venerdì 6 marzo 2020


LA NOTTE DELLA SVASTICA 

Katharine Burdekin (Murray Constantine)
Sellerio editore Palermo

PRESENTAZIONE
Il Nazismo ha trionfato. Settecento anni dopo il pianeta si trova diviso in due soli potenti domini: l’impero tedesco e l’impero giapponese. E nella parte tedesca si trova aggiogato a un’assurda religione, imposta dall’abolizione della memoria e nata dall’oblio di ogni scienza e tecnologia, arte, letteratura e filosofia. Il nuovo Credo ha deificato Hitler, trasformato in un dio mitologico, «non nato da grembo di donna, ma esploso dalla testa del padre suo, Dio del Tuono». Un mondo brutalizzato e brutale, ritornato a una specie di feudalesimo mistico, di cui le prime vittime, che non si possono del tutto eliminare, sono le donne. Eppure qualcuno, nella lunga notte dei secoli, è riuscito a custodire un barlume della memoria (un libro, una fotografia), estremo antidoto, ultimo riparo contro l’annichilimento dell’umano. La notte della svastica fu scritto, incredibilmente, nel 1937, cioè prima della Seconda guerra mondiale e prima dell’alleanza bellica tra il Giappone e la Germania. Immagina e prevede l’una e l’altra. E comprende del Nazismo un carattere che verrà rilevato decenni dopo: il legame strutturale tra il totalitarismo e il misticismo irrazionale. Ma è forse il tema del rapporto tra biologia e potere, tra violenza e sessualità, quello che emerge in modo più inquietante dalle pagine di questa scrittrice: la riduzione della donna a una macchina finalizzata a procreare soldati, il disprezzo misogino, la distruzione di memoria e identità personali anticipano e piantano le radici della futura fantascienza femminista (alla Atwood, per esempio). Dietro le sue spalle ci sono Wells, Huxley e le altre ucronie e distopie. E prima del 1984 di George Orwell (che uscirà nel 1948) inscena gli effetti di una società in cui la Storia è stata abolita.

LA NOTTE DELLA SVASTICA
 Capitolo uno 
Il Cavaliere si volse verso la cappella del Sacro Hitler – che in questa chiesa si trovava nel braccio ovest della Svastica – e, con i soliti rumorosi accordi d’organo e il prolungato rullare dei tamburi sacri, il Credo ebbe inizio. Hermann stava seduto nella cappella Goebbels, nel braccio nord, da dove poteva osservare in santa pace quel bel ragazzo dai lunghi capelli chiari e setosi, che cantava gli assolo. Ma adesso dovette voltarsi pure lui verso occidente, come il Cavaliere. Così non riusciva più a vedere il ragazzo, se non sbirciando lateralmente, e anche se fissare i bei giovanotti in chiesa non era considerato riprovevole neppure sul piano delle buone maniere, durante il canto del Credo qualsiasi postura che non fosse «attenti-sguardo-avanti» era sacrilega. Hermann cantò con gli altri, mescolandosi a quel possente e intonato ruggire di voci maschili, ma le parole del Credo non lasciavano traccia nelle sue orecchie o dentro il suo cervello. Gli erano troppo familiari. Non che non fosse religioso: la grande cerimonia annuale del Ravvivarsi del Sangue – riservata ai soli hitleriani tedeschi – non mancava di esaltarlo fino al delirio. Ma questa qui era la solita funzione mensile, troppo banale e noiosa per suscitare particolari entusiasmi, specie se uno era contrariato per i fatti suoi. Non era riuscito nemmeno una volta a catturare lo sguardo del nuovo solista, che al viso da giovane Eroe-Angelo, così innocente, così roseo e delicato, univa una voce di nitore e intonazione ultraterreni. Credo, cantarono tutti gli uomini e i ragazzi all’unisono col Cavaliere, in Dio il Tonitruante, che fece questa terra sulla quale marciano gli uomini nei loro corpi mortali, e nel Suo Paradiso Celeste dove sono tutti gli eroi, e nel Suo Figlio il nostro Sacro Adolf Hitler, l’Unico Uomo. Non procreato, non nato da grembo di donna, bensì Esploso! (Un magnifico fragore di organo e tamburi, e tutte le mani destre levate nel Saluto sottolinearono quello straordinario miracolo). Dalla Testa del Padre Suo, Egli il perfetto, l’immacolato Uomo-Bambino, che noi, mortali e contaminati per la nostra nascita e concezione, dobbiamo sempre adorare e lodare. Heil Hitler. Colui che nel momento del bisogno – per noi, per la Germania, per il mondo – scese dalla Montagna, la Montagna Sacra, la Montagna Tedesca, quella senza nome, per marciare davanti a noi come Uomo che è Dio, per guidarci, per condurre alla luce noi che eravamo allora nell’oscurità, nel peccato, nel caos e nell’impurità, accerchiati dai diavoli, da Lenin, da Stalin, da Röhm, da Karl Barth, i quattro arcinemici il cui collo Egli pose sotto il Suo Sacro Tallone, schiacciandoli nella polvere. (Con una ferocia ormai talmente familiare da non poter più dirsi feroce, le voci maschili ringhiarono all’unisono quelle antiche parole). Colui che, quando la nostra Salvezza fu compiuta, andò nella Foresta, la Sacra Foresta, la Foresta Tedesca, quella senza nome; e lì fu riunito al Padre Suo, Dio il Tonitruante, così che noi uomini, i mortali, contaminati alla nascita, non potessimo più vedere il Suo Volto. (La musica adesso era in chiave minore, le voci smorzate e armonizzate, con un effetto dolcissimo e significativo, dopo il lungo unisono). E io credo che quando tutte le cose saranno compiute e l’ultimo senzadio sarà arruolato nel Suo Sacro Esercito, Adolf Hitler nostro Dio ritornerà nella gloria marziale al suono del cannone e dell’aeroplano, al suono delle trombe e dei tamburi. E io credo negli Arci-Eroi Gemelli, Goering e Goebbels, che furono degni perfino di essere Suoi Intimi Amici. E io credo nell’orgoglio, nel coraggio, nella violenza, nella brutalità, credo nello spargimento di sangue e nella spietatezza, e in tutte le altre virtù marziali ed eroiche. Heil Hitler. Il Cavaliere si girò un’altra volta. Hermann fece altrettanto e si mise a sedere, riprendendo tutto contento la contemplazione del corista dai capelli d’oro. Era piuttosto cresciutello per essere ancora una voce bianca. Più di quattordici anni di sicuro. Ma neppure un pelo biondo su quelle gote rosse come mele. Che voce magnifica... buona per una chiesa di Monaco, sissignore, buona per una chiesa della Città Sacra, lì dove stava il Sacro Hangar con il Sacro Aeroplano verso il quale erano orientate tutte le chiese della Svastica del Regno di Hitler, così che il braccio di Hitler si trovasse in linea con l’Aeroporto di Monaco, anche se parecchi chilometri separavano il Modellino nella cappella di Hitler dalla Cosa Stessa. Hermann pensò: «Che cosa ci fa qui, questo ragazzo? Magari sarà in vacanza. Non è mica figlio di Cavaliere. È un semplice nazista. Potrei avvicinarlo senza il rischio di essere snobbato. D’altro canto sarà certo un ragazzo molto amato e viziato». Il vecchio Cavaliere, dopo qualche colpo di tosse preliminare (era incline alla bronchite), stava leggendo nel suo gradevole accento cavalleresco le leggi immutabili della Società Hitleriana. Hermann a malapena ascoltava. Le sapeva a memoria dall’età di nove anni. Come una donna è superiore a un verme, Così un uomo è superiore a una donna. Come una donna è superiore a un verme, Così un verme è superiore a un cristiano. A questo punto veniva il solito noioso avvertimento sulla contaminazione della razza. «Come se qualcuno ne potesse avere voglia...» pensava Hermann, ascoltando con un orecchio solo. Perciò, miei camerati, la cosa più indegna, La cosa più meschina e più sozza Che striscia sulla faccia della terra È una donna cristiana. Toccarla è la peggiore contaminazione Per un tedesco. Soltanto il parlarle è vergogna. Essi son tutti reietti, uomo donna e bambino. Figli miei, non dimenticate! Pena la morte o la tortura O l’allontanamento dal sangue del vostro sangue. Heil Hitler. Recitato quel solenne monito, la voce gradevolmente roca del Cavaliere passò alle altre leggi. Come un uomo è superiore alla donna Così un nazista è superiore ad ogni hitleriano straniero. Come un nazista è superiore all’hitleriano straniero, Così un Cavaliere è al di sopra di un nazista. Come un Cavaliere è al di sopra di un nazista, Così il Führer (che Hitler lo benedica) È superiore a tutti i Cavalieri, Superiore persino alla Cerchia Interna dei Dieci. E come il Führer è superiore a tutti i Cavalieri... Così Dio, nostro Signore Hitler, è superiore al Führer... Ma tra Dio Tonitruante e nostro Signore Hitler Nessuno dei due è preminente, Nessuno dei due comanda, Nessuno obbedisce. Entrambi sono eguali in questo sacro mistero. Essi sono Dio. Heil Hitler. Il Cavaliere tossì, salutò l’assemblea dei fedeli, e sollevando la sacra catena di ferro che nessun uomo non di sangue cavalleresco poteva toccare, risalì lungo il braccio Hitler della chiesa e, svoltando a sinistra, sparì dentro la cappella. Hermann si ritrovò a vagheggiare che a questo punto fosse costume consolidato affrettarsi verso l’uscita, imbucandosi tra l’uno e l’altro oppure aiutandosi coi gomiti. E invece quel ragazzo sarebbe stato fuori dalla chiesa molto prima di lui. Poi sarebbe scomparso, o sarebbe stato circondato da altri uomini. Quei capelli! Gli arrivavano già quasi alla vita. Hermann avrebbe voluto afferrarli e darci un bello strattone, tirando all’indietro la testa del ragazzo. Senza fargli troppo male, eh? Solo per farsi notare. Vicino alla porta qualcuno abbaiò un ordine: «Forza, ragazzi. La chiesa serve per la Funzione delle Donne. Facciamo in fretta. Non stiamo lì a cincischiare». Musica per le orecchie di Hermann. In questo momento non nutriva nessunissima curiosità in merito alla Funzione delle Donne, che una volta ogni tre mesi venivano condotte in gregge all’interno della chiesa: minutissime ragazze-bambine, donne incinte, vecchie carampane, qualsiasi cosa semovente di sesso femminile, tranne qualcheduna che veniva lasciata nei Quartieri delle Donne ad occuparsi dei neonati. Alle donne non era permesso di inoltrarsi nella chiesa al di là dei bracci Goering e Goebbels; né era permesso loro di entrare nelle cappelle di quegli eroi meno sacri; dovevano starsene accalcate nella prima metà della Svastica, e non potevano sedersi. In quel momento due nazisti erano indaffarati a rimuovere tutte le sedie adoperate dagli uomini. Il didietro delle donne avrebbe contaminato quei sacri luoghi peggio dei loro piedini, perciò dovevano restare in piedi mentre il Cavaliere le esortava all’umiltà, all’obbedienza cieca e alla sottomissione agli uomini, rammentando loro dello spirito supremamente paterno con cui il Signore Hitler aveva permesso loro di partorire i figli degli uomini, entrando in contatto con il Sacro Mistero della Virilità; e le minacciava al contempo delle più atroci punizioni qualora avessero avuto commercio con i maschi Intoccabili, i Cristiani, e di punizioni meno severe per chi, attraverso le parole o le lacrime, o in un qualsiasi altro modo, si opponesse a quell’usanza, a quella legge così essenziale per la Società Hitleriana, che era la Rimozione dell’Uomo-bambino. Hermann, all’epoca uno scanzonato tredicenne, una volta s’era nascosto in chiesa durante la Funzione delle Donne, spinto in parte dalla curiosità, in parte da un perverso e poco nazista senso di risentimento per l’esclusione da un qualcosa che pure era di natura infima e spregevole. Se l’avessero beccato la punizione sarebbe stata severa: esposto al pubblico ludibrio e bastonato fino allo svenimento. Non l’avevano poi scoperto, ma l’atto peccaminoso recava con sé la punizione: un senso di terrore alla sola vista di quella mandria di donne, immobili e vicinissime a lui – non era la stessa cosa di quando le vedeva camminare lungo la strada che dal Quartiere portava alla chiesa – con quelle brutte testoline rasate a zero, e i corpi mollicci e protuberanti in giacca e pantaloni... e poi, aah... le donne incinte, un che di obbrobrioso, e le vecchie ciabatte pelle e ossa, con il collo da galline spelacchiate, e le nauseabonde ragazzine mocciose, tutte lì a piagnucolare! Vagivano come cagnoline, come gattine, con gridolini striduli e singhiozzi. Non c’era nulla di umano... si capisce che le donne non hanno l’anima e perciò umane non sono, però – aveva riflettuto in seguito Hermann, quando il terrore di fanciullo aveva ceduto il passo ad una veemenza non meno fanciullesca – potrebbero almeno fare un tentativo. In realtà le piccole piangevano di paura. A loro andare in chiesa non piaceva affatto. Era un supplizio trimestrale del quale ci si dimenticava durante le lunghe settimane tra una volta e l’altra: poi il terrore le riprendeva. Erano terrorizzate dal Cavaliere, anche se questo qui in particolare era un tipo piuttosto mite. Non si metteva a urlare e a recriminare contro di loro, come facevano certi Cavalieri di altre chiese. Ma su di loro aveva un potere enorme, superiore a quello dei nazisti cui pure dovevano cieca obbedienza. Il Cavaliere poteva ordinare che fossero picchiate, persino uccise. Inoltre a queste funzioni le madri delle piccole piangevano quasi sempre, rendendo tutto ancora più difficile. Magari ad una di loro avevano appena portato via il bambino, prelevato dal padre secondo la formula cerimoniale («Donna, dov’è mio figlio?». «Qui, signore, c’è tuo figlio, che io indegnamente ho generato...»); e adesso dov’era il bimbo? In mano ad uomini rudi, per quanto abili e bene addestrati a lavarlo nutrirlo accudirlo e accompagnarlo fino all’età virile. Ovviamente noi donne – pensavano – siamo inadatte all’allevamento degli uomini-bambini; e ovviamente sarebbe sconveniente che un uomo potesse additare una donna e dire: «Vedi, quella lì è mia madre»; e ovviamente debbono portarceli via, e loro non debbono vederci più e scordarsi di noi. Va tutto come deve andare: la volontà di nostro Signore è la volontà degli uomini, e anche la nostra volontà. Fatto sta però che, pur essendo capace di sopportare tutta la cerimonia della Rimozione senza un gemito, senza una lacrima, e persino di recitare la formula di risposta con voce ferma, la prima volta che si ritrovava in chiesa insieme alle altre, una donna scoppiava in un pianto dirotto. Stando tutte insieme si eccitavano a vicenda, e la cosa sfociava in una specie di cordoglio di massa: persino donne per le quali la Rimozione risaliva a tanti anni prima rivivevano l’antico dolore e iniziavano a lamentarsi rumorosamente, come animali feriti. E più il Cavaliere diceva loro di smetterla e più forte quelle piangevano. Neppure i Cavalieri che, quelli sì, erano soliti mettersi a gridare e recriminare, riuscivano a impedire che le donne piangessero alle funzioni. Niente poteva fermarle tranne le fucilate. Il Cavaliere venne fuori dalla cappella di Hitler e rimase lì a guardare donne e ragazze sospinte all’interno da un nazista. Cominciavano già a tirare su col naso; e le più piccole al solo vederlo – prima ancora che lui avesse aperto bocca – emettevano grida di terrore. Obnubilate dalla paura, non si accorgevano che il suo viso era bonario e piacevolmente aristocratico: la possibile efferatezza del suo naso aquilino era controbilanciata dall’ampia serenità della fronte e dallo sguardo assennato e cortese. Non vedevano che quelle fattezze e i capelli e la barba quasi bianchi lo rendevano bello ben più che marziale, nell’elegante giubba color azzurro cielo con le svastiche d’argento sul colletto, i pantaloni neri alla cavallerizza e il mantello da Cavaliere, nero anch’esso ma bordato d’azzurro. Una volta entrate tutte le donne, il nazista uscì facendo sbattere pesantemente il portone alle sue spalle, poi lo chiuse a chiave secondo consuetudine. Immediatamente le strilla si fecero più acute. Una donna scoppiò in profondi singhiozzi. Il Cavaliere si ricordò di un detto attribuito a Hitler: «Tedeschi, indurite i vostri cuori. Indurite i vostri cuori contro tutto, ma specialmente contro le lacrime delle donne. Una donna non ha l’anima, pertanto non prova cordoglio. Le sue lacrime sono finzione ed inganno». Il Cavaliere strinse tra le dita il labbro sotto i baffi, mentre guardava l’assemblea e pensava: «Mi sa che questo deve averlo detto qualchedun altro. Povere vacche, ne avrete di occasioni per piangere». Perché il Cavaliere sapeva una cosa che alle donne era ignota: ovvero che in tutta la Germania, in tutto il Sacro Impero Germanico in quell’anno del Signore Hitler 720, nascevano sempre più maschi. L’equilibrio era venuto meno gradualmente, si capisce, ma adesso il fatto causava una distinta inquietudine. Il fine di tutte le cose non era tuttora stato raggiunto. C’erano milioni di