DETTAGLI DI UN TRAMONTO
L'ultimo tram scompariva nell'oscura specchiera della strada e, lungo il filo sovrastante, la scintilla di un bengala, crepitante e tremula, sfrecciò in lontananza come una stella azzurra.
Estratto da "Una bellezza russa e altri racconti"
Vladimir Nabokov
«Ebbene, tanto vale continuare a camminare, anche se sei piuttosto sbronzo, Mark, piuttosto sbronzo…».
La scintilla si spense. I tetti luccicavano al chiarore della luna, angoli argentei infranti da nere crepe oblique.
Attraverso quell'oscurità specchiante barcollava verso casa: Mark Standfuss, un commesso, un semidio, un individuo fortunato dai capelli biondi e dall'alto colletto inamidato. Sulla nuca, sopra la linea bianca di quel colletto, i suoi capelli finivano in un simpatico ciuffo giovanile che era sfuggito alle forbici del barbiere. Era quel ciuffo che aveva fatto innamorare Klara, e lei giurava che si trattava di vero amore, giurava che aveva completamente dimenticato quello straniero bello e rovinato che l'anno prima aveva preso in affitto una camera da sua madre, Frau Heise.
«Però, Mark, sei sbronzo…».
Quella sera c'erano stati birra e canti con gli amici in onore di Mark e della pallida Klara dai capelli ramati, fra una settimana si sarebbero sposati; poi una vita di beatitudine e pace, e di notti con lei, la rossa vampa dei suoi capelli sparsa sul cuscino e, al mattino, di nuovo le sue placide risate, il vestito verde, le sue fresche braccia nude.
Al centro di una piazza c'era un nero wigwam: stavano riparando i binari del tram. Lui ricordava come quel giorno fosse riuscito a insinuarsi sotto la sua corta manica e baciare la commovente cicatrice della vaccinazione antivaiolosa. E ora stava camminando verso casa, barcollante per un eccesso di felicità e di bevute, e faceva dondolare la canna sottile, mentre, fra le case buie dall'altra parte della strada deserta, un'eco notturna risuonava in sintonia con i suoi passi; ma si interruppe quando egli svoltò l'angolo dove lo stesso uomo di sempre, con grembiule e berretto a visiera, sostava accanto al suo grill vendendo salsicce e gridando con voce tenera e triste, simile al fischio di un uccello:«Wùrstchen, Wùrstchen…».
Mark provava una specie di deliziosa compassione per le salsicce, la luna, la scintilla azzurra che era corsa via lungo il filo, e, mentre si appoggiava a un'amichevole staccionata, fu sopraffatto dal riso, e piegandosi emise dentro un piccolo buco tondo nelle assi: «Klara, Klara, oh tesoro mio!».
Al di là della staccionata, in uno spazio tra le case, c'era un appezzamento rettangolare di terreno in abbandono. Vi sostavano alcuni camion da trasloco che parevano enormi casse da morto. Erano gonfi di carico. Solo Dio sa che cosa era stipato all'interno. Bauli di quercia, probabilmente, e candelabri simili a ragni di ferro, e il pesante scheletro di un letto matrimoniale. La luna gettava un bagliore gelido sui camion. A sinistra del terreno, enormi cuori neri si appiattivano contro lo spoglio retro di un edificio – le ombre, ingrandite molte volte, delle foglie di un tiglio che cresceva accanto a un lampione sul bordo del marciapiede.
Mark ridacchiava ancora tra sé mentre saliva per la scala buia diretto al suo piano. Raggiunse gli ultimi gradini, ma per sbaglio alzò un'altra volta il piede che si appoggiò maldestramente con un botto. Mentre brancolava al buio in cerca della serratura, la canna di bambù gli sfuggì da sotto il braccio e, con un lieve, sommesso ticchettio, scivolò giù per la scala. Mark trattenne il fiato. Pensava che la canna avrebbe seguito la svolta della scala e sarebbe arrivata fragorosamente in fondo. Però l'acuto, legnoso click clack improvvisamente cessò. Dev'essersi fermata. Fece un ghigno di sollievo e, aggrappandosi alla ringhiera (mentre la birra ronzava nella sua testa svuotata), ricominciò a scendere. Per poco non cadde, e finì per sedersi pesantemente su un gradino mentre cercava a tastoni con le mani.
Sul pianerottolo in alto si aprì una porta. Frau Standfuss, con una lampada a cherosene in mano, semivestita, gli occhi ammiccanti, la bruma dei capelli che faceva capolino da sotto la cuffia da notte, uscì e chiamò: «Sei tu, Mark?».
Un cuneo giallo di luce inglobò la ringhiera, la scala, il bastone, e Mark, ansimando felice, risalì al pianerottolo e la sua ombra nera e gibbosa lo seguì lungo la parete.
Poi, nella stanza poco illuminata e divisa da un paravento rosso, ebbe luogo la conversazione seguente:
«Hai bevuto veramente troppo, Mark».
«No, mamma… Sono così felice…».
«Sei tutto sporco, Mark. Hai una mano nera…».
«… tanto felice… Ah, questo fa bene… l'acqua bella fresca. Versamene un po' sulla testa… ancora… Tutti si sono congratulati con me, e a buon motivo… Versamene ancora».
«Ma dicono che era innamorata di un altro fino a poco tempo fa – un avventuriero, uno straniero, qualcosa del genere. Che se ne è partito senza pagare i cinque marchi che doveva a Frau Heise…».
«Oh, smettila – non capisci niente… Quanto abbiamo cantato oggi… Guarda, ho perso un bottone… Credo che mi raddoppieranno il salario quando mi sarò sposato…».
«Vieni, va' a letto… Sei tutto sporco, anche i pantaloni nuovi».
Quella notte Mark fece un sogno sgradevole. Vide il suo defunto padre. Si avvicinava a lui con uno strano sorriso sul volto pallido, sudato, prendeva Mark sotto le ascelle e cominciava a fargli il solletico silenziosamente, violentemente e implacabilmente.
Lui si ricordò di quel sogno solo dopo essere arrivato al negozio dove lavorava, e se ne ricordò solo perché un suo amico, l'allegro Adolf, gli diede una gomitata nelle costole. Per un istante qualcosa si spalancò nella sua anima, rimase di stucco per la sorpresa e si richiuse sbattendo. Poi tutto ridivenne facile e limpido, e le cravatte che proponeva ai clienti sorridevano allegramente, solidali con la sua felicità. Sapeva che sarebbe andato da Klara quella sera – avrebbe solo fatto un salto a casa per la cena, e poi direttamente da lei… Giorni addietro, mentre le diceva come sarebbe stato intimo e tenero vivere insieme, lei era scoppiata improvvisamente a piangere. Naturalmente Mark aveva capito che quelle erano lacrime di gioia (come lei stessa aveva spiegato); poi si era messa a piroettare per la stanza, con la gonna simile a una vela verde, quindi, davanti allo specchio, aveva cominciato a lisciarsi i capelli lucenti, del colore della marmellata di albicocche. E il suo viso era pallido e spaventato, sempre, beninteso, per la felicità. Era così naturale, dopotutto…
«A righe? Ma certo».
Annodò la cravatta sulla mano, la girò di qua e di là allettando il cliente. Apriva prontamente le piatte scatole di cartone…
Intanto sua madre riceveva una visita: Frau Heise. Era venuta senza preavviso e sulla sua faccia c'erano tracce di lacrime. Cautamente, quasi come se temesse di andare in pezzi, si abbassò su uno sgabello nella minuscola, immacolata cucina dove Frau Standfuss stava lavando i piatti. Alla parete era appeso un maialino di legno bidimensionale, e una scatola di fiammiferi semiaperta, con un solo cerino consumato, stava sulla cucina a gas.
«Le porto brutte notizie, Frau Standfuss».
L'altra si irrigidì, stringendosi un piatto al seno.
«Riguardano Klara. Ecco, è fuori di sé. Quel mio inquilino è tornato oggi – lei sa, quello di cui le ho parlato. E Klara è impazzita. Sì, è successo tutto stamattina… Non vuole vedere suo figlio mai più… Lei le ha regalato della stoffa per un nuovo vestito; gliela restituirà. E qui c'è una lettera per Mark. Klara è impazzita. Non so cosa pensare…».
Intanto Mark aveva finito di lavorare ed era già sulla strada di casa. Adolf, quello con i capelli a spazzola, lo accompagnò fino al portone. Si fermarono entrambi, si strinsero la mano, e Mark diede una spinta con la spalla alla porta che si aprì sulla vuota frescura.
«Perché vai a casa? Lascia perdere. Andiamo a mangiare un boccone da qualche parte, noi due». Adolf immobile si appoggiava al suo bastone da passeggio come se fosse una coda. «Lascia perdere, Mark…».
