un auspicio per tutti i sudditi testimoni obbedienti del mio futuro successo».

  Parlò coi suoi modi più allegri e benevoli, e sorrise, non con sprezzo, anzi prendendosi scherzosamente gioco di se stesso.

  Poi all’improvviso il suo volto si oscurò, e con quel tono acuto che gli era proprio, esclamò: «Ho combattuto una bella battaglia, la scorsa notte; gli altopiani della Grecia non mi videro mai ottenere una conquista maggiore. Ora sono l’uomo più importante dello Stato, motivo dominante di ogni ballata e oggetto delle devozioni borbottate dalle vecchie. Quali sono le vostre riflessioni? Voi che immaginate di poter leggere l’anima umana come il vostro lago natale legge ogni crepa e insenatura delle colline che lo circondano, dite, cosa pensate di me, speranzoso futuro re, sono un angelo o un demone, che cosa?».

  Il suo tono ironico strideva col mio cuore traboccante e sovraeccitato; la sua insolenza mi esasperò, e replicai con asprezza: «C’è un’anima, né angelo né demone, dannata solamente al limbo». Vidi le sue guance farsi pallide e le labbra sbiancare e tremare; la sua rabbia servì solo a infiammare la mia, e risposi con uno sguardo determinato ai suoi occhi che mi fissavano irosi; d’un tratto questi si ritrassero, si chinarono e una lacrima, pensai, inumidì le ciglia scure; ne fui intenerito, e con involontaria emozione aggiunsi: «Non che voi siate tale, mio caro signore».

  Mi arrestai, quasi spaventato dall’agitazione che lasciava intravedere: «Sì», disse alla fine, alzandosi e mordendosi il labbro, mentre si sforzava di dominare la sua passione, «tale son io! Voi non mi conoscete, Verney; né voi, né il nostro pubblico dell’altra notte, né l’intera Inghilterra sa nulla di me. Io sono qui, a quanto parrebbe, eletto re; questa mano sta per afferrare uno scettro, questa fronte sente in ogni suo nervo il futuro diadema. In apparenza ho la forza, il potere, la vittoria, eretto come una colonna che sostiene una cupola; ma io sono… una canna! Posseggo l’ambizione, e questa riesce a conseguire il suo scopo; i miei sogni notturni sono realizzati, le mie speranze diurne compiute; un regno attende il mio sì, i miei nemici sono sconfitti. Ma qui», e si colpì con violenza il cuore, «qui è il ribelle, qui è l’ostacolo: questo cuore prevaricatore, ch’io potrei prosciugare del suo sangue vitale, ma, fino a che resta anche una sola tremolante pulsazione, sono suo schiavo».

  Parlò con voce rotta, poi chinò il capo e, nascondendo il volto tra le mani, pianse. Io soffrivo ancora per via della mia delusione, e tuttavia questa scena mi colpì fin quasi allo sgomento, né fui in grado di frenare il suo accesso di passione. Finalmente si placò; si gettò su un divano e rimase silenzioso e fermo; solo i suoi mobili lineamenti rivelavano un forte conflitto interiore. Infine si alzò e disse, col suo consueto tono di voce: «Il tempo incalza, Verney, e io devo andare. E non sia ch’io dimentichi l’ambasciata più importante della mia visita. Volete accompagnarmi a Windsor domani? Non sarete disonorato dalla mia compagnia, e poiché questo sarà probabilmente l’ultimo servizio, o cattivo servizio, che potete rendermi, acconsentirete alla mia richiesta?».

  Mi porse la mano con aria quasi timida. Riflettei velocemente… Sì, voglio essere testimone dell’ultima scena del dramma. Il suo atteggiamento mi conquistò e un sentimento affettuoso nei suoi confronti mi riempì di nuovo il cuore. Lo pregai di disporre di me. «Certo, lo farò», disse con gaiezza, «questa è la mia parte ora: trovatevi da me domani mattina per le sette, siate discreto e leale, e fra breve sarete il custode della stola».74

  Così dicendo si affrettò ad andarsene, con un volteggio balzò a cavallo e con un gesto, come se mi porgesse la sua mano da baciare, mi lanciò un altro allegro saluto. Lasciato a me stesso, mi sforzai con dolorosa intensità di indovinare il motivo della sua richiesta, e prevedere gli eventi del giorno seguente. Le ore scorrevano inavvertite; la testa mi doleva per i pensieri, i nervi sembravano carichi di un peso eccessivo; mi afferrai la fronte bruciante, come se le mie mani febbricitanti potessero alleviarne il tormento.

  Il giorno seguente giunsi puntuale all’ora fissata e trovai Lord Raymond che mi stava aspettando. Salimmo sulla sua carrozza e procedemmo alla volta di Windsor. Mi ero dominato, ed ero deciso a non rivelare la mia interna agitazione.

  «Che errore ha fatto Ryland», disse Raymond, «quando ha pensato di sopraffarmi l’altra notte. Ha parlato bene, molto bene; ma una tale arringa avrebbe avuto maggior successo se fosse stata indirizzata personalmente a me, piuttosto che agli sciocchi e alle canaglie là riuniti. Se fossi stato solo, lo avrei ascoltato col desiderio di scendere a più miti consigli, ma quando ha tentato di sconfiggermi nel mio stesso territorio, con le mie stesse armi, ha messo alla prova il mio amor proprio, e il risultato è stato quello che tutti avrebbero potuto aspettarsi».

  Sorrisi incredulo e replicai: «Io sono dell’opinione di Ryland e, se permettete, ne ripeterò tutte le argomentazioni; vedremo fino a che punto sarete da esse indotto a mutare il modello monarchico con quello patriottico».

  «La ripetizione sarebbe inutile», disse Raymond. «Le ricordo bene, e ne ho molte altre che io stesso posso suggerire, e che parlano con incontestabile persuasione».

  Non si spiegò, e io non feci alcun commento alla sua risposta. Proseguimmo in silenzio per molte miglia, mentre la campagna coi suoi campi aperti, i boschi ombreggiati e i parchi, si offriva piacevolmente al nostro sguardo. Dopo alcune osservazioni sullo scenario e le costruzioni, Raymond disse: «I filosofi hanno definito l’uomo un microcosmo della natura, e ritrovano un riflesso di tutto questo macchinario, visibilmente all’opera intorno a noi, nell’intimo della sua mente. Questa teoria è stata spesso fonte di divertimento per me, e ho passato più di un’ora oziosa esercitando il mio ingegno nella ricerca delle somiglianze. Non dice forse Bacone che “il passare da una dissonanza a una assonanza, che produce grande soavità in musica, presenta una concordanza con gli affetti, che sono reintegrati nel modo migliore dopo aver provato avversione?”75 Che mare è il flusso della passione, le cui fonti sono nella nostra stessa natura! Le nostre virtù sono delle sabbie mobili, che si mostrano con l’acqua bassa e calma; basta però che le onde si alzino sospinte dal vento e il povero diavolo, la cui speranza era riposta nella loro durevolezza, si accorge che esse cedono sotto di lui. Le mode del mondo, le sue necessità, gli insegnamenti e gli svaghi, sono venti che spingono la nostra volontà, come delle nuvole, tutte in un’unica direzione; ma se solo si leva un temporale sotto forma di amore, odio o ambizione, i nembi retrocedono, procedendo trionfalmente contro l’aria che si oppone».

  «Tuttavia», replicai io, «la natura si presenta sempre ai nostri occhi sotto l’aspetto di un paziente: mentre c’è una virtù fattiva nell’uomo che è in grado di guidare il destino, e almeno di virare di fronte alla burrasca, finché in qualche modo la conquista».

  «C’è più dello specioso che del véro nella vostra distinzione», disse il mio compagno. «Ci siamo forse formati da soli, scegliendo le nostre inclinazioni e i nostri poteri? Io mi considero come uno strumento con le sue corde e coi suoi tasti di registro… ma non ho alcun potere di girare i piroli o di intonare i miei pensieri a una chiave più alta o più bassa».

  «Altri uomini», osservai, «potrebbero essere dei musicisti migliori».

  «Non parlo degli altri, ma di me stesso», rispose Raymond, «e sono un esempio che può valere quanto un altro. Non riesco ad accordare il mio cuore a una particolare melodia, o a indurre volontariamente dei cambiamenti nella volontà. Veniamo al mondo, ma non scegliamo né i nostri genitori né la nostra posizione sociale; siamo educati da altri, o dalle circostanze del mondo, e questa educazione, mescolandosi alla nostra disposizione innata, è il terreno sul quale crescono i nostri desideri, le nostre passioni e i nostri stimoli».

  «C’è molta verità in quello che dite», osservai, «e tuttavia nessun uomo agisce mai in base a questa teoria. Chi, quando fa una scelta, dice: faccio così perché vi sono costretto? Non avverte invece in sé una libertà di arbitrio che, se pure tale sensazione si può definire ingannevole, agisce da stimolo nel momento in cui decide?»

  «Esattamente così», rispose Raymond, «un altro anello dell’indistruttibile catena. Se io commettessi ora un atto che distruggesse le mie speranze, strappasse dalle mie membra mortali gli indumenti regali, per vestirle di normali gramaglie, sarebbe questo, credete, un atto di libero arbitrio da parte mia?»

  Mentre così discorrevamo, mi accorsi che non stavamo andando a Windsor per la strada normale ma attraverso Englefield Green, verso Bishopgate Heath. Cominciai a intuire che non era Idris lo scopo del nostro viaggio, ma che venivo condotto ad assistere alla scena che doveva decidere il destino di Raymond… e di Perdita. Durante il viaggio Raymond era stato evidentemente preso da esitazioni e, mentre entravamo nella dimora di Perdita, in ogni suo gesto era visibile l’irresolutezza. Lo guardai con curiosità decidendo che, se questa esitazione si fosse protratta, avrei aiutato Perdita a superare se stessa e le avrei insegnato a disprezzare l’amore titubante di colui che oscillava tra il possesso di una corona e quello di lei, la cui eccellenza e il cui affetto superavano il valore di un regno.

  La trovammo sotto la sua pergola adornata di fiori; stava leggendo il resoconto del giornale sul dibattito in parlamento, cosa che evidentemente la condannava alla disperazione. Quel sentimento che le faceva mancare il cuore era dipinto negli occhi infossati e nell’atteggiamento abbattuto; una nube era posta sulla sua bellezza, e dei sospiri frequenti erano il segno della sua angoscia. Questa vista ebbe un effetto immediato su Raymond; i suoi occhi irradiarono tenerezza, e il rimorso vestì i suoi modi di serietà e sincerità. Sedette al suo fianco e, prendendole il giornale dalle mani, disse: «Non una parola di più dovrà leggere la mia dolce Perdita di questa disputa di pazzi e sciocchi. Non devo permetterti di conoscere l’entità della mia illusione, altrimenti mi disprezzerai; anche se, credimi, il desiderio di apparire di fronte a te, non sconfitto, ma conquistatore, è stato per me fonte di ispirazione durante la mia guerra di parole».

  Perdita lo guardò stupefatta; il suo volto espressivo risplendette per un attimo di tenerezza; anche solo vederlo significava felicità. Ma un pensiero amaro offuscò veloce la sua gioia; volse gli occhi a terra, sforzandosi di padroneggiare l’accesso di lacrime che minacciava di sopraffarla. Raymond proseguì: «Non reciterò con te, cara fanciulla, né cercherò di apparire diverso da quello che sono, debole e indegno, più adatto a suscitare il tuo disprezzo che il tuo amore. Eppure tu mi ami; sento e so che mi ami, e da questo traggo le mie più care speranze. Se ti guidasse l’orgoglio, o addirittura il raziocinio, potresti a ragione rifiutarmi. Fallo, se il tuo cuore elevato, inadatto ai miei deboli propositi, rifiuta di chinarsi alla pochezza del mio. Volgimi pure le spalle, se vuoi… se puoi. Se non è tutta la tua anima che ti esorta a perdonarmi, se non è tutto il tuo cuore che spalanca la sua porta per accogliermi proprio nel suo intimo, abbandonami, non parlarmi mai più. Io, se pure ho peccato contro di te fin quasi a perdere la possibilità del perdono, io sono anche orgoglioso; non ci dev’essere riserva nel tuo perdono… nessuna manchevolezza nel dono del tuo affetto».

  Perdita guardò in basso, confusa, eppure compiaciuta. La mia presenza l’imbarazzava tanto che non osava voltarsi a incontrare gli occhi del suo innamorato, né affidarsi alla sua voce per rassicurarlo del suo affetto; intanto un rossore le ammantava le guance, e la sua aria sconsolata si tramutava in un’espressione di gioia profonda. Raymond le circondò la vita col braccio, e continuò: «Non nego di aver oscillato fra te e la speranza più elevata che un mortale può nutrire; ma ora non è più così. Prendimi… plasmami secondo la tua volontà, prendi possesso del mio cuore e della mia anima per tutta l’eternità. Se rifiuti di contribuire alla mia felicità, lascerò l’Inghilterra stanotte, e non vi metterò mai più piede».

  «Lionel», proseguì, «tu hai sentito:76 sii dunque mio testimone. Persuadi tua sorella a perdonare l’offesa che le ho arrecato, persuadila a essere mia».

  «Non c’è bisogno che nessuno mi persuada», disse arrossendo Perdita, «bastano le tue care promesse e il mio cuore pronto, che mi sussurra che sono sincere».

  Quello stesso pomeriggio andammo tutti e tre insieme a passeggiare nella foresta, e, con la loquacità che la contentezza ispira, mi narrarono nei particolari la storia del loro amore. Era piacevole vedere l’altezzoso Raymond e la riservata Perdita che, grazie alla pienezza del reciproco appagamento, avevano entrambi perso il loro atteggiamento riservato, trasformati dall’amore corrisposto in fanciulli giocosi e ciarlieri. Una o due notti prima Lord Raymond, con la fronte corrugata dalla preoccupazione e il cuore oppresso dai pensieri, aveva impiegato tutte le sue energie per ridurre al silenzio o persuadere i legislatori d’Inghilterra che uno scettro non era troppo pesante per la sua mano, e visioni di dominio, di guerra e di trionfo gli fluttuavano davanti. Ora era allegro come un bambino vivace che gioca sotto lo sguardo di approvazione della madre, e le speranze della sua ambizione erano soddisfatte quando premeva la bella mano minuta di Perdita alle labbra; lei, radiosa per la gioia, guardava nell’acqua immobile, non certamente ammirando se stessa, quanto bevendo, rapita il riflesso delle loro immagini, sua e del suo innamorato, mostrate per la prima volta nella diletta unione.

  Mi allontanai dai due. Se a loro apparteneva l’estasi della sicura comunione di sentimenti, io godevo di quella della speranza restituita. Guardai le torri reali di Windsor. Alte sono le mura e resistenti le barriere che mi separano dalla mia Stella della Bellezza. Ma non insormontabili. Idris non sarà sua. Abita ancora qualche anno nel tuo giardino natio, caro dolce fiore, fino a che io, col tempo e il duro lavoro, non abbia conquistato il diritto di coglierti. Non disperare, e non indurre me alla disperazione! Cosa devo fare ora? Innanzitutto devo cercare Adrian e ricondurlo sano a lei. Pazienza, gentilezza e instancabile affetto lo ricondurranno alla ragione, se è vero, come dice Raymond, che egli è pazzo; l’energia e il coraggio lo salveranno, se egli è ingiustamente tenuto prigioniero.

  Gli innamorati mi raggiunsero di nuovo, e cenammo insieme sotto la pergola. Fu davvero una cena magica: anche se l’aria profumava dell’odore della frutta e del vino, nessuno di noi mangiò o bevve. Persino la bellezza della sera passò inosservata; il loro rapimento non poteva essere accresciuto da oggetti esterni, mentre io ero avvolto nelle fantasticherie. Verso mezzanotte, io e Raymond ci accomiatammo da mia sorella per tornare in città. Era pienamente felice; canticchiava delle canzoni e ogni pensiero che gli attraversava la mente, ogni oggetto intorno a noi risplendeva al sole della sua allegria. Mi accusò di essere malinconico, di cattivo umore e un po’invidioso.

  «Non è così», dissi, «anche se ti confesso che i miei pensieri non sono così piacevoli come i tuoi. Hai promesso di aiutarmi a far visita ad Adrian; ti scongiuro di adempiere alla tua promessa. Non posso attardarmi qui, desidero ardentemente lenire, forse curare la malattia del mio primo e migliore amico. Partirò immediatamente per Dunkeld».

  «Oh, uccello della notte», rispose Raymond, «che eclissi i miei pensieri luminosi e mi costringi a richiamare alla mente quella rovina malinconica che si innalza nella devastazione della mente, più irreparabile del frammento di una colonna scolpita posta in un campo invaso dalle erbacce. Sogni di poterlo ricondurre alla ragione? Dedalo non avvolse il Minotauro in un labirinto così intricato come quello che la pazzia ha intessuto intorno alla sua ragione imprigionata. Né tu né alcun altro Teseo potete farvi strada attraverso il labirinto, del quale forse qualche crudele Arianna possiede la chiave».

  «Tu alludi a Evadne Zaimi: non è in Inghilterra».

  «E anche se fosse qui», disse Raymond, «non le consiglierei di andarlo a trovare. Meglio sprofondare nel delirio assoluto che essere vittima della disfatta metodica della ragione provocata dall’amore mal riposto. La lunga durata della sua malattia ha probabilmente cancellato dalla sua mente ogni traccia di lei; e sarebbe bene che non ne ricevesse mai più alcuna nuova impronta. Lo troverai a Dunkeld; gentile e arrendevole, va in giro per le colline e attraverso i boschi, oppure si siede in ascolto vicino alla cascata. Lo vedrai: fiori selvatici infilati tra i capelli, gli occhi carichi di significati di cui è impossibile ripercorrere le tracce, la voce rotta, la persona consunta e ridotta a un’ombra. Coglie fiori ed erbacce e li intreccia in ghirlande, oppure fa navigare sulla corrente foglie gialle e pezzi di corteccia, rallegrandosi se veleggiano in salvo, o piangendo se naufragano. Il solo ricordo mi prostra. In nome del Cielo! Le prime lacrime che ho versato dopo l’adolescenza mi sono salite agli occhi quando l’ho visto».

  Non c’era bisogno di quest’ultimo racconto per spronarmi ad andarlo a trovare. Ero solo in dubbio se tentare o meno di vedere ancora Idris, prima di partire. Questo dubbio fu risolto il giorno seguente. Raymond venne da me al mattino presto. Era giunta notizia che Adrian fosse malato e in pericolo, e sembrava impossibile che le sue forze, sempre più deboli, superassero la malattia. «Domani», disse Raymond, «sua madre e la sorella partiranno per la Scozia per vederlo ancora una volta».

  «E io parto oggi!», esclamai. «Noleggerò subito un pallone volante;77 sarò là al più in quarantott’ore, forse in meno, se il vento è favorevole. Addio, Raymond; sii felice per aver scelto la parte migliore della vita. Questo mutamento di fortuna mi rianima. Temevo la pazzia, non la malattia; ho il presentimento che Adrian non morirà; forse questo malessere è una crisi da cui egli potrebbe riprendersi».

  Tutto favorì il mio viaggio. Il pallone si sollevò circa mezzo miglio da terra, e scivolò nell’aria col vento a favore, mentre le sue ali piumate fendevano l’atmosfera che non opponeva resistenza alcuna. Nonostante lo scopo malinconico del mio viaggio, il mio umore era rallegrato dalla speranza rinascente, dal movimento veloce della scialuppa aerea e dalla fragranza dell’aria piena di sole. Il pilota muoveva appena il timone pennuto, e l’agile meccanismo delle ali, completamente spiegate, emetteva un rumore, quasi un mormorio, che placava i sensi. Sotto si distendevano pianure e colline, torrenti e campi di grano, mentre il nostro volo, senza incontrare impedimenti, correva veloce e sicuro, come quello di un cigno selvaggio negli anni verdi della gioventù. La macchina rispondeva al più lieve movimento della barra, e poiché il vento soffiava regolarmente, niente ostacolava la nostra rotta. Tale era il potere che gli uomini avevano conquistato sugli elementi: un potere a lungo cercato, e già previsto, nel tempo antico, dal principe dei poeti. Citai alcuni versi al pilota, che si stupì moltissimo quando gli dissi quante centinaia di anni or sono fossero stati scritti:

 

  Oh! ingegno umano, molte malvagità tu puoi inventare,

  E strane arti ricerchi: chi penserebbe che con l’abilità,

  Un uomo pesante come un lieve uccello vaghi,

  E una sua via, per la vuota volta dei cieli, trovi?78

 

  Scesi a Perth e, seb ne molto affaticato dalla continua esposizione all’arìa, non volli riposare; cambiai semplicemente mezzo di trasporto e andai a Dunkeld per via di terra, invece che attraverso l’aria. Il sole stava sorgendo quando arrivai alle pendici delle colline. Dopo uno sconvolgimento di secoli,79 la collina di Birnam era di nuovo coperta da una giovane foresta, mentre i pini più vecchi, piantati proprio all’inizio del diciannovesimo secolo dall’allora duca di Athol, conferivano solennità e bellezza alla scena. Il sole che sorgeva tinse dapprima le cime dei pini, e il mio animo, reso estremamente sensibile alle grazie della natura dalla montagna dove avevo ricevuto la mia educazione, ora, poco prima di poter rivedere il mio amato amico, forse moribondo, fu stranamente influenzato dalla vista di quei raggi lontani: sicuramente erano un presagio, e come tali io li consideravo, un buon auspicio per Adrian, dalla cui vita dipendeva la mia felicità.

  Povero Adrian! Giaceva disteso nel suo letto di malattia, le guance infiammate dalla febbre, gli occhi semichiusi, il respiro irregolare e affannoso. Tuttavia era meno penoso vederlo così che trovarlo sempre intento a soddisfare le funzioni animali, con la mente malata. Mi sistemai al suo capezzale e non lo abbandonai mai, né di giorno né di notte. Era davvero un compito amaro osservare il suo spirito ondeggiare tra la vita e la morte: guardare le sue calde guance, e sapere che quello stesso fuoco che lì bruciava troppo intensamente, stava consumando la sua linfa vitale; sentire i lamenti della sua voce, che avrebbe potuto non articolare mai più parole di amore e saggezza; osservare i movimenti inconsulti delle sue membra, che presto sarebbero state avvolte nel loro sudario mortale. La morte, per tre giorni e tre notti, apparve la conclusione decretata dal destino per le mie fatiche, e io mi feci smunto e spettrale per l’ansia e la veglia. Finalmente aprì gli occhi a fatica; sembrava che stesse per tornarvi la vita, era pallido e debole, ma la rigidità dei lineamenti era addolcita dal sopraggiungere della convalescenza. Mi riconobbe. Fu una coppa traboccante di emozione potente e gioiosa il momento in cui il suo volto si illuminò per la prima volta di uno sguardo di consapevolezza… E quando mi premette la mano, la mia ormai più febbricitante della sua, e quando pronunciò il mio nome! Non rimaneva traccia alcuna della passata follia, niente che potesse intaccare la mia gioia col dolore.

  Quella stessa sera arrivarono sua madre e sua sorella. La contessa di Windsor era una donna dotata per natura di grande energia; e solo raramente, nella sua vita, aveva lasciato che le emozioni concentrate nel suo cuore si rispecchiassero nei lineamenti. La studiata immobilità del viso, i modi lenti, tranquilli, e la voce dolce ma priva di melodia, erano una maschera che nascondeva le ardenti passioni e l’impazienza del suo carattere. Non somigliava affatto a nessuno dei suoi figli; gli occhi neri e scintillanti, accesi dall’orgoglio, erano del tutto diversi dalla lucentezza del blu, dall’espressione franca e benigna propria di quelli di Adrian e di Idris. C’era qualcosa di imponente e maestoso nei suoi movimenti, ma nulla di suadente, nulla di affabile. Alta, sottile e diritta, il volto ancora notevole, i capelli corvini appena spruzzati di grigio, la fronte arcuata e bella, sebbene le sopracciglia non fossero folte: era impossibile non esserne colpiti, quasi non temerla. Nonostante l’estrema mitezza del suo carattere, Idris sembrava l’unica in grado di resistere alla madre. C’era, tutt’intorno a lei, una temerarietà e una franchezza che assicuravano che non avrebbe violato la libertà altrui, ma avrebbe conservato e difeso la propria come sacra e inattaccabile.

  La contessa non gettò un solo sguardo benevolo al mio aspetto consunto, anche se poi mi ringraziò con freddezza per le mie attenzioni. Non così Idris; il suo primo sguardo fu per il fratello; gli prese la mano, gli baciò le palpebre, e gli rimase vicino con sguardi pieni di compassione e amore. I suoi occhi brillavano di lacrime quando mi ringraziò, e la grazia della sua espressione era accresciuta, non diminuita, dal fervore che la faceva quasi balbettare mentre parlava. Sua madre, tutta occhi e orecchi, si affrettò a interromperci; mi accorsi che desiderava congedarmi con discrezione, come uno i cui servigi, ora che i parenti erano arrivati, non erano più di alcuna utilità al figlio. Tormentato e malato, e deciso a non abbandonare il mio posto, ero tuttavia incerto sul modo in cui dovessi difenderlo. Adrian mi chiamò, e afferrandomi la mano, mi supplicò di non lasciarlo. Sua madre, che sembrava distratta, comprese all’istante cosa ciò significasse e, vedendo chela tenevamo in scacco, decise di cedere a noi su questo punto.


    giorni che seguirono furono ricolmi di sofferenza per me, tanto che rimpiansi di non aver ceduto subito alla dama altezzosa. Quest’ultima osservava tutti i miei movimenti e tramutava l’amato compito di accudire il mio amico in un lavoro penoso e irritante. Mai donna alcuna mi apparve fatta di sola mente come la contessa di Windsor. Le passioni avevano soggiogato i suoi appetiti, persino i bisogni naturali. Dormiva poco, mangiava appena; era evidente che considerava il suo corpo semplicemente come una macchina, la cui salute era necessaria alla realizzazione dei suoi piani, ma i cui sensi non entravano a far parte del suo piacere. C’è qualcosa che fa paura in chi riesce a vincere così la parte animale della propria natura, se la vittoria non è il risultato di una virtù consumata. Era con questa mescolanza di sentimenti che osservavo la figura della contessa che vegliava mentre gli altri dormivano, digiunava quando io, naturalmente frugale, e reso tale dalla febbre che mi devastava, ero costretto a recuperare le forze attraverso il cibo. La contessa era decisa a ostacolare o almeno a ridurre al minimo le occasioni che avevo per acquisire influenza sui suoi figli; aggirava i miei piani con una determinazione inflessibile, calma e testarda, che non sembrava appartenere alla carne e al sangue. Infine, tra di noi, venne tacitamente dichiarata guerra. Ci furono diversi scontri diretti, durante i quali non si proferiva parola, e a malapena ci si scambiava uno sguardo, ma ognuno era deciso a non sottomettersi all’altro. La contessa aveva il vantaggio della posizione e così, sebbene non cedessi, fui sconfitto.


  Ero amareggiato. Sul viso recavo dipinti i colori della salute malandata e dell’afflizione. Adrian e Idris se ne accorsero e lo attribuirono alle mie lunghe veglie e all’ansia; mi esortarono dunque a riposare e a prendermi cura di me stesso, mentre io li rassicuravo nel modo più sincero che la mia migliore medicina erano i loro auguri affettuosi: questi, e la convalescenza del mio amico, di giorno in giorno sempre più evidente. Un lieve colore rosaceo fiorì di nuovo sulle sue guance, la fronte e le labbra persero il pallore cinereo della minacciata dissoluzione: questa era la cara ricompensa per la mia assidua attenzione, e il cielo munifico aggiunse una ricompensa sovrabbondante, quando mi concesse anche i ringraziamenti e i sorrisi di Idris.

  Dopo alcune settimane lasciammo Dunkeld. Idris e sua madre tornarono immediatamente a Windsor, mentre io e Adrian, a causa della sua persistente debolezza, le seguimmo più lentamente e facendo delle soste frequenti. Attraversavamo le diverse contee della fertile Inghilterra, e tutto aveva un aspetto stimolante per il mio compagno, che era stato così a lungo escluso, per la malattia, dalla possibilità di godere delle gioie del tempo e del paesaggio. Passammo attraverso città industriose e pianure coltivate. Gli uomini mietevano le loro messi abbondanti; le donne e i bambini, impegnati nei lavori di campagna più leggeri, formavano dei gruppi di persone sane e felici, la cui sola vista portava gioia al cuore. Una sera, lasciando la nostra locanda, girovagammo giù per un pendio ombreggiato, poi su per un sentiero erboso, finché giungemmo a un’altura che dominava un vasto panorama di valli e colline, fiumi serpeggianti, boschi oscuri e splendidi villaggi. Il sole stava per tramontare, e le nuvole, disperdendosi nei vasti campi del cielo come un gregge appena tosato, ricevevano il colore dorato dei raggi morenti; gli altopiani lontani risplendevano e, reso armonioso dalla distanza, ci giungeva all’orecchio il brusio affaccendato della sera. Adrian, sentendo tutta la nuova vitalità infusagli dalla salute che di nuovo rifluiva in lui, si strinse le mani per la gioia ed esclamò con trasporto:

  «O terra felice, e felici abitanti della terra! O uomo, Dio ha costruito un grandioso palazzo per te! E tu sei degno della tua dimora! Guarda il tappeto verdeggiante disteso ai tuoi piedi, e l’azzurra canopia al di sopra; i campi della terra che generano e nutrono tutte le cose, e il sentiero della volta celeste, che tutto racchiude e abbraccia. Adesso, a quest’ora della sera, nel momento del riposo e del ristoro, mi sembra che tutti i cuori sussurrino un solo inno di amore e ringraziamento, e noi, come sacerdoti di tempi antichi sulla cima delle montagne, diamo voce ai loro sentimenti.

  Fu certo un potere assolutamente benigno quello che costruì la dimora maestosa in cui abitiamo, e formulò le leggi attraverso le quali essa vive. Se lo scopo finale del nostro essere fosse la semplice esistenza, e non la felicità, che bisogno ci sarebbe della profusione di sfarzo di cui godiamo? Perché la nostra dimora dovrebbe essere così attraente, e perché gli istinti della natura dovrebbero somministrare delle sensazioni piacevoli? Anche il sostentamento stesso della nostra macchina animale è reso delizioso; e il nostro nutrimento, i frutti del campo, è dipinto di colori straordinari, dotato di odori gradevoli, e gustoso al palato. Perché dovrebbe essere così, se Lui non fosse buono? Abbiamo bisogno di case per proteggerci dalle stagioni, e guarda i materiali di cui siamo provvisti; irrigoglio degli alberi col loro ornamento di foglie; mentre masse di pietre ammucchiate sulle pianure movimentano, con la loro piacevole irregolarità, la prospettiva.

  E non solo gli oggetti esteriori sono i ricettacoli dello Spirito della Bontà. Esamina la mente dell’uomo, dove la saggezza regna sovrana; dove l’immaginazione siede, come un pittore, col suo pennello intinto in colori più incantevoli di quelli del tramonto, e abbellisce la vita consueta con tonalità brillanti. Che nobile benedizione, degna di chi l’ha data in dono, è l’immaginazione! toglie alla realtà il suo colore plumbeo, avvolge tutti i pensieri e le sensazioni in un velo sfolgorante, e con una mano ricolma di bellezza ci invita ad abbandonare il monotono mare della vita per i suoi giardini, e pergolati, e radure di beatitudine immensa. E non è l’amore un dono della divinità? L’amore, e sua figlia, la Speranza, che possono concedere ricchezze ai poveri, forza ai deboli e felicità ai sofferenti.

  Il mio destino non è stato felice. A lungo ho convissuto col dolore, sono entrato nel tetro labirinto della follia, ne sono emerso, ma vivo solo a metà. Tuttavia ringrazio Dio di essere ancora vivo! Ringrazio Dio per aver potuto contemplare il suo trono, i cieli e la terra, il suo sgabello. Sono lieto di aver visto i cambiamenti del suo giorno; di guardare il sole, fonte di luce, e la gentile luna pellegrina; di aver visto i fiori di fuoco del cielo, e le stelle fiorite della terra; di essere stato testimone della semina e della mietitura. Sono lieto di aver amato, e di aver provato la comunanza di gioia e dolore con i miei simili. Sono lieto ora di sentire il fiume dei pensieri fluire nella mente, come il sangue scorre nelle articolazioni del mio corpo; il semplice esistere è piacere, e io ringrazio Dio di vivere!

  E tutti voi, beniamini felici della madre terra, non echeggiate voi tutti le mie parole? Voi, che siete legati da vincoli affettuosi alla natura; compagni, amici, innamorati! Padri, che faticano con gioia per la propria progenie; donne, che dimenticano le pene della maternità quando contemplano i corpi vivaci dei loro figli; bambini, che non si dedicano ai lavori faticosi né filano la lana, ma amano e sono amati!

  Se la morte e la malattia fossero banditi dalla nostra dimora terrena! Se l’odio, la tirannia e la paura non fossero più in grado di costruire il loro covo nel cuore dell’uomo! Se ogni essere potesse incontrare un fratello nel suo simile, e un nido di pace nelle vaste pianure che sono sua eredità! Se la fonte delle lacrime si prosciugasse, e le labbra non potessero più formulare espressioni di dolore! Così dormendo sotto l’occhio caritatevole del cielo, potrà il male visitarti, O Terra, o il dolore aver cura dei tuoi figli infelici fino alle loro tombe? No, non dirlo, neppure in un sussurro, o i demoni sentiranno e si rallegreranno! La scelta sta a noi; dobbiamo solo volerlo, e la nostra dimora diventerà un paradiso. Perché la volontà dell’uomo è onnipotente, in grado di spuntare le frecce della morte, di alleviare il letto delle malattie, e asciugare le lacrime dell’angoscia. E a cosa vale un essere umano, se non impiega tutte le sue forze per aiutare i suoi simili? La mia anima è una scintilla che si sta spegnendo, la mia natura fragile come un’onda già passata; ma io dedicherò tutta l’intelligenza e le forze che mi rimangono a quel solo lavoro, e assumerò su di me il compito, per quanto è nelle mie possibilità, di concedere i doni del cielo agli uomini, miei fratelli!».

  La sua voce tremò, volse gli occhi in alto, si strinse le mani, e l’esile persona si piegò, quasi per un eccesso di emozione. Lo spirito della vita sembrava indugiare nel suo corpo, come la fiamma morente che, su un altare, guizza sulle ceneri ardenti di un sacrificio accetto.

  CAPITOLO VI

  Quando arrivammo a Windsor, Raymond e Perdita erano partiti per il continente. Mi stabilii nella casa di mia sorella, e mi considerai beato perché vivevo in vista del castello di Windsor. Era curioso, ma, in questo periodo, pur essendo imparentato, grazie al matrimonio di Perdita, con uno degli uomini più ricchi d’Inghilterra, e legato dalla più intima amicizia al primo tra i suoi nobili, sperimentai la povertà più grande che avessi mai provato. Conoscendo infatti i principi cui Lord Raymond si atteneva, non avrei mai potuto rivolgermi a lui, per quanto grave avesse potuto essere la mia indigenza. E invano mi ripetevo, riguardo ad Adrian, che la sua borsa era aperta per me, e che, essendo noi un’anima sola, anche le nostre fortune dovevano essere in comune. Mai potevo, quando ero con lui, pensare alla sua generosità come a un rimedio alla mia indigenza; così mi affrettai ad accantonare le sue offerte di sostegno e, mentendo, gli assicurai che non ne avevo bisogno. Come potevo dire a questo essere generoso: «Mantienimi nell’ozio. Tu che hai dedicato le facoltà della tua mente e la tua fortuna al beneficio della tua specie, proprio tu indirizzerai i tuoi sforzi così male da sostenere nell’inutilità chi è forte, sano e capace?».

  Non ebbi nemmeno l’ardire di chiedergli di usare la sua influenza per farmi avere una rendita onorevole, altrimenti sarei stato costretto ad abbandonare Windsor. Gironzolavo sempre intorno alle mura del castello, sotto i boschetti ombrosi, miei unici compagni i libri e i pensieri d’amore. Studiavo la saggezza degli antichi, e fissavo le mura felici che proteggevano colei che la mia anima adorava. E tuttavia la mia mente non era oziosa. Meditavo sulle poesie dei tempi andati; studiavo la metafisica di Platone e di Berkeley.80 Leggevo la storia della Grecia, di Roma, del passato dell’Inghilterra, e osservavo i movimenti della dama del mio cuore. Di notte potevo scorgerne l’ombra sui

  muri del suo appartamento; di giorno la vedevo nel suo giardino di fiori, o a cavallo nel parco, coi suoi compagni abituali. Mi sembrava che l’incantesimo si sarebbe spezzato se fossi stato scorto, ma sentivo il suono armonioso della sua voce ed ero felice. Davo a ogni eroina di cui leggevo la sua bellezza e i suoi incomparabili pregi. Tale era Antigone, quando condusse il cieco Edipo nel bosco di Eumenide e adempì ai riti funebri di Polinice; tale era Miranda nella caverna non visitata di Prospero; tale Haidée, sulle spiagge dell’isola ionica.81 Ero pazzo per l’eccesso di devozione passionale; ma l’orgoglio, indomabile come il fuoco, avvolgeva la mia natura e m’impediva di tradirmi con parole o sguardi.

  Mentre mi deliziavo così con abbondanti pasti dell’anima, un contadino avrebbe rifiutato lo scarso cibo che talvolta rubavo agli scoiattoli della foresta. Ero spesso tentato, lo ammetto, di ricorrere ai banchetti illegali della mia adolescenza, di abbattere i fagiani quasi addomesticati che se ne stavano appollaiati sugli alberi e chinavano su di me i loro occhi brillanti. Ma erano proprietà di Adrian, i beniamini di Idris; così, anche se nella mia immaginazione resa voluttuosa dall’astinenza pensavo che avebbero preferito diventare uno spiedo nella mia cucina, piuttosto che delle verdi foglie della foresta:

 

  Ciononostante,

  Frenai la mia potente volontà, e non mangiai,

 

  ma facevo cena coi sentimenti, e sognavo invano «quei dolci bocconi»,82 che durante la veglia non potevo avere.

  A questo punto, però, tutto il quadro della mia esistenza stava per cambiare. L’orfano e figlio negletto di Verney era alla vigilia di un evento che lo avrebbe legato al meccanismo della società con una catena dorata, stava per assumersi tutti i doveri e le emozioni della vita. Miracoli stavano per essere operati in mio favore, e l’apparato della vita sociale veniva spinto indietro con grande sforzo. Fa’ attenzione, lettore, mentre ti narro questa storia di meraviglie!

  Un giorno, mentre Adrian e Idris stavano cavalcando nella foresta con la madre e i soliti compagni, Idris, tirando in disparte il fratello, gli chiese all’improvviso cosa ne era stato del suo amico, Lionel Verney.

  «Proprio da qui», rispose Adrian indicando la casetta di mia sorella, «puoi vederne l’abitazione».

  «Davvero!» esclamò Idris. «E perché, se si trova così vicino, non viene a farci visita e non si unisce alla nostra compagnia?»

  «Io vado a trovarlo spesso», rispose Adrian; «e si possono facilmente indovinare i motivi che lo trattengono dal venire dove la sua presenza potrebbe infastidire anche uno solo tra di noi».

  «Li indovino certamente», disse Idris, «e poiché sono quelli che sono, non oserei combatterli. Dimmi, comunque, come trascorre il suo tempo; cosa fa e cosa pensa nel rifugio della sua casa?»

  «In verità, mia dolce sorellina», rispose Adrian, «mi chiedi più di quanto io sia, a ragione, in grado di dire; ma se hai dell’interesse per lui, perché non vai a trovarlo? Egli ne sarà altamente onorato, e così potrai ripagare una parte del debito di riconoscenza che gli devo e ricompensarlo per le offese che la sorte gli ha riservato».

  «Sono prontissima ad accompagnarti alla sua dimora», disse Idris; «non che io speri che uno di noi si liberi del nostro debito che, essendo nulla di meno che la tua vita, è destinato a rimanere per sempre impagabile. Tuttavia andiamo; domani usciremo insieme a cavallo, e avanzando in quella parte della foresta, lo andremo a trovare».

  La sera seguente dunque, anche se il mutato tempo d’autunno aveva portato freddo e pioggia, Adrian e Idris entrarono in casa mia. Mi trovarono, come Curio,83 a banchettare con della misera frutta per cena; ma loro portarono doni più ricchi di quelli delle eccellenti spose dei Sabini, né io potei rifiutare l’inestimabile carico di amicizia e gioia che offrivano. Sicuramente i gloriosi gemelli di Latona,84 quando, nell’infanzia del mondo, furono partoriti per dare bellezza e luce allo «sterile promontorio»,85 non ricevettero un’accoglienza più calorosa di quella riservata nella mia umile dimora e nel mio cuore riconoscente a questa coppia di angeli. Sedemmo come una famiglia intorno al mio focolare. I nostri discorsi toccavano argomenti che non erano legati alle emozioni che, evidentemente, ci possedevano; ma ciascuno di noi intuiva i pensieri dell’altro, e mentre le voci parlavano di questioni indifferenti, gli occhi, in

  un muto linguaggio, dicevano le mille cose che nessuna lingua avrebbe potuto pronunciare.

  Mi lasciarono dopo un’ora. Mi lasciarono felice… così indicibilmente felice. Non c’era bisogno dei suoni misurati del linguaggio umano per scandire la storia della mia estasi. Idris era venuta a trovarmi; Idris, l’avrei rivista più e più volte. La mia immaginazione si appagava in una tale consapevolezza. Toccavo il cielo con un dito; né dubbi né paure, e neppure speranze turbavano la mia quiete; abbracciavo con la mia anima la pienezza dell’appagamento, soddisfatto, pago, beato.

  Adrian e Idris continuarono a venirmi a trovare per molti giorni. In questo periodo a me così caro, l’amore, sotto le sembianze di un’amicizia entusiasta, infuse sempre più il suo spirito onnipotente. Idris lo sentiva. Sì, divinità del mondo, io lessi le tue cifre sul suo volto e nei suoi gesti; sentii la tua voce melodiosa riecheggiata dalla sua. Stavi preparando per noi un sentiero dolce e fiorito, e delicati pensieri d’ogni sorta lo adornavano. Il tuo nome, Amore, non venne pronunciato, ma tu eri là, il Genio dell’Ora, coperto da un velo, e solo il tempo, non mano mortale, avrebbe potuto sollevare il drappeggio. Gli organi preposti all’articolazione dei suoni non proclamarono l’unione dei nostri cuori, perché circostanze avverse non diedero l’opportunità di esprimere quanto era sospeso sulle nostre labbra.

  Oh penna! Sii veloce a scrivere quello che fu, prima che il pensiero di quello che è arresti la mano che ti guida. Se alzo gli occhi e osservo la terra deserta, e sento che quei cari occhi hanno estinto la loro lucentezza mortale, che quelle belle labbra sono silenti, i loro «petali cremisi»86 avvizziti, io sarò per sempre muto!

  Ma tu sei viva, mia Idris, e ora, anche ora ti muovi davanti a me! C’era una radura, lettore, uno spiazzo erboso nel bosco; gli alberi, ritraendosi da lì, rendevano la distesa vellutata simile a un tempio dell’amore; l’argenteo Tamigi la cingeva da un lato, e un salice piangente, chinandosi, immergeva nell’acqua i suoi capelli di naiade, scompigliati dalla mano invisibile del vento. Le querce all’intorno erano la dimora di una famiglia di usignoli… Ecco, in questo momento io sono lì; Idris, nel fiore della sua bella giovinezza è al mio fianco… Ricordo, io ho solo ven- tidue anni, mentre per l’amata del mio cuore sono appena passate diciassette primavere. Il fiume, gonfiato dalle piogge autunnali, inondava le rive basse e Adrian, con la sua barca preferita, è impegnato nel pericoloso passatempo di strappare il

  ramo più alto da una quercia sommersa. Sei stanco della vita, Oh Adrian, che giochi così col pericolo?

  Ha ottenuto il suo premio, e guida la sua barca sul fiume; i nostri occhi erano fissi su di lui per la paura; a questo punto però la corrente lo trascinò lontano da noi; fu costretto ad approdare molto più in basso, e a fare un lungo giro prima di poterci raggiungere. «E salvo!», disse Idris, appena Adrian saltò sulla riva e agitò il ramo sopra la testa in segno di successo. «Lo aspetteremo qui».

  Eravamo insieme, noi soli: il sole era tramontato; gli usignoli iniziavano il loro canto; la stella della sera brillava distintamente nel profluvio di luce che a occidente non era ancora svanita. Gli occhi blu della mia angelica fanciulla guardavano fissi la stella, questo dolce emblema di se stessa: «Come palpita la luce», disse, «e la vita di quella stella. Il suo fulgore vacillante sembra dire che la sua condizione, proprio come la nostra sulla terra, è oscillante e mutevole; essa ha paura, sembra quasi, e ama».

  «Non guardare la stella, mia cara, generosa amica», esclamai, «non leggere l’amore nei suoi raggi tremanti; non guardare mondi lontani; non parlare della pura fantasia di un sentimento. Ho taciuto a lungo; a lungo, fin quasi a star male, ho desiderato parlarti, e sottomettere la mia anima, la mia vita, il mio intero essere a te. Non guardare la stella, caro amore, o, se vuoi farlo, lascia che quella scintilla eterna interceda per me; che essa sia la mia testimone e la mia sostenitrice, mentre brilla silenziosa… L’amore è per me quello che la luce è per la stella; e fino a che essa non verrà eclissata dall’annientamento, per tutto questo stesso tempo, io ti amerò».

  Nascosto per sempre allo sguardo insensibile del mondo dovrà restare il trasporto di quel momento. Sento ancora il suo corpo leggiadro premere contro il mio cuore così pieno da traboccare… Ancora la vista, il polso e il respiro vacillano e vengono meno, al ricordo di quel primo bacio. Lentamente e in silenzio ci avviammo incontro a Adrian, che avevamo sentito avvicinarsi.

  Pregai Adrian di tornare da me dopo aver ricondotto a casa sua sorella. E quella sera stessa, passeggiando per i sentieri della foresta illuminati dalla luna, aprii completamente il mio cuore, coi suoi slanci e la sua speranza, al mio amico. Per un momento sembrò turbato… «Avrei potuto prevederlo!», disse, «che lotta ne seguirà ora! Perdonami, Lionel, e non stupirti se le prospettive di una disputa con mia madre mi indispongono, quando altrimenti ti confesserei con gioia che, affidando mia sorella alla tua protezione, si realizzano le mie migliori speranze. Se non lo conosci già, imparerai presto l’odio profondo che mia madre prova per il nome di Verney. Parlerò con Idris; poi, tutto quello che un amico può fare lo farò; a lei deve spettare il ruolo dell’innamorata, se avrà la possibilità di recitarlo».

  Mentre fratello e sorella erano ancora incerti sul modo migliore in cui potevano tentare di far mutare parere alla madre, costei, che guardava con sospetto ai nostri incontri, cominciò ad accusare i figli; incolpava la bella figlia di ingannarla, e di provare un attaccamento sconveniente per uno il cui unico merito era l’essere il figlio di quell’essere dissoluto, favorito del suo imprudente padre; costui era senza dubbio indegno quanto colui dal quale vantava la discendenza. A quest’accusa gli occhi di Idris lampeggiarono: «Non nego di amare Verney; dimostratemi che egli è un essere indegno, e io non lo vedrò più», rispose.

  «Cara Signora», disse Adrian, «lasciate che vi supplichi di vederlo, di coltivare la sua amicizia. Vi stupirete allora, come faccio io, di fronte alla vastità delle sue doti, e all’eccezionaiità dei suoi talenti». (Perdonami, gentile lettore, ma questa non è futile vanità: non è futile, poiché sapere che questo è quello che Adrian provava rallegra il mio cuore solitario persino ora).

  «Sciocco e pazzo che sei!», esclamò la dama adirata, «tu hai scelto con i tuoi sogni e le tue teorie di rovesciare i piani che io avevo formulato per accrescere la tua grandezza; ma non farai lo stesso con quelli che ho studiato per tua sorella. Capisco fin troppo bene il fascino dal quale voi due, entrambi, siete soggiogati: ho combattuto già la stessa battaglia con vostro padre affinché si liberasse del genitore di questo giovane, che nascondeva le sue inclinazioni diaboliche con la soavità e la furberia di una vipera. Quante volte, in quei giorni, ho sentito parlare delle sue attrattive, delle sue vaste conquiste ovunque diffuse, della sua arguzia, dei suoi modi raffinati. Vada pure che le mosche vengano catturate da simili tele di ragno; ma che anche i potenti e blasonati chinino il capo sotto il giogo inconsistente di questa vacua arroganza? Se tua sorella fosse in effetti l’insignificante persona che meriterebbe di essere, l’abbandonerei volentieri al destino, miserabile destino, di moglie di un uomo la cui persona stessa, rassomigliante com’è a quella del suo sciagurato padre, dovrebbe riportarti alla mente la follia e il vizio che rappresentano: ma ricorda, Lady Idris, non è solo il sangue d’Inghilterra, un tempo regale, che colora le tue vene; tu sei una principessa d’Austria, e ogni goccia della tua linfa vitale porta legami con imperatori e re. Sei dunque tu una compagna adeguata per un pastore incolto, la cui unica eredità è il nome disonorato di suo padre?»

  «Posso sostenere un’unica difesa», rispose Idris, «la stessa proposta da mio fratello: incontrate Lionel, parlate col mio pastore».

  La contessa l’interruppe indignata. «Il tuo!», esclamò; poi, addolcendo i suoi lineamenti infiammati in un sorriso sprezzante, proseguì: «Parleremo di ciò un’altra volta. Tutto quello che ora chiedo, tutto quello di cui tua madre, Idris, ti prega, è che tu non veda questo villano, venuto su dal nulla, per un periodo di un mese».

  «Non oso accondiscendere», disse Idris, «gli arrecherebbe troppa sofferenza. Non ho il diritto di giocare con i suoi sentimenti, di accettare le sue profferte d’amore, per poi ferirlo abbandonandolo».

  «Questo è troppo», rispose sua madre, con le labbra tremanti e gli occhi di nuovo carichi di rabbia.

  «Ebbene, mia Signora», disse Adrian, «a meno che mia sorella acconsenta a non rivederlo mai più, è senz’altro un inutile tormento separarli per un mese».

  «Certamente», rispose l’ex regina con amaro ludibrio, «l’amore di lui e l’amore di lei, e i turbamenti infantili di entrambi possono certo essere messi debitamente a confronto con i miei anni di ansie e speranze, con i doveri della progenie di re, con la condotta dignitosa e specchiata che una della sua discendenza dovrebbe seguire. Ma non è degno di me discutere e lamentarmi. Forse avrai quantomeno la bontà di farmi la promessa di non sposarlo in quel periodo?».

  La richiesta era ironica solo in parte, e Idris si domandò perché sua madre dovesse estorcerle il voto solenne di non fare quanto lei stessa non aveva mai sognato di fare. Ma la promessa fu ottenuta.

  Ora tutto procedeva a meraviglia; ci incontravamo come al solito, e parlavamo senza timori dei nostri piani futuri. La contessa era così gentile, e persino così affabile con i figli, ben oltre la sua consuetudine, che questi cominciarono a nutrire delle speranze sul suo consenso finale. La madre era troppo diversa da loro, troppo radicalmente lontana dalle loro inclinazioni perché trovassero diletto nella sua compagnia o alla prospettiva di una sua frequentazione, nondimeno erano felici di vederla conciliante e benevola. Una volta, addirittura, Adrian si azzardò a proporle di ricevermi. Rifiutò con un sorriso, ricordandogli che sua sorella aveva per il momento promesso di essere paziente.
Un giorno, dopo un mese circa, Adrian ricevette una lettera da un amico di Londra, il quale richiedeva la sua immediata presenza per la promozione di qualche importante obiettivo. Essendo Adrian una persona schietta, non temette alcun inganno. Andai con lui a cavallo fino a Staines: era di ottimo umore e, poiché io non potevo vedere Idris durante la sua assenza, promise di tornare al più presto. La sua allegria ebbe lo strano effetto di risvegliare in me sentimenti contrari; ero oppresso dal presentimento di qualcosa di malvagio. Al mio ritorno girovagai, contando le ore che dovevano passare prima che potessi rivedere Idris. Per quale motivo doveva essere così? Quale male sarebbe potuto accadere nel frattempo? Forse sua madre avrebbe potuto approfittare dell’assenza di Adrian per pungolarla oltre ogni sopportazione, per intrappolarla? Decisi, succedesse quel che doveva, di vederla e di parlarle il giorno seguente. Questa decisione mi calmò. Domani, mia adorato amore, gioia e speranza della mia vita, domani ti vedrò… Che sciocco, anche solo a immaginare l’indugio di un momento!

  Andai a riposare. Passata la mezzanotte fui svegliato da alcuni colpi violenti. Era ormai inverno inoltrato; aveva nevicato e stava ancora nevicando; il vento sibilava tra gli alberi nudi, spogliandoli dei bianchi fiocchi di neve che cadevano; il suo lamento desolante e il continuo bussare si mescolavano in modo inquietante ai miei sogni. Finalmente fui completamente sveglio; mi vestii rapidamente e mi affrettai a scoprire la causa di questa agitazione; così andai ad aprire la porta all’inaspettato visitatore. Pallida come la neve che le scendeva addosso, le mani in una stretta convulsa, di fronte a me c’era Idris. «Salvami!», esclamò, e si sarebbe accasciata al suolo se non l’avessi sostenuta. Un attimo dopo comunque si riprese e, con energia, quasi con violenza, mi supplicò di sellare i cavalli e di portarla via, lontano, a Londra, da suo fratello… Almeno per salvarla. Non avevo cavalli. Si torse le mani. «Che posso fare?», esclamò. «Sono perduta! Tutti e due siamo perduti, per sempre! Ma vieni… vieni con me, Lionel, io non devo restare qui… Possiamo prendere un calesse alla più vicina stazione di posta; nonostante tutto forse abbiamo tempo! Vieni, vieni con me per salvarmi e proteggermi!».

  Ascoltai le sue commoventi richieste, mentre col vestito in disordine, i capelli scompigliati e lo sguardo atterrito, si torceva le mani. L’idea mi attraversò in un lampo: è forse pazza anche lei? «Mio dolce amore», e la strinsi al cuore, «è meglio fermarsi piuttosto che continuare a vagare; riposa, mia amata, accenderò il fuoco, stai tremando dal freddo».

  «Fermarsi!» gridò, «riposare! tu vaneggi, Lionel! Se ci attardiamo saremo perduti; vieni, ti prego, a meno che tu non voglia abbandonarmi per sempre».

  Che Idris, dai natali principeschi, la figlia prediletta della ricchezza e del lusso, avesse attraversato la tempestosa notte invernale dalla sua dimora regale, e stesse davanti alla mia umile porta supplicandomi di fuggire con lei nell’oscurità e nella tormenta: era sicuramente un sogno… Poi, di nuovo, il suo tono supplichevole e la vista della sua leggiadria mi assicuravano che non era una visione. Guardandosi timidamente intorno, come se temesse che qualcuno stesse ascoltando di nascosto, sussurrò: «Ho scoperto… domani… cioè, oggi, il domani è già venuto… prima dell’alba, degli stranieri, austriaci, dei mercenari al soldo di mia madre, devono trascinarmi via, in Germania, in prigione, per il matrimonio. Via verso qualunque cosa, tranne che te e mio fratello… Portami via, o presto saranno qui!».

  Fui spaventato dalla sua veemenza, e immaginai che ci fossero degli errori nel suo racconto incoerente; ma non esitai un momento di più nell’obbedirle. Era venuta sola fin dal castello, per tre lunghe miglia, a mezzanotte, sotto una neve fitta; dovevamo raggiungere Englefield Green, un miglio e mezzo più avanti, prima di riuscire a trovare un calesse. Mi disse che aveva mantenuto la forza e il coraggio fino ad arrivare alla mia casa, e poi entrambi l’avevano abbandonata. Ora riusciva a malapena a camminare. Anche se la sostenevo, rimaneva comunque indietro. Dopo aver percorso mezzo miglio, e dopo molte soste, accessi di brividi e parziali svenimenti, si liberò dal sostegno del mio braccio e si lasciò cadere sulla neve; poi, in un torrente di lacrime, disse che doveva essere portata, perché non poteva più proseguire. La sollevai tra le mie braccia; la sua lieve figura riposava sul mio petto. Non sentivo alcun peso, se non quello interno di emozioni opposte e contrastanti. Un piacere traboccante si impossessò di me. Di nuovo le sue membra gelide mi sfiorarono provocando come un’esplosione; rabbrividii, partecipando della sua pena e del suo spavento. Il suo capo poggiava sulla mia spalla, il suo respiro mi faceva ondeggiare i capelli, il suo cuore batteva vicino al mio: il trasporto mi faceva tremare, mi accecava, mi annichiliva… Ma un gemito delle sue labbra, il battito dei denti che si sforzava invano di fermare, tutti i segni della sua sofferenza mi ricordarono che era necessario affrettarsi e cercare aiuto. Infine le dissi: «Là c’è Englefield Green, e la locanda. Ma se ti vedono in queste strane condizioni, i tuoi nemici potrebbero venire a conoscenza della tua fuga troppo presto: non sarebbe meglio che affittassi il calesse da solo? Nel frattempo ti metterò al sicuro e tornerò da te immediatamente».

  Rispose che avevo ragione, e che potevo fare di lei quello che volevo. Notai la porta socchiusa di un piccolo fienile; con un po’ di paglia sparsa lì intorno feci un giaciglio su cui deposi il suo corpo esausto, poi la coprii col mio mantello. Avevo paura a lasciarla, sembrava così pallida e debole… Ma in un attimo riacquistò vita e con essa tornò la paura; di nuovo mi implorò di non tardare. Chiamare le persone della locanda, ottenere un mezzo di trasporto e i cavalli, sebbene io stesso mettessi i finimenti, fu operazione che richiese molti minuti, ognuno dei quali era carico del peso di secoli. Feci avanzare un po’ il calesse, aspettai che la gente della locanda fosse rientrata, poi dissi al postiglione di tirare la carrozza al punto in cui Idris, che si era un po’ ripresa, mi stava aspettando impaziente. La sollevai e la deposi nel calesse; le assicurai che con quattro cavalli saremmo arrivati a Londra prima delle cinque, l’ora in cui l’avrebbero cercata senza trovarla. La supplicai di calmarsi; un dolce profluvio di lacrime le recò sollievo e a poco a poco mi narrò la sua storia di paura e pericolo.

  La stessa sera in cui Adrian era partito, sua madre le aveva fatto appassionate rimostranze riguardo al suo affetto per me. Invano la incalzò con ogni tipo di motivazione, minacce, rabbiose battute sarcastiche. Sembrava ritenesse che Idris, a causa mia, aveva perso Raymond; io ero la cattiva influenza della sua vita; fui persino accusato di accrescere e rafforzare la pazza e spregevole rinuncia da parte di Adrian a ogni prospettiva di avanzamento e grandezza; ora questo miserevole montanaro stava addirittura per rubarle sua figlia. La dama adirata non si degnò mai di ricorrere alla gentilezza e alla persuasione; se lo avesse fatto, resisterle sarebbe stato assai doloroso. Così come fu, invece, la sua natura generosa indusse la dolce fanciulla a ribellarsi per difendere la mia causa disprezzata, e ad allearsi con essa. Sua madre concluse con uno sguardo di disprezzo e di scoperto trionfo, che per un momento risvegliarono i sospetti di Idris. Quando si separarono per la notte, la contessa disse: «Ti assicuro che domani il tuo tono sarà cambiato: ma calmati; ti ho fatto agitare; va’ a riposare, ti farò portare un medicamento che prendo sempre quando sono eccessivamente inquieta: ti regalerà una notte tranquilla».

  Quando Idris, in preda a pensieri inquieti, ebbe posato la sua bella guancia sul cuscino, la domestica della madre le portò una pozione; e di nuovo, di fronte a questo insolito modo di procedere, l’attraversò un sospetto, sufficientemente allarmante da farle decidere di non prendere la bevanda. Tuttavia l’idea di una lite le ripugnava; così, volendo scoprire se le sue congetture avevano fondamento, decise, quasi istintivamente, e in contrasto con la sua consueta franchezza, di fingere di ingoiare il medicamento. Agitata per l’oltraggio di sua madre e per timori cui non era avvezza, se ne stava distesa, incapace di dormire, sobbalzando a ogni rumore. Poco dopo la porta si aprì delicatamente, e al suo sussulto udì un bisbiglio: «Non dorme ancora», e la porta si chiuse di nuovo. Con il cuore che le batteva forte restò in attesa di un’altra visita e quando, trascorso un certo intervallo, la sua camera fu di nuovo invasa, Idris, dopo essersi assicurata che gli intrusi erano sua madre e una domestica, si dominò in modo da simulare il sonno. Un passo si avvicinò al suo letto, essa non osò muoversi, sforzandosi di calmare le palpitazioni che si facevano sempre più violente. Sentì allora sua madre che diceva bisbigliando: «Piccola ingenua, non pensavi proprio che il tuo gioco fosse già arrivato per sempre alla fine».

  Per un momento la povera fanciulla immaginò che sua madre credesse che ella avesse bevuto del veleno: stava per saltare su, quando la contessa, già a una certa distanza dal letto, parlò a voce bassa alla sua compagna. Di nuovo Idris ascoltò: «Sbrigati», disse, «non c’è tempo da perdere. Sono passate già da molto le undici; saranno qui alle cinque; prendi solo i vestiti necessari per il viaggio, e lo scrigno delle sue gioie». La domestica obbedì; le due donne si scambiarono poche parole, che vennero afferrate con avidità dalla vittima designata. Sentì menzionare il nome della sua damigella… «No, no», replicò sua madre, «non viene con noi; Lady Idris deve dimenticare l’Inghilterra e tutto ciò che le appartiene». E sentì ancora: «Non si sveglierà, domani, che a giorno inoltrato, e allora saremo in mare». «E tutto pronto», annunciò infine la donna. La contessa si avvicinò di nuovo al letto di sua figlia: «In Austria almeno», disse, «obbedirai. In Austria, dove è possibile imporre l’obbedienza, e dove non verrà lasciata altra scelta tra un’onorevole prigionia e un matrimonio adeguato».

  Entrambe poi si ritirarono; mentre se ne andava, la contessa disse: «Piano; tutto dorme, anche se non tutto è stato predisposto perché dorma, come lei. Volevo che nessuno sospettasse, o lei avrebbe potuto opporre delle resistenze, e forse scappare. Vieni con me nella mia stanza; rimarremo là fino all’ora concordata». Uscirono. Idris, in preda al panico, ma rianimata e quasi resa più forte dall’eccesso di paura, si vestì in fretta; scese una rampa di scale di servizio ed evitando il vicino appartamento della madre, fuggì dal castello passando da una finestra bas-

  sa, e attraversò la neve, il vento e l’oscurità fino alla mia casa; non perse il coraggio fino al momento in cui arrivò, poi, riposto il suo destino nelle mie mani, si abbandonò alla disperazione e alla stanchezza.

  La confortai meglio che potei. Mie erano la gioia e l’esultanza per averla con me e poterla salvare. E tuttavia, per non suscitare nuova agitazione in lei, «per non turbar quel bel viso sereno»,87 frenai la mia gioia. Mi sforzai di acquietare la danza frenetica del mio cuore; distolsi da lei i miei occhi, che risplendevano di una tenerezza eccessiva, e con orgoglio sussurrai il mio trasporto alla notte oscura e all’atmosfera inclemente. Raggiungemmo Londra, a me parve, troppo presto; tuttavia, quando vidi l’esultanza con cui la mia amata fanciulla si ritrovò tra le braccia del fratello, al sicuro da ogni male sotto la sua ineccepibile protezione, non potei rimpiangere che fossimo arrivati presto.

  Adrian scrisse una breve nota alla madre, informandola che Idris era sotto le sue cure e la sua tutela. Trascorsero molti giorni, e infine giunse una risposta, proveniente da Colonia. «Era inutile», scriveva la dama altezzosa e delusa, «che il conte di Windsor e sua sorella si rivolgessero ancora al loro offeso genitore, la cui unica speranza di tranquillità era da trarsi nell’oblio delle loro esistenze. I suoi desideri erano stati frustrati, i suoi progetti distrutti. Non si lamentava; alla corte di suo fratello avrebbe trovato, non una compensazione per la loro disobbedienza (la crudeltà filiale non ne ammetteva alcuna), ma uno stato di cose e un tipo di vita che avrebbero potuto farla riconciliare al meglio col suo destino. Date le circostanze, dunque, rifiutava radicalmente qualsiasi comunicazione con loro».

  Questi furono gli strani e incredibili eventi che condussero infine alla mia unione con la sorella del mio migliore amico, con la mia adorata Idris. Con coraggio e semplicità, Idris mise da parte i pregiudizi e gli ostacoli che si frapponevano alla mia felicità, e non esitò a concedere la sua mano a colui al quale aveva concesso il suo cuore. Essere degno di lei, elevarmi alla sua altezza sforzandomi di esercitare ogni possibile qualità e virtù, per ripagare il suo amore con devota e instancabile tenerezza, fu il solo ringraziamento che potessi offrire per l’impareggiabile dono.

  CAPITOLO VII
Che il lettore sia ora introdotto, sorvolando un breve periodo di tempo, all’interno della nostra cerchia felice. Io, Adrian e Idris ci eravamo stabiliti nel castello di Windsor; Lord Raymond e mia sorella vivevano in una casa che Raymond aveva costruito ai margini di Great Park, vicino alla casa di Perdita, come veniva ancora chiamata quella casetta dal basso tetto dove noi due, poveri persino nella speranza, avevamo entrambi ricevuto l’assicurazione della nostra felicità. Avevamo occupazioni distinte e svaghi comuni. Talvolta passavamo giorni interi sotto il riparo degli alberi frondosi della foresta con i libri e la musica. Accadeva in quei rari giorni in cui, nel nostro paese, il sole si innalza sul suo trono etereo in una limpida maestosità, e l’aria senza vento è come un bagno di acqua traslucida e gradevole che avvolge i sensi di serenità. Quando le nubi velavano il cielo, e il vento le sparpagliava qua e là, lacerandone la trama e spargendone i frammenti per le aeree pianure, allora uscivamo a cavallo e cercavamo luoghi nuovi, angoli di bellezza e riposo. Quando le piogge frequenti ci costringevano dentro casa, allo studio mattutino seguiva il passatempo serale, introdotto da musica e canzoni. Idris aveva un talento musicale naturale, e la sua voce, che era stata coltivata con cura, era piena e dolce. Io e Raymond prendevamo parte al concerto, mentre Adrian e Perdita erano ascoltatori devoti. A quel tempo eravamo allegri come insetti estivi, giocosi come dei bambini; ognuno accoglieva l’altro sempre con un sorriso, e l’uno leggeva nel volto dell’altro solo soddisfazione e gioia. Le principali festività si passavano nella casa di Perdita; e non eravamo mai stanchi di parlare del passato o di sognare del futuro. Gelosia e inquietudine erano tra di noi sconosciute; né il timore o la speranza di un cambiamento turbavano mai la nostra tranquillità. Altri dicevano: dobbiamo essere felici… Noi dicevamo: lo siamo.

  Se per caso accadeva che ci separassimo era perché Idris e Perdita se ne andavano in giro insieme, mentre noi rimanevamo a discutere di faccende politiche e della filosofia della vita.

  E proprio la differenza dei nostri caratteri dava vivacità a queste conversazioni. Adrian era superiore per erudizione ed eloquenza; ma Raymond possedeva un intuito acuto e una conoscenza pratica della vita, con cui in genere teneva testa ad Adrian, e così tenevano alto il tono della discussione. Altre volte facevamo delle escursioni della durata di molti giorni, e attraversavamo il paese per visitare ogni località famosa per la bellezza o perché associata a qualche vicenda storica. Talora andavamo fino a Londra, e prendevamo parte ai divertimenti dei cittadini concitati; talora il nostro rifugio veniva invaso dalla visita di alcuni tra loro. Questo cambiamento ci rendeva ancor più sensibili alle gioie dell’intimità dei rapporti del nostro cerchio, della tranquillità della nostra divina foresta, e delle felici serate nelle sale del nostro amato castello.

  Il carattere di Idris era particolarmente schietto, mite e affettuoso. La sua disposizione d’animo era immutabilmente dolce; e anche se era ferma e determinata su ogni questione che riguardasse il suo cuore, era cedevole con quelli che amava. La natura di Perdita era meno perfetta, ma la tenerezza e la felicità migliorarono la sua disposizione e addolcirono la sua naturale riservatezza. Il suo intelletto era limpido e capace di vasta comprensione, l’immaginazione vivida; era sincera, generosa e ragionevole. Adrian, l’incomparabile fratello della mia anima, il sensibile ed eccezionale Adrian che amava tutti e da tutti era amato, sembrava però destinato a non trovare la metà di se stesso, colei che doveva rendere completa la sua felicità. A volte ci lasciava e vagabondava da solo per i boschi, oppure salpava con la sua piccola barca con i libri come unici compagni. Spesso era il più allegro della nostra compagnia, così come, al tempo stesso, era l’unico soggetto ad accessi di sconforto; la sua esile figura era come sopraffatta dal peso della vita, e la sua anima sembrava abitare nel suo corpo piuttosto che congiungersi a esso. Per parte mia, ero a malapena più attaccato alla mia Idris che a suo fratello: lei lo amava come maestro, amico, il benefattore che le aveva assicurato il compimento dei suoi più cari desideri. Raymond, l’ambizioso, l’inquieto Raymond, si trovava a metà della grande strada della vita, ed era soddisfatto di aver abbandonato tutti i suoi progetti di sovranità e fama, per essere uno di noi, i fiori del campo. Il suo regno era il cuore di Perdita, i suoi sudditi i pensieri di lei che lo amava, lo rispettava come un essere superiore, gli obbediva e lo serviva. Nessun compito, nessun atto di devozione, nessuna veglia erano per lei tediosi, se riguardavano lui. Spesso sedeva in disparte a osservarlo; e piangeva di gioia al pensiero che egli le apparteneva. Eresse un tempio per lui nel profondo del suo essere, ogni sua facoltà era una sacerdotessa votata al suo servizio. Talvolta poteva essere ostinata e capricciosa; ma il suo pentimento era amaro, la sua contrizione completa, e poi proprio questa instabilità di umore si confaceva a lui, che per natura non era adatto a navigare ozioso sul fiume della vita.

  Durante il primo anno di matrimonio, Perdita donò a Raymond una graziosa bimba. Era strano poter rintracciare su questo modello in miniatura i lineamenti esatti del padre. Le stesse labbra un po’ sprezzanti e il sorriso di trionfo, gli stessi occhi intelligenti, la stessa fronte e i capelli castani; persino le mani e le dita affusolate somigliavano alle sue. Quanto era cara a Perdita! Col passare del tempo anch’io divenni padre, e i nostri piccoli beniamini, nostro trastullo e gioia, suscitavano una moltitudine di sensazioni nuove e deliziose.

  Così passarono gli anni, proprio degli anni. Ogni mese portava il proprio erede, ogni anno un altro uguale a quello trascorso; le nostre vite erano davvero un commento vivente a quella bella sentenza di Plutarco secondo cui «le nostre anime hanno una naturale inclinazione all’amore, essendo nate tanto per amare, quanto per sperimentare sensazioni, per ragionare, per comprendere e per ricordare».88 Parlavamo di cambiamenti e di occupazioni attive, ma ciò nonostante restavamo a Windsor, incapaci di violare l’incantesimo che ci legava alla nostra vita appartata.

 

  Pareamo aver qui tutto il ben raccolto.

  Che fra mortali in più parte si rimembra.89

 

  Ora anche i nostri figli ci davano da fare, ma trovavamo delle scuse per la nostra pigrizia a escogitare piani e progetti per loro, in vista di qualche splendida carriera. Infine, però, la nostra tranquillità fu turbata, e il corso degli eventi, che per cinque anni era fluito in quieta tranquillità, fu interrotto da inconvenienti e ostacoli che ci risvegliarono dal nostro piacevole sogno.

  Doveva essere scelto un nuovo Lord Protettore d’Inghilterra90 e, su richiesta di Raymond, ci spostammo a Londra, per essere presenti e anche prendere parte all’elezione. Se Raymond si era unito a Perdita, questa posizione era stata per lui un passo verso una dignità superiore; il suo desiderio di potere e fama era stato coronato in piena misura. Aveva scambiato uno scettro per un liuto, un regno per Perdita.

  Pensava forse questo mentre eravamo in viaggio verso la città? Lo osservavo, ma potevo capire ben poco. Era particolarmente allegro, giocava con la figlia, e volgeva in scherzo ogni parola pronunciata. Forse faceva così perché vedeva una nuvola sulla fronte di Perdita. Quest’ultima cercava di tirarsi su, ma di tanto in tanto gli occhi le si riempivano di lacrime, e guardava con ansia Raymond e la sua bambina, quasi temendo che potesse accadere loro qualcosa di brutto. Tutto questo l’opprimeva. Incombeva su di lei un presentimento di sventure. Si sporse dal finestrino a guardare la foresta e le torrette del Castello, e quando rimasero nascoste alla sua vista, esclamò con passione: «Scene di felicità! luoghi consacrati all’amore devoto, quando vi rivedrò ancora! E quando vi rivedrò, sarò ancora l’amata e felice Perdita, oppure, affranta e confusa, vagherò per

 
    vostri boschi, ormai il fantasma di me stessa?»
 

  «Ma via, sciocchina», esclamò Raymond, «cosa sta meditando la tua testolina, che all’improvviso sei diventata così infinitamente triste? Allegra, o dovrò farti andare da Idris, e chiamare nella carrozza Adrian che, lo vedo dai gesti, è in sintonia col mio buon umore».

  Adrian era a cavallo; cavalcò fino alla carrozza, e la sua allegria, unita a quella di Raymond, scacciarono la malinconia di mia sorella. Entrammo a Londra in serata, e ci recammo nelle nostre diverse dimore vicino a Hyde Park.

  Il mattino seguente Lord Raymond venne a trovarmi di buon’ora. «Sono venuto da te», disse, «certo solo in parte che mi aiuterai nel mio progetto, ma deciso a portarlo a termine, che tu collabori con me o meno. Promettimi comunque che manterrai il segreto: perché se non vorrai contribuire al mio successo, almeno non dovrai ostacolarmi».

  «Bene, lo prometto. Allora?»

  «Allora, mio caro amico, perché siamo venuti a Londra? Per essere presenti all’elezione di un Protettore, per dare il nostro sì o il nostro no alla sua ambigua Grazia di…? O a quel turbolento di Ryland? Credi davvero, Verney, che vi abbia condotto in città per questo? No, avremo un nostro Protettore. Sceglieremo un candidato e gli assicureremo il successo. Nomineremo Adrian, e faremo del nostro meglio per fargli concedere il potere cui ha diritto per nascita, e che merita per le sue virtù.

  Non dire niente. Conosco tutte le tue obiezioni, e risponderò con ordine a ognuna di esse. Primo: acconsentirà o no a diventare un uomo famoso? Lascia a me il compito di persuaderlo su questo punto; non ti chiedo di aiutarmi in questo. Secondo: perché dovrebbe scambiare la sua occupazione, che è quella di cogliere more e curare pernici ferite nella foresta, con il comando di una nazione? Mio caro Lionel, noi siamo uomini sposati, ed è per noi già un impegno sufficiente rallegrare le nostre mogli, e giocherellare coi figli sulle ginocchia. Ma Adrian è solo, senza moglie, senza figli, senza un’occupazione: l’ho osservato a lungo. Egli languisce per la mancanza di un interesse nella vita. Il suo cuore, sfinito dalle sofferenze precoci, riposa come un arto guarito da poco e si sottrae a ogni eccitamento. Ma il suo intelletto, la sua carità, le sue virtù necessitano di un campo in cui esercitarsi e far mostra di sé; e noi glielo procureremo. Inoltre, non è una vergogna che il genio di Adrian debba svanire dalla terra, come un fiore di un sentiero di montagna isolato, senza dar frutti? Pensi forse che la Natura abbia creato la sua macchina eccellente senza uno scopo? Credimi, egli era destinato a essere l’artefice di una infinità di bene per l’Inghilterra, la sua terra natale. Non ha forse ricevuto a profusione tutti i doni possibili? Nascita, ricchezza, talento, bontà? Non lo amano e ammirano tutti? E non si compiace da solo quando riesce a dimostrare a tutti il suo amore? Bene, vedo che sei già convinto e che mi asseconderai quando stanotte lo proporrò in Parlamento».

  «Hai organizzato tutte le tue argomentazioni secondo un ordine eccellente», risposi, «e, se Adrian acconsente, esse sono incontestabili. Voglio porre soltanto una condizione: che tu non faccia niente senza la sua approvazione».

  «Credo che tu abbia ragione», disse Raymond; «anche se all’inizio avevo pensato di organizzare la questione in modo diverso. Che sia così. Andrò immediatamente da Adrian; e, se è propenso ad accettare, tu non distruggerai la mia fatica persuadendolo a tornare indietro, a essere di nuovo uno scoiattolo nella foresta di Windsor. Idris, tu non mi tradirai, vero?»

  «Fidati di me», rispose, «manterrò una rigida neutralità».

  «Da parte mia», dissi io, «sono troppo convinto del valore del nostro amico, e della messe abbondante di benefici che tutta l’Inghilterra potrà ricavare dal suo Protettorato, per privare i miei compatrioti di una tale benedizione, se egli acconsentirà a concederla loro».

  La sera Adrian venne a farci visita. «Anche tu congiuri contro di me», disse ridendo, «e farai causa comune con Raymond per strappare un povero visionario alle nuvole e circondarlo con i fuochi d’artificio e le cariche esplosive del fasto mondano, invece che coi raggi e le atmosfere celesti? Pensavo mi conoscessi meglio».

  «E ti conosco meglio», risposi, «tanto da ritenere che non saresti felice in una tale situazione; ma il bene che faresti agli altri potrebbe essere un incentivo, poiché è probabilmente giunto il momento di mettere in pratica le tue teorie; potresti finalmente realizzare quelle riforme e quei cambiamenti che condurranno a quel perfetto sistema di governo che è tuo diletto ritrarre».

  «Parli di un sogno quasi dimenticato», disse Adrian, e il suo volto si ombrò leggermente mentre parlava; «le visioni della mia adolescenza sono ormai da tempo svanite davanti alla luce della realtà; ora so che non sono un uomo adatto a governare le nazioni; è già sufficiente per me se mantengo un sano comando sul piccolo regno della mia mortalità.

  Possibile che non capisca, Lionel, la manovra del nostro nobile amico? Una manovra, forse, a lui stesso sconosciuta, ma evidente per me. Lord Raymond non è mai nato per essere un fuco nell’alveare, e per contentarsi della nostra vita pastorale. Egli pensa che dovrebbe essere soddisfatto; immagina che la sua attuale situazione gli precluda la possibilità di elevarsi, e per questo, anche in cuor suo, non fa piani di mutamento riguardo a se stesso. Ma non ti accorgi che, sotto l’idea di conferire dignità a me, sta delineando un nuovo sentiero per se stesso, un sentiero di azione lontano dal quale ha vagato a lungo?

  Aiutiamolo. Lui, il nobile, il battagliero, il grande in ogni qualità che può ornare la mente e la persona di un uomo: è ben adatto a essere il Protettore d’Inghilterra. Se io… cioè, se noi proponiamo il suo nome, sarà sicuramente eletto, e troverà, nei compiti di quell’alto ufficio, uno scopo per le eccelse doti della sua mente. Anche Perdita ne gioirà. Perdita, nella quale l’ambizione è stato un fuoco nascosto fino a che sposò Raymond, evento che per del tempo ha rappresentato il compimento delle sue speranze, Perdita gioirà della gloria e dell’avanzamento del suo signore e, con grazia e modestia, non sarà insoddisfatta della sua parte. Nel frattempo, noi, i saggi della terra, torneremo al nostro castello e, come Cincinnato,91 riprenderemo il nostro lavoro abituale, fino a che il nostro amico non avrà bisogno della nostra presenza e del nostro aiuto qui».

  Più Adrian ragionava su questo piano, più esso appariva realizzabile. La sua determinazione a non entrare in nessun caso nella vita pubblica era insormontabile, e la delicatezza della sua salute era un argomento che vi si opponeva con forza sufficiente. Il passo successivo era convincere Raymond a confessare i suoi desideri segreti di onorificenza e di fama. Mentre stavamo parlando egli entrò. Il modo in cui Adrian aveva accolto il progetto di proporlo come candidato per il Protettorato, e le sue risposte avevano già prospettato al suo animo l’argomento di cui stavamo discutendo. Il suo volto e i suoi modi tradivano irresolutezza e ansia; ma questa nasceva dalla paura che noi non andassimo fino in fondo o non avessimo successo con la nostra idea; l’irresolutezza, dal timore che non volessimo rischiare una sconfitta. Poche parole da parte nostra lo fecero decidere; speranza e gioia scintillarono nei suoi occhi: l’idea di impegnarsi in una carriera così congeniale alle sue abitudini antiche e ai suoi amati desideri lo rendeva energico e baldanzoso come un tempo. Discutemmo delle sue possibilità, dei meriti degli altri candidati e delle inclinazioni dei votanti.

  Tutto sommato però avevamo fatto male i nostri conti. Raymond aveva perso molta della sua popolarità ed era stato abbandonato dai suoi stessi sostenitori. L’assenza dall’indaffarato palcoscenico della vita politica lo aveva fatto dimenticare dal popolo. I suoi precedenti sostenitori, in Parlamento, erano principalmente i monarchici, che avevano accettato volentieri di farne un idolo quando si era presentato come l’erede del ducato di Windsor. Ma questi stessi erano indifferenti di fronte a lui, ora che si faceva avanti con attributi o distinzione non diversi da quelli che essi ritenevano comuni a molti tra di loro. Aveva ancora molti amici e ammiratori dei suoi talenti eccezionali; la sua presenza alla Camera, la sua eloquenza, il suo modo di fare e la sua bellezza imponente erano destinati a produrre un effetto elettrizzante. Anche Adrian, nonostante le sue abitudini solitarie e le sue teorie, così avverse allo spirito del partito, aveva molti amici che era facile indurre a votare per un candidato di sua scelta.

  Il duca di… e Ryland, l’antico antagonista di Lord Raymond, erano gli altri candidati. Il duca era sostenuto da tutti gli aristocratici della repubblica, che lo consideravano il loro vero rappresentante. Ryland era il candidato popolare; quando Lord Raymond fu aggiunto alla lista, le sue possibilità di successo apparivano scarse. Ci ritirammo dal dibattito che era seguito alla sua nomina: noi, che lo avevamo nominato, mortificati; lui, scoraggiato fino all’eccesso. Perdita ci rimproverò aspramente. Le speranze suscitate in lei erano fortissime; non aveva sollevato alcuna obiezione contro il nostro progetto; al contrario, ne era evidentemente compiaciuta: ma il suo chiaro insuccesso cambiava il corso delle sue idee. Perdita aveva la sensazione che, una volta ridestato all’azione, Raymond non sarebbe mai tornato a Windsor, senza affliggersi. Le sue abitudini erano sconvolte; risvegliato dal sonno il suo spirito inquieto, l’ambizione doveva ora essere la sua compagna per tutta la vita; e se non riusciva nel suo attuale tentativo, ella prevedeva che le conseguenze sarebbero state l’infelicità e un’incurabile insoddisfazione. Forse la stessa delusione di Perdita aggiunse una punta di amarezza ai suoi pensieri e alle sue parole; non fu tenera con noi, e le nostre riflessioni accrebbero la nostra inquietudine.

  Era necessario sostenere fino alla fine la nostra nomina, e persuadere Raymond a presentarsi agli elettori la sera seguente. Si oppose a lungo. Si sarebbe imbarcato su un pallone volante; avrebbe navigato verso una parte lontana del mondo, dove il suo nome e la sua umiliazione erano sconosciuti. Ma tutto era inutile: il suo tentativo era stato registrato; il proposito reso pubblico al mondo; la sua vergogna non avrebbe mai potuto essere cancellata dalla memoria degli uomini. Tanto valeva dunque fallire dopo aver almeno lottato, piuttosto che fuggire ora all’inizio dell’impresa.

  Dal momento in cui adottò quest’idea, fu un altro. La depressione e l’ansia svanirono: divenne pieno di vitalità e di energia. Il sorriso del trionfo risplendeva sul suo viso; deciso a perseguire la sua meta fino all’ultimo, i suoi modi e la sua espressione sembravano presagire la realizzazione dei suoi desideri. Non così Perdita. Era spaventata dalla sua gaiezza, perché temeva alla fine un mutamento repentino ancora maggiore. Se la presenza di Raymond ci infondeva addirittura speranza, questa stessa presenza rendeva lo stato d’animo di Perdita ancora più dolente. Aveva paura di perderlo di vista, e tuttavia temeva di notare un qualsiasi cambiamento nella sua disposizione d’animo. Lo ascoltava avidamente, eppure si tormentava dando alle sue parole un significato estraneo alla loro vera interpretazione, e contrario alle sue speranze. Non osava essere presente al dibattito, però restava a casa in preda a un’ansia duplice. Piangeva sulla sua bambina e, dal modo in cui si comportava e parlava, era come se temesse il verificarsi di qualche terribile calamità. Era resa quasi pazza dagli effetti di un’agitazione incontrollabile.

  Lord Raymond si presentò alla Camera con impavida sicurezza e col suo modo di fare accattivante. Dopo che il duca di… e Ryland ebbero concluso i loro discorsi, cominciò lui. Sicuramente non aveva meditato a fondo su quello che avrebbe dovuto dire, e all’inizio esitò, soffermandosi sulle idee e sulla scelta delle espressioni più adeguate. A poco a poco, però, cominciò a scaldarsi; le parole fluivano con facilità, il linguaggio era pieno di vigore e la voce di persuasione. Ritornò alla sua vita passata, ai suoi successi in Grecia, ai favori raccolti in patria. Perché doveva perdere tutto questo, ora che gli anni trascorsi, la prudenza, e la garanzia che il suo matrimonio davano al suo paese, avrebbero dovuto accrescere anziché diminuire le sue richieste di fiducia? Parlò della situazione dell’Inghilterra; delle misure che dovevano essere prese per garantirne la sicurezza e confermarne la prosperità. Fece un ritratto appassionato della sua situazione attuale. Mentre parlava, ogni suono fu messo a tacere, ogni opinione rimase sospesa perché tutta l’attenzione era concentrata su di lui. La sua bella eloquenza incantò i sensi degli ascoltatori. Egli era in qualche misura adatto anche a riconciliare tutte le parti: la sua nascita piaceva all’aristocrazia; il fatto di essere il candidato raccomandato da Adrian, uomo intimamente legato al partito popolare, induceva un certo numero di persone, che non avevano grande fiducia né nel duca né in Ryland, a schierarsi dalla sua parte.

  La battaglia si presentava accesa ma incerta. Né io né Adrian saremmo stati così ansiosi se il nostro stesso successo fosse dipeso dai nostri sforzi; ma eravamo noi ad aver spinto il nostro amico all’impresa, e stava a noi assicurarne il trionfo. Idris, che aveva la più elevata stima delle sue capacità, era vivamente interessata all’evento, e la mia povera sorella, che non osava sperare, e per la quale la paura era un tormento, sprofondò in un’ansia febbrile.

  Passavamo i giorni a discutere i progetti per la sera, e ogni notte era impegnata in dibattiti inconcludenti. Infine arrivò il momento cruciale: la notte in cui il Parlamento, dopo aver così a lungo rimandato la scelta, doveva decidere. Alla mezzanotte e all’inizio del nuovo giorno, in base alla costituzione, il Parlamento era sciolto e i suoi poteri decaduti.

  Insieme con i nostri sostenitori, ci riunimmo a casa di Raymond. Alle cinque e mezza ci dirigemmo verso il palazzo. Idris si sforzava di calmare Perdita; ma la poveretta era talmente agitata che aveva perso ogni capacità di autocontrollo. Camminava avanti e indietro per la stanza, fissava stravolta chiunque entrasse, immaginando che potesse essere colui che le annunciava il suo destino. Devo render giustizia alla mia dolce sorella: non era per se stessa che si tormentava in quel modo. Solo lei conosceva il peso che Raymond attribuiva al suo successo. Persino con noi egli fingeva gaiezza e speranza, e ci riusciva così bene che non indovinavamo il segreto arrovellarsi della sua mente. Talora un tremolio nervoso, una dissonanza acuta nella voce, momenti passeggeri di distrazione rivelavano a Perdita la violenza che egli faceva a se stesso; noi, invece, occupati nei nostri piani, osservavamo soltanto le sue pronte risate, gli scherzi proposti a ogni possibile occasione, la piena del suo umore che sembrava incapace di defluire. Perdita inoltre era con lui quando si ritirava in solitudine; osservava il malumore che seguiva questa forzata ilarità, il sonno disturbato, la penosa irritabilità. Una volta aveva visto le sue lacrime: lei, da quando aveva scorto le grosse gocce che l’orgoglio deluso aveva raccolto nei suoi occhi, senza riuscire a disperderle, non aveva quasi mai smesso di versarne. Come stupirsi dunque, se i suoi sentimenti erano turbati fino a tal punto! Così mi spiegavo la sua agitazione; ma non era tutto, e il seguito svelò un altro motivo.

  Strappammo un attimo, prima di andare alla Camera, per congedarci dalle nostre amate donne. Io nutrivo poche speranze di successo, e pregai Idris di badare a mia sorella. Quando mi avvicinai a lei, mi afferrò la mano e mi condusse in un’altra stanza. Mi si gettò tra le braccia, e pianse e singhiozzò amaramente, a lungo. Cercai di calmarla, l’invitai a sperare, le chiesi quali terribili conseguenze sarebbero seguite anche se non fossimo riusciti nel nostro intento. «Fratello mio», si dolse, «tu che mi hai protetto durante l’infanzia, caro, carissimo Lionel, il mio destino è appeso a un filo. Vi ho tutti intorno a me, ora… Tu, il compagno della mia infanzia; Adrian, che mi è caro come se fossimo uniti da legami di sangue; Idris, la sorella del mio cuore e la sua adorabile figlia. Ma questa, oh, questa potrebbe essere l’ultima volta che voi mi circondate così!».

  Si interruppe aH’improvviso e poi esclamò: «Cosa ho detto? che fanciulla sciocca e falsa son io!». Mi guardò stravolta, poi d’un tratto si calmò e si scusò per quelle che definì parole senza senso; disse che doveva essere davvero pazza, perché, finché Raymond era in vita, lei doveva essere felice; poi, sebbene stesse ancora piangendo, mi permise tranquillamente di lasciarla. Quando fu per andarsene Raymond le prese soltanto la mano, guardandola in modo espressivo, e lei rispose con uno sguardo d’intesa e di assenso.

  Povera ragazza! Cosa soffrì poi! Non potei mai perdonare completamente Raymond per le prove che le impose, provocate com’erano da un sentimento di egoismo da parte sua. Egli aveva progettato, in caso di fallimento, di salpare per la Grecia, senza salutare nessuno di noi, e di non tornare mai più in Inghilterra. Perdita aveva acconsentito ai suoi desideri; perché la felicità di Raymond era lo scopo principale della sua vita, il coronamento della sua gioia; ma lasciare noi tutti, i suoi amici, gli amati compagni degli anni più felici, e nascondere nel frattempo questa spaventosa decisione era un compito che ebbe quasi ragione della sua forza d’animo. Si era adoperata per preparare la loro partenza, e aveva promesso a Raymond che durante questa serata decisiva, approfittando della nostra assenza, si sarebbe avvantaggiata nel viaggio, mentre lui, una volta accertata la sconfitta, sarebbe sgattaiolato via da noi, e l’avrebbe raggiunta.

  Quando venni informato di questo piano fui profondamente offeso dalla scarsa attenzione che Raymond aveva dimostrato per i sentimenti di mia sorella; ma poi la riflessione mi fece considerare che egli aveva agito sotto la spinta di un’eccitazione talmente forte da privarlo della coscienza e quindi della colpevolezza legata all’errore. Se ci avesse permesso di vedere la sua agitazione, la ragione avrebbe avuto un dominio più saldo su di lui; ma le battaglie per dar mostra di compostezza agirono con una tale violenza sui suoi nervi da distruggere la sua capacità di autocontrollo. Sono sicuro che, nella peggiore delle ipotesi, sarebbe tornato indietro, dalla riva, per congedarsi da noi e per renderci partecipi dei suoi intenti. Ma il compito affidato a Perdita era nondimeno doloroso. Le aveva estorto un voto di segretezza; e la sua parte nel dramma, poiché doveva recitarla da sola, era la più straziante che potesse immaginarsi. Ma torniamo al mio racconto.