miscredenti giapponesi ancora da convertire, e milioni appartenenti alle razze sottomesse al Giappone che non avevano avuto la reale possibilità di vedere la luce. E se le donne avessero cessato di riprodurre se stesse, come poteva continuare ad esistere il Regno di Hitler? Pareva proprio che, dopo centinaia di anni di soggezione – naturale, per una religione interamente maschile: l’adorazione di un uomo che non aveva madre, l’Unico Uomo –, le donne si fossero definitivamente scoraggiate. Non ne nascevano più. Poteva esserci una ragione fisica, ma nessuno riusciva ad appurare quale fosse. E questo vecchio Cavaliere, che sapeva un sacco di cose, più ancora di quelli della Cerchia dei Dieci, più del Führer stesso... questo vecchio tedesco dall’espressione bonaria e dalla barba grigia – che in seguito alla morte dei suoi tre figli era sprofondato in un abisso di cinismo irreligioso noto soltanto a se stesso – osservava il proprio gregge con un tutt’altro che mascolino, tutt’altro che tedesco sentimento di pietà. «È tutto sbagliato» pensava. «Ci sono cose che gli uomini non possono fare, e di certo non a lungo e sempre alla stessa maniera. Non per cinquecento anni, senza requie e senza speranza. Povere vacche. Poveri corpi deboli e brutti. Mettono al mondo solo maschi. Che poi sarebbe l’unica ragione della loro esistenza, partorire maschietti e accudirli per diciotto mesi. Ma se le donne cessassero di esistere del tutto? Embè, il mondo si libererebbe di una intollerabile bruttura». Perché il Cavaliere sapeva ciò che nessun altro uomo sapeva, e che nessuna donna poteva mai sognare neppure con il massimo sforzo della sua limitata e nebulosa immaginazione: sapeva che le donne un tempo erano state altrettanto belle e desiderabili dei ragazzi, e che erano state anche amate. Che cosa blasfema, pensò, increspando lievemente le labbra. Amare una donna, per la mentalità tedesca, equivarrebbe ad amare un verme, o un cristiano. Donne come queste: rasate a zero, lo sgraziatissimo squilibrio del fisico femminino sottolineato da quegli abiti stretti e biforcati... quell’orribile modo di camminare a capo chino – e anche di stare in piedi a capo chino, se è per questo – e la pancia in fuori, e il didietro sporgente; nessuna grazia, nessuna bellezza, nessuna dirittura: quelle erano tutte qualità maschili. E poi, se una donna avesse osato stare eretta come un uomo le avrebbe prese di santa ragione. «Mi stupisce» pensava il vecchio Cavaliere «che non si sia ancora pensato di farle camminare a quattro zampe, o di lobotomizzare tutte le bimbe compiuti i sei mesi. Be’, la verità è che ci hanno sconfitto. Ci hanno distrutto facendo esattamente quello che gli dicevamo di fare; e adesso se non ci pensa prima il Tonitruante a farci esplodere, noi tedeschi ci avviamo verso una fine ingloriosa». E con quest’ultimo pensiero blasfemo il Cavaliere portò a compimento la sua meditazione. «Donne, state buone» prese a parlare, con un cipiglio che bisognava assumere per una questione di ruolo. «Non disturbate la sacralità di questo santo luogo maschile con i vostri squittii e lamenti femminei. Che cos’avete da piangere? Non siete forse benedette fra tutte le femmine animali, essendovi concesso di partorire degli uomini?». Si fermò ad attendere le risposte di rito, che giunsero in forma di sospiri: «Sì, signore. Sì, signore. Siamo benedette tra tutte le femmine». Ma subito ricominciarono i pianti, dacché adesso le donne si domandavano dove fossero finiti questi uomini che loro avevano partorito. Adesso ha dodici anni... ha venticinque anni e Rudi ventuno... se Hans è ancora vivo farà settant’anni quest’estate, avrà la barba bianca come quella del Cavaliere. Quest’ultimo pensiero aleggiava nella mente di una decrepita e incredibilmente repellente megera, troppo vecchia per piangere. Il Cavaliere riprese l’omelia. Che, di necessità, era sempre la stessa zuppa. Perché non è che ci fossero poi tante cose di cui era possibile parlare alle donne. Quelle lì capivano poco più di un cane molto intelligente, e oltretutto la gran parte degli argomenti erano troppo sacri per le loro orecchie. Tutto ciò che aveva a che vedere con gli uomini era proibito, e naturalmente non era possibile legger loro dalla Bibbia di Hitler le gesta eroiche di Nostro Signore e dei Suoi Amici. Queste erano cose di gran lunga troppo sacre – anche prendendole alla lontana, anche di seconda mano – per le impure orecchie delle femmine. La cosa importante era ficcare bene nella zucca di quelle più giovani che lo stupro non era cosa che dovesse recare loro dispiacere. Naturalmente il Cavaliere non lo chiamava “stupro”, un reato che come tale esisteva solo quando si trattava di minorenni. Ed era considerato più un delitto contro la razza che contro le minorenni. Infatti le ragazzine appena adolescenti avrebbero potuto partorire figli troppo gracili. Dopo i sedici anni il corpo femminile era pienamente sviluppato, il pericolo veniva meno e lo stupro – che avrebbe comportato il libero arbitrio e una capacità di resistenza da parte delle donne – non sussisteva più. «Non sta certo a voi dire: “Voglio quest’uomo, voglio quell’altro...”» predicava il Cavaliere, «oppure: “non sono pronta”, “non è il momento” e cose del genere; o ancora opporre capricci donneschi al volere dell’uomo. È all’uomo che spetta dire, se crede: “Questa è la mia donna, finché non mi sarò stancato di lei”. E se pure un altro uomo la vuole, non sarà la donna a rifiutarsi: perché per la donna opporsi al volere di qualsiasi uomo (cristiani esclusi), a qualsiasi riguardo, è cosa blasfema e in sommo grado perfida». Il Cavaliere diede un colpo di tosse e poi fece una pausa, lunga e significativa, per permettere al concetto appena espresso di imprimersi nella mente delle donne. «La donna può riferire l’accaduto all’uomo che al momento la possiede: e lì finisce la sua responsabilità. Il resto sono Affari di Uomini, nei quali le femmine non debbono immischiarsi per nessuna ragione. E voi ragazze» e qui rivolse uno sguardo bonario in direzione delle sedicenni e diciassettenni «siate sottomesse e umili, e rallegratevi del volere dell’uomo, dal momento che il volere dell’uomo – checché possiate pensare di tanto in tanto in quei cervelli vuoti che vi ritrovate – è sempre anche il vostro volere; siate fertili, e partorite figlie forti». Le donne smisero all’istante di piangere – tranne tre o quattro che non stavano davvero ascoltando – e lo guardarono a bocca aperta. Lo choc di sentirsi ordinare di partorire “figlie forti” era come una botta sulla testa rasata. Non credevano alle loro orecchie. E in effetti non ci credeva nemmeno il Cavaliere. Da tanti di quegli anni si era abituato a dire una cosa e pensarne un’altra; tutta la sua vita era un tale intrico di segreti e sotterfugi che proprio non si capacitava di avere infine commesso un tale erroraccio. Beninteso, era verissimo che bisognava assolutamente che le donne partorissero più femmine; e ciascun tedesco della classe cavalleresca aveva gli incubi notturni al pensiero della possibile estinzione della razza sacra: ma era una verità della quale non si poteva fare aperta menzione, e soprattutto non in presenza delle donne stesse. Le quali certamente sapevano che nei Quartieri delle Donne dove vivevano c’era una enorme preponderanza delle nascite maschili; ma ignoravano che si trattasse di un fatto generalizzato. Se avessero saputo che i Cavalieri, e il Führer in persona, desideravano la nascita di femmine in quantità; che ogni nuovo censimento causava ansie e lamentazioni e dava luogo a infinite riunioni segrete; se insomma avessero capito come stavano le cose, chi avrebbe potuto impedire loro di coltivare un filino di rispetto di se stesse? Se si fosse arrivati al punto in cui una donna poteva pubblicamente rallegrarsi della nascita di una femmina, in quel preciso momento il Regno di Hitler avrebbe incominciato a sbriciolarsi. Sapeva benissimo che alcune donne, nel segreto della propria abitazione, se ne rallegravano già, perché almeno le femmine non venivano loro portate via: ma queste erano le più meschine, le più vigliacche, le più animalesche tra le donne. Certo: meschine, vigliacche e animalesche lo erano tutte quante; eppure alcune riuscivano ad essere ancora più meschine e mancavano persino dell’unico sentimento umano che la loro miserevole natura ammetteva: la gioia di partorire un maschio. Ma qualunque cosa facessero certe donne in privato, la vita pubblica non prevedeva alcuna manifestazione di gioia alla nascita di una femmina. Era una mezza disgrazia, un incidente di percorso che, beninteso, può capitare alla migliore delle donne; e la donna che partoriva solo femmine si collocava non più di mezzo gradino al di sopra di quel peso inutile e senza speranze che gravava sulla Società Hitleriana: la donna che non figliava affatto. «E pensare» rifletteva il Cavaliere, pizzicandosi i baffi, carezzandosi la barba quasi bianca e osservando benevolo il gregge sbigottito «che una donna che partorisse dieci femmine e non perdesse tempo a mettere al mondo altri maschi, nella congiuntura attuale renderebbe un trionfale servigio alla Patria». Restava il fatto che lui aveva appena commesso un errore madornale. «È l’età...» pensava «... ormai non connetto più. A vent’anni fai gli equilibrismi, ma a settanta capita che caschi per terra». Non che avesse fretta di correggere l’errore a parole. Sapeva che il silenzio metteva ansia alle donne. E così se ne stava zitto e le guardava: e quelle restavano lì a bocca aperta. Infine ripresero a stropicciare i piedi, palesando un forte disagio. «C’è qualcosa che vi turba?» domandò infine, nel tono gentile che avrebbe adoperato rivolgendosi a un’assemblea di uomini. E proprio la sua cortesia finì di terrorizzarle: parvero rinculare come spighe di grano al vento. «No, signore, no» sussurrarono quelle. Una però, più sfacciata – o forse ancora più terrorizzata delle altre – rantolò: «Signore, c’era sembrato di sentire...». «Che cosa?» fece il Cavaliere, sempre gentilissimo. Tutte – tranne una – in quel momento furono definitivamente certe di aver sentito male. Per un istante, con fastidiosa eppure tipica stupidità femminile, avevano pensato che si ordinasse loro di partorire “figlie forti”. Un errore tremendo, una bestemmia. Ovviamente, lui aveva detto “figli”. E adesso provavano tutte un tale senso di colpa per avere equivocato che arrossirono all’unisono: o quasi all’unisono, dacché una di loro non arrossì affatto. Ricominciarono i pianti; tutto fu come prima. Il Cavaliere diede un colpo di tosse e riprese un’altra volta la predica. Ma dopo che, sollevatissimo, il vecchio le ebbe congedate ed ebbe suonato la campanellina che avvertiva il nazista di guardia che era giunto il momento di aprire il portone e ricondurle in gabbia, si sentì un chiacchiericcio sin troppo vivace e prolungato. «Silenzio» fece burbero il nazista. Questo turno di guardia alla Funzione delle