Mark si sfregò la guancia con fare indeciso, poi scoppiò a ridere. «D'accordo. Solo che pago io».
Quando, una mezz'ora più tardi, uscì dal locale e salutò l'amico, la vampa di un tramonto infuocato riempiva tutto il canale, e in lontananza un ponte rigato di pioggia era inscritto in una sottile cornice d'oro percorsa da minuscole figure nere.
Diede uno sguardo all'orologio e decise di andare direttamente dalla fidanzata, senza fermarsi da sua madre. La sua felicità e la limpidezza dell'aria serale gli facevano girare leggermente la testa. Una freccia di rame lucente cadde sulla scarpa laccata di un dandy che stava saltando fuori da una macchina. Le pozzanghere, non ancora asciutte, racchiuse dal lividore di una fosca umidità (gli occhi viventi dell'asfalto), riflettevano la morbida incandescenza della sera. Le case erano grigie come sempre; però i tetti, le modanature sovrastanti i piani superiori, i parafulmini dorati, le cupole di pietra, le colonnine – di cui nessuno si accorge durante il giorno, poiché la popolazione diurna alza di rado lo sguardo – ora erano immersi in una colata di ocra intenso, l'ariosa calura del tramonto, e così sembravano impreviste e magiche quelle sporgenze più in alto, i balconi, le cornici, i pilastri, che nettamente contrastavano, per via del loro fulvo splendore, con le scialbe facciate sottostanti.
Ah, come sono felice, continuava a pensare Mark, come tutto intorno a me esalta la mia felicità.
Mentre sedeva in tram, esaminava affettuosamente gli altri passeggeri. Aveva un viso talmente giovane, Mark, con foruncoli rosa sul mento, allegri occhi luminosi, e un ciuffo più lungo nell'incavo della nuca… Si sarebbe potuto pensare che il destino l'avrebbe risparmiato.
Fra poco vedrò Klara, pensò. Mi verrà incontro sulla porta. Dirà che a stento è riuscita a sopravvivere fino a sera.
Sobbalzò. Aveva superato la fermata alla quale doveva scendere. Facendosi strada verso l'uscita inciampò nei piedi di un grasso signore che stava leggendo una rivista medica; Mark voleva sollevare appena il cappello in segno di saluto ma per poco non cadde: il tram svoltava con stridore. Lui si aggrappò a una cinghia sopra la sua testa e riuscì a mantenere l'equilibro. L'uomo ritirò le corte gambe con un irritalo grugnito catarroso. Aveva dei baffi grigi attorcigliati aggressivamente all'insù. Mark gli rivolse un sorriso colpevole e raggiunse la piattaforma anteriore della vettura. Afferrò i corrimani metallici, si piegò in avanti, calcolò il salto. Sotto, l'asfalto scivolava via, liscio e luccicante. Mark saltò. L'attrito fece scottare le suole e le gambe si misero a correre da sole, la cadenza dei piedi ritmata da un'involontaria risonanza. Diverse cose strane accaddero simultaneamente: dalla cabina di guida della vettura che oscillando si allontanava da Mark, il controllore emise un urlo furibondo; l'asfalto scintillante volò verso l'alto come il sedile di un'altalena; una massa ruggente colpì Mark da dietro. Gli sembrò che una possente saetta lo avesse percorso dalla testa alle estremità, poi nulla. Era lì in piedi, solo, sul lucido asfalto. Si guardò intorno. Vide la sua sagoma in lontananza, la schiena sottile di Mark Standfuss che attraversava la strada in diagonale come se nulla fosse accaduto. Stupito raggiunse se stesso con una sola facile volata, e ora era lui che si avvicinava al marciapiede, e tutto il suo essere avvertiva una vibrazione che andava smorzandosi a poco a poco.
Ho fatto una stupidata. Sono quasi finito sotto un autobus…
La strada era larga e animata. I colori del tramonto avevano invaso metà del cielo. I piani superiori e i tetti erano immersi in una luce fulgida. Lassù Mark poteva distinguere portici traslucidi, fregi e affreschi, tralicci ricoperti di rose color arancio, statue alate che levavano verso il cielo lire dorate intollerabilmente fiammeggianti. Tra luminosi moti ondulatori, eterei e festosi, tali incanti architettonici arretravano nelle profondità celesti, e Mark non comprendeva come non avesse mai notato quelle gallerie, quei templi sospesi lassù.