  Il dibattito era stato fino a quel momento lungo e rumoroso; spesso si era protratto solo per il gusto di ritardare. Ma ora tutti sembravano temere che il momento fatale passasse, mentre la scelta non era stata ancora effettuata. Regnava un silenzio inusitato nella Camera, i partecipanti parlavano solo sussurrando, e le questioni ordinarie vennero sbrigate con calma e celermente. Durante la prima fase dell’elezione, il duca di… era stato escluso; la partita si giocava quindi tra Lord Raymond e Ryland. Quest’ultimo si era sentito sicuro della vittoria fino alla comparsa di Raymond; da quando il suo nome era stato inserito tra i candidati, aveva fatto una propaganda appassionata. Era comparso ogni sera, l’impazienza e la rabbia segnati sul volto, guardandoci accigliato dall’altra parte di St Stephan,92 quasi che il suo solo cipiglio potesse eclissare le nostre speranze.

  Nella costituzione inglese tutto era stato predisposto per preservare al meglio la pace. L’ultimo giorno erano ammessi due candidati soltanto, e per evitare, se possibile, la lotta finale tra questi, veniva offerto un dono a colui che ritirasse volontariamente la propria candidatura: gli veniva offerto un posto ottimamente retribuito e facilitazioni nelle elezioni future. Per quanto possa sembrare strano, non si era ancora verificato un caso in cui uno dei due candidati avesse fatto ricorso a una tale disposizione; di conseguenza la legge era divenuta obsoleta, né alcuno di noi, durante le discussioni, vi aveva fatto riferimento. Con nostra somma sorpresa, quando ci fu richiesto formalmente di costituirci in commissione per l’elezione del Lord Protettore, il deputato che aveva nominato Ryland si alzò e ci informò che questo candidato si era ritirato. La notizia fu accolta dapprima dal silenzio, seguito da un mormorio confuso che, quando il presidente dichiarò Lord Raymond eletto secondo la legge, crebbe fino a esplodere in applausi e vittoriose grida di evviva. Ben lungi dalla sconfitta, si aveva l’impressione che ogni voce si sarebbe unita comunque in favore del nostro candidato, anche senza il ritiro di Ryland. Infatti, ora che l’idea di una disputa era stata messa da parte, i cuori tornarono nuovamente all’antico rispetto e all’ammirazione per il nostro valente amico. Tutti sentivano che l’Inghilterra non aveva mai visto un Protettore capace come lui di adempiere ai duri doveri dell’alto ufficio. Una voce composta di molte voci risuonò per la sala: scandiva il nome di Raymond.

  Egli entrò. Ero in una delle sedie più in alto, e lo vidi attraversare il corridoio fino al tavolo dell’oratore. La modestia propria della sua indole era più forte della gioia del trionfo. Si guardò intorno timidamente; sembrava ci fosse una nebbia davanti ai suoi occhi. Adrian, che era vicino a me, si affrettò verso di lui, e saltando giù per le panche fu in un momento al suo fianco. La sua vista rianimò il nostro amico, così, quando prese la parola, l’esitazione svanì del tutto e risplendette supremo per maestà e gloria. Il Protettore precedente gli fece prestare giuramento e gli offrì le insegne dell’ufficio, adempiendo alle cerimonie dell’insediamento. A questo punto l’assemblea si sciolse.

 
    principali membri dello Stato si affollarono intorno al nuovo magistrato e lo condussero al palazzo governativo. A un tratto Adrian sparì; e quando i sostenitori di Raymond erano oramai ridotti ai nostri più intimi amici, tornò conducendo Idris a congratularsi col suo amico per il successo.
 

  Ma dov’era Perdita? Nell’intento di assicurarsi sollecitamente, in caso di sconfitta, una fuga segreta, Raymond aveva dimenticato di stabilire come informarla del suo successo; e Perdita era stata troppo agitata per volgersi a questa eventualità. Quando Idris entrò, Raymond era così fuori di sé che chiese di mia sorella: una parola sulla sua misteriosa scomparsa gli richiamò tutto alla mente. Adrian, è vero, era già andato in cerca della fuggiasca, immaginando che la sua ansia indomabile l’avesse condotta nei dintorni del Parlamento, e che qualche contrattempo funesto la trattenesse. Ma Raymond, senza dare spiegazioni, ci abbandonò improvvisamente, e un momento dopo lo sentimmo galoppare giù per la strada, nonostante la pioggia e il vento che la tempesta disseminava sulla terra. Non sapevamo dove dovesse andare, e presto ci separammo, supponendo che entro breve tempo sarebbe tornato al palazzo con Perdita, e che non gli sarebbe dispiaciuto trovarsi soli.

  Perdita era arrivata con la bambina a Darford, inconsolabilmente in lacrime. Diede disposizione affinché tutto fosse pronto per la prosecuzione del loro viaggio, e posando il suo incantevole fardello, assopito, sul letto, trascorse diverse ore in acute sofferenze. Talvolta osservava la guerra degli elementi, pensando che anch’essi si dichiaravano contro di lei, e ascoltava il ticchettio della pioggia con cupa disperazione. Talvolta si chinava sulla sua bambina, e ne tracciava la somiglianza col padre col timore che, nel corso deliavita, manifestasse le stesse passioni e gli stessi impulsi incontrollabili che rendevano lui un infelice. E ancora, in un impeto di gioia e orgoglio, notava nei lineamenti della piccola lo stesso sorriso di bellezza che spesso illuminava il volto di Raymond. Questa vista la calmò. Pensò al tesoro che possedeva nell’affetto del suo signore, ai suoi successi, che superavano quelli dei suoi contemporanei, al suo ingegno, alla sua devozione per lei… Pensò che avrebbe ben potuto rinunciare a tutto quello che possedeva al mondo, eccetto lui, anzi, avrebbe potuto donarlo con gioia, quale offerta propiziatoria, per assicurarsi il bene supremo che possedeva nella persona di lui. Subito immaginò che il destino pretendesse questo sacrificio da lei, come segno della sua devozione a Raymond, e che ciò andasse fatto con gioia. Si raffigurò la loro vita sull’isola greca che lui aveva scelto per il loro esilio, il compito a lei riservato di calmarlo, le sue cure per la bella Clara, le galoppate in compagnia di lui, e la sua vita consacrata al compito di consolarlo. Il quadro le si presentò allora con colori talmente vividi che ebbe paura del contrario, di una vita di magnificenza e potere a Londra, dove Raymond non sarebbe più stato solamente suo, né lei l’unica fonte di felicità per lui. Per quanto riguardava soltanto lei, cominciò a sperare in una sconfitta; e fu solo per amore di Raymond che i suoi sentimenti vacillarono quando lo sentì arrivare, al galoppo, nel cortile della locanda. Che venisse da lei solo, inzuppato dalla tempesta, incurante di tutto eccetto della velocità, cos’altro poteva significare se non che, solinghi e sconfitti, dovevano abbandonare la nativa Inghilterra, il teatro della vergogna, e nascondersi nei boschi di mirto delle isole greche?

  In un attimo fu tra le sue braccia. La consapevolezza del successo era entrata a far parte di lui a tal punto da fargli dimenticare che era necessario rivelarlo alla sua compagna. Perdita avvertì nel suo abbraccio solo una cara rassicurazione che fin- tanto che egli possedeva lei, non avrebbe disperato. «Questo è gentile», esclamò, «è davvero nobile, mio amato! Oh, non temere la disgrazia o una sorte umile, finché hai la tua Perdita; non temere il dolore, finché la nostra bambina vive e sorride. Andiamo pure dove vuoi; l’amore che ci accompagna ci impedirà di avere rimpianti».

  Ciò dicendo, serrata nel suo abbraccio, gettò indietro il capo cercando un segno di consenso alle sue parole negli occhi di lui, che lampeggiavano di gioia ineffabile. «Allora, mia piccola Lady Protettrice», disse lui scherzando, «cos’è che dici? E quale bel progetto di esilio e tenebre hai intessuto, mentre una tela più luminosa, un tessuto intrecciato d’oro, è ciò che in realtà devi rimirare?».

  La baciò sulla fronte, ma l’imprevedibile fanciulla, quasi dispiaciuta di questo trionfo, agitata dal rapido mutamento nel corso dei suoi pensieri, nascose il volto nel suo petto e pianse. Egli la confortò, le infuse le sue stesse speranze e i suoi stessi desideri, e presto sul suo volto splendette la comunione dei loro sentimenti. Come furono felici quella sera! E come era pieno, fin quasi a scoppiare, il loro sentimento di gioia!

  CAPITOLO VIII

Dopo aver visto il nostro amico debitamente insediato nella sua nuova carica, volgemmo gli occhi a Windsor. Questo luogo era così vicino a Londra che, quando lasciammo Raymond e Perdita, l’idea di una separazione dolorosa era assolutamente lontana da noi. Ci salutammo nel palazzo del Protettorato. Era veramente bello vedere mia sorella entrare, per così dire, nello spirito del dramma, e tendere ad adeguarsi alla sua condizione sociale con la dovuta dignità. Il suo orgoglio interiore e l’umiltà dei modi erano ora più che mai in guerra tra loro. La sua timidezza non era artificiosa, ma nasceva dalla paura di non essere debitamente apprezzata e da quella scarsa stima della noncuranza del mondo che caratterizzavano anche Raymond. Ma Perdita pensava agli altri in modo più costante di lui, e parte della sua ritrosia nasceva dal desiderio di scacciare da quelli intorno a lei il senso di inferiorità, un sentimento che in realtà non le attraversò mai la mente. Per condizioni di nascita ed educazione, Idris sarebbe stata più adatta alle formalità dei cerimoniali; ma la stessa naturalezza, derivata dall’abitudine, con cui lei accompagnava tali azioni le rendeva tediose; mentre, pur con tutti gli inconvenienti, Perdita era evidentemente felice della sua situazione. Era troppo ricolma di nuove idee per addolorarsi troppo quando ce ne andammo; ci salutò in modo affettuoso, e promise di venirci a trovare presto, ma non rimpianse le circostanze che c’inducevano a separarci. L’umore di Raymond era incontrollabile; non sapeva cosa fare del potere appena conquistato; aveva la testa piena di progetti, ma fino a quel momento non aveva deciso su niente. Promise però a se stesso, ai suoi amici e al mondo che l’era del suo Protettorato si sarebbe segnalata per qualche azione di valore eccezionale.

  E così, parlando di loro e facendo alte considerazioni morali, ce ne tornammo, diminuiti nel numero, al Castello di Windsor. Provammo una gioia intensa nella fuga dal caos della politica, e ricercammo la nostra solitudine con zelo raddoppiato. Non ci mancavano le occupazioni. Il mio carattere ardente era

  volto in questo momento solo al campo intellettuale; trovavo che il duro studio fosse un’eccellente medicina per placare la febbre dello spirito dalla quale, nell’indolenza, sarei stato senz’altro assalito. Perdita ci aveva permesso di portare Clara con noi a Windsor, e lei e i miei due adorabili bambini erano una continua fonte d’interesse e divertimento.

  L’unica circostanza che turbava la nostra pace era la salute di Adrian, che peggiorava sensibilmente, anche se non c’erano sintomi evidenti di una malattia, eccetto gli occhi lucidi, lo sguardo animato, i fremiti nervosi che gli percorrevano le guance, che ci facevano temere la terribile tubercolosi; ma lui non provava né sofferenza né paura. Si dedicava con ardore ai libri, e si riposava dallo studio con la compagnia che più amava, quella mia e di sua sorella. Talvolta andava a Londra a trovare Raymond e a osservare lo sviluppo degli eventi. Clara lo accompagnava spesso durante queste escursioni, un po’ perché così poteva vedere i genitori, un po’ perché Adrian si deliziava delle chiacchiere e dello sguardo intelligente di quella bambina adorabile.

  Nel frattempo, a Londra, tutto procedeva bene. Si erano tenute le nuove elezioni; il Parlamento si era riunito e Raymond era impegnato in una grande quantità di disegni volti al beneficio generale. Riguardavano canali, acquedotti, ponti, palazzi maestosi e vari edifici di pubblica utilità. Era sempre attorniato da progettisti e progetti che dovevano fare dell’Inghilterra uno scenario di abbondanza e magnificenza; la condizione di povertà doveva essere abolita; gli uomini dovevano essere trasportati da un posto all’altro quasi con la stessa facilità dei principi Houssain, Ali e Ahmed nelle Mille e una notte.93 Lo stato fisico dell’uomo, presto, non sarebbe stato secondo alla beatitudine degli angeli, la malattia sarebbe stata bandita, la fatica alleviata del suo carico più pesante.94 Tutto ciò non sembrava stravagante. Gli studi umanistici sulla vita e le scoperte della scienza erano aumentati in proporzione tale da superare qualsiasi tipo di calcolo; il cibo spuntava, per così dire, spontaneamente; esistevano macchinari per supplire con facilità a qualsiasi bisogno della popolazione. Sopravviveva ancora una tendenza malvagia, e gli uomini non erano felici non perché non potessero, ma perché non volevano destarsi e abbattere gli ostacoli che loro stessi avevano innalzato. Raymond doveva ispirarli con la sua volontà volta al bene, così che il meccanismo della società, una volta organizzato secondo regole prive di difetti, non potesse ricadere mai più nel disordine. Per queste speranze egli abbandonò l’ambizione a lungo accarezzata di essere registrato negli annali delle nazioni come un guerriero vittorioso; deposta la spada, la pace e la sua gloria duratura divennero il suo scopo. Il titolo cui ambiva era quello di benefattore del suo paese.

  Tra le altre opere d’arte che aveva progettato, c’era anche la costruzione di una Galleria Nazionale per statue e quadri. Egli stesso ne possedeva molti, che decise di regalare alla repubblica, e, poiché questo edificio doveva essere il grande ornamento del suo Protettorato, era molto esigente nella scelta del progetto in base al quale sarebbe stato costruito. Gliene furono presentati a centinaia e tutti vennero rifiutati. Fece addirittura ricercare alcuni schizzi in Italia e in Grecia; ma, poiché il disegno doveva possedere originalità e bellezza perfetta insieme, per un certo tempo i suoi sforzi furono inutili. Giunse infine un disegno, con un indirizzo dove potevano essere inviate le comunicazioni, ma senza un nome di artista scritto sopra. Le forme erano nuove ed eleganti, ma così imperfette che, sebbene disegnate con gusto, non erano certo opera di un architetto. Raymond lo contemplò con gioia; più lo osservava, e più ne era compiaciuto; e tuttavia gli errori si moltiplicavano all’esame. Scrisse all’indirizzo riportato, desiderando conoscere chi l’aveva disegnato, in modo che si potessero apportare quelle modifiche che una consultazione tra lui e l’autore del progetto originario avrebbe suggerito.

  Venne un greco. Un uomo di mezz’età, con una certa sagacia nei modi, ma di una fisionomia così ordinaria che Raymond stentava a credere che fosse il disegnatore. L’uomo ammise di non essere un architetto; ma l’idea del palazzo lo aveva colpito, anche se aveva mandato il disegno senza la minima speranza che venisse accettato. Era un uomo di poche parole. Raymond lo interrogò; ma le sue risposte riservate lo fecero presto volgere dall’uomo al disegno. Indicò gli errori, e le modifiche che desiderava apportare; offrì al greco una matita affinché correggesse lo schizzo lì sul posto, ma il suo visitatore si rifiutò, dicendo che aveva capito perfettamente e che vi avrebbe lavorato a casa. Alla fine Raymond lo lasciò andare.

  Il giorno dopo tornò. Il progetto era stato disegnato daccapo, ma rimanevano ancora molti difetti e diverse istruzioni erano state fraintese. «Ebbene», disse Raymond, «ieri fui io a cedere a voi, ora accondiscendete alla mia richiesta… Prendete la matita».

  Il greco la prese, ma non la maneggiava certo come un artista. Infine disse: «Devo confessarvi, mio Signore, che non sono stato io a fare questo disegno. E impossibile per voi vedere il vero disegnatore; le vostre istruzioni devono passare attraverso di me. Accettate dunque di avere pazienza per la mia ignoranza, e di spiegare a me i vostri desideri; col tempo sono certo che sarete soddisfatto».

  Raymond lo interrogò invano; il misterioso greco non avrebbe detto di più. Almeno un architetto avrebbe avuto il permesso di incontrare il disegnatore? Anche questo venne negato. Raymond ripeté le proprie istruzioni, e il visitatore si ritirò. Il nostro amico decise comunque di non permettere che il suo desiderio venisse frustrato. Sospettò che la causa del mistero fosse una povertà inconsueta, e che l’artista non volesse essere visto negli abiti e nella dimora della sua indigenza. Ma questa considerazione lo induceva, ancor più intensamente, a scoprire chi fosse; spinto dall’interesse verso il talento nascosto ordinò dunque a una persona abile in tali faccende di seguire il greco, la prossima volta che fosse venuto, e di osservare la casa in cui sarebbe entrato. Il suo emissario obbedì, e portò l’informazione desiderata. Aveva seguito l’uomo fino a una delle strade più povere della metropoli. Raymond non si stupì che, vivendo in questo modo, l’artista fosse stato restio a mostrarsi, ma non per questo cambiò la propria decisione.

  Quella sera stessa, andò da solo nella casa che gli era stata indicata. Povertà, sporcizia e squallida miseria ne caratterizzavano l’aspetto. Ahimè!, pensò Raymond, devo fare molto prima che l’Inghilterra diventi un paradiso. Bussò; la porta si aprì con uno spago che pendeva dall’alto. Le scale rotte e misere gli si pararono subito davanti, ma non comparve nessuno; bussò di nuovo, invano… Allora, non sopportando ulteriori indugi, salì le scale scure e scricchiolanti. Il suo più grande desiderio, ancor più ora che vedeva l’abietta dimora dell’artista, era di portare sollievo a una persona dotata di talento, ma depressa dal bisogno. Si dipinse nell’immaginazione un giovane, con gli occhi scintillanti di genio e la persona sfinita dalla fame. Temeva quasi di fargli cosa sgradita; ma confidò nel fatto che avrebbe amministrato la sua premura con tale delicatezza da non suscitare un rifiuto. Quale cuore umano è chiuso alla gentilezza? E se anche la povertà, nei suoi eccessi, può rendere il sofferente incapace di sottomettersi alla supposta degradazione di un beneficio, lo zelo del benefattore deve, infine, conquistarlo e scioglierlo nel ringraziamento. Questi pensieri infusero coraggio a

  Raymond, mentre era davanti alla porta dell’alloggio del piano più alto della casa. Dopo aver cercato invano di entrare nelle altre stanze, scorse, su una soglia, un paio di piccole pantofole turche; la porta era socchiusa, ma all’interno tutto taceva. Probabilmente l’inquilino era assente; tuttavia, certo di aver trovato la persona giusta, il nostro avventuroso Protettore fu colto dalla tentazione di entrare, lasciare un portamonete sul tavolo e andarsene in silenzio. Aprì dunque delicatamente la porta… La stanza era abitata.

  Raymond non aveva mai visitato dimore segnate dall’indigenza, e la scena che gli si presentò lo colpì fin nel profondo del cuore. Il pavimento era sfondato in molti punti; le pareti logore e spoglie, il soffito macchiato dall’umidità, un letto malandato in un angolo; c’erano soltanto due sedie nella stanza e un tavolo rudimentale, rotto, sul quale bruciava una luce posta dentro una sottile bugia. Eppure, in mezzo a tale povertà, così terribile da far male al cuore, si respirava un’aria di ordine e pulizia che lo sorprese. Questo pensiero fu passeggero, perché la sua attenzione fu immediatamente attirata dall’abitante della miserabile dimora. Era una donna. Sedeva al tavolo; si proteggeva gli occhi dalla candela con la piccola mano, nell’altra teneva una matita; lo sguardo era fisso su uno schizzo che aveva davanti, in cui Raymond riconobbe il disegno che gli era stato presentato. Tutto il suo aspetto risvegliò il suo più profondo interesse. I capelli neri erano intrecciati e attorcigliati in grosse crocchie, come la pettinatura di una statua greca; l’abito era misero, ma il suo atteggiamento avrebbe potuto essere scelto come un modello di grazia. Raymond ebbe la vaga sensazione di aver già visto prima quella figura; attraversò la stanza; la donna non alzò gli occhi, ma in romaico chiese: «chi è?» «Un amico», rispose Raymond nello stesso dialetto. La donna alzò lo sguardo con aria interrogativa, ed egli vide che era Evadne Zaimi. Evadne, un tempo l’idolo dell’amore di Adrian; colei che, per amore di questo visitatore, aveva disdegnato il nobile giovane e poi, rifiutata da colui che amava, con le speranze infrante e un pungente senso di disperazione era tornata nella nativa Grecia. Quale cambiamento di fortuna poteva averla condotta in Inghilterra, e ridotta a vivere in una simile dimora?

  Raymond la riconobbe; da un atteggiamento cortese e caritatevole i suoi modi si cambiarono nella più calorosa manifestazione di gentilezza e simpatia. La vista di lei, nella sua attuale situazione, gli trafisse l’anima come una spada. Le sedette vicino, le prese la mano, e disse una quantità di cose dalle quali trapelava il più profondo spirito di compassione e affetto. Evadne non rispondeva; i suoi grandi occhi scuri erano volti in basso, fino a che una lacrima luccicò tra le ciglia. «Così», esclamò, «la gentilezza può fare quello che né il bisogno né la miseria hanno mai provocato: io piango». E in verità, abbandonato il capo sulla spalla di Raymond, sparse molte lacrime. Egli le tenne la mano e le baciò le guance scavate, bagnate dalle lacrime; le disse che ora le sue sofferenze erano finite. Nessuno possedeva l’arte di saper consolare come Raymond. Egli non usava argomentazioni fredde o retoriche, ma il suo sguardo risplendeva di comprensione e partecipazione; suscitava immagini piacevoli davanti agli occhi di chi soffriva; le sue carezze non suscitavano diffidenza, perché nascevano semplicemente dal sentimento che induce una madre a baciare il bambino che si è fatto male, dalla volontà di dimostrare in ogni modo la sincerità dei suoi sentimenti e l’intenso desiderio di versare un balsamo sull’anima lacerata dell’infelice.

  Non appena Evadne riacquistò la sua compostezza, Raymond si fece persino allegro e cominciò a scherzare con l’idea della sua povertà. Qualcosa gli diceva che non erano i mali concreti che le opprimevano il cuore, quanto la degradazione e il disonore che ne derivavano. Mentre discorreva egli allontanò queste miserie, lodando con energia la sua forza d’animo; poi, alludendo alla sua passata condizione sociale, la chiamava la sua principessa travestita. Le fece appassionate offerte di aiuto; ma Evadne era troppo occupata in pensieri ben più gravi per accettarle o rifiutarle. Infine la lasciò, promettendole di tornare a trovarla il giorno seguente. Rientrò a casa carico di sentimenti contrastanti: la pena suscitata dalla miseria di Evadne, e il piacere alla prospettiva di recarle sollievo. Qualche motivo, per il quale non cercò spiegazione nemmeno con se stesso, lo trattenne dal riferire la sua avventura a Perdita.

  Il giorno dopo si mimetizzò alla meglio gettandosi addosso un mantello, e tornò di nuovo a trovare Evadne. Durante il cammino comprò un cesto di frutta prelibata, come quella originaria della terra di lei, vi mise sopra fiori belli e variegati, e lo portò nella misera soffitta dell’amica. «Guarda», esclamò mentre entrava, «che cibo da uccellino ho portato per il mio passerotto che vive sul tetto!».

  Evadne gli raccontò la storia delle sue disgrazie. Suo padre, sebbene fosse di rango elevato, aveva dissipato le sue fortune, e persino distrutto la sua reputazione e la sua influenza con una vita di dissoluta indulgenza. La sua salute si era irreparabilmente compromessa, e il suo più ardente desiderio, prima di morire, fu di salvare la figlia dalla povertà che avrebbe avuto in sorte se fosse rimasta orfana. Accettò dunque per lei, e la convinse a fare altrettanto, una proposta di matrimonio da parte di un ricco commerciante greco che viveva a Costantinopoli. Evadne abbandonò la Grecia nativa; suo padre morì; a poco a poco fu tagliata fuori da tutte le compagnie e i legami della sua gioventù.

  La guerra, che era scoppiata circa un anno prima tra Grecia e Turchia, portò con sé diversi rovesci di fortuna. Suo marito dichiarò bancarotta; durante un tumulto e sotto la minaccia di un massacro da parte dei turchi, furono costretti a fuggire; a mezzanotte, con una barchetta raggiunsero un vascello inglese che li portò subito in Inghilterra. I pochi gioielli che avevano salvato permisero loro di sostentarsi per un po’. Tutta la forza d’animo di Evadne era tesa a sostenere l’umore sempre più depresso del marito. La perdita delle proprietà, le prospettive future totalmente prive di speranza, l’inerzia cui la povertà lo condannava si allearono per condurlo al limite della follia. Cinque mesi dopo il loro arrivo in Inghilterra si tolse la vita.

  «Mi chiederai», proseguì Evadne, «cosa ho fatto da allora; perché non mi sono rivolta ai ricchi greci che risiedono qui; perché non sono tornata nella mia terra natale. La mia risposta a queste domande ti dovrà per forza di cose apparire insoddisfacente, e tuttavia è bastata a farmi andare avanti, giorno dopo giorno, facendomi sopportare ogni disgrazia, piuttosto che cercare il sollievo con simili mezzi. Che la figlia del nobile, e sia pur prodigo Zaimi, appaia pure una mendicante davanti ai suoi pari o ai suoi inferiori: ma superiori non ne ha alcuno. Devo forse chinare il capo davanti a loro, e con gesto servile vendere la mia nobiltà per la vita? Avessi un figlio, o un qualsiasi vincolo che mi legasse all’esistenza, potrei abbassarmi a questo, ma, così com’è, il mondo è stato con me una cattiva matrigna; lascerei di buon grado la dimora che sembra volermi concedere a malavoglia, per dimenticare nella tomba il mio orgoglio, le mie lotte, la mia disperazione. Ma verrà presto il tempo; il dolore e la fame terribile hanno già minato alle fondamenta il mio essere; un tempo molto breve, e io me ne sarò andata. Non macchiata dal crimine dell’autodistruzione, non ferita dalla memoria della degradazione, la mia anima getterà via questo miserabile guscio e troverà la ricompensa che la forza e la rassegnazione possono meritare. Questa ti potrebbe sembrare follia, e pure anche tu hai orgoglio e determinazione; non ti stupire allora se il mio orgoglio è indomabile, la mia determinazione irremovibile».

  Finì il suo racconto ed espose, in un modo che riteneva adeguato, i motivi della sua riluttanza a rivolgere qualsiasi richiesta di aiuto ai suoi compatrioti; poi fece una pausa. Sembrava però che avesse da dire altre cose, cose alla quali era incapace di dare parole. Nel frattempo Raymond era loquace. Lo animavano il desiderio di restituire alla cara amica il suo posto nella società e la sua ricchezza perduta, e lasciò così fluire con entusiasmo tutti i suoi desideri e le sue intenzioni a questo proposito. Ma venne frenato; Evadne gli strappò la promessa di nascondere a tutti gli amici di lei la sua esistenza in Inghilterra. «I parenti del conte di Windsor», disse con alterigia, «ritengono senz’altro che io gli abbia fatto del male; forse il conte stesso sarebbe il primo ad assolvermi, ma probabilmente non merito assoluzione. Agii allora, come sempre, d’impulso. Che almeno questa dimora d’indigenza possa provare la mancanza d’interesse che impronta la mia condotta. Non importa: non desidero perorare la mia causa davanti a nessuno di loro, neppure davanti alla Vostra Signoria, se solo tu per primo non mi avessi trovato. Il corso delle mie azioni dimostrerà che preferirei morire, piuttosto che essere oggetto di disprezzo… Guardate l’orgogliosa Evadne nei suoi stracci! Ecco la principessa stracciona! C’è il veleno del cobra in un simile pensiero. Promettimi che non violerai il mio segreto!».

  Raymond promise; poi seguì una nuova discussione. Evadne richiese da parte sua un altro impegno, e cioè che egli non intraprendesse alcun progetto a suo beneficio, né le offrisse lui stesso assistenza, senza il suo consenso. «Non degradarmi davanti ai miei stessi occhi», disse; «la povertà è stata a lungo la mia balia; ha un volto duro, ma onesto. Se il disonore, o ciò che io ritengo sia un disonore, mi si avvicina, sono perduta». Raymond addusse molte argomentazioni e cercò con fervore di vincere i suoi sentimenti, ma non riuscì a convincerla; ma Evadne, agitata dalla discussione, con ardore e passione giurò solennemente di fuggire e di nascondersi dove lui non avrebbe mai potuto trovarla, dove la fame avrebbe in breve tempo permesso alla morte di porre fine ai suoi dolori, se lui persisteva nelle sue offerte, così penose per lei. Era in grado di sostentarsi, disse. E gli mostrò come, eseguendo vari disegni e dipinti, guadagnava una miseria per il suo sostentamento. Raymond per il momento cedette. Era sicuro del fatto che, dopo aver assecondato per un po’ la sua caparbietà, l’amicizia e la ragionevolezza avrebbero alla fine vinto la battaglia.

  Ma i sentimenti che muovevano Evadne erano radicati nel profondo del suo essere, ed erano cresciuti in modo tale che luipoteva comprenderli. Evadne amava Raymond. Egli era l’eroe della sua immaginazione, la figura scolpita in eterno dall’amore nel tessuto del suo cuore. Sette anni prima, nel fiore della giovinezza, si era affezionata a lui; egli era l’uomo che si era messo al servizio del suo paese contro i Turchi, che aveva conquistato nella sua stessa terra quella gloria militare così cara ai greci, che erano ancora costretti a combattere metro per metro per la loro sicurezza. Tuttavia, quando Raymond lasciò la Grecia e fece la sua prima apparizione sulla pubblica scena in Inghilterra, l’amore di lei non lo conquistò, egli oscillava allora tra Perdita e una corona. Mentre egli era così combattuto, Evadne aveva lasciato l’Inghiterra; la notizia del suo matrimonio la raggiunse, e le sue speranze, come fiori nutriti miseramente, appassirono e caddero. La gloria della vita per lei era finita; l’alone roseo dell’amore, che aveva riverberato su ogni oggetto il suo colore, svanì… Si accontentava di prendere la vita come veniva e di trarre il meglio dalla realtà incolore. Si sposò; e, portando l’inquieta energia del suo carattere su nuovi scenari, rivolse i suoi pensieri all’ambizione. Puntava al titolo e al potere di principessa di Wallachia e intanto metteva a tacere i suoi sentimenti patriottici con l’idea del bene che suo marito, una volta a capo di questo principato, avrebbe potuto fare per il suo paese. Viveva alla ricerca dell’ambizione, un’illusione irreale come l’amore. I suoi intrighi con la Russia per ottenere i suoi scopi suscitarono il sospetto del governo ottomano e l’ostilità di quello greco. Venne considerata da entrambi una traditrice, e a ciò seguì la rovina del marito; evitarono la morte con una fuga tempestiva, e fu così che cadde dall’altezza dei suoi desideri all’indigenza in Inghilterra. Gran parte di questa storia la nascose a Raymond; non gli confessò nemmeno che, a qualunque greco si fosse rivolta, avrebbe ricevuto disprezzo e rifiuto, come un criminale accusato del peggiore dei crimini, quello di brandire la falce del dispotismo straniero per estirpare le nascenti libertà del suo paese.