Donne era un dovere tedioso e umiliante. Rifilò qualche calcetto ad alcune di quelle piagnone, con irritazione ma senza cattiveria, come si potrebbe fare con dei cuccioli che danno fastidio. Le donne si allontanarono subito dal nazista e per un attimo fecero silenzio; poi però il chiacchiericcio riprese: «Ma come si può pensare che diceva quella cosa lì... Ma tu che cosa hai sentito?... Io pure, ma non era possibile... Ah, io no, di che cosa parlate?... Però avevo sentito... Sì, vabbè, ma come si può...». Ma la vecchia Marta, che avanzava lentissima reggendosi su due bastoni, disse: «Vi ha detto che dovete partorire figlie forti». Chissà, forse era talmente vecchia da non essere più nemmeno una donna, da avere ormai smarrito i sentimenti femminei di vergogna ed umiltà. Non era libera, ovviamente, ma per via dell’età avanzata sembrava essersi lasciata alle spalle ogni sudditanza psicologica. Non era un uomo, certo, ma neppure una donna: la si sarebbe potuta assimilare ad un albero vecchissimo e incredibilmente brutto. Niente di umano ma neppure di femmineo, in lei. Sia come sia, l’ipnotico carisma del Cavaliere con lei non attaccava. Tutte le altre la disprezzavano. Loro erano brutte, ma lei era palesemente molto più brutta. Una brutta vecchia rivoltante e per giunta sdentata, così che il suo tedesco si capiva a malapena; diceva di avere avuto dei figli maschi – cento anni prima – ma nessuno ne sapeva niente. «Ma quando mai... non ha detto questo. Ha detto che dobbiamo partorire figli. Figli. “Figli forti”. Hai capito, Marta?». «Non sono sorda» disse Marta. E in effetti soffriva di tutte le afflizioni dell’età avanzata, tranne che la sordità e la demenza senile. «Ha detto che dovete partorire figlie: figlie forti». «Bugiarda. Perché doveva dire quella cosa lì?». «Non lo so. E non me ne importa niente. Ha detto così». Le risero in faccia e se ne andarono lasciandola sola ad avanzare zoppicando, del tutto convinta di aver sentito quella parola e del tutto indifferente alle sue implicazioni. La parolina sfuggita di bocca al Cavaliere per lei era un fatto, così come era un fatto che adesso sentiva contro la schiena il bastone del nazista di guardia al gregge di donne. Non le importava né della prima né della seconda cosa, né di nient’altro, eccezion fatta per il cibo (perché gliene davano pochissimo) e per il ricordo di Hans, il suo primo figlio. Se fosse stato capace di leggere nel pensiero, il Cavaliere avrebbe potuto riscontrare in Marta un cinismo altrettanto radicato – anzi, molto più radicato – del suo; anche se lei ci era arrivata per tutt’altra strada. Capitolo due Hermann finalmente uscì dalla chiesa, ma il corista dai capelli d’oro era andato via. Parecchi uomini indugiavano nel sagrato; le donne venivano instradate presso il Cancello delle Donne; ragazzi e giovanotti in quantità gironzolavano lì nei pressi, ma di quello che interessava a lui nessuna traccia. Hermann si avviò velocemente per il sentiero che conduceva al Cancello degli Uomini, dacché uomini e ragazzi si stavano già riversando nella piazza d’armi all’esterno del perimetro della chiesa: poi però vide qualcosa che gli fece dimenticare del tutto i suoi propositi. Un uomo, con le mani nelle tasche dei calzoni, calpestava (e con entrambi i piedi) l’erba del curatissimo prato intorno alla chiesa. Il tizio scrutava pigramente la calca di donne che veniva ordinata in una sorta di formazione dal loro mandriano, a spintoni. L’osservatore aveva i capelli castani e non era particolarmente imponente. Il cuore di Hermann sobbalzò di gioia. Capelli ricci castani, barba castana, occhi verdi, in piedi sull’erba, le mani in tasca, tranquillo, appartato: doveva essere proprio lui! «Alfred!» esclamò. L’inglese – perché tale era il disinvolto personaggio così fermamente piantato proprio lì dove non gli era permesso di posare gli stivali – si voltò. Sorrise esprimendo grande compiacimento e distacco al tempo stesso. Non si tolse neppure le mani di tasca. «Salve, Hermann!» disse. «Questo è il tuo villaggio, dunque? Pensa che fortuna!». «Ja, ja!» fece Hermann, che bramava di gettare le braccia al collo dell’amico più anziano, ma si tratteneva, frenato come sempre da una certa riservatezza nelle maniere di Alfred, o forse proprio nel carattere di quell’inglese: se fossero le maniere o il carattere non era mai riuscito a capirlo. «Bene, bene» fece Alfred, tendendogli finalmente la mano. «Heil Hitler, Hermann». Hermann fece il saluto in fretta e furia, poi afferrò la mano tesa. Non notò che Alfred non aveva fatto il saluto. Se l’avesse notato, la cosa non lo avrebbe poi sconvolto. Gli inglesi erano un po’ buffi, informali, un popolo nell’insieme strambo. Eppure i due anni trascorsi da Hermann in Inghilterra, dove aveva fatto l’addestramento militare con le truppe di occupazione, erano stati i più felici della sua non lunga esistenza, se non altro dopo aver fatto la conoscenza di Alfred, l’allora trentenne meccanico di terra in uno degli enormi aerodromi della piana di Salisbury. Alfred era una persona molto interessante da avere come amico. Era un tecnico, pertanto gli era stato permesso di imparare a leggere. Hermann non sapeva leggere, e una volta terminato l’addestramento avrebbe fatto ritorno in Germania, a lavorare la terra così come aveva fatto sin da fanciullo. Non gli era mai parso strano che un inglese fosse in grado di leggere mentre lui, un nazista, fosse analfabeta. Faceva parte del piano generale, il Sacro