Picchiò violentemente un ginocchio. Di nuovo quella staccionata nera. Non potè trattenersi dal ridere mentre riconosceva i camion in lontananza. Eccoli, come gigantesche bare. Cosa mai potevano celare all'interno? Tesori? Scheletri di giganti? Oppure montagne polverose di magnifici mobili?
Devo assolutamente dare un'occhiata. Altrimenti Klara chiederà, e io non saprò.
Con una rapida spinta aprì lo sportello di un camion ed entrò. Vuoto. Vuoto, salvo una piccola sedia di vimini al centro, comicamente in bilico su tre gambe.
Mark scrollò le spalle e uscì dal lato opposto. Di nuovo sgorgò nei suoi occhi il caldo bagliore serale. E ora davanti a lui c'era il familiare cancello di ferro battuto e, più in là, la finestra di Klara, contro la quale si profilava un ramo verde. Klara stessa aprì il cancello e rimase in attesa alzando i gomiti nudi, mentre si sistemava i capelli. Nelle assolate aperture delle sue corte maniche si intravedevano i ciuffi bruni delle ascelle.
Ridendo silenziosamente, Mark corse ad abbracciarla. Premette la guancia contro la calda seta verde del suo vestito.
Le mani di lei si posarono sulla testa di Mark.
«Mi sono sentita tanto sola tutto il giorno. Ma adesso sei qui».
Aprì la porta e Mark si trovò subito nella sala da pranzo e fu colpito da quanto era spaziosa e piena di luce.
«Le persone, quando sono felici come siamo noi ora,» disse lei «possono fare a meno di un ingresso». Quello di Klara era un sussurro appassionato, e a lui sembrava di percepire nelle sue parole un significato speciale, meraviglioso.
Nella sala da pranzo, intorno all'ovale della tovaglia bianca come la neve, erano sedute varie persone, nessuna delle quali Mark aveva mai visto prima in casa della fidanzata. Tra loro c'era Adolf, scuro di carnagione, con la sua testa squadrata; c'era anche quel vecchio con le gambe corte e la pancia sporgente che leggeva una rivista medica sul tram e stava ancora brontolando.
Mark salutò la compagnia con un timido cenno del capo e si sedette accanto a Klara, e in quello stesso istante avverti, come era accaduto poco prima, una scarica di dolore atroce t he gli attraversava tutto l'essere. Si contorse, e il vestito verde di Klara fluttuò via, per poi restringersi e trasformarsi in paralume verde. La lampada dondolava appesa al suo cordone. Mark era sdraiato là sotto, con quel dolore inconcepibile che gli triturava il corpo, e non poteva scorgere nulla salvo la lampada oscillante, e le sue costole premevano contro il cuore, impedendogli di respirare, e qualcuno gli stava piegando la gamba, sforzandosi di romperla, di lì a un istante si sarebbe spaccata. In qualche modo si liberò e la lampada tornò al suo verde bagliore, e Mark vide se stesso seduto un po' più in la, accanto a Klara, e non appena vide ciò, si scoprì a sfiorare con il ginocchio la sua calda gonna di seta. E Klara rideva gettando il capo all'indietro.
Sentiva il bisogno di raccontare quello che era appena successo e, rivolgendosi a tutti i presenti – l'allegro Adolf, quel vecchio grasso e scontroso – articolò a fatica: «Lo straniero sta offrendo le preghiere summenzionate sul fiume…».
Gli sembrava di aver chiarito tutto e che, evidentemente, tutti avessero capito… Klara, sporgendo un po' le labbra, lo pizzicò sulla guancia: «Mio povero tesoro. Si aggiusterà tutto…».
Cominciava a sentirsi stanco e ad avere sonno. Mise il braccio intorno al collo di Klara, la attirò verso di sé, e si distese. A questo punto il dolore lo aggredì di nuovo e tutto divenne evidente.
Mark giaceva supino, mutilato e bendato, e la lampada non dondolava più. Il solito grassone con i baffi, divenuto ora un medico in camice bianco, emetteva, inquieto, piccoli brontolìi preoccupati mentre guardava le pupille di Mark. E che dolore!… Dio, fra un attimo il suo cuore, impalato su una costola, sarebbe esploso… Dio, da un momento all'altro… Questo è ridicolo. Perché non c'è Klara?…
Il dottore aggrottò le sopracciglia e fece schioccare la lingua.
Mark non respirava più, Mark era partito – per dove, verso quali altri sogni, nessuno può dirlo.