  Evadne sapeva di essere stata la causa dell’improvvisa rovina di suo marito, e si costringeva a sopportarne le conseguenze: i rimproveri dettati dall’angoscia, o peggio, una depressione incurabile e rassegnata, quando la sua mente era sprofondata in un penoso torpore silenzioso e immobile. Si rimproverava del crimine della morte di lui; la colpa e i suoi tormenti sembravano circondarla; si sforzava invano di sedare il rimorso con il ricordo della sua reale integrità; il resto del mondo, e lei stessa con loro, giudicava le sue azioni in base alle loro conseguenze.

  Pregava per l’anima di suo marito; supplicava l’Altissimo di far ricadere sul suo capo il crimine del suicidio del marito. Giurò di vivere per espiare la sua colpa.

  In mezzo a tanta disperazione, che in breve tempo avrebbe potuto distruggerla, un solo pensiero era per lei motivo di consolazione. Viveva nello stesso paese e respirava la stessa aria di Raymond. Il suo nome, in quanto Protettore, era il ritornello di ogni lingua; le sue imprese, i suoi progetti e la sua magnificenza, il soggetto di ogni storia. Nulla è così prezioso per il cuore di una donna quanto la gloria e l’eccellenza di colui che ama; così davanti a ogni orrore, Evadne trovava piacere nella fama e nella prosperità di Raymond. Finché suo marito era in vita, considerava questo sentimento come un crimine, e lo reprimeva penten- dosene. Quando egli morì, la marea dell’amore riprese il suo antico flusso inondando la sua anima con i suoi flutti tumultuosi, e lei vi si abbandonò, preda del suo potere incontrollabile.

  Ma mai, mai Raymond avrebbe dovuto vederla nella sua condizione degradata. Mai avrebbe dovuto contemplarla decaduta, come lei riteneva, dall’orgoglio della sua bellezza, lei, misera abitante di una soffitta, con un nome che era diventato un rimprovero, e il peso della colpa sull’anima. Viveva nascosta da un velo per lui impenetrabile, ma l’incarico pubblico di Raymond le permetteva di venire a conoscenza delle sue azioni, del corso giornaliero della sua vita, persino delle sue conversazioni. Si concedeva un lusso, guardava ogni giorno i giornali e banchettava con le lodi e le azioni del Protettore. Non che questo privilegio fosse privo di dolore. Il nome di Perdita era sempre unito al suo; la loro felicità coniugale veniva celebrata con l’autentica testimonianza dei fatti. Erano sempre insieme, né l’infelice Evadne poteva leggere la breve parola che designava il suo nome senza che, al tempo stesso, comparisse l’immagine di colei che era la fedele compagna di tutte le sue fatiche e tutti i suoi piaceri. Loro, le Loro Eccellenze, incontravano i suoi occhi a ogni riga, mescolando una pozione malvagia che le avvelenava il sangue.

  E fu sul giornale che vide l’annuncio per il disegno di una Galleria Nazionale. Combinando con gusto il ricordo degli edifici che aveva visto in Oriente, con uno sforzo d’ingegno che conferisse uniformità di stile, eseguì il piano che era stato mandato al Protettore. Esultò all’idea di offrire, sconosciuta e dimenticata com’era, un beneficio a colui che amava; e con orgoglio entusiasta non vedeva l’ora di realizzare un suo lavoro che, immortalato nella pietra, sarebbe stato tramandato alla posterità contrassegnato dal nome di Raymond. Attendeva con impazienza il ritorno del suo messaggero dal palazzo; ascoltava insaziabile il racconto di ogni parola, di ogni sguardo del Protettore; provava una gioia immensa in questa comunicazione col suo amato, anche se lui non sapeva a chi indirizzasse le sue istruzioni. Lo stesso disegno le divenne indicibilmente caro. Lui l’aveva visto e l’aveva lodato; e di nuovo lo ritoccò, e ogni tratto della sua matita era come una corda di una musica vibrante, che le suggeriva l’idea di un tempio innalzato per celebrare le più profonde e ineffabili emozioni della sua anima. Era assorta in queste meditazioni quando, la prima volta, la raggiunse la voce di Raymond, una voce che, una volta sentita, non poteva essere mai più dimenticata. Dominò il prorompere dei sentimenti e lo accolse con pacata gentilezza.

  Orgoglio e tenerezza erano ora in lotta, e alla fine giunsero a un compromesso. Lo avrebbe visto, perché il destino l’aveva condotto a lei, che, per costanza e devozione, doveva meritarne l’amicizia. Ma i suoi diritti nei confronti di Raymond, e la sua amata indipendenza, non sarebbero stati intaccati dall’idea dell’interesse, o dall’intervento dei complicati sentimenti che accompagnano gli obblighi finanziari, e i rapporti fra benefattore e beneficiato. Il suo animo era straordinariamente forte; poteva sottomettere i bisogni materiali ai voleri della mente, soffrire il freddo, la fame, la miseria piuttosto che cedere alla fortuna un punto contestato. Ahimè! ché nella natura umana un tale grado di disciplina mentale e di disprezzo sdegnoso della natura stessa non dovesse essere unito alla più alta eccellenza morale! Ma la decisione che le permetteva di resistere alle sofferenze della privazione, proveniva dall’eccesso di energia delle sue passioni; e l’estrema caparbietà di cui essa era un segno era destinata a distruggere proprio quello stesso idolo, per conservare il cui rispetto essa si era piegata fino a tanta miseria.

  La loro relazione proseguì. A poco a poco Evadne raccontò al suo amico tutta la sua storia, la macchia che il suo nome aveva ricevuto in Grecia, il peso del peccato che le era derivato dalla morte del marito. Quando Raymond si offerse di togliere qualsiasi ombra dalla sua reputazione, e dimostrare al mondo il suo vero patriottismo, dichiarò che era solo attraverso le sue attuali sofferenze che sperava di trovare un qualsiasi sollievo alle fitte della coscienza; che nelle condizioni in cui versava la sua mente, malata come lui poteva immaginare, la necessità del lavoro era una medicina salutare. Terminò strappandogli la promessa che per un mese si sarebbe trattenuto dal discutere del suo inte-

  resse, e in cambio si impegnò a cedere in parte ai suoi desideri. Evadne non poteva nascondere a se stessa che qualsiasi cambiamento l’avrebbe separata da lui, mentre ora lo vedeva ogni giorno. Il legame di Raymond con Adrian e Perdita non veniva mai menzionato; egli era per lei una meteora, una stella solitaria che all’ora designata sorgeva nel suo emisfero, che al suo apparire portava felicità e che, sebbene tramontasse, non si eclissava mai. Veniva ogni giorno nella sua povera dimora, e la sua presenza la trasformava in un tempio odoroso di dolcezze, irraggiante della stessa luce del cielo; e lui partecipò al suo delirio. «Costruirono un muro tra loro e il mondo».95 Fuori strepitavano mille arpie, il rimorso e l’infelicità, in attesa del momento predestinato alla loro invasione. Dentro, regnava la pace dell’innocenza, della cecità imprudente, della gioia illusoria, della speranza la cui ferma ancora riposa su acque placide ma incostanti.

  Così, mentre Raymond era stato avvolto in visioni di potere e di fama, mentre bramava di conquistare il dominio degli elementi e della mente dell’uomo, il territorio del suo stesso cuore sfuggiva alla sua osservazione; e da quella distrazione scaturì il maestoso torrente che sommerse la sua volontà, e trascinò nel mare dell’oblio la fama, la speranza, e la felicità.

  CAPITOLO IX

  Nel frattempo cosa faceva Perdita?

  Durante i primi mesi del suo Protettorato, lei e Raymond erano inseparabili; ogni progetto veniva discusso con lei, ogni piano da lei approvato. Non ho mai visto qualcuno così perfettamente felice come la mia dolce sorella. I suoi occhi espressivi erano due stelle i cui raggi erano d’amore; speranza e gaiezza posavano sulla sua fronte serena. Si nutriva, fin quasi a versare lacrime di gioia, delle lodi e della gloria del suo signore; la sua intera esistenza era un sacrificio a lui, e se nell’umiltà del suo cuore provava dell’autocompiacimento, questo nasceva dalla consapevolezza di aver conquistato l’illustre eroe del secolo, e averlo difeso per anni, anche dopo che il tempo aveva sottratto all’amore il suo consueto nutrimento. I suoi sentimenti erano intatti come quando erano nati. Cinque anni non erano riusciti a distruggere l’abbacinante irrealtà della passione. La maggior parte degli uomini lacerano senza pietà il sacro velo col quale il cuore femminile ha bisogno di adornare l’idolo dei propri affetti. Non così Raymond; egli era un incantatore il cui regno non diminuiva mai; un re il cui potere non veniva mai sospeso: anche nelle minuzie della vita quotidiana lo adornavano ancora la stessa affascinante grazia e maestà, e non poteva essere spogliato della deificazione innata di cui la natura lo aveva investito. Perdita crebbe in bellezza ed eccellenza sotto i suoi occhi; non riconoscevo più la mia riservata e assorta sorella nell’affascinante e franca moglie di Raymond. L’ingegno che illuminava il suo viso era ora unito a un’espressione di benevolenza, che dava una perfezione divina alla sua bellezza.

  La felicità è, nel suo grado più elevato, sorella della bontà. Sofferenza e amabilità possono esistere insieme, e gli scrittori le hanno sempre e volentieri descritte congiunte: c’è un’armonia commovente e umana nell’immagine. Ma la perfetta felicità è un attributo degli angeli, e quelli che la posseggono appaiono angelici. È stato detto che la paura è parente della religione: ed è proprio la paura che induce i fedeli a sacrificare vittime uma

  ne ai suoi altari. Ma la religione che scaturisce dalla felicità cresce e si sviluppa in modo più armonioso; è la religione che fa mormorare al cuore ferventi ringraziamenti e ci induce a dare libero sfogo all’anima traboccante davanti all’artefice della nostra esistenza, che dà vita all’immaginazione e nutrimento alla poesia, che permette una comprensione ispirata dal bene del meccanismo visibile del mondo e fa della terra un tempio che ha il cielo come volta. Siffatta felicità, bontà e religione vivevano nell’animo di Perdita.

  Durante i cinque anni che avevamo passato insieme, una piccola comunità di uomini felici al castello di Windsor, il suo destino beato era stato il tema frequente della conversazione di mia sorella. Per antica abitudine, e per affetto naturale, Perdita preferiva me, ad Adrian o Idris, come compagno cui raccontare la sua gioia trabboccante; anche se in apparenza eravamo molto diversi, c’era forse qualche segreto punto di somiglianza, frutto della consanguineità, che l’induceva a questa preferenza. Molte volte, al tramonto, ho passeggiato con lei per i sentieri ombrosi della foresta, coi loro colori attenuati, e l’ho ascoltata con gioiosa partecipazione. La sicurezza dava dignità alla sua passione, la certezza di essere pienamente corrisposta non lasciava alcun suo desiderio insoddisfatto. La nascita della figlia, copia in miniatura del suo Raymond, rendeva completa la sua soddisfazione, e creava tra di loro un legame sacro e indissolubile. Talvolta si sentiva orgogliosa del fatto che lui l’avesse preferita alle speranze di una corona. Talvolta ricordava di aver sofferto di un’angoscia acuta quando lui esitò nella sua scelta. Ma il ricordo della scontentezza passata serviva solo ad accrescere la sua gioia presente. Quanto era stato duramente conquistato, e ora interamente posseduto, era doppiamente caro. Lo guardava da lontano con lo stesso trasporto (oh, un trasporto ben più eccezionale in realtà!) che potrebbe provare colui che, dopo i pericoli di una tempesta, si trova nell’agognato porto; gli correva incontro per sentire più forte, tra le sue braccia, la realtà della sua beatitudine. Questo calore nell’affetto, aggiunto alla profondità della sua comprensione e alla brillantezza della sua immaginazione, la rendevano cara a Raymond oltre ogni dire.

  Se mai l’attraversò un sentimento di insoddisfazione, nasceva dall’idea che lui non fosse perfettamente felice. Il desiderio di fama e un’arrogante ambizione avevano contraddistinto la gioventù di Raymond. L’una l’aveva conquistata in Grecia; l’altra l’aveva sacrificata all’amore. Il suo intelletto trovava terreno sufficiente per esercitarsi nel suo circolo domestico, molti dei cui membri, tutti dotati degli ornamenti della raffinatezza e della cultura letteraria, si distinguevano, come lui, per l’ingegno. E tuttavia era la vita attiva l’autentico terreno delle sue virtù, e talvolta si annoiava per il succedersi monotono degli eventi nella nostra vita ritirata. L’orgoglio gli impediva di lamentarsi; e la gratitudine e l’affetto per Perdita agivano in genere come un narcotico per tutti i desideri, eccetto quello di meritare il suo amore. Tutti noi notavamo il presentarsi di questi sentimenti, e nessuno se ne rammaricava tanto quanto Perdita. La sua vita, consacrata a lui, era un sacrificio ben lieve per ricompensarne la scelta, ma non era sufficiente. Provava lui dunque il bisogno di una gratificazione che lei non era in grado di offrirgli? Questa era l’unica nube nell’azzurro della sua felicità.

  Il suo passaggio al potere era stato molto doloroso per entrambi. Egli comunque realizzò il suo desiderio: occupò la posizione per cui la natura sembrava averlo forgiato. La sua attività veniva alimentata con salutare moderazione, senza sfinimento né sazietà; il suo gusto e il suo ingegno trovavano degna espressione in ognuno dei modi che gli esseri umani hanno inventato per catturare e rendere manifesto lo spirito della bellezza; la bontà del suo cuore non lo rendeva mai stanco di contribuire al benessere dei suoi simili; la sua anima generosa e le aspirazioni al rispetto e all’amore dell’umanità ricevevano ora il loro compimento; vero, il suo trionfo era temporaneo, ma forse era meglio che fosse così. L’abitudine non avrebbe affievolito la sua capacità di gioire per il potere; né lotte, né delusione, né sconfitta avrebbero atteso la conclusione del suo incarico. Decise così di ricavare e concentrare tutta la gloria, il potere e le conquiste che sarebbero potute derivare da un lungo regno, nei tre anni del suo Protettorato.

  Raymond era un carattere particolarmente socievole. Tutto quello che in questo momento gli dava gioia, sarebbe stato per lui privo di piacere, se non lo avesse condiviso con qualcuno. Ma con Perdita possedeva tutto ciò che il suo cuore poteva desiderare. L’amore, in lei, faceva nascere la comunione; l’intelligenza le permetteva di capirlo da una sola parola; le capacità del suo intelletto le permettevano di assisterlo e guidarlo. E lui sentiva il suo valore. Nei primi anni della loro unione, la volubilità del suo temperamento, unita alla sua indomabile caparbietà, macchia del suo carattere, avevano rappresentato una lieve imperfezione nella pienezza del sentimento di lui. Ora che un’immutata serenità e una gentile condiscendenza si erano

  aggiunti alle altre qualità di lei, il rispetto di Raymond era pari all’amore. Gli anni accrebbero la perfezione della loro unione. Ormai non cercavano d’indovinare, titubanti, il modo di piacere, sperando e insieme temendo la continuazione di questa immensa felicità. Cinque anni davano una certezza più sobria alle loro emozioni anche se non le derubavano della loro natura eterea. Questo tempo aveva dato loro una figlia, ma nulla aveva sottratto alle attrattive personali di mia sorella. La timidezza, che in lei diventava quasi goffaggine, si tramutò in una graziosa fermezza di modi; la franchezza, invece della ritrosia, improntava la sua fisionomia, e la sua voce era accordata a una dolcezza vibrante. Aveva ora ventitré anni, era nel pieno della sua maturità di donna, e adempiva ai doveri preziosi di moglie e madre possedendo tutto quello che il suo cuore aveva sempre ardentemente desiderato. Raymond aveva dieci anni di più; alla bellezza, al nobile portamento e all’aspetto autoritario di un tempo, aggiungeva ora una gentilissima benevolenza, una seducente tenerezza, una garbata e infaticabile attenzione ai desideri dell’altro.

  Il primo segreto fra loro furono le visite di Raymond a Evadne. Egli era stato colpito dalla forza d’animo e dalla bellezza della sfortunata greca; quando la costante tenerezza della donna nei suoi confronti giunse a mostrarsi, si chiese con stupore in virtù di quale azione aveva meritato questo amore appassionato eppure non ricambiato. Per qualche tempo Evadne fu l’unico oggetto delle sue fantasticherie; e Perdita si accorse che i suoi pensieri e il suo tempo erano dedicati a un soggetto di cui lei non veniva fatta partecipe. Mia sorella era per natura priva dei sentimenti volgari della gelosia petulante e ansiosa. Il tesoro che possedeva con l’affetto di Raymond era necessario al suo essere, più del sangue vitale che scorreva nelle sue vene; ben più di Otello poteva dire:

 

  Essere una volta in dubbio,

  Significa essere già decisi.96

  In questa occasione non sospettò che ci fosse un allontanamento affettivo, ma suppose che questo mistero fosse provocato da qualche situazione legata al suo alto incarico. Era spaventata e addolorata. Cominciò a contare i lunghi giorni, e i mesi, e gli anni che dovevano passare, prima che egli venisse restituì-

  to alla vita privata e dunque, senza riserve, a lei. Non era certo contenta che, sia pure per una volta, egli dovesse nasconderle qualcosa, e spesso si lamentava; ma la sua fiducia nell’esclusività dell’affetto di Raymond era intatta; e quando erano insieme, libera da paure, apriva il suo cuore alla gioia più piena.

  Il tempo passava. Raymond, arrestandosi nella sua folle corsa, fece improvvisamente una pausa per pensare alle conseguenze. Due scenari gli si presentarono nella visione del futuro. Che la sua relazione con Evadne continuasse in segreto, o che alla fine fosse scoperta da Perdita. L’indigenza dell’amica e il suo stato di profondo turbamento gli impedivano di prendere in considerazione l’eventualità di congedarsi definitivamente da lei. Nel primo caso egli avrebbe dato un addio eterno alla conversazione sincera, così come alla completa comunione spirituale con la compagna della sua vita. Il velo doveva essere più pesante di quello inventato dalla gelosia dei turchi, il muro più alto della torre inattaccabile di Vathek,97 perché dovevano nasconderle i moti del suo cuore e celare alla sua vista il segreto delle sue azioni. Questa idea gli risultava intollerabilmente penosa. La schiettezza e la socievolezza costituivano l’essenza della natura di Raymond, senza le quali le sue virtù diventavano ordinarie; se queste qualità non spargevano gloria sulla sua relazione con Perdita, lo scambio tanto celebrato di un trono per il suo amore era debole e vuoto come i colori di un arcobaleno che svaniscono quando il sole è tramontato. Ma non c’era rimedio. Genialità, devozione, e coraggio, gli ornamenti della sua mente e le energie della sua anima, tese fino all’estremo, non potevano far retrocedere nemmeno di un solo capello le ruote del carro del tempo; quello che era stato, era scritto con la penna adamantina della realtà sul libro eterno del passato; né l’angoscia e le lacrime potevano bastare a lavare via un solo iota dagli atti ormai compiuti.

  Ma questo era il lato migliore della questione. Cosa sarebbe successo se le circostanze avessero indotto Perdita a sospettare, e sospettando, ad agire? A quest’idea, le fibre del suo corpo si rilassarono e un sudore freddo gli cosparse la fronte. Molti uomini potrebbero deridere la sua paura; ma lui leggeva nel futuro; e la pace di Perdita gli era troppo cara, la sua muta angoscia troppo certa, e troppo spaventosa, per non prostrarlo. Decise rapidamente quale condotta intraprendere. Se accadeva il peggio, se Perdita veniva a conoscenza della verità, egli non avrebbe sopportato i suoi rimproveri, né l’angoscia del suo sguardo alterato. Avrebbe abbandonato lei, l’Inghilterra, i suoi amici, gli scenari della sua gioventù, le speranze del tempo a venire, avrebbe cercato un altro paese, e su altre scene ricominciato la vita. Dopo aver preso questa decisione divenne più calmo. Si sforzò di guidare con prudenza i destrieri del destino sulla strada traversa che aveva scelto e concentrò tutti i suoi sforzi per nascondere il meglio possibile quello che non poteva mutare.

  Data la perfetta fiducia che esisteva tra lui e Perdita, non c’erano segreti tra loro. Aprivano l’uno le lettere dell’altro, proprio come, fino a quel momento, a ognuno era svelata anche la più intima piega del cuore dell’altro. Giunse una lettera inaspettata, Perdita la lesse. Se avesse contenuto una conferma, avrebbe dovuto esserne annichilita. Così, tremante, fredda e pallida, cercò Raymond. Era solo e stava esaminando alcune petizioni presentate di recente. Perdita entrò senza far rumore, si sedette su un divano di fronte a lui e lo fissò con uno sguardo carico di una tale disperazione che le urla più selvagge e i lamenti più atroci, paragonati all’incarnazione vivente dei sentimenti che lei mostrava, sarebbero state insulse dimostrazioni di sofferenza.

  Da principio egli non alzò gli occhi dalle carte; quando li sollevò, fu colpito dalla disperazione evidente sul suo volto alterato; per un momento dimenticò le proprie azioni e le proprie paure, e chiese costernato: «Mia carissima fanciulla, cosa c’è, cos’è successo?»

  «Nulla», rispose lei in un primo momento; «e pure no, non è così», continuò, affrettandosi nel discorso; «tu hai dei segreti Raymond; dove sei stato ultimamente, chi hai visto, cosa mi nascondi? Perché mi escludi dalla tua confidenza? Ma non è questo il modo… Non voglio intrappolarti con delle domande, una sola basterà: sono completamente finita?».

  Con mano tremante gli diede la lettera, e si sedette, bianca e immobile, a guardarlo mentre la leggeva. Egli riconobbe la scrittura di Evadne, e il colore gli salì alle guance. Con la velocità del lampo immaginò i contenuti della lettera; tutto era adesso affidato a un solo tiro di dadi: falsità e stratagemmi erano sciocchezze se paragonati alla rovina incombente. O dissipava completamente i sospetti di Perdita o l’abbandonava per sempre. «Mia cara ragazza», disse, «sono io da biasimare; ma devi perdonarmi. Ho sbagliato a nasconderti così le cose, ma l’ho fatto per risparmiarti della sofferenza; poi ogni giorno mi ha reso più difficile cambiare piano. E inoltre ero spinto da un senso di riguardo nei confronti dell’infelice che ha scritto queste poche righe».

  Perdita respirò a fatica: «Bene», gridò, «bene, vai avanti!»

  «Questo è tutto; questo foglio dice tutto. Mi trovo nella situazione più difficile. Ho fatto del mio meglio, anche se forse ho sbagliato. Il mio amore per te è rimasto inviolato».

  Perdita scosse il capo dubbiosa: «Non può essere», esclamò, «so che non è così. Vorresti ingannarmi, ma non mi lascerò ingannare. Ho perso te, me stessa, la mia vita!».

  «Non mi credi?», chiese Raymond con fare altezzoso.

  «Crederti!», esclamò. «Rinuncerei a tutto, e morirei con gioia, se nella morte potessi sentire che eri sincero, ma non può essere!».

  «Perdita», proseguì Raymond, «tu non vedi il precipizio sul quale ti trovi. Puoi forse credere che io non abbia adottato l’attuale linea di condotta senza riluttanza e sofferenza. Sapevo che era possibile che tu potessi nutrire dei sospetti; ma confidavo nel fatto che la mia parola, da sola, li avrebbe fatti svanire. Ho costruito la mia speranza sulla tua fiducia. Pensi che sarò interrogato e che le mie risposte, sdegnosamente, non verranno prese neppure in considerazione? Pensi che sarò sospettato, forse spiato, contro-interrogato, e non creduto? Non sono ancora caduto così in basso; il mio onore non è ancora così macchiato. Tu mi hai amato; io ti adoravo. Ma tutti i sentimenti umani giungono a una fine. Che il nostro affetto muoia, dunque, ma non lasciamo che venga tramutato in sfiducia e recriminazione. Finora siamo stati amici, amanti, non diventiamo dunque adesso nemici, spie reciproche. Io non posso vivere per essere oggetto di sospetto… Tu non puoi credermi: separiamoci, allora!».

  «Ecco, proprio così!», gridò Perdita, «sapevo che si sarebbe giunti a questo! Non siamo già divisi? Non si spalanca forse tra di noi un torrente sconfinato come il mare, profondo come il vuoto?».

  Raymond si alzò, aveva la voce rotta, i lineamenti contratti, i modi calmi come l’atmosfera che culla il terremoto; rispose: «Mi rallegro che tu prenda la mia decisione in modo così filosofico. Senza dubbio reciterai la parte della moglie offesa in modo ammirevole. Talvolta potresti essere colta dalla sensazione di avermi fatto un torto, ma le condoglianze dei tuoi parenti, la pietà del mondo, il compiacimento che la consapevolezza della tua immacolata innocenza ti daranno, saranno un balsamo eccellente… Quanto a me, non mi vedrai mai più!».

  Raymond si avviò verso la porta. Dimenticava che ogni parola che diceva era falsa. Interpretava la sua presunzione di innocenza fino a ingannare se stesso. Non hanno forse pianto gli attori mentre rappresentavano passioni immaginarie? Raymond possedeva un sentimento della realtà della finzione ancor più intenso. Parlava con orgoglio; si sentiva ferito. Perdita alzò gli occhi; vide il suo sguardo rabbioso; aveva la mano sulla maniglia della porta. Balzò in piedi, gli si gettò al collo singhiozzando, col respiro affannoso. Egli le prese la mano, la condusse al divano e si sedette vicino a lei. Tremava, il capo abbandonato sulla spalla di lui, mutamenti alterni di fuoco e ghiaccio le attraversavano le membra; vedendo la sua emozione egli le parlò con toni più dolci:

  «Il colpo è stato inferto. Ma non mi separerò da te con rabbia: ti devo troppo. Ti devo sei anni di felicità pura. Ma sono passati. Non vivrò il marchio del sospetto, oggetto di gelosia. Ti amo troppo. Solo in una separazione eterna ognuno di noi può sperare di ritrovare la dignità e il decoro dell’azione. E allora non ci saremo umiliati degradando i nostri veri caratteri. Devozione e fiducia sono stati finora l’essenza della nostra relazione; perse queste, non aggrappiamoci alla buccia senza seme della vita, alla conchiglia senza frutto. Tu hai la tua bambina, tuo fratello, Idris, Adrian…».

  «E tu», gridò Perdita, «colei che ha scritto quella lettera!».

  Un’indignazione incontrollabile lampeggiò negli occhi di Raymond. Egli sapeva che quest’accusa almeno era falsa. «Nutrì pure questa convinzione», esclamò, «stringitela al cuore, fanne il cuscino per il tuo capo, il sonnifero per i tuoi occhi: mi sta bene. Ma, lo giuro sul Dio che mi ha creato, l’inferno non è più ingannevole delle parole che tu hai pronunciato!».

  Perdita fu colpita dall’appassionata gravità delle sue affermazioni. Rispose con serietà: «Non mi rifiuto di crederti, Raymond; al contrario prometto di dare fiducia incondizionata alla tua semplice parola. Solo assicurami che l’amore e la fiducia nei miei confronti non sono mai stati violati; e il sospetto, il dubbio, la gelosia si dissiperanno all’istante. Continueremo come abbiamo sempre fatto, un solo cuore, una sola speranza, una sola vita».

  «Ti ho già rassicurato della mia fedeltà», disse Raymond con sdegnosa freddezza, «asserzioni ripetute e molteplici non saranno di alcun giovamento se si viene disprezzati. Non dirò nulla di più; perché non posso aggiungere niente a quanto ho già detto, a quanto hai prima rifiutato sprezzantemente di prendere in considerazione. Questo alterco è indegno di entrambi; e confesso di essere stanco di rispondere ad accuse infondate e crudeli».

  Perdita cercò di leggere i tratti di quel volto, che egli rabbiosamente volgeva altrove. C’era così tanta verità e naturalezza nel suo risentimento che i suoi dubbi si dileguarono. Il volto di lei, che per anni non aveva espresso solo sentimenti affini all’affetto, tornò a essere radioso e pago. Non fu comunque un compito facile addolcire e rappacificare Raymond. All’inizio egli si rifiutava di stare ad ascoltarla. Ma Perdita non si sarebbe fatta scoraggiare; sicura del suo amore inalterato, era disposta a sottostare a qualsiasi fatica, usare ogni supplica, per disperdere la sua rabbia. Ottenne ascolto; egli sedette chiuso in un silenzio altezzoso, ma la stava a sentire. Dapprima lo rassicurò della sua fiducia senza limiti; di questo egli doveva essere consapevole, perché se non fosse stato per questo non avrebbe cercato di trattenerlo. Poi passò in rassegna i loro anni di felicità; gli presentò davanti scene passate di intimità e felicità; dipinse la loro vita futura, menzionò la loro bambina: le lacrime le riempirono gli occhi. Cercò di scacciarle, ma esse rifiutavano di essere trattenute; la voce era soffocata. Non aveva pianto prima. Raymond non poté resistere di fronte a questi segni di costernazione: probabilmente provò un po’ di vergogna per la parte dell’uomo ferito che aveva recitato, in verità era lui colui che aveva offeso. E poi amava devotamente Perdita; il suo modo di inclinare il capo, i suoi riccioli luminosi, le curve del suo corpo erano per lui oggetto di profonda tenerezza e ammirazione; mentre lei parlava, il suo tono melodioso gli penetrò nell’anima; presto si chinò dolcemente verso di lei, confortandola e accarezzandola, e sforzandosi di ingannare se stesso fino a indursi a credere di non averle mai fatto dei torti.

  Raymond uscì barcollando da questa scena, come potrebbe fare un uomo appena sottoposto alla tortura che guardi avanti, al momento in cui gli sarà nuovamente inflitta. Aveva peccato contro il suo stesso onore, affermando, giurando una chiara menzogna; vero, aveva ingannato una donna, e pertanto avrebbe potuto essere considerato meno meschino, da altri, ma non da lui… Difatti chi aveva ingannato? La sua fiduciosa, devota, affezionata Perdita, la cui fede generosa lo irritava doppiamente, ricordando l’ostentazione di innocenza che aveva richiesto. Per quante asprezze e avversità avesse subito dalla vita, l’animo di Raymond era tutt’altro che inattaccabile a simili considerazioni. Egli era, al contrario, tutto nervi; il suo spirito era come un fuoco puro che si affievolisce e si ritrae al contatto dell’atmosfera ripugnante: ma ora il contagio era divenuto tutt’uno con la sua essenza, e il cambiamento era ancor più penoso. Verità e menzogna, amore e odio perdevano i loro eterni confini, il cielo si lanciava a capofitto per mescolarsi con l’inferno, mentre il suo animo sensibile, il campo di tale battaglia, era spinto alla follia. Si disprezzava dal profondo del cuore, era adirato con Perdita, e l’idea di Evadne si accompagnava a tutto quello che era odioso e crudele. Le sue passioni, da sempre sue dominatrici, acquistarono nuova forza dal lungo sonno in cui l’amore le aveva cullate; il carico del destino, che gli si avvinghiava addosso, lo faceva piegare; era pungolato, torturato, ferocemente insofferente di fronte al peggiore dei tormenti, il senso del rimorso. Questo stato di inquietudine cedette a poco a poco a un’animosità ostile e a una depressione dello spirito. I suoi subordinati, persino i suoi pari, se ancora ne aveva nella sua attuale posizione, erano stupiti di scoprire rabbia, scherno e amarezza in colui che prima si era distinto per dolcezza e benevolenza di modi. Sbrigava gli affari pubblici con fastidio, e si affrettava a ritirarsi nella solitudine che era al tempo stesso la sua rovina e il suo conforto. Montava un cavallo focoso, quello che lo aveva condotto fino alla vittoria in Grecia; si sfiniva con esercizi estenuanti, cercando di allontanare gli spasmi della mente tormentata in sensazioni animalesche.

  Riprese lentamente possesso di se stesso; alla fine, come farebbe una persona in preda agli effetti del veleno, sollevò il capo sopra i vapori della febbre e della passione, nella quieta atmosfera di una serena riflessione. Meditò su quello che era meglio fare. Fu innanzitutto colpito dal tempo che era trascorso da quando la follia, e non certo un qualsiasi impulso ragionevole, aveva guidato le sue azioni. Era passato un mese, e durante questo periodo non aveva visto Evadne. Il potere della donna, che era legato a poche emozioni durevoli del suo cuore, era enormemente declinato. Non era più il suo schiavo, non più il suo amante: non l’avrebbe rivista mai più, e ritornato compieta- mente a lei, avrebbe meritato la fiducia di Perdita.

  Mentre prendeva questa decisione, la fantasia evocava la miserabile abitazione della fanciulla greca, una casa che Evadne, in nome di principi nobili ed elevati, aveva rifiutato di cambiare con una più lussuosa. Raymond pensò allo splendore della sua condizione e al suo aspetto quando la vide la prima volta;

  pensò alla sua vita a Costantinopoli, circondata di tutta la magnificenza orientale; alla sua attuale indigenza, al bisogno che la obbligava a ingegnarsi giorno per giorno, al suo stato derelitto, alle sue guance smagrite, segnate dalla fame. La compassione gli gonfiò il petto: l’avrebbe vista soltanto una volta ancora; avrebbe escogitato qualche piano per restituirla alla società, e alla posizione che le spettava; poi, come è naturale, sarebbe seguita la loro separazione.

  Di nuovo pensò come durante questo lungo mese avesse evitato Perdita, sfuggendole come si fa dai pungoli della propria coscienza. Ma adesso era sveglio; a tutto ciò bisognava porre rimedio; e la devozione futura avrebbe cancellato la memoria di quest’unica macchia nella serenità della loro vita. Pensando a ciò, e tracciando con sobrietà e risolutezza le linee della sua futura condotta, divenne allegro. Si ricordò che, per quella sera (il 19 ottobre, anniversario della sua elezione come Protettore), aveva promesso a Perdita di partecipare a una festa che si dava in suo onore e che doveva dunque essere di buon auspicio per la felicità degli anni futuri. Prima avrebbe fatto una breve visita a Evadne. Non si sarebbe trattenuto, ma le doveva qualche spiegazione, qualche risarcimento per questa lunga assenza, senza alcun preavviso. E poi da Perdita, al mondo dimenticato, ai doveri della società, al fasto della sua posizione, alle gioie del potere!

  Dopo la scena descritta nelle pagine precedenti, Perdita aveva constatato un cambiamento radicale nei modi e nel comportamento di Raymond. Si aspettava franchezza nella comunicazione, e un ritorno a quelle abitudini affettuose nella loro relazione che avevano costituito la gioia della sua vita. Ma Raymond non si univa a lei in nessuno dei suoi svaghi. Sbrigava gli affari giornalieri lontano da lei e non sapeva dove andasse quando usciva. La sofferenza che questa delusione le infliggeva era acuta e tormentosa. Lo considerava un sogno ingannevole, e cercava di sbarazzarsi di questa consapevolezza; ma, come la camicia di Nesso,98 essa le si avvinghiava alla carne, e consumava con un’intensa angoscia il suo principio vitale. Perdita possedeva ciò che appartiene a pochi (anche se una tale affermazione potrebbe apparire un paradosso): la capacità di essere felice. Il suo organismo delicato e la sua immaginazione creativa la rendevano particolarmente sensibile alle emozioni piacevoli. Il calore straboccante del suo cuore, facendo dell’amore una pianta dalle radici profonde e dallo sviluppo maestoso, aveva reso la sua anima pronta ad accogliere la felicità, quando trovò in Raymond tutto quello che poteva abbellire l’amore e soddisfare la sua immaginazione. Ma se il sentimento sul quale l’edificio della sua esistenza era fondato diveniva, col prendervi parte, qualcosa di normale, una volta che la successione continua di attenzioni e di gentilezze veniva improvvisamente a cessare e l’universo dell’amore di Raymond le veniva a forza strappato, allora la felicità era destinata ad allontanarsi e a mutarsi nel suo opposto. Le stesse peculiarità del suo carattere erano tali da trasformare le sofferenze in angosce; la sua fantasia le amplificava, la sensibilità la rendeva sempre vulnerabile al rinnovarsi delle loro impressioni; l’amore avvelenava il tormento che straziava il cuore. Non c’era né sottomissione, né pazienza, né abnegazione nel suo dolore; ella combatteva contro di esso, si contorceva sotto di lui, e questa resistenza rendeva ogni fitta ancor più acuta. Più e più volte tornava l’idea che lui amasse un’altra. Gli rendeva giustizia; credeva che lui sentisse un tenero affetto per lei; ma date un misero premio a chi, in una lotteria dalla quale dipende la vita, ha contato sul possesso di un tesoro immenso: questo lo deluderà più del nulla. L’affetto e l’amicizia di un uomo come Raymond potevano essere inestimabili; ma, oltre quell’affetto, racchiuso ancor più in profondità dell’amicizia, c’era il tesoro indivisibile dell’amore. Prendi la somma nella sua interezza, e nessuna aritmetica potrà calcolarne il valore; togligli anche la più piccola parte, dai un nome alle singole parti, separale per gradi e sezioni e, come la moneta del mago, l’inestimabile oro della miniera si trasforma nella sostanza più vile. C’è un significato nello sguardo dell’amore; una cadenza nella sua voce, una luminosità nel suo sorriso e il talismano di questi incantesimi può possederli uno soltanto; il suo spirito è elementare, la sua essenza unica, la sua divinità un’unità. Il cuore e l’anima stessi di Raymond e Perdita si erano mescolati, proprio come due ruscelli montani si uniscono mentre scendono a valle; mormorando e spumeggiando scivolano sopra ciottoli brillanti, di fianco ai fiori stellati; ma se solo uno abbandona il suo corso originario, o viene arginato da un’ostruzione che lo soffoca, anche l’altro allora si restringe nelle sue sponde mutate. Perdita si rendeva conto che le veniva a mancare il flusso che aveva nutrito la sua vita. Incapace di sopportare il lento avvizzirsi delle sue speranze, d’un tratto elaborò un piano, decisa a far cessare una volta per tutte questo periodo di afflizione, e a condurre a felice conclusione gli ultimi, disastrosi eventi.

  Era imminente l’anniversario dell’elezione di Raymond all’ufficio di Protettore; e in genere si festeggiava questo giorno con una splendida festa. Sentimenti diversi spinsero Perdita a spargere la scena di una doppia magnificenza; e tuttavia, mentre si adornava per la serata di gala, si stupiva delle pene che si era data per rendere sontuosa la celebrazione di un evento che le sembrava l’inizio delle sue sofferenze. Guai al giorno, pensò Perdita, e maledetta, lacrimevole e triste sia l’ora che diede a Raymond una speranza diversa dall’amore, un desiderio diverso dalla mia devozione; e tre volte gioioso il momento in cui mi verrà restituito! Dio mi è testimone, ho fiducia nei suoi giuramenti, e credo alla sua parola, altrimenti non cercherei quello che ora sono decisa a ottenere. Dovranno forse trascorrere in questo modo altri due anni, ogni giorno vedrà crescere la nostra estraneità e ogni azione sarà un’altra pietra che si aggiunge alla barriera che ci separa? No, mio Raymond, mio unico amore, possesso esclusivo di Perdita! Questa notte, questa splendida assemblea, questi sontuosi appartamenti, e questo ornamento della tua fanciulla in lacrime, tutti sono riuniti per celebrare la tua abdicazione. Una volta, per me, rinunciasti alla prospettiva di una corona. Accadde all’inizio del nostro amore, e io potevo offrire solo la speranza, non la certezza della felicità. Ora hai sperimentato tutto quello che posso darti, la devozione del cuore, l’amore immacolato, una sottomissione a te che non conosce esitazioni. Devi scegliere tra tutto ciò e il Protettorato. Questa, nobile orgoglioso, è la tua ultima notte! Perdita le ha dato tutta la magnificenza e lo sfarzo che il tuo cuore ama di più; ma, col sole di domani, da queste stanze sontuose, da questa compagnia principesca, dal potere e dalla distinzione devi tornare alla nostra dimora rurale; perché io non comprerei un’eternità di gioia se dovessi sopportare anche solo un’altra settimana sorella dell’ultima.

  Riflettendo su questo piano, decisa, quando fosse giunto il momento, a proporlo, e a insistere per la sua realizzazione, certa del consenso di lui, il cuore di Perdita era leggero, o piuttosto esaltato. Le guance accese erano coperte di rossore in attesa della lotta; gli occhi sfavillanti nella speranza del trionfo. Aveva puntato il suo destino su un dado e si sentiva sicura di vincere, sulla sua fronte nobile recava impresso, come ho detto, il segno di regina delle nazioni: così, nel suo potere calmo, si ergeva superiore all’umanità, e sembrava fermasse con un dito la ruota della fortuna. Mai prima d’ora era apparsa così eccezionalmente bella.

  Noi, i pastori arcadici del racconto, dovevamo essere presenti a questa ricorrenza, ma Perdita ci scrisse pregandoci di non andare, e di non assentarci da Windsor; aveva deciso infatti (pur senza rivelarci il suo piano) di tornare il giorno dopo con Raymond al nostro caro circolo, per rinnovare lì un tipo di vita nella quale aveva trovato completa felicità. A sera inoltrata entrò negli appartamenti che erano riservati alla festa. Raymond aveva lasciato il palazzo la notte precedente; aveva promesso di fare onore all’assemblea, ma non era ancora tornato. Tuttavia era certa che alla fine sarebbe venuto; e quanto più ampia poteva apparire la breccia di questa crisi, tanto più era sicura di chiuderla per sempre.

  Come ho detto era il diciannove di ottobre; l’autunno era pienamente inoltrato, in tutta la sua desolazione. Il vento ululava; gli alberi, quasi completamente nudi, venivano spogliati di quello che restava del loro ornamento estivo; il clima che faceva marcire la vegetazione era contrario all’allegria o alla speranza. Raymond si era esaltato per la decisione che aveva preso; ma con il declinare del giorno anche lo spirito declinava. Prima doveva visitare Evadne, e poi affrettarsi al palazzo del Protetto- rato. Mentre camminava per le miserabili strade in prossimità della casa della sfortunata fanciulla greca, il cuore lo affliggeva per il modo in cui si era comportato con lei. Prima di tutto, per aver accondisceso a un qualsiasi tipo di promessa che le permettesse di rimanere in un tale stato di degradazione; e poi, dopo un breve folle sogno, per averla lasciata alla dolente solitudine, a congetture ansiose, e a un’amara attesa, sempre delusa. Cosa aveva fatto nel frattempo, come aveva sopportato la sua assenza e il suo abbandono? La luce si affievoliva in quelle strade strette, e quando la ben nota porta venne aperta, le scale erano avvolte nel buio completo, come in un sudario. Si fece strada a tentoni, entrò nella soffitta, trovò Evadne distesa sul suo misero letto, muta, quasi priva di vita. Chiamò la gente della casa, ma non poté apprendere nulla da loro, se non che non sapevano nulla. La sua storia era chiara per lui, chiara e distinta come il rimorso e l’orrore che all’improvviso lo afferrarono con i loro artigli. Quando scoprì di essere stata abbandonata da lui, le venne a mancare il cuore per proseguire nelle sue consuete occupazioni; l’orgoglio le impedì di presentargli qualsiasi tipo di richiesta; la fame fu benvenuta come il gentile portiere dei cancelli della morte, che le apriva le sue cavità dove ora, senza peccato, avrebbe presto riposato. Nessuna creatura le si avvicinò, mentre le forze l’abbandonavano.

  Se Evadne moriva, dove si sarebbe potuto trovare, a memoria d’uomo, un assassino il cui atto crudele potesse essere paragonato al suo? Quale demone più sfrenato nella sua malvagità, quale anima dannata più degna di perdizione! Ma non era destinato a un simile angoscioso rimorso. Mandò a chiamare un soccorso medico; le ore passavano, eterne come secoli. Prima che la vita di Evadne fosse al sicuro, l’oscurità della lunga notte autunnale cedette al giorno. Raymond la fece poi trasportare in un’abitazione più ampia, e rimase al suo fianco, non stancandosi mai di rassicurarsi che fosse salva.

  A un certo punto, in preda all’estrema tensione e alla paura per quanto sarebbe potuto succedere, si ricordò della festa data in suo onore da Perdita; proprio nel momento in cui la miseria e la morte stavano per attribuire al suo nome un’infamia indelebile, rendere onore a lui, i cui crimini erano degni di un manigoldo: questa era la peggiore delle beffe. Tuttavia Perdita lo avrebbe aspettato; scrisse alcune parole incoerenti su un pezzo di carta, a testimoniare che stava bene, e ordinò alla donna della casa di portarlo al palazzo e di consegnarlo nelle mani della moglie del Lord Protettore. La donna, che non lo conosceva chiese con fare sprezzante, come pensava che sarebbe riuscita, e specialmente in questa notte di festa, a giungere in presenza di quella signora. Raymond le diede il suo anello per assicurare il rispetto dei domestici. Così, mentre Perdita stava intrattenendo i suoi ospiti, e aspettando con ansia l’arrivo del suo signore, le fu portato il suo anello, e le fu detto che una povera donna doveva consegnarle un biglietto da parte di chi possedeva il gioiello.

  La commissione che le era stata affidata risvegliò la presunzione della vecchia pettegola anche se, dopo tutto, non ci capiva granché, siccome non sospettava che il visitatore di Evadne fosse Lord Raymond. Perdita temette una caduta da cavallo, o qualche incidente simile finché le risposte della donna non risvegliarono altre paure. Con cieca scaltrezza, il messaggero intrigante, se non maligno, non parlò della malattia di Evadne; ma raccontò in maniera pettegola delle frequenti visite di Raymond, aggiungendo al suo racconto alcune circostanze che, se convinsero Perdita della verità di quanto le veniva narrato, esageravano la scortesia e la perfidia di Raymond. Peggio di tutto, la sua assenza dalla festa, il messaggio assolutamente misterioso (eccezion fatta per gli ignobili accenni della donna), sembravano uno dei più mortali affronti. Guardò di nuovo l’anello: era un piccolo rubino, quasi a forma di cuore, che lei stessa gli aveva regalato. Guardò la scrittura, sulla quale non poteva ingannarsi, e si ripeté le parole: «Non permettere, ti chiedo, ti supplico, che i tuoi ospiti si stupiscano della mia assenza»; intanto la vecchiaccia continuava con le sue chiacchiere, riempiendole le orecchie di una strana mescolanza di verità e bugie. Infine Perdita la congedò.

  La povera ragazza tornò all’assemblea, dove nessuno aveva notato la sua assenza. Scivolò furtiva in un angolo un po’ oscuro, e appoggiandosi a una colonna ornamentale, cercò di riprendersi. Le sue facoltà erano paralizzate. Fissò alcuni fiori in un vaso scolpito, lì accanto: li aveva sistemati quella mattina, erano piante rare e belle; anche ora, pur completamente sbalordita com’era, ne osservava i colori brillanti e le forme stellate. «Oh foglie divine, incarnazioni dello spirito della bellezza», esclamò, «voi non vi abbattete, né vi affliggete; la disperazione che stringe in una morsa il mio cuore, non ha gettato il suo contagio su di voi! Perché non sono vostra compagna nell’insensibilità, perché non posso condividere la vostra calma!».

  Fece una pausa. «Al mio compito», proseguì mentalmente, «i miei ospiti non devono accorgersi della verità, che riguardi me o lui, obbedisco; non se ne accorgeranno, anche se dovessi morire nel momento in cui se ne andranno. Vedranno quello che è agli antipodi della realtà, perché sembrerà ch’io viva, mentre io sono morta». Ci volle tutto il suo autocontrollo per reprimere il fiotto di lacrime che l’autocommiserazione suscitava a quest’idea. Dopo molte lotte vi riuscì, e tornò a unirsi alla compagnia.

  Tutti i suoi sforzi erano ora diretti a dissimulare il suo conflitto interiore. Doveva recitare il ruolo dell’ospite gentile, occuparsi di tutti, risplendere come il centro del divertimento e della grazia. Doveva fare questo, mentre nel suo profondo dolore agognava alla solitudine, e avrebbe volentieri barattato le sue stanze affollate per le profondità di un’oscura foresta, o di una landa desolata, avvolta dalla notte. Ma divenne gaia. Non riusciva a tenersi in una via di mezzo, né a essere, come sua consuetudine, pacatamente contenta. Tutti notarono la sua allegrezza d’animo; e poiché tutte le azioni appaiono graziose agli occhi della nobiltà, gli ospiti la circondarono plaudenti, anche se c’era un che di stridulo nella sua risata, un’asprezza nelle sue battute, che a un osservatore attento avrebbero potuto rivelare il suo segreto. Continuò così, sentendo che, se si fosse fermata per un solo momento, la disperazione, sinora controllata, le avrebbe inondato l’anima, le speranze derelitte avrebbero intonato il loro lamento, e quelli che ora facevano eco alla sua ilarità e suscitavano le sue risposte argute, sarebbero rifuggiti spaventati dalla sua disperazione scomposta. La sua unica consolazione, mentre si faceva questa violenza, era osservare i movimenti di un orologio illuminato, e scandire interiormente i momenti che dovevano trascorrere prima di rimanere sola.

  Finalmente le stanze cominciarono a spopolarsi. Facendosi beffa dei suoi stessi desideri, rimproverava gli ospiti perché se ne andavano troppo presto. Uno a uno la lasciarono… Alla fine strinse la mano dell’ultimo visitatore. «Che mano fredda e umida», disse la sua amica; «ti sei stancata troppo, ti prego, va’ subito a riposare». Perdita sorrise debolmente; la sua ospite la lasciò, la carrozza che si allontanava sobbalzando giù per la strada l’assicurò della definitiva partenza. Allora, come se fosse inseguita da un nemico, come se avesse le ali ai piedi, si precipitò nel suo appartamento, congedò i domestici, chiuse a chiave le porte, si buttò per terra, come fosse impazzita, si morse le labbra fin quasi a farle sanguinare per soffocare le urla, e giacque distesa, preda degli avvoltoi della disperazione, sforzandosi di non pensare, mentre innumerevoli idee si impossessavano del suo cuore. Erano idee orride come furie, crudeli come vipere, che si riversavano in massa, in successione così rapida che sembravano quasi urtarsi e ferirsi l’un l’altra, mentre la conducevano a poco a poco sull’orlo della pazzia.

  Infine si alzò, più composta, ma non meno infelice. Si mise di fronte a un grande specchio… fissò la sua immagine riflessa; il vestito grazioso e leggero, i gioielli che le tempestavano i capelli e le cingevano le belle braccia e il collo, i piedi minuti avvolti nel raso, le trecce rigogliose e lucenti, tutto ciò, se confrontato con la fronte rannuvolata e il suo volto affranto, era come una cornice sfarzosa per un quadro che rappresenti un’oscura tempesta. “Sono un vaso”, pensò, “un vaso colmo fino all’orlo dell’essenza più terribile della disperazione. Addio Perdita! Addio, povera fanciulla! Non ti vedrai mai più così; il lusso e la ricchezza non ti appartengono più; nell’estremo della tua povertà potresti invidiare il mendicante senza tetto. E vero, profondamente vero, io sono senza una casa! Vivo in un arido deserto che, vasto e interminabile, non produce né fiori né frutti; nel mezzo c’è una roccia solitaria, alla quale tu, Perdita, sei incatenata, e vedi la desolante distesa estendersi in lontananza”.

  Spalancò la finestra che si affacciava sul giardino del palazzo. La luce e l’oscurità stavano lottando fra loro, e l’oriente era striato da raggi rosei e dorati. Solamente una stella tremolava nella profondità dell’atmosfera che stava per infiammarsi. L’aria mattutina che soffiava fresca sulle piante bagnate di rugiada entrò rapida nella stanza riscaldata. “Tutto va avanti”, pensò Perdita, “tutto avanza, si deteriora e perisce! Quando il mezzogiorno è passato, e il giorno, stanco, ha guidato i suoi compagni alle loro stalle d’occidente, i fuochi della volta celeste sorgono dall’est, e muovendosi per il loro consueto sentiero, salgono e scendono dietro la collina che si staglia contro il vasto cielo. Quando il loro corso si è completato, il quadrante comincia a gettare un’ombra incerta verso ovest; le palpebre del giorno si aprono, e gli uccelli e i fiori, la vegetazione stupita, e la fresca brezza, tutti si risvegliano; alla fine compare il sole che, in maestosa processione, risale il capitolo del cielo. Tutto avanza, cambia e muore, eccetto il senso di infelicità del mio cuore che sta per scoppiare.

  “Ah, tutto avanza e cambia: perché stupirsi, dunque, se l’amore ha viaggiato verso il suo tramonto, e se il signore della mia vita è cambiato? Noi diciamo che le luci celesti sono fisse, e pure esse vagano attraverso quella lontana distesa; se torno a guardare dove guardavo un’ora fa, il volto dei cieli eterni è mutato. La sciocca luna e i pianeti incostanti modificano notte dopo notte la loro danza stravagante; lo stesso sole, sovrano del cielo, di tanto in tanto abbandona il proprio trono, e lascia il suo regno alla notte e all’inverno. La natura invecchia, e trema nelle sue membra cadenti… La creazione si è trasformata in un fallimento! Perché stupirsi, allora, se l’eclissi e la morte hanno portato alla distruzione la luce della tua vita, o Perdita?”.

  CAPITOLO X

  Così tristi e scomposti erano dunque i pensieri della mia povera sorella quando fu certa dell’infedeltà di Raymond. Tutte le sue virtù e tutti i suoi difetti si unirono a rendere il colpo incurabile.

  Il suo affetto per me, suo fratello, e per Adrian e Idris, era soggetto, in qualche maniera, alla passione che regnava nel suo cuore; persino la sua tenerezza materna traeva parte della sua forza dalla gioia che provava nel rintracciare i lineamenti e l’espressione di Raymond sul viso della sua bambina. Era stata riservata, e persino austera, nella fanciullezza; ma l’amore aveva addolcito le asprezze del suo carattere, e la sua unione con Raymond aveva permesso alle sue qualità e al suo affetto di manifestarsi; tradito l’uno e persa l’altra, tornò in certo grado alle sue antiche inclinazioni. Il forte orgoglio della sua natura, dimenticato durante il sogno beato, si risvegliò, e con la sua puntura di vipera le straziò il cuore; la sua umiltà di spirito aumentò il potere del veleno. Finché era stata prescelta dall’amore di lui, Perdita era salita nella stima di se stessa: di cosa era degna ora che lui l’aveva scacciata da questa posizione di privilegio? Era stata orgogliosa di averlo conquistato e difeso, ma un’altra glielo aveva sottratto, e la sua esultanza era fredda come un tizzone di brace soffocato dall’acqua.

  Noi, nel nostro rifugio, rimanemmo a lungo all’oscuro della sua sventura. Subito dopo la festa aveva mandato a prendere la sua bambina, e poi sembrava averci dimenticati. Adrian fece loro una visita in seguito e notò un cambiamento; ma non riuscì a capirne la dimensione, né a indovinarne la causa. Comparivano ancora in pubblico insieme e vivevano sotto lo stesso tetto. Raymond era gentile come al solito, anche se a volte c’era nei suoi modi un’improvvisa arroganza, o una dolorosa durezza che facevano trasalire il suo gentile amico; la fronte non era adombrata ma sulle labbra indugiava lo sdegno, e la voce era aspra. Perdita era piena di gentilezze e attenzioni verso il suo signore; ma era silenziosa, e triste oltre ogni dire. Si era fatta sottile e pallida; e gli occhi le si riempivano spesso di lacrime.

  Talvolta guardava Raymond, quasi per dire: che dovesse essere così! Altre volte il suo volto sembrava voler dire: farò ancora tutto il possibile per farti felice. Ma Adrian leggeva i tratti del suo volto senza porsi alcuno scopo determinato, e poteva sbagliare… Clara era sempre con Perdita, che sembrava particolarmente a suo agio quando, in un angolo oscuro, poteva sedere tenendo la mano della bambina, in silenzio e solitudine. E tuttavia Adrian non riusciva a indovinare la verità; li supplicò di farci visita a Windsor, ed essi promisero di venire nel mese successivo.

  Non arrivarono prima di maggio: la stagione aveva ricoperto di foglie gli alberi della foresta, e i suoi sentieri di migliaia di fiori. Ci informarono delle loro intenzioni il giorno precedente; Perdita e la figlia arrivarono al mattino. Raymond sarebbe venuto presto, disse, era stato trattenuto dagli affari. In base al racconto di Adrian, mi ero aspettato di trovarla triste; ma, al contrario, sembrava di ottimo umore: certo, era dimagrita, gli occhi erano un po’ infossati e le guance scavate, anche se pervase da un colorito vivace. Era felice di vederci; dispensò carezze ai nostri figli, ne lodò i progressi e lo sviluppo; anche Clara era felice di incontrare di nuovo il suo giovane amico, Alfred; iniziarono i più disparati giochi infantili, e Perdita partecipò a tutti. Ci trasmise la sua allegria, e mentre ci intrattenevamo a Castle Terrace, sembrava che non avrebbe potuto riunirsi una brigata più felice della nostra, e meno di questa logorata dalle preoccupazioni. «E meglio qui, Mamma»99, disse Clara, «che in quella lugubre Londra, dove piangi spesso, e non ridi mai come fai ora». «Taci, sciocchina», rispose la madre, «e ricorda che chiunque nomina Londra verrà mandato a Coventry per un’ora».100

  Subito dopo arrivò Raymond. Egli non si unì come al solito allo spirito giocoso degli altri, ma iniziò a parlare con me e Adrian, fino a che ci separammo gradualmente dai nostri compagni, e soltanto Idris e Perdita rimasero con i bambini. Raymond parlò dei suoi nuovi palazzi; del progetto di un’istituzione per migliorare l’istruzione dei poveri; come al solito lui e Adrian si misero a discutere, e il tempo volò via senza che ce ne accorgessimo.

  Ci radunammo di nuovo verso sera, e Perdita insistette affinché facessimo della musica. Voleva, così disse, darci un saggio del suo nuovo talento, poiché da quando era stata a Londra si era applicata allo studio della musica, e cantava, senza molta potenza, ma con tanta dolcezza. Non ci permise di scegliere altro che melodie allegre; così chiamammo in causa tutte le opere di Mozart,101 per scegliere le sue arie più gaie. Tra le altre eccezionali qualità, la musica di Mozart, più di ogni altra, sembra scaturire dal cuore; si partecipa alle passioni che egli esprime, e si è trasportati da dolore, gioia, rabbia o confusione, a seconda di quello che lui, il padrone della nostra anima, sceglie di ispirare. Per un po’ lo spirito ilare si mantenne alto; ma alla fine Perdita si allontanò dal piano, perché Raymond si era unito al trio di Taci ingiusto core,102 del Don Giovanni, e ne attenuava nella tenerezza la supplica maliziosa, facendole fremere il cuore con le memorie del passato ormai mutato; era la stessa voce, lo stesso tono, gli stessi identici suoni e parole che spesso, prima, aveva ricevuto come omaggio di amore… Ora non era più così; e questa concordia di suoni unita alla dissonanza di espressione la pervadeva di rimpianto e disperazione. Subito dopo Idris, che era all’arpa, scelse quell’aria triste e appassionata di Figaro, Porgi, amor, qualche ristoro, in cui la contessa abbandonata si lamenta del cambiamento dell’infedele Almaviva. Questo motivo diffondeva lo spirito di un tenero dolore; e la dolce voce di Idris, sostenuta dalle dolenti corde del suo strumento, accresceva l’espressività delle parole. Durante la toccante supplica con la quale si conclude, un singhiozzo soffocato attirò la nostra attenzione verso Perdita, la fine della musica la fece ritornare in sé, e lei si affrettò fuori della stanza… La seguii. All’inizio, sembrava volermi sfuggire; ma poi, cedendo alle mie incalzanti domande, mi si gettò al collo, e pianse accorata, ad alta voce: «Ancora una volta», esclamò, «ancora una volta la smarrita Perdita può riversare sul tuo petto amico, mio amato fratello, i suoi dispiaceri. Mi ero imposta una legge di silenzio; e per mesi l’ho rispettata. Commetto un errore a piangere ora, e un errore ancor più grosso a dare espressione al mio dolore. Non parlerò! Ti basti sapere che sono infelice… Ti basti sapere che il velo dipinto della vita si è lacerato, che io siedo avvolta in eterno nell’oscurità e nelle tenebre come in un sudario, che l’afflizione mi è sorella, e compagno il perenne lamento!».

  Mi sforzai di consolarla; non le chiesi nulla, ma l’accarezzai, la rassicurai del mio più profondo affetto e del mio più vivo interesse per i cambiamenti del suo destino: «Parole affettuose», esclamò, «espressioni di amore, mi giungono all’orecchio come la memoria di suoni di una musica dimenticata, e che mi era cara. Son vane, lo so; quanto sono vane nel loro tentativo di calmarmi o confortarmi. Carissimo Lionel, non puoi immaginare quello che ho sofferto durante questi lunghi mesi. Ho letto di prefiche, in tempi antichi, che si vestivano di tela di sacco, si cospargevano il capo di polvere, mangiavano il pane mescolato alla cenere e prendevano dimora sulle cime di spoglie montagne, accusando il cielo e la terra ad alta voce delle loro disgrazie. Ebbene, tutto questo è un lusso nel dolore! In questo modo si potrebbe andare avanti, di giorno in giorno, escogitando nuove stranezze, provando diletto nelle doti aggiuntive del dolore, votate a tutti gli accessori della disperazione. Ahimè! Io devo nascondere, sempre, l’infelicità che mi consuma. Devo tessere un velo di abbagliante falsità per nascondere la mia afflizione agli occhi comuni, distendere la fronte, e dipingere sulle labbra sorrisi ingannevoli… persino nella solitudine non ho l’ardire di pensare a quanto sia derelitta, perché diventerei folle e farneticherei».

  Così in lacrime e in preda all’agitazione, era inopportuno che la mia povera sorella tornasse al circolo che avevamo lasciato, e pertanto la convinsi a seguirmi nel parco; poi, mentre cavalcavamo, la indussi a confidarmi la storia della sua infelicità, immaginando che parlarne ne avrebbe alleggerito il carico, e certo che, se c’era un rimedio, lo avremmo trovato e fatto sicuramente suo.

  Erano trascorse diverse settimane dalla festa dell’anniversario; Perdita non era riuscita a rendere il suo animo più calmo, o a sottomettere i pensieri a un corso regolare. Talvolta si rimproverava di prendere troppo amaramente a cuore quanto altri avrebbero considerato un male immaginario; ma questo non era un argomento valido per la ragione; e, poiché ignorava le motivazioni e la vera condotta di Raymond, le cose assumevano per lei un aspetto anche peggiore di quanto la realtà non giustificasse. Raramente egli restava nel palazzo; e mai, se non quando era certo che i suoi doveri pubblici gli avrebbero impedito di restare solo con Perdita. Evitavano di rivolgersi la parola e le spiegazioni, ognuno temendo quello che l’altro avrebbe potuto dire. A un tratto i modi di Raymond cambiarono; sembrava desiderasse trovare l’opportunità per un ritorno alla gentilezza e all’intimità con mia sorella. Sembrava rifluisse di nuovo la marea dell’amore verso di lei; egli non poteva dimenticare come un tempo le fosse stato devoto, facendo di lei il tempio e il luogo privilegiato in cui riporre ogni pensiero e ogni sentimento. La vergogna sembrava trattenerlo; eppure, evidentemente, desiderava riuscire a rinnovare la fiducia e l’affetto. Perdita, non appena si era sufficientemente ripresa da stabilire un qualsiasi piano di azione, ne aveva predisposto uno che si apprestava ora a seguire. Accolse con dolcezza questi segni di un amore che risorgeva; non sfuggì alla sua compagnia; ma riguardo ai rapporti familiari o alle discussioni dolorose si sforzò di porre una barriera che un misto di vergogna e orgoglio impedivano a Raymond di superare. Egli iniziò infine a dar segni di una rabbiosa insofferenza, e Perdita si rese conto che il sistema da lei adottato non poteva proseguire; doveva dargli delle spiegazioni, ma non riusciva a raccogliere il coraggio necessario a parlare. Dunque scrisse così:

  «Leggi questa lettera con pazienza, te ne prego. Non conterrà rimproveri. Rimprovero è in realtà una parola inutile: di cosa dovrei rimproverarti?

  Permettimi di spiegare in qualche modo i miei sentimenti; altrimenti brancoleremo entrambi nell’oscurità, vittime dei fraintendimenti, lontano dal sentiero che potrebbe portare, uno di noi almeno, a un tipo di vita più vantaggioso rispetto a quello condotto da entrambi durante le poche, ultime settimane.

  Io ti amavo… Ti amo… e non sono né la rabbia né l’orgoglio che mi dettano queste righe; ma un sentimento che va oltre, più profondo e più inalterabile di entrambi. I miei sentimenti sono feriti; è impossibile guarirli: cessa allora il vano tentativo, se effettivamente a ciò tendono i tuoi sforzi. Perdono! Ritorno! Che vuote parole sono! Io perdono la sofferenza che sopporto; ma il sentiero che è stato percorso non può essere tracciato di nuovo.

  Un affetto comune avrebbe potuto essere soddisfatto con consuetudini comuni. Io credevo che tu mi leggessi il cuore, e ne conoscessi la devozione, la fedeltà inalienabile nei tuoi confronti. Non ho mai amato altri che te. Tu giungesti come l’immagine incarnata dei miei sogni più vivi. Le lodi degli uomini, potere e aspirazioni elevate accompagnarono il tuo percorso. L’amore per te rivestì ai miei occhi il mondo di una luce incantata; non era più la terra che calpestavo… la comune madre terra, che produce solo una trita e stantia ripetizione di oggetti e circostanze vecchie e logore. Vivevo in un tempio glorificato dal più intenso senso di devozione e rapimento; come un essere consacrato, procedevo contemplando soltanto il tuo potere, la tua eccellenza;

  Perché, oh, tu mi eri al fianco, come la mia gioventù, Trasformavi per me la realtà in un sogno,

  Rivestendo quanto era concreto e familiare Con i dorati effluvi dell’alba.103

  “Il rigoglio della fioritura è svanito dalla mia vita”,104 non c’è mattino per questa notte che avvolge tutto; né alba per il sole tramontato dell’amore. In quei giorni il resto del mondo non contava nulla per me: tutti gli altri uomini, non consideravo né sentivo quello che fossero, né ti guardavo come se tu fossi uno di loro. Separato da loro, esaltato nel mio cuore, solo padrone del mio affetto, unico oggetto delle mie speranze, la metà migliore di me stessa.

  Ah, Raymond, non eravamo felici? Risplendeva forse il sole su qualcuno che potesse godere della sua luce con una felicità più pura e intensa? Non era… non è una comune infedeltà quella di cui mi lamento. E la separazione di un tutto che non può avere parti; è la noncuranza con cui ti sei scrollato di dosso il manto dell’elezione che per me ti avvolgeva e grazie al quale eri diventato uno tra i molti. Non sognare di cambiare ciò. Non è forse l’amore divino perché immortale? Non sembravo io stessa santificata, persino a me stessa, perché questo amore aveva come tempio il mio cuore? Ti ho fissato mentre dormivi, mi sono sciolta fino alle lacrime quando mi si presentava alla mente l’idea che tutto quello che io possedevo riposava nella culla di quei lineamenti idolatrati, ma mortali, che mi erano di fronte. Eppure, persino allora, ho frenato le paure che si addensavano con un pensiero: non avrei temuto la morte, perché le emozioni che ci legavano dovevano essere immortali.

  E ora non temo la morte. Sarei ben felice di chiudere gli occhi, per non riaprirli mai più. E tuttavia la temo; proprio come temo ogni cosa; perché, in nessun stato dell’essere legato a questo dalla catena della memoria, tornerebbe la felicità… Persino in paradiso, dovrò sentire che il tuo amore era meno durevole dei battiti mortali del mio fragile cuore che in ogni sua vibrazione fa rintoccare udibilmente:

 

  La nota funerea

  dell’amore, seppellito in profondità, senza resurrezione.105

 

  No… no… me misera; per l’amore scomparso non c’è resurrezione!

  Eppure ti amo. E ancora, e per sempre, vorrei contribuire con tutto quello che posseggo al tuo benessere. Per evitare i pettegolezzi della gente, per amore della mia… della nostra bambina, vorrei rimanere al tuo fianco, Raymond, dividere le tue fortune, consigliarti. Sarà così? Non siamo più amanti, e non posso dirmi amica di nessuno, poiché, smarrita come sono, il mio io sventurato e sempre più ingombrante non mi lascia pensieri di riserva. Ma sarà piacevole vederti ogni giorno! Ascoltare l’opinione pubblica che si leva in tua lode; tener vivo il tuo amore paterno per la nostra bambina; sentire la tua voce; sapere che ti sono vicina, anche se non mi appartieni più.

  Se desideri spezzare le catene che ci legano, pronuncia la parola, e sarà fatto; prenderò su di me, davanti agli occhi del mondo, tutto il biasimo di durezza e crudeltà.

  Tuttavia, come ho detto, sarei più contenta, almeno per il momento, di vivere con te sotto lo stesso tetto. Quando la febbre della mia giovane vita sarà consumata, quando la placida età domerà l’avvoltoio che mi divora, allora potrebbe sopraggiungere l’amicizia, essendo morti ormai l’amore e la speranza. Potrebbe forse questo esser vero? Potrà la mia anima, legata inestricabilmente a questo corpo effimero, divenire indolente e fredda, nello stesso modo in cui questo meccanismo sensibile perderà la sua elasticità giovanile? Allora, con gli occhi ormai privi di lucentezza, i capelli grigi, e la fronte rugosa, anche se ora le parole suonano vuote e prive di senso, allora, vacillando sull’orlo estremo della tomba, potrei forse essere… la tua affezionata e sincera amica

  Perdita».

  La risposta di Raymond fu breve. Cosa, infatti, poteva replicare alle sue rimostranze, alle sofferenze che gelosamente accampava, escludendo qualsiasi pensiero di rimedio? «Nonostante la tua dura lettera», egli scrisse, «perché dura devo chiamarla, tu sei la persona che io pongo al primo posto nella mia stima, ed è la tua felicità che io vorrei principalmente tenere in considerazione. Fa’ ciò che ti sembra meglio per te: e se ritieni di poter essere soddisfatta da un tipo di vita piuttosto che da un altro, non ti far ostacolare in alcun modo da me. Prevedo che il piano che prospetti nella tua lettera non durerà a lungo; ma tu sei padrona di te stessa, ed è mio sincero desiderio contribuire, per quanto me lo permetterai, alla tua felicità».

  «Raymond aveva ragione con la sua profezia», disse Perdita. «Ahimè, che dovesse essere così! Non possiamo continuare a lungo a vivere così, e tuttavia io non sarò la prima a proporre dei cambiamenti. Lui mi considera come una persona che egli ha offeso fin quasi a ucciderla; e io non vedo derivare alcuna speranza dalla sua gentilezza; anche le sue migliori intenzioni non possono portare, in nessun caso, alcun cambiamento. Potrei essere soddisfatta dell’amore che Raymond può ora offrirmi quanto Cleopatra avrebbe potuto indossare a mo’ di ornamento l’aceto in cui era contenuta la sua perla dissolta».

  Non vedevo le sue disgrazie con gli stessi occhi di Perdita. In ogni caso mi sembrava che la ferita potesse essere guarita; e che, se fossero rimasti insieme, sarebbe stato così. Mi sforzai perciò di placare e intenerire il suo animo; e fu solo dopo molti sforzi che rinunciai al compito come irrealizzabile. Perdita mi ascoltò impaziente, e mi rispose con una certa asprezza: «Credi che una soltanto delle tue argomentazioni mi risulti nuova? O che i miei brucianti desideri e la mia intensa angoscia non me le abbiano suggerite tutte migliaia di volte, con zelo e sottigliezza di gran lunga superiori a quelli che tu puoi riversarvi? Lionel, tu non puoi capire cos’è l’amore di una donna. Nei giorni di felicità mi sono spesso ripetuta, con cuore grato e spirito esultante, tutto quello che Raymond sacrificava per me. Io ero una ragazza cresciuta sulla montagna, povera, senza educazione, senza amici, sollevata dal nulla grazie a lui. A lui devo tutti gli sfarzi della vita che ho posseduto. Egli mi diede un nome illustre e una nobile posizione sociale; il rispetto del mondo era riflesso dalla sua stessa gloria: tutto questo, unito al suo amore imperituro, mi ispiravano dei sentimenti verso di lui affini a quelli coi quali consideriamo il Datore della vita. Io gli diedi solo amore. Mi consacrai a lui: da imperfetta creatura quale ero, mi misi all’opera affinché potessi diventare degna di lui. Controllai la mia tempra impetuosa, domai l’impazienza bruciante del mio carattere, disciplinai i miei pensieri, che sempre mi inducevano a immergermi in me stessa, educandomi alla più.elevata perfezione che potessi raggiungere, affinché il frutto dei miei sforzi potesse essere la sua felicità. Non mi presi alcun merito per questo. Lui meritava tutta la fatica, tutta la devozione, tutto il sacrificio; avrei arrancato su per una cima invalicabile delle Alpi soltanto per cogliere un fiore che gli piacesse. Ero pronta a lasciare voi tutti, miei amati e valorosi compagni, e a vivere sola con lui, per lui. Non potevo fare altrimenti, anche se lo avessi desiderato; perché se si dice che noi abbiamo due anime, lui era la mia anima migliore, e di questa l’altra era schiava in eterno. Lina sola cosa egli mi doveva in cambio, la fedeltà. L’avevo guadagnata; la meritavo. Solo perché sono stata allevata in montagna, e non ho alleati tra i nobili e i ricchi, penserà di ripagarmi con un nome e una posizione sociali vuoti? Che se li riprenda pure indietro; senza il suo amore non sono nulla per me. Il loro unico merito, ai miei occhi, era che gli appartenessero».

  Con tale passione continuava a parlare Perdita. Quando accennai all’ipotesi della loro totale separazione, replicò: «Che sia così! Un giorno quel momento arriverà; lo so, e lo sento. Ma in ciò sono codarda. Questo compagno imperfetto, e la mascherata della nostra unione, mi sono stranamente cari. E doloroso, lo ammetto, distruttivo, impossibile. Tiene viva una febbre continua nelle mie vene; corrode la mia ferita immedicabile; è imbevuto di veleno. Tuttavia mi devo aggrappare a ciò; forse mi ucciderà presto, e compirà così un ufficio misericordioso».

  Raymond, nel frattempo, era rimasto con Adrian e Idris. Egli era per natura franco; la prolungata assenza, mia e di Perdita, cominciò a farsi notare; e Raymond presto trovò sollievo dalla costrizione di mesi, confidandosi senza riserve coi suoi due amici. Raccontò loro la situazione in cui aveva trovato Evadne. Dapprima, per delicatezza nei confronti di Adrian, non ne rivelò il nome, che poi fu reso noto nel corso del suo racconto, e il suo antico innamorato ascoltò con la più intensa agitazione la storia delle sue sofferenze. Idris aveva condiviso l’opinione negativa che Perdita aveva della fanciulla greca; ma il racconto di Raymond l’intenerì e l’interessò. La costanza di Evadne, la sua forza d’animo, persino il suo amore nato sotto una cattiva stella e mal guidato, furono oggetto di ammirazione e pietà; specialmente quando, dai dettagli degli eventi del 19 ottobre, fu evidente che preferiva la sofferenza e la morte alla richiesta, ai suoi occhi degradante, di pietà e assistenza da parte del suo amante. Il suo comportamento successivo non diminuì questo interesse. All’inizio, salvata dalla fame e dalla tomba, accudita da Raymond con la più tenera assiduità, con quella sensazione di quiete che accompagna la convalescenza, Evadne si abbandonò a una gratitudine estatica e all’amore. Ma con la salute tornò la riflessione. Lo interrogò sui motivi che avevano provocato la tragica assenza. Formulò le domande con la sottigliezza propria dei greci; trasse le sue conclusioni con la decisione e la fermezza particolari del suo carattere. Non poteva presagire che la breccia da lei provocata tra Raymond e Perdita era già irreparabile: ma sapeva che, proseguendo così, si sarebbe allargata ogni giorno, e che così avrebbe distrutto la felicità del suo amante, conficcando nel suo cuore le zanne del rimorso. Non appena intuì la giusta linea di condotta, decise di adottarla, e di separarsi per sempre da Raymond. Passioni contrastanti, l’amore a lungo e teneramente serbato in cuore, e la delusione che aveva inflitto a se stessa, la spinsero a considerare la morte come unico rifugio al suo dolore. Ma gli stessi sentimenti e le stesse riflessioni che l’avevano prima trattenuta, agivano con raddoppiata forza; sapeva che il pensiero di essere stato lui a provocare la sua morte avrebbe inseguito Raymond per la vita, avvelenando ogni divertimento, annebbiando ogni prospettiva. Inoltre, anche se la violenza della sua angoscia le rendeva la vita odiosa, non aveva ancora prodotto quel monotono, letargico senso di immutabile infelicità che per lo più conduce al suicidio. La sua energia di carattere la spingeva a combattere ancora contro i mali della vita; persino la sventura di un amore senza speranza si presentava nella forma di un avversario da sconfiggere, piuttosto che di un vincitore cui sottomettersi. Aveva memoria di passate tenerezze di cui aver cura; sorrisi, parole, e persino lacrime da studiare a fondo e che, pur rievocate nella solitudine e nel dolore, erano da preferirsi alla dimenticanza della tomba. Era impossibile indovinare completamente il suo piano. La lettera a Raymond non offriva alcun indizio per scoprirlo; lo rassicurava che non correva alcun pericolo di rimanere senza i mezzi di sussistenza per vivere; prometteva di badare a se stessa, e di presentarsi forse a lui, un giorno futuro, in una posizione non indegna di lei, e poi gli inviava, con l’eloquenza della disperazione e dell’amore inalterabile, un ultimo addio.

  Tutte questa circostanze vennero ora riferite ad Adrian e a Idris. Raymond si lamentò poi della sua irrimediabile situazione con Perdita. Dichiarò che, nonostante la durezza di lei – la chiamò persino freddezza – egli l’amava. Una volta aveva provato, con l’umiltà di un penitente e il dovere di un vassallo, ad arrendersi a lei, rinunciando alla sua stessa anima per ottenere la sua tutela, per diventare suo discepolo, suo schiavo, suo garante. Ella aveva rifiutato questi approcci; e il tempo per tale eccezionale sottomissione, che deve essere basata sull’amore e da esso nutrita, era ormai passato. Ma anche in questo momento, tutti i suoi desideri e tutti i suoi sforzi erano volti alla pace di lei, e il suo principale disagio nasceva dalla percezione che erano vani. Se Perdita avesse continuato sulla linea di condotta inflessibile che seguiva ora, dovevano separarsi. L’insieme delle circostanze di questo tipo di relazione senza senso lo faceva impazzire. E tuttavia non avrebbe proposto la separazione. Era ossessionato dalla paura di provocare la morte di qualcuna delle persone coinvolte in questi eventi; e non si risolveva ad assumersi l’impegno di guidare il corso degli eventi stessi; non conoscendo il territorio che attraversava, avrebbe potuto condurre quelli che erano sulla carrozza verso un’irreparabile rovina.

  Dopo aver discusso su questo argomento per diverse ore, egli si congedò dai suoi amici, e tornò in città; non voleva incontrare Perdita davanti a noi, consapevoli, come dovevamo essere tutti, dei pensieri dominanti nell’animo di entrambi. Perdita si preparò a seguirlo con la sua bambina. Idris si sforzò di convincerla a restare. La mia povera sorella la guardò con terrore. Sapeva che Raymond aveva parlato con lei; era stato lui a sollecitare tale richiesta? Questo era il preludio della loro separazione eterna? Come ho già detto, la situazione innaturale che viveva risvegliava i difetti del suo carattere. Considerò con sospetto l’invito di Idris; mi abbracciò, come se stesse per essere privata anche del mio affetto: più che fratello, mi chiamò il suo unico amico, la sua ultima speranza, e mi scongiurò in modo toccante di non smettere di amarla. Con angoscia accresciuta partì per Londra, scenario e causa di tutta la sua disperazione.

 
    fatti che seguirono la convinsero che non si era ancora resa ben conto dell’oscuro abisso in cui era precipitata. La sua infelicità assumeva ogni giorno una forma nuova; ogni giorno un evento inaspettato sembrava chiudere, mentre in realtà portava avanti, la sequela di sventure che si abbatterono su di lei.
 

  La passione esclusiva dell’anima di Raymond era l’ambizione. La prontezza d’ingegno, la capacità di penetrare e di guidare l’indole degli uomini e un incalzante desiderio di distinzione: tutto ciò teneva desta e nutriva la sua ambizione. Ma a questi si mescolavano altri ingredienti che gli impedivano di formarsi un carattere calcolatore e determinato, che è il solo a plasmare un eroe di successo. Era caparbio, ma non determinato; benevolo nel modo di porsi; duro e sprezzante se provocato. Soprattutto, era implacabile e inflessibile nel perseguire l’oggetto del suo desiderio, anche se illecito. L’amore per il piacere e la sensibilità più delicata costituivano una parte preponderante del suo carattere, conquistando il conquistatore: lo frenavano un attimo prima dell’acquisizione definitiva, spazzavano la ragnatela dell’ambizione, lo rendevano capace di dimenticare la fatica di settimane, pur di ottenere l’appagamento di un solo istante nel nuovo ed effettivo oggetto dei suoi desideri. Obbedendo a questi impulsi, era diventato il marito di Perdita: da questi istigato si ritrovò amante di Evadne. Ora aveva perso entrambe. E non aveva, a consolarlo, né il nobile autocompiacimento ispirato dalla fermezza né il voluttuoso senso di abbandono a una passione proibita ma inebriante. Il suo cuore era spossato dai recenti eventi; la sua capacità di gioire della vita era distrutta dal risentimento di Perdita e dalla fuga di Evadne; l’inflessibilità della prima apponeva l’ultimo sigillo all’annientamento delle sue speranze. Finché la loro separazione rimase segreta, accarezzava la speranza di risvegliare nel petto di lei la passata tenerezza; ma ora che tutti eravamo a conoscenza di questi avvenimenti, e che Perdita, dichiarando le sue decisioni ad altri, si impegnava in un certo senso al loro adempimento, considerò inutile l’idea di una riunione. Incapace di indurla a un cambiamento, cercò soltanto di adattarsi all’attuale stato di cose. Fece un voto contro l’amore, alla sua sequela di lotte, delusioni, rimorsi, e cercò un rimedio contro le dannose incursioni della passione nel puro godimento sensuale.

  La degradazione del carattere segue immancabilmente tali scelte. E tuttavia questa conseguenza non sarebbe stata notata subito se Raymond avesse continuato a dedicarsi all’attuazione dei suoi progetti destinati al bene pubblico, e all’adempimento dei suoi doveri di Protettore. Estremo in tutte le cose, cedendo a sensazioni momentanee, si gettò con ardore in questa nuova ricerca del piacere, e approfittò dell’inopportuna intimità che esso occasionava, senza prudenza o riflessione. Disertò la Camera del consiglio; trascurò le folle che lo assistevano come rappresentanti nei suoi vari progetti. Festeggiamenti, e persino libertinismo, divennero l’ordine del giorno.

  Perdita osservava con terrore il disordine crescente. Per un momento pensò di poter arginare il torrente e di riportare Raymond alla ragionevolezza. Speranza vana! Il momento della sua influenza era passato. Egli l’ascoltava con fare altezzoso, rispondeva sprezzante; e se, in realtà, riuscì a risvegliare la sua coscienza, l’unico effetto fu di indurlo a ricercare nell’oblio dei bagor-

  di un narcotico per lo spasimo di dolore. Con l’energia che le era naturale, Perdita cercò allora di occupare il suo posto. La loro unione, in apparenza ancora in vita, le permetteva di fare molto; ma nessuna donna poteva, in realtà, costituire un rimedio alla crescente negligenza del Protettore che, come assediato da un parossismo di follia, calpestava ogni cerimonia, disposizione e dovere, e si abbandonava alla licenziosità.

  Ci raggiunsero voci di questa strana condotta; eravamo indecisi su quale metodo adottare per restituire il nostro amico a se stesso e al suo paese, quando Perdita comparve improvvisamente tra di noi. Raccontò dettagliatamente l’evolversi del triste cambiamento, e supplicò me e Adrian di andare a Londra, e di fare ogni sforzo per porre un rimedio al male crescente: «Ditegli», esclamò, «dite a Lord Raymond che la mia presenza non lo infastidirà più. Che non ha più bisogno di gettarsi in questa vita dissoluta e distruttiva solo per disgustarmi e per farmi scappare. Ora ha raggiunto lo scopo; non mi vedrà mai più. Ma, e questa è la mia ultima supplica, faccia in modo, attraverso le lodi dei suoi concittadini e la prosperità dell’Inghilterra, che io mi renda conto che la scelta della mia gioventù era giustificata».

  Mentre cavalcavamo verso la città, io e Adrian discutemmo della condotta di Raymond, e del fatto che egli avesse deluso le speranze, che prima ci aveva fatto nutrire, nella durata dell’eccellenza delle sue doti. Io e il mio amico eravamo stati educati in un’unica scuola o, piuttosto, io ero suo discepolo: la fedeltà incondizionata ai principi era l’unica strada verso l’onore, come l’unico fine coscienzioso dell’ambizione umana era l’obbedienza incessante alle leggi dell’utilità generale. Anche se entrambi sostenevamo queste idee, le applicavamo in maniera diversa. Il risentimento aggiungeva inoltre un pungolo al mio biasimo, e io condannavo la condotta di Raymond in termini severi. Adrian era più benigno, più cauto. Ammetteva che i principi da me indicati erano i migliori; ma negava che fossero gli unici. Citando il passo «ci sono molte case nella dimora di mio padre»,106 insisteva nell’affermare che i modi per diventare buoni o grandi variavano tanto quanto le disposizioni degli uomini, dei quali si poteva dire, come delle foglie della foresta, che non ce n’erano due uguali.

  Arrivammo a Londra verso le undici di sera. Ritenevamo, nonostante quello che avevamo sentito, di trovare Raymond a St Stephan, e ci dirigemmo subito là. La Camera era piena, ma il Protettore non c’era; si percepiva uno scontento grave e palese sul volto dei capi, un mormorio e un chiacchiericcio indaffarato, non meno minaccioso, tra i subalterni. Ci affrettammo al palazzo del Protettorato. Trovammo Raymond nella sala da pranzo con altre sei persone: la bottiglia veniva fatta girare intorno allegramente, e aveva compiuto notevoli incursioni nella capacità d’intendere di uno o due di essi. Quello che sedeva vicino a Raymond stava raccontando una storia che faceva contorcere dalle risa gli altri.

  Raymond sedeva tra loro, e pur partecipando allo spirito del momento, la sua naturale dignità non lo abbandonava mai. Era gaio, scherzoso, affascinante… Ma, anche nelle battute più sfrenate, non superò mai la sua moderazione di carattere, o il rispetto per se stesso. Tuttavia devo ammettere che, considerando il compito cui Raymond si era dedicato in qualità di Protettore d’Inghilterra e le sue responsabilità, ero oltremodo irritato nell’osservare gli indegni individui coi quali perdeva il suo tempo, e lo spirito gioviale, se non ebbro, che sembrava sul punto di derubarlo della parte migliore di se stesso. Rimasi lì a guardare la scena, mentre Adrian passava veloce come un’ombra tra di loro e, con una parola e uno sguardo di sobrietà, si sforzava di ristabilire l’ordine nella compagnia. Raymond si dichiarò lieto di vederlo, e affermò che avrebbe dovuto unirsi ai festeggiamenti notturni.

  Questo gesto di Adrian mi offese. Era intollerabile che egli sedesse allo stesso tavolo dei compagni di Raymond, uomini dal carattere dissoluto, o piuttosto senza alcun carattere, lo scarto della lussuria di nobile stirpe, la disgrazia del loro paese. «Permettete che supplichi Adrian», esclamai, «di non accondiscendere a questa richiesta: aiutami piuttosto a sottrarre Lord Raymond a questa scena e a restituirlo ad altra compagnia».

  «Caro mio», disse Raymond, «questo non è né il momento né il luogo per dispensare lezioni di morale: credimi sulla parola, se ti dico che i miei divertimenti e la mia compagnia non sono così malvagi come immagini. Non siamo né sciocchi né ipocriti; del resto “Credi forse perché tu sei virtuoso, che non ci saranno più i piaceri della vita?”».107

  Mi girai con rabbia. «Verney», disse Adrian, «sei molto cinico: siediti; o se non vuoi, dato che non sei un visitatore abituale, forse Lord Raymond ti asseconderà, e ci accompagnerà, come avevamo concordato prima, in Parlamento».

  Raymond lo guardò intensamente; poteva leggere solo benevolenza nei suoi lineamenti gentili; si volse verso di me, osservando con disprezzo il mio aspetto imbronciato e severo. «Vieni», disse Adrian, «ho promesso per te, permettimi di mantenere il mio impegno. Vieni con noi». Raymond, con un movimento impacciato, replicò laconico: «No, non verrò!».

  Nel frattempo la compagnia si era sciolta. Qualcuno guardava i quadri, qualcuno gironzolava negli altri appartamenti, o parlava di biliardi, finché, uno a uno, si dileguarono. Raymond misurava con rabbia la stanza, a grandi passi, avanti e indietro.

  Io stavo lì, in piedi, pronto a ricevere e a replicare ai suoi rimproveri. Adrian era appoggiato alla parete. «Tutto ciò è infinitamente ridicolo», egli esclamò, «se foste scolaretti non potreste comportarvi in modo più irragionevole».

  «Tu non capisci», disse Raymond. «Questa è soltanto parte di un sistema: una congiura della tirannia alla quale non mi sottometterò mai. Perché sono il Protettore d’Inghilterra, devo essere il solo schiavo nel suo impero? La mia vita privata invasa, le mie azioni censurate, i miei amici insultati? Ma io mi libererò di tutto insieme: siatene testimoni». Si tolse dal petto la stella, l’insegna della carica, e la gettò sul tavolo. «Rinuncio al mio ufficio, abdico al potere… Che lo assuma chi vuole!».

  «Che lo assuma», esclamò Adrian, «chi può dichiararsi, o chi il mondo dichiarerà superiore a te: Poiché non esiste in Inghilterra un uomo la cui presunzione giunga a tanto. Prendi coscienza di te stesso, Raymond, la tua indignazione cesserà, e tornerai a essere soddisfatto di te stesso. Alcuni mesi fa, ogni volta che pregavamo per la prosperità del nostro paese, o per la nostra, pregavamo al tempo stesso per la vita e il benessere del Protettore, legato indissolubilmente alla patria. Le tue ore erano dedicate al nostro beneficio, la tua ambizione era quella di ottenere la nostra approvazione. Hai decorato le nostre città di edifici, ci hai concesso istituzioni utili, e hai donato al suolo abbondante fertilità. Il potente e l’ingiusto si facevano piccoli sulle scale del tuo tribunale, e il povero e l’oppresso spuntavano come fiori risvegliati al mattino dal sole della tua protezione.

  Puoi dunque stupirti se noi tutti siamo sbalorditi e ci rammarichiamo che tutto questo appaia mutato? Ma via, questo accesso umorale è già passato; riprendi le tue funzioni; i tuoi sostenitori ti acclameranno; i tuoi nemici verranno messi a tacere; e noi torneremo a manifestare l’amore, il rispetto e l’ossequio che proviamo nei tuoi confronti. Dominati, Raymond, e il mondo sarà tuo suddito».

  «Tutto questo sarebbe pieno di buon senso se fosse rivolto a un altro», replicò Raymond ombroso; «impara tu stesso la lezione, e tu, il primo pari della terra, potrai diventarne il sovrano. Tu, il buono, il saggio, il giusto, puoi governare tutti i cuori. Ma io mi rendo conto, troppo presto per la mia stessa felicità, troppo tardi per il bene dell’Inghilterra, di essermi accinto a un compito al quale sono inadeguato. Non posso dominare me stesso. Le passioni sono le mie padrone, il più piccolo impulso il mio tiranno. Pensi che io abbia rinunciato al Protettorato (e vi ho rinunciato) in preda al capriccio108 di un momento? Sul Dio che vive, giuro che non mi appunterò più sul petto quel gingillo; e che non mi farò mai più carico del peso di preoccupazione e miseria di cui esso è il segno visibile.

  Un tempo desiderai essere re. Ero nel fulgore degli anni, nel fiore della follia fanciullesca. Sapevo cosa facevo, quando vi rinunciai. Vi rinunciai per guadagnare… non importa cosa… perché ho perso anche quello. Per molti mesi mi sono sottomesso a questa farsa di sovranità, a questa solenne beffa. Ma non sono più il suo burattino. Sarò libero.

  Ho perso quello che ornava e dava dignità alla mia vita; quello che mi legava agli altri uomini. Sono di nuovo un uomo solitario; e diventerò di nuovo, come nei miei anni di gioventù, un vagabondo, un soldato di ventura. Amici miei – perché, Verney, sento che tu mi sei amico – non cercate di scuotere il mio proposito. Perdita, sposata a una fantasia, incurante di ciò che si trova dietro il velo, il cui insieme di simboli è in realtà falso e vile, Perdita ha rinunciato a me. Con lei era abbastanza bello recitare la parte di un sovrano; e come nei recessi della vostra amata foresta mettevamo in scena delle feste mascherate e immaginavamo di essere dei pastori dell’Arcadia, per compiacere la fantasia del momento, così io ero contento, per amore di Perdita più che per il mio, di assumere il ruolo di uno dei grandi della terra, di condurla dietro le scene di grandezza, di movimentare la sua vita con un breve atto di sfarzo e potere. Questo doveva essere il colore della nostra esistenza; l’amore e la fiducia dovevano esserne la sostanza. Ma noi dobbiamo vivere, e non recitare le nostre vite; inseguendo le ombre, persi la realtà: ora rinuncio a entrambe.

  Adrian, sto per tornare in Grecia, per diventare di nuovo un soldato, forse un conquistatore. Vuoi accompagnarmi? Vedrai nuovi scenari; osserverai un popolo nuovo; sarai testimone della lotta potente che là si svolge tra la civiltà e la barbarie; vedrai, e forse guiderai, gli sforzi di una popolazione giovane e vigorosa, per raggiungere la libertà e l’ordine. Vieni con me. Ti ho atteso. Ho aspettato questo momento; tutto è pronto; mi accompagnerai?»

  «Sì», rispose Adrian.

  «Subito?»

  «Domani, se vuoi».

  «Rifletti!», esclamai io.

  «A che pro?», chiese Raymond. «Mio caro amico, non ho fatto altro che riflettere su questo passo un’estate lunga come una vita, e sta’ certo che Adrian ha condensato un secolo di riflessioni in questo breve momento. Non parlare di riflessione; da questo momento l’abiuro; questo è il mio unico momento felice dopo un lungo periodo di tempo. Devo andare, Lionel… Gli Dei lo vogliono, e io devo. Non tentare di privarmi del mio compagno, l’amico di un reietto.

  Ancora una parola sulla crudele, ingiusta Perdita. Per qualche tempo avevo pensato che, tenendo d’occhio un momento di condiscendenza e nutrendo le ceneri ancora tiepide, avrei potuto ravvivare in lei la fiamma dell’amore. Ma è più freddo, dentro di lei, di un fuoco abbandonato dagli zingari in inverno, brace spenta incoronata da una piramide di neve. Allora, nello sforzo di fare violenza alla mia stessa natura, feci ancor peggio di prima. Ma io penso ancora che il tempo, e persino l’assenza, me la possano restituire. Ricorda che io l’amo ancora, che la mia più cara speranza è che sia ancora mia. Io lo so, ma non lei, quanto sia falso il velo che ha gettato sulla realtà… Non cercare di lacerare questa copertura ingannevole, ma tirala via a poco a poco. Mettile davanti uno specchio, grazie al quale lei possa conoscersi; e, quando sarà un discepolo di quella scienza necessaria ma difficile, si stupirà del suo errore attuale, e si affretterà a restituirmi ciò che per diritto mi appartiene: il suo perdono, i suoi dolci pensieri, il suo amore».

  CAPITOLO XI

  Passò molto tempo, dopo questi eventi, prima che fossimo in grado di riprendere un certo equilibrio. Una tempesta morale aveva fatto naufragare il nostro vascello sovraccarico e noi, chi rimaneva dell’equipaggio, eravamo attoniti per i cambiamenti e le perdite che avevamo subito. Idris amava appassionatamente suo fratello, e riusciva a sopportare a malapena un’assenza dalla durata incerta; a me la compagnia di Adrian era cara e necessaria. Sotto la sua tutela e la sua assistenza mi ero immerso, con tenacia e piacere, nelle mie predilette occupazioni letterarie; la sua dolce filosofìa, la ragione infallibile, e la calorosa amicizia erano il migliore ingrediente, lo spirito eminente del nostro circolo; persino i bambini rimpiangevano amaramente la perdita del loro gentile compagno di giochi. Un dolore più profondo opprimeva Perdita. Nonostante il suo risentimento, giorno e notte s’immaginava le fatiche e i pericoli dei due errabondi. L’assente Raymond, in lotta con ogni sorta di tribolazioni, privo ormai del potere e del rango del Protettorato, esposto ai pericoli della guerra, divenne oggetto di ansioso interesse. Non che intendesse trattenerlo, se ciò doveva implicare un ritorno alla loro unione precedente. Sentiva che ciò era impossibile; e finché era convinta di questo, e con angoscia rimpiangeva che dovesse essere così, era piena di rancore e insofferente verso di lui, che era la causa della sua afflizione. Questi tormenti e questi rimpianti le facevano bagnare il cuscino di lacrime notturne, e intanto, nella persona e nell’animo, si ridusse all’ombra di quello che era stata. Ricercava la solitudine, e ci evitava quando con gaiezza e con affetto traboccante ci incontravamo nel circolo familiare. Meditazioni solitarie, vagabondaggi interminabili e musica solenne erano i suoi unici passatempi. Trascurava persino la sua bambina; chiudendo il suo cuore a ogni tenerezza, divenne riservata persino con me, il suo primo e leale amico.

  Non potevo vederla così smarrita, senza cercare di porre rimedio a un male, che sapevo irrimediabile se non potevo spingerla a riconciliarsi con Raymond. Prima che lui se ne andasse usai ogni argomento per persuaderla a impedire che egli partisse. Rispose con un fiotto di lacrime, dicendomi di essere convinta di ciò, che la vita e i beni della vita si potevano scambiare a buon mercato. Non era la volontà che le mancava, ma la capacità; più e più volte dichiarò che sarebbe stato altrettanto facile incatenare il mare, o imbrigliare il corso cieco del vento, che per lei scambiare la verità con la menzogna, l’inganno con l’onestà, la comunione arida con l’amore sincero e confidente. Rispondeva poi ai miei ragionamenti in maniera sempre più laconica, affermando con sdegno che aveva ragione; finché non fossi riuscito a convincerla che il passato poteva essere disfatto, la maturità rientrare nella culla e tutto quello che era stato considerarsi mai accaduto, era del tutto inutile rassicurarla che nessun vero cambiamento aveva toccato il suo destino. E così, con orgoglio severo, gli permise di andarsene, anche se le corde stesse del suo cuore si spezzarono nel momento in cui venne compiuto l’atto che le strappava tutto quello che dava valore alla sua vita.

  Al fine di cambiare la scena per lei, e persino per noi, tutti sconvolti dalla nuvola che era sopraggiunta, convinsi i due compagni che mi rimanevano che era meglio lasciare Windsor per qualche tempo. Visitammo il Nord dell’Inghilterra, la mia nativa Ulswater, e indugiammo in luoghi resi cari da migliaia di ricordi. Prolungammo il nostro viaggio fino alla Scozia, così da poter vedere Loch Katrine e Loch Lomond; da lì attraversammo il mare fino all’Irlanda, e trascorremmo diverse settimane nelle vicinanze di Killarney. Il cambiamento di scena agì in larga misura come mi ero aspettato; dopo un anno di assenza, Perdita tornò con umore più gentile e più mansueto a Windsor. La prima volta che rivide questo luogo rimase in qualche modo sconvolta. Qui ogni angolo era chiaramente legato ad associazioni ora divenute amare. Le radure della foresta, le vallette ricche di felci, gli altopiani che somigliavano a dei prati, la campagna coltivata e gioiosa che si spandeva intorno al sentiero argentato del vecchio Tamigi, tutta la terra, l’aria e le onde, erano parte di una voce corale, ispirata dalla memoria, pervasa di rimpianto e di malinconia.

  Ma il mio compito di condurla a una visione più saggia della sua situazione non finì qui. Perdita era ancora in buona parte priva di istruzione. Quando abbandonò la sua vita pastorale e andò a vivere con l’elegante e colta Evadne, l’unico talento che riuscì a perfezionare fu quello della pittura; in questo campo aveva un gusto che arrivava quasi alla genialità. La pittura l’aveva occupata nella sua dimora solitaria, quando abbandonò la protezione della sua amica greca. Tavolozza e cavalletto erano ora accantonati; se cercava di dipingere, i ricordi che si affollavano le facevano tremare la mano e riempire gli occhi di lacrime. Abbandonata questa occupazione, rinunciò quasi a ogni altra attività, così che il suo animo si logorava, portandola quasi alla follia.

  Quanto a me, poiché fin dal principio Adrian mi aveva sottratto al mio deserto selvaggio per condurmi nel suo paradiso di ordine e bellezza, mi ero votato alla letteratura. Ero convinto che in qualunque modo fossero andate le cose nei tempi passati, nell’attuale fase del mondo, nessuna facoltà umana poteva essere sviluppata, nessun principio morale ampliato e liberato dai pregiudizi, senza una vasta familiarità coi libri. Per me essi prendevano il posto di una carriera attiva, dell’ambizione, e di quelle sollecitazioni concrete necessarie ai più. Il confronto di opinioni filosofiche, lo studio di fatti storici, l’apprendimento delle lingue erano un passatempo e insieme il fine serio della mia vita. Divenni io stesso autore. Le mie produzioni letterarie erano comunque senza troppe pretese; si limitavano alla biografia dei personaggi storici prediletti, specialmente di quelli che ritenevo fossero stati denigrati e intorno ai quali si addensavano l’oscurità e il dubbio.109

  Via via che la mia autorità di scrittore cresceva, mi arricchivo di nuove soddisfazioni e di nuove capacità di comprensione. Trovai un nuovo e prezioso vincolo che mi legava ai miei simili, il mio punto di vista divenne più ampio, e le inclinazioni e le capacità di tutti gli esseri umani divennero per me estremamente interessanti. Si dice che i re siano i padri del loro popolo. Improvvisamente divenni, per così dire, il padre di tutta l’umanità. I posteri divennero i miei eredi. I miei pensieri erano gemme che dovevano arricchire il tesoro dei possedimenti intellettuali dell’uomo; ogni sentimento era un prezioso dono che concedevo loro. Non dovete però attribuire queste aspirazioni alla vanità. Non erano espresse in parole, e non avevano neppure una forma compiuta nella mia mente; tuttavia mi riempivano l’anima, esaltando i miei pensieri, facendo nascere in me un fervore entusiasmante. Mi conducevano fuori dal sentiero oscuro sul quale prima camminavo, verso la strada maestra dell’umanità illuminata dal sole splendente del mezzogiorno, facendo di me, cittadino del mondo, un candidato a onori immortali, un avido aspirante alla lode e alla comunione con i miei simili.

  Nessuno gustò più intensamente di me i piaceri della composizione musicale. Se lasciavo i boschi, la musica solenne dei rami ondeggianti e il tempio maestoso della natura, ricercavo le vaste sale del castello, guardavo l’ampia e fertile Inghilterra che si stendeva al di sotto della nostra regale collina, e intanto ascoltavo brani da cui traevo ispirazione. In tali momenti, arie solenni o melodie emozionanti davano ali ai miei pensieri pigri, permettendo loro, così mi sembrava, di penetrare attraverso l’ultimo velo della natura e del suo Dio, e di rivelare alla comprensione degli uomini, con un’espressione concreta, la bellezza più elevata. Mentre la musica proseguiva, le mie idee sembravano abbandonare la loro dimora mortale; scuotevano le ali e cominciavano a volare, navigando sulla placida corrente del pensiero, riempiendo la creazione di una nuova gloria, risvegliando immagini sublimi che avrebbero altrimenti dormito senza avere mai una voce. Poi mi affrettavo alla scrivania, intessevo la trama appena scoperta dell’anima fino a farne un solido tessuto dai colori brillanti, aspettando poi di dare forma al materiale in un momento di maggiore calma.

  Ma questo racconto, che potrebbe egualmente appartenere a un periodo precedente della mia vita come a quello attuale, mi conduce fuori strada. Fu il piacere che provavo nella letteratura, la disciplina dello spirito che secondo me ne derivava, che mi resero desideroso di indurre Perdita alle stesse occupazioni. Cominciai con tocco lieve e con gentili allettamenti; prima cercavo di suscitare la sua curiosità, e poi l’appagavo in modo tale che fosse spinta a cercare, nelle ore che seguivano, quando grazie all’occupazione quasi dimenticava i suoi dolori, una risposta di benevolenza e di tolleranza.

  L’attività intellettuale, anche se non rivolta ai libri, era sempre stata una caratteristica di mia sorella. Si era manifestata precocemente nella sua vita, spingendola a meditazioni solitarie sulle sue montagne native, guidandola a creare innumerevoli combinazioni partendo da oggetti comuni, dando forza alle sue percezioni, e rapidità alle loro disposizioni. Poi, come il bastone del supremo profeta, era giunto l’amore ad assorbire ogni inclinazione secondaria.110 L’amore aveva raddoppiato tutte le sue qualità e deposto un diadema sul suo ingegno. Doveva smettere di amare? Togliete i colori e il profumo alla rosa, cambiate il dolce nutrimento del latte materno in fiele e veleno; altrettanto facilmente avreste potuto disabituare Perdita all’amore. Fu afflitta per la perdita di Raymond da un’angoscia che esiliò il sorriso dalle sue labbra, e scavò segni tristi sulla sua bella fronte. Ma ogni giorno sembrava cambiare la natura della sua sofferenza, e ogni ora che passava costringerla ad alterare (se così posso esprimermi) la foggia degli abiti luttuosi che la sua anima aveva indossato. Per qualche tempo la musica fu in grado di soddisfare i desideri ardenti della sua anima avida; i suoi pensieri malinconici si rinnovavano a ogni cambiamento di chiave e mutavano a ogni variazione della melodia. I miei insegnamenti la spinsero prima verso i libri; e se la musica era stato il nutrimento del suo dolore, le opere dei saggi ne divennero la medicina.

  Lo studio delle lingue sconosciute era un’occupazione troppo tediosa per chi riferiva qualsiasi espressione all’universo interiore, che non leggeva, come molti fanno, semplicemente per riempire il tempo, ma che interrogava di continuo se stessa e l’autore, plasmando ogni idea in mille modi, ardentemente desiderosa di scoprire la verità in ogni frase. Perdita cercò di migliorare le sue conoscenze; e automaticamente, sotto questa disciplina benigna, il suo cuore e la sua indole divennero dolci e gentili. Dopo un po’ si accorse che, tra le conoscenze da poco acquisite, il suo stesso carattere, che prima credeva di capire perfettamente, era divenuto il primo di una serie di terrae incognitae,111 regioni selvagge e senza sentieri di un territorio privo di mappa. Incerta e stranita, si accinse al compito di esaminare e di condannare se stessa. Allora divenne di nuovo consapevole delle proprie qualità, e cominciò a valutare, con un metro più imparziale, le ombre del bene e del male. Io, che desideravo oltre ogni dire restituirle la felicità di cui poteva ancora godere, osservavo con ansia il risultato di questi processi interiori.

  Ma l’uomo è uno strano animale. Non possiamo contare sulle sue forze come su quelle di un motore; e anche se un impulso tira con la forza di quaranta cavalli quello che sembrerebbe pronto a cedere a uno solo, tuttavia, a dispetto del calcolo, il movimento non si verifica. Né il dolore né la filosofia né l’amore potevano indurre Perdita a pensare con sentimenti miti alla manchevolezza di Raymond. Ora provava piacere nella mia compagnia; sentiva il valore di Idris e glielo dimostrava in modo pieno e affettuoso; tornò a restituire alla figlia, con abbondanza, le sue tenerezze e le sue attenzioni. Ma io potevo intuire, nella sua afflizione, un profondo risentimento verso Raymond e un imperituro senso di offesa che mi strapparono la speranza proprio quando sembrava fossi vicinissimo alla sua realizzazione. Tra altre penose restrizioni, aveva preteso da noi che non menzionassimo mai il nome di Raymond davanti a lei. Si rifiutava di leggere qualsiasi notizia dalla Grecia, desiderava soltanto che l’informassi quando ne arrivava qualcuna, e se i due errabondi stavano bene. Era curioso come persino la piccola Clara rispettasse questa legge nei confronti della madre. Quest’adorabile bambina aveva quasi otto anni. Prima era un esserino spensierato e bizzarro, e tuttavia gaio e infantile. Dopo la partenza del padre, il segno della riflessione si incise sulla sua giovane fronte. I bambini, non esperti nel linguaggio, trovano raramente le parole per esprimere i loro pensieri, né noi potevamo dire in che modo gli ultimi eventi le si fossero impressi nell’animo. Ma di certo aveva fatto considerazioni profonde, mentre osservava in silenzio i cambiamenti intorno a lei. Non faceva mai il nome del padre a Perdita, e sembrava quasi spaventata quando ne discorreva con me; io cercavo di spingerla a parlare di questo argomento e di dissipare l’aura di tetraggine che aleggiava sull’idea che la bimba aveva di lui, ma non riuscii a fare molto. Tuttavia, a ogni nuovo arrivo di posta straniera, Clara stava di guardia, controllava le lettere, riconosceva il francobollo, e mi stava a guardare mentre leggevo. Spesso la trovai tutta presa a studiare gli articoli di giornale che riportavano notizie sulla Grecia.

  Non c’è vista più penosa di quella dei bambini afflitti da preoccupazioni inopportune, soprattutto quando hanno sempre avuto un carattere allegro. E tuttavia tali erano la dolcezza e l’arrendevolezza di Clara da suscitare ammirazione. Se e vero che gli stati dello spirito dipingono il volto di bellezza e donano grazia ai movimenti, di certo le sue meditazioni devono essere state celestiali, poiché ogni suo lineamento era plasmato dalla leggiadria, e i suoi movimenti erano più armoniosi degli eleganti balzi dei fauni della sua foresta nativa. Io facevo talvolta le mie rimostranze a Perdita per questa sua riservatezza; ma ella rifiutava i miei consigli, mentre la sensibilità della figlia suscitava in lei una tenerezza ancora più appassionata.

  Trascorso che fu più di un anno, Adrian tornò dalla Grecia.

  Quando i nostri esuli erano arrivati, tra turchi e greci era in corso una tregua; una tregua che, come il sonno rispetto al corpo mortale, al risveglio era indice di attività rinnovata. Con i numerosi soldati dell’Asia, con tutti gli armamentari bellici, le navi e le macchine da guerra che la ricchezza e il potere potevano procurare, i turchi decisero all’improvviso di distruggere un nemico che, infiltratosi gradualmente dalla sua fortezza in Morea, aveva conquistato la Tracia e la Macedonia, e aveva condotto le proprie armate addirittura fino alle porte di Costantinopoli; inoltre, per le sue estese relazioni commerciali, ogni nazione europea aveva interesse al suo successo. La Grecia si preparava a una vigorosa resistenza; si sollevò come un uomo solo; le donne, sacrificando i loro preziosi ornamenti, equipaggiarono i loro figli per la guerra e, con lo spirito delle madri di Sparta, ordinarono loro di arrivare alla vittoria o di morire. Il coraggio e le capacità di Raymond erano stimati oltre misura tra i greci. Nato ad Atene, quella città lo rivendicò come proprio, e gli affidò il comando di una particolare divisione dell’esercito, così che solo il comandante in capo possedeva poteri superiori ai suoi. Egli veniva annoverato tra i suoi cittadini, e il suo nome era stato aggiunto alla lista degli eroi greci. Il suo giudizio, le sue attività e il suo valore sperimentato giustificavano la loro scelta. Il conte di Windsor divenne un volontario sotto la guida del suo amico.

  «E bello», disse Adrian, «parlare di guerra tra questi piacevoli luoghi ombrosi e, con un grande spreco di energie, far mostra di gioia, perché migliaia e migliaia di creature, nostri simili, abbandonano con dolore questa dolce aria e la terra natale. Non verrò sospettato di essere avverso alla causa greca; ne riconosco e ne sento la necessità, ed è, più di ogni altra, una buona causa. L’ho difesa con la mia stessa spada, e avrei voluto che la mia anima esalasse l’ultimo respiro in sua difesa; la libertà vale più della vita, e i greci fanno bene a difendere il loro diritto fino alla morte. Ma non lasciamoci ingannare. I turchi sono uomini; ogni fibra, ogni parte del loro corpo ha la nostra stessa sensibilità, e il cuore e il cervello di un turco patiscono ogni dolore fisico o mentale esattamente come il cuore e il cervello di un greco. L’ultima azione cui io partecipai fu la presa di… I turchi resistettero fino alla fine, la guarnigione cadde sui bastioni e noi entrammo con un assalto. All’interno delle mura venne massacrata ogni creatura vivente. E voi pensate forse che, tra le grida dell’innocenza violata e dell’infanzia indifesa, non sentissi riecheggiare in ogni fibra l’urlo di un mio simile? Erano uomini e donne, le vittime, prima ancora di essere maomettani, e quando si solleveranno senza più turbante dalle tombe, in cosa saranno migliori o peggiori di noi, se non soltanto per le loro buone o cattive azioni? Due soldati lottavano per una fanciulla, il cui abito sontuoso e la cui eccezionale bellezza eccitavano gli appetiti bestiali di questi disgraziati che, forse bravi uomini tra le loro famiglie, erano trasformati dalla furia del momento nell’incamazione del male. Un vecchio, con la barba d’argento, calvo e decrepito, che avrebbe potuto essere suo nonno, intervenne per salvarla: l’ascia di battaglia di uno di loro gli spaccò il cranio. Io mi precipitai in difesa della ragazza, ma la rabbia li rendeva ciechi e sordi; non distinguevano le mie vesti cristiane né badavano alle mie parole.112 Le parole erano armi spuntate dunque, perché mentre la guerra gridava “devastazione”, e l’assassinio gli dava un’eco adeguata, come potevo io

 

  Far rifluire la marea delle sventure, alleviando il male

  Con dolci apostrofi di confortante eloquenza?113

 

  Uno dei due, furioso per la mia intromissione, mi colpì al fianco con la baionetta, e io caddi privo di sensi.

  Questa ferita accorcerà probabilmente la mia vita, perché ha danneggiato una struttura già debole. Ma sono contento di morire. In Grecia ho imparato che un uomo in più o in meno ha in fin dei conti poco rilievo, fino a che dei corpi umani rimangono a riempire i ranghi assottigliati delle truppe; e che si può passar sopra all’identità di un individuo, purché i ruoli si presentino completi. Tutto ciò ha un effetto diverso su Raymond. Egli riesce a contemplare l’ideale della guerra, mentre io sono sensibile solo alle sue realtà. Lui è un soldato, un generale. Può influenzare i cani da guerra, assetati di sangue, mentre io mi oppongo invano alle loro inclinazioni. Il motivo è semplice. Burke ha detto che “in tutti i corpi, quelli che vogliono far da guida devono anche, in misura considerevole, obbedire”.114 Ma io non posso obbedire, perché non condivido i loro sogni di massacro e di gloria. Obbedire e guidare in una tale carriera è l’inclinazione naturale dell’animo di Raymond. Egli è sempre vittorioso, e nel momento stesso in cui conquista per se stesso nome e posizione elevati, promette ai greci di assicurare la libertà, e probabilmente l’estensione dell’impero»

  L’animo di Perdita non fu intenerito da questo racconto. Egli, pensava, può essere grande e felice senza di me. Se anch’io avessi una carriera! Se potessi caricare su un veliero che non sia stato ancora messo alla prova tutte le mie speranze, le mie energie e i miei desideri, e lanciarlo con impeto sull’oceano della vita... diretta verso qualche luogo raggiungibile, con l’ambizione o il piacere al timone! Ma venti avversi mi trattengono a riva; come Ulisse, siedo ai bordi dell’acqua e piango.115 E le mie mani deboli non possono abbattere alberi, né levigare assi. Sotto l’influenza di questi pensieri malinconici, si innamorò più che mai del dolore. E tuttavia la presenza di Adrian le fece in qualche modo del bene. Egli infranse all’improvviso la legge del silenzio osservata sul nome di Raymond. In principio Perdita trasaliva nell’udire il suono insolito; ma presto ci si abituò, imparò ad amarlo, e si mise ad ascoltare con avidità il racconto delle sue imprese. Anche Clara si liberò del suo pudore; lei e Adrian erano stati vecchi compagni di gioco, e ora, mentre passeggiavano o cavalcavano insieme, egli cedeva alle sue suppliche pressanti, e ripeteva, per la centesima volta, qualche storia del valore, della liberalità o della giustizia di suo padre.

  Ogni vascello, nel frattempo, portava notizie confortanti dalla Grecia. La presenza di un amico tra le sue armate e i suoi consigli di guerra ci spingeva a entrare con entusiasmo nei dettagli; di tanto in tanto, una breve lettera di Raymond ci diceva quanto fosse assorbito dagli interessi della sua patria di adozione. I greci erano fortemente attaccati alle loro attività commerciali, e se i turchi non li avessero minacciati di invasione, sarebbero stati soddisfatti delle loro attuali acquisizioni. I patrioti erano trionfanti; venne inculcato loro uno spirito di conquista, e già guardavano a Costantinopoli come se appartenesse loro. Raymond saliva incessantemente nella loro stima: soltanto un uomo aveva un comando superiore al suo nei loro eserciti. Si distinse per la sua condotta e la scelta della posizione in una battaglia, combattuta nelle piane della Tracia, sulle rive dell’Ebro, in cui si dovevano decidere le sorti dell’IsIam. I maomettani furono sconfitti, e respinti completamente dal territorio a ovest del fiume. La battaglia fu cruenta, le perdite dei turchi sembravano irreparabili; i greci, perdendo un uomo, dimenticarono la folla senza nome disseminata sul campo insanguinato: non pensarono più di avere in mano una vittoria che a loro costava Raymond!

  Durante la battaglia di Makri egli aveva guidato la carica della cavalleria, e aveva inseguito i fuggiaschi fin sulle rive dell’Ebro. Il suo cavallo preferito fu ritrovato a pascolare sul margine del fiume tranquillo. Ci si chiese se fosse caduto tra coloro che non erano stati riconosciuti; ma né guarnizioni macchiate né i resti di un ornamento tradivano il suo destino. Si sospettò che i turchi, trovandosi in possesso di un prigioniero così illustre, avessero deciso di soddisfare la loro crudeltà piuttosto che la loro cupidigia, e che timorosi dell’intervento dell’Inghilterra, avessero deciso di tenere nascosto per sempre l’assassinio (avvenuto a sangue freddo) del soldato che più odiavano e temevano negli squadroni del nemico.

  Raymond non era stato dimenticato in Inghilterra. L’abdicazione al Protettorato aveva provocato una sensazione senza precedenti; e, quando si confrontava il suo ordinamento grandioso e risoluto con la ristrettezza di vedute dei politici che seguirono, ci si riferiva con rammarico al periodo del suo potere. L’interesse per lui era sempre tenuto vivo dal ricorrere incessante del suo nome nelle gazzette greche, dove era unito a testimonianze del massimo valore. Sembrava il figlio favorito della fortuna,116 e la sua perdita prematura offuscava il mondo, il resto dell’umanità sembrava risplendere di minor gloria. Si aggrapparono con ardore alla tenace speranza che potesse ancora essere vivo. Il ministro inglese a Costantinopoli fu spronato a fare le ricerche necessarie e, nel caso si fosse accertato che era in vita, a chiederne il rilascio. C’era da sperare che i suoi sforzi avessero successo, e che sebbene ora fosse un prigioniero, lo zimbello della crudeltà e il marchio dell’odio, venisse salvato dal pericolo e restituito alla felicità, al potere e all’onore che meritava.

  L’effetto di questa notizia su mia sorella fu sconcertante. Perdita non diede credito, nemmeno per un attimo, alla storia della sua morte, e decise all’istante di andare in Grecia. Ragionamenti e tentativi di persuasione erano sprecati con lei: non avrebbe tollerato intralci o ritardi. Può forse ritenersi vero che, se il ragionamento o la supplica riescono a distogliere taluni da un proposito disperato, il cui movente e il cui fine dipendono soltanto dalla forza dell’affetto, allora è giusto indurli a desistere, poiché la loro stessa arrendevolezza dimostra che né il movente né il fine avevano forza sufficiente a portarli in salvo attraverso gli ostacoli dell’impresa. Se, al contrario, resistono alla prova delle rimostranze, la loro stessa fermezza è un auspicio di successo; e diventa dovere di coloro che li amano, assisterli nell’abbattere gli ostacoli sul loro cammino. Simili sentimenti muovevano il nostro piccolo circolo. Trovando Perdita irremovibile, ci consultammo per decidere quali fossero i mezzi migliori per favorire il suo proposito. Non poteva andare sola in un paese in cui non aveva amici, dove sarebbe potuta arrivare semplicemente per sentire la notizia terribile che l’avrebbe sopraffatta col dolore e il rimorso. Adrian, la cui salute era sempre stata debole, accusava un sensibile peggioramento dei suoi mali in conseguenza della ferita. Idris non poteva sopportare l’idea di lasciarlo partire in questo stato; né era giusto abbandonare o portare con noi una giovane famiglia per un viaggio di questo genere. Alla fine decisi che io avrei accompagnato Perdita. La separazione dalla mia Idris fu penosa, ma la necessità ce la fece in qualche modo accettare: la necessità e la speranza di salvare Raymond e di restituirlo di nuovo alla felicità e a Perdita. Non potevamo più ritardare. Due giorni dopo aver preso la nostra decisione, partimmo per Portsmouth e ci imbarcammo. Era maggio, il mare era calmo e non c’erano tempeste; ci fu promesso un viaggio felice. Nutrendo in cuore le più fervide speranze, imbarcati sulla desolata distesa dell’oceano, guardammo con gioia indietreggiare le rive della Gran Bretagna, e sulle ali del desiderio ci dirigemmo verso il Sud a gran velocità, le nostre vele ben gonfie. Le onde, lievemente arricciate, ci spingevano avanti, e il vecchio oceano sorrideva al carico di amore e di speranza che era stato affidato alla sua custodia; percuoteva dolcemente le sue pianure tempestose, e ci rendeva levigato il sentiero. Giorno e notte il vento, sempre a poppa, imprimeva un impulso costante alla nostra chiglia. Né burrasche violente, né sabbie infide o rocce rovinose frapposero ostacoli tra mia sorella e la terra che doveva restituirle il suo primo amato:
 Il confidente del suo caro cuore - un cuore dentro quel cuore.117