Piano dell’Impero Germanico. Non c’erano abbastanza tedeschi in grado di soddisfare il fabbisogno di tecnici per tutto quanto l’Impero; pertanto era necessario che ad alcune delle razze assoggettate si insegnasse a leggere. E non c’era mica tanto, da leggere: roba tecnica e poi la Bibbia di Hitler. Le notizie venivano sempre trasmesse. Non ti perdevi niente a non esser capace di leggere. Ma era l’intelligenza di Alfred a renderlo attraente agli occhi di un ragazzo di campagna come Hermann. Alfred dai modi urbani, Alfred dalla battuta pronta, Alfred tecnico qualificato che della sua qualifica andava fiero; Hermann invece era lento di comprendonio e bucolico; e andava fiero più della propria forza fisica che di quel minimo di qualifica che poteva avere in fattoria. Ai tempi del servizio militare aveva sofferto moltissimo di nostalgia per la vita nei campi; ed ora, sorprendentemente, soffriva moltissimo di nostalgia per la vita militare, a causa di Alfred. «Come va il lavoro in fattoria?» chiese Alfred quando Hermann ebbe finito di stringergli la mano. «Mi sembri più grosso che mai, mein Junker». «Non calpestate l’erba, voi lì!» ruggì qualcuno. Hermann fece praticamente un salto fuori dal praticello, mentre Alfred si limitò a spostarsi tranquillamente. «Più grosso che mai...» ripeté Alfred, squadrando il giovane amico. «Proprio un bel tedesco. E la campagna ti piace ancora come quand’eri ragazzo?». «Ah, sì, sì...» disse Hermann lentamente in inglese. «Mi piace sì. Senti, andiamo via. Allontaniamoci da quella gente lì». «Ehi, tu!» fece l’autore del ruggito di un attimo prima, sopraggiungendo. «Come ti chiami? No, non dico a te, Hermann. Come ti chiami, tu?». «Alfred, E. W. 10762, tecnico inglese in pellegrinaggio nei Sacri Luoghi di Germania» rispose Alfred, un po’ meno flemmatico di prima al cospetto del nazista in uniforme, ma pur sempre lontanissimo da qualsiasi postura militaresca. «Ach, Englander» disse il nazista, annuendo in una sorta di schifata condiscendenza. «Vediamo il tuo permesso, allora» aggiunse, già un po’ meno ostile. Alfred obbedì. «Bene. Adesso che sei in Germania ricordati che quando c’è scritto “Non calpestare l’erba” significa esattamente quello che c’è scritto. L’erba intorno alle chiese non ce l’abbiamo messa per farci galoppare sopra le mandrie di inglesi. Verstehen?». «Ja, Herr Unter-offizier». «Heil Hitler!» disse il nazista, e fece il saluto. Stavolta Alfred fece il saluto di rimando. «E allora, vediamo un po’, Hermann: adesso dovresti avere venticinque anni» continuò poi come se non ci fosse stata alcuna interruzione. Hermann non rispose. Tanti ricordi piuttosto dolorosi si affollavano nella sua mente: Alfred era sempre uguale, i capelli ricci corti, che non arrivavano alle spalle, gli occhi grigi tranquilli e franchi, i suoi modi disinvolti: tutte cose che Hermann non si sarebbe mai aspettato di rivedere (pur essendosi a volte baloccato quasi per scherzo con l’idea che Alfred venisse in pellegrinaggio); e non c’era mai stato nessun tedesco che potesse prendere il posto di Alfred. A questo punto Hermann sembrò sul punto di commuoversi e dovette mordersi il labbro. Alfred gli rivolse un’occhiata e lo prese sottobraccio. «Voi tedeschi siete tutti così emotivi...» borbottò. Ed Hermann, che aveva giusto ascoltato il Cavaliere declamare le Leggi della Società, che lo ponevano al di sopra di Alfred quanto un uomo è al di sopra di una donna, mugugnò in uno stentato tedesco: «Non avrei mai pensato che... ti rivedevo ancora. Soltanto adesso capisco che mi sono sentito solo... da allora». «Facciamo una passeggiata» propose Alfred. «O devi tornare al lavoro? Ho dimenticato il nome del tuo villaggio e il tuo numero, e ricordavo soltanto il distretto, Hohenlinden. Ma sapevo che ti avrei scovato, da qualche parte». «Non devo rientrare prima di stasera» disse Hermann, ritrovando una certa padronanza di sé. «Ti sei portato qualcosa da mangiare?». «Sì, nella sacca. L’ho appoggiata a quel muro lì». «Ce n’è abbastanza anche per me? La sacca era meglio se la lasciavi nel portico». Parlavano tra di loro come una volta: ciascuno nella propria lingua, comprendendosi ed evitando lo sforzo di pronunziare parole straniere. «Che? In Germania?» fece Alfred, sollevando le sopracciglia. «Ci sono i ladri, nel perimetro di una chiesa tedesca?». «Ach, sono ragazzi, sai com’è... eccola lì, comunque». «Ma, Hermann, hai molta fame? Passiamo dalla tua fattoria a prendere dell’altra roba per te? Il tuo governo, paterno per quanto sia – e non è che io abbia di che lamentarmi –, non ci consente lussi, né più di una razione di cibo a testa». «Per tua norma e regola, mi basta “quasi quasi niente”» disse Hermann, ridendo di cuore mentre si caricava la sacca sulle larghe spalle. «Te lo ricordi quel tizio che tu chiamavi Il Tyke? Ma che vuol dire Tyke? Ho dimenticato tutto quanto». «È un nome generico per quelli dello Yorkshire. Adesso non dirmi che hai dimenticato pure il mio nome generico. Guarda che ci resto male». «Ach, nein, nein!» esclamò Hermann. «Tu sei il Moonraker!». «Esatto, quello che tira fuori der Mond dallo stagno col rastrello. Ma perché poi? Il perché non lo so. Questa è una delle cose che mi piacerebbe sapere. I vecchi nomi. Senti un po’, Hermann, andiamo a farci un bagno. Fa molto caldo». «Andiamo nei boschi. Conosco un laghetto che è una meraviglia. Ci sono stato qualche volta di notte, e se ci capitasse qualcuno del Wiltshire si metterebbe a rastrellare in fretta e furia, come facciamo noi nel giardino del Cavaliere quando lui decide di seminare qualcosa e ce lo dice all’ultimo minuto. È tutto aperto, il laghetto, e la luna ci brilla dentro. Però ci sono stato sempre da solo. Alfred, sei sicuro che ti fa piacere vedermi?» disse Hermann in tono un po’ incerto, quasi malinconico. «Mi fa enorme piacere» rispose Alfred, di colpo serissimo. Ma Hermann continuava a percepire un che di riservato nei modi dell’amico, che durante il tragitto fino al bosco rimase in silenzio. «È gente strana» pensava il giovane tedesco, avendo rinunziato per il momento a fare conversazione con Alfred. «Chi li capisce è bravo, eppure a tanti tedeschi stanno simpatici». Hermann sapeva che tra le tante postazioni all’estero in cui i Cavalieri dovevano recarsi in qualità di amministratori civili e religiosi, le località inglesi erano le più ambite. Un Cavaliere non poteva lasciare la Germania per più di sette anni consecutivi. Ma, dopo aver governato un distretto tedesco per due o tre anni, poteva essere inviato nuovamente all’estero. E tantissimi tra coloro che in precedenza avevano prestato servizio in Inghilterra brigavano in tutti i modi per farvi ritorno. Questo sentimento anglofilo non veniva certo incoraggiato, ma era nondimeno inestinguibile. Ovviamente c’erano pure tedeschi che odiavano gli inglesi, e non dimenticavano che su questi ultimi pesava la vergogna di essere stati gli ultimi resistenti contro la potenza e la santità dell’Impero Germanico. C’era stata, cento anni prima, una rivolta inglese, scozzese e gallese, una cosuccia senza speranze, intermittente e disorganizzata, e facilmente schiacciata dai Cavalieri e dalle truppe di occupazione. In seguito, per ordine di Berlino, un decimo della popolazione maschile era stata mandata a morte a sangue freddo. Le fila delle truppe di occupazione erano state rimpolpate – nonostante già nell’assetto precedente si fossero dimostrate più che sufficienti a far piazza pulita di rivoltosi privi di artiglieria pesante e di aeroplani – ed erano stati creati dei nuovi Cavalieri, con un numero maggiore di distretti dal territorio meno esteso. Da quel momento in poi non c’erano più state turbolenze. Gli inglesi però rimanevano pur sempre gente strana: approssimativi, noncuranti ma simpatici. Una volta aveva sentito un Cavaliere affermare che fossero un popolo fondamentalmente irreligioso, e che il problema stesse tutto lì. Per il resto, erano sostanzialmente conformisti quanto al trattamento di donne e cristiani: le loro donne (e, probabilmente, i loro cristiani) erano esattamente come quelle degli altri. Certo, però... Hermann si sorprese a desiderare che Alfred fosse tedesco. E non perché così avrebbe avuto modo di vederlo più spesso. L’emozione e il turbamento di quell’incontro inatteso gli avevano reso chiaro qualcosa di cui in precedenza non era stato consapevole: Hermann ammirava Alfred più di qualsiasi altro uomo al mondo. «Per me è come se lui fosse un Cavaliere» rifletté con un certo sgomento. «Sissignore, proprio così. Non posso farci niente. E invece dovrei evitare: perché non è nemmeno un nazista, nemmeno un mio pari; è solo un inglese. Perciò io sono superiore a lui come un uomo è superiore a una donna. Tutto questo è assurdo. Sì, esatto, è proprio assurdo. Non è vero!». Per la prima volta le sue granitiche certezze riguardo alla superiorità della propria razza minacciavano di sgretolarsi, ed Hermann era spaventato e al tempo stesso eccitato. Provava un fremito nel prendere finalmente atto di ciò che sotto sotto aveva sempre saputo, e cioè che Alfred non soltanto era più anziano e aveva maggiore esperienza di vita, ma era proprio un essere più elevato di lui. Che fosse inglese non faceva differenza. Be’, si capisce – pensava Hermann cercando di mitigare quel tradimento spirituale nei confronti della Germania – che Alfred è un inglese del tutto speciale. Non sono mica tutti come lui. Sapeva però che questa scusa non funzionava... se ammetti eccezioni alla dottrina della superiorità di razza e di classe, allora addio. La superiorità dev’essere nel Sangue. Se tutti i Cavalieri – i discendenti dei tremila Cavalieri Teutonici ordinati da Hitler – non fossero superiori per nascita; se potessero esserci delle eccezioni tra i nazisti, e fosse possibile innalzare il tizio, oppure il caio, all’altezza di un Cavaliere... be’, allora un Cavaliere in quanto Cavaliere non sarebbe più di necessità un essere superiore. E invece doveva esserlo, dovevano esserlo tutti quanti i Cavalieri, altrimenti l’ordinamento sociale sarebbe crollato. Hermann era precipitato in questa profonda riflessione e – poco abituato a camminare sul terreno della logica – sentiva adesso una gran confusione in testa. Si voltò a guardare Alfred che procedeva con aria grave e distaccata al suo fianco. Non che riuscissero a camminare davvero affiancati, dato che Alfred era parecchio più basso. A volte Hermann accorciava deliberatamente il passo per un po’, ma finiva con lo stancarsi; Alfred invece non cercava mai di allungarlo, neppure di un centimetro. Non gliene importava niente: tipica trasandatezza degli inglesi. Hermann fu travolto da un’emozione in cui amore, rabbia, paura e un’incontrollata eccitazione dello spirito si mescolavano. Era come se da un momento all’altro potesse succedere qualsiasi cosa. Dell’affascinante corista si era dimenticato, come se non fosse mai esistito. E Alfred, in tutta apparenza, si era dimenticato di lui.