Alice Munro
Flats Road Passavamo giornate intere sul Wawanash ad aiutare lo zio Benny a pescare. Gli catturavamo le rane. Le cacciavamo con agguati e appostamenti sulla riva melmosa del fiume, sotto i salici e nelle buche acquitrinose piene di code di topo e falaschi che ci lasciavano sulle gambe nude tagli talmente sottili da essere a tutta prima invisibili. Le rane vecchie erano abbastanza furbe da tenersi alla larga, ma tanto non era loro che volevamo; era di quelle giovani, verdi e scattanti, che andavamo in cerca, delle succose adolescenti, viscide e fredde. Le tenevamo strette con delicatezza e poi le tuffavamo in un recipiente da miele che chiudevamo con il coperchio. Restavano lí finché lo zio Benny non era pronto a infilzarle sull’amo. Zio Benny non era zio né nostro né di nessun altro. Si piazzava un poco piú in là dentro l’acqua bassa e marrone, dove il fondale fangoso cedeva a ciottoli e sabbia. Era vestito sempre allo stesso identico modo, ogni giorno della settimana e in qualsiasi posto: gambali di gomma, tuta da lavoro senza camicia sotto, con sopra abbottonata una giacca di un nero frusto che lasciava scoperta una V di pelle dura e arrossata, piú bianca e sottile ai margini. Il cappello di feltro immancabile sulla testa aveva ancora un nastrino basso e due piccole piume completamente scurite dal sudore. Non si voltava mai, ma bastava che mettessimo un piede in acqua e lui lo sapeva. – Se avete intenzione di smuovere il fango e spaventarmi i pesci andatevene da un’altra parte, levatevi dalla mia riva. Non che fosse sua. Anzi, in quel punto preciso, dove di solito andava a pescare, era nostra. Ma non ci passava neanche in mente. Per come la vedeva lui, il fiume, il bosco, l’intera palude di Grenoch era tutta roba sua in un certo senso, perché la conosceva meglio di chiunque altro. Diceva di essere l’unico ad averla attraversata tutta, la palude, altro che girarci giusto un po’ attorno. Diceva che dentro c’era una fossa di sabbia mobile capace di inghiottire un camion da due tonnellate. (Io me la vedevo muoversi luccicante, in una specie di gorgoglio asciutto, la confondevo mentalmente con il mercurio). Diceva che c’erano gore nel Wawanash profonde fino a sei metri anche in piena estate. Poteva portarci a vederle, diceva. Ma non ci portava mai. Era pronto a offendersi al minimo accenno di dubbio. – Provate a cascarci dentro, poi vediamo se non mi credete. Aveva folti baffi neri, occhi intensi, lineamenti puntuti, da predatore. Non era vecchio come abiti, baffi e modi potevano far credere; era il genere d’uomo che approda al ruolo di squinternato in pratica prima di aver compiuto vent’anni. Qualunque sua affermazione, ipotesi o commento conteneva una speciale virulenza. Una volta, nel cortile di casa nostra, guardando un arcobaleno se ne uscí esclamando: – Lo sapete che cosa è quello? È Nostro Signore che ci promette di non mandarci mai piú un altro diluvio! – E fremeva per la portata di tale promessa come se fosse stata appena pronunciata e lui ne fosse il messaggero. Quando aveva preso i pesci che voleva (i persici li ributtava in fiume mentre teneva trote iridee e cavedani, sentenziando che le trote erano buone di gusto anche se piene di lische come un puntaspilli), salivamo insieme dalla bassa ombrosa del fiume e ci incamminavamo verso casa sua tagliando per i campi. Anche se scalzi, a me e a Owen le stoppie non davano fastidio. A volte ci seguiva a una certa distanza Major, il nostro cane scontroso. Giú in fondo al bosco – quel bosco che diventava palude un miglio piú in là – c’era la casa di zio Benny, verticale e argentea, di vecchie tavole di legno non verniciato e scolorito dal clima secco d’estate, con gli scuri verdone logori e screpolati chiusi a tappare tutte le finestre. Il bosco alle spalle era nero, caldo, fitto di rovi e infestato di vorticanti galassie di insetti. Tra la casa e il bosco c’erano parecchie stie nelle quali da sempre zio Benny teneva animali selvaggi: un furetto biondo semidomestico, una coppia di visoni selvatici, una volpe rossa con una zampa stritolata da una tagliola. La bestia camminava zoppicando, di notte latrava, si chiamava Duchessa. Per i procioni i recinti non servivano. Non si allontanavano dallo spazio del cortile e da sotto gli alberi; piú docili di un gatto, venivano a mangiare fin sulla porta. Andavano matti per il chewing-gum. Arrivavano pure gli scoiattoli, che si piazzavano spavaldi sui davanzali e rovistavano tra le pile di giornali del portico. C’era anche un altro tipo di recinto, piú basso, infossato nella terra a fianco del muro esterno, circondato su tre lati da assi inchiodate fino a un’altezza di una cinquantina di centimetri. Era il posto dove zio Benny teneva le tartarughe. Un’estate aveva lasciato perdere tutto il resto per darsi alle tartarughe. Diceva che le avrebbe vendute a un americano di Detroit che gliele pagava trentacinque centesimi a libbra. – Ci fanno il brodo, – diceva zio Benny, sporgendosi sopra il recinto. Tanto gli dava soddisfazione nutrire e addomesticare animali, quanto lo intrigava la loro fine incresciosa. – Brodo di tartaruga! – Roba da americani, – faceva zio Benny, come se fosse una spiegazione. – Personalmente, non lo toccherei. Forse l’americano non si presentò, forse non volle pagare a zio Benny la cifra pattuita o forse era stata giusto una diceria fin dal principio: sta di fatto che il progetto si risolse in nulla. Di lí a poche settimane lo zio Benny metteva su una faccia perplessa ogni volta che gli nominavi le tartarughe; «Ah, non mi va piú di stare dietro a quella storia», quasi come se lo mettesse a disagio vederti cosí poco aggiornato. Seduto sulla sua poltrona preferita appena dietro la porta di cucina – ci si metteva come se non avesse nemmeno il tempo di accomodarsi, come se non volesse annoiare nessuno e fosse pronto ad andarsene tra meno di un minuto –, lo zio Benny era immancabilmente pieno di novità riguardo a iniziative di lavoro, una piú strabiliante dell’altra, grazie alle quali gente di zone non lontane, magari a sud della contea o nemmeno piú in là del Comune di Grantly, si stava facendo i soldi a palate. Chi allevava cincillà. Chi pappagallini. Tiravano su diecimila dollari l’anno in pratica senza far niente. È probabile che il motivo per cui continuava a lavorare da mio padre, non avendo resistito in nessun altro posto, fosse che mio padre allevava volpi argentate, un’impresa circonfusa di un che di insolito e precario, di un anelito di fortuna arcana e allettante, mai realizzata. Benny puliva il pesce nel portico e, se gli andava, se ne friggeva subito qualcuno in una vecchia padella annerita e bisunta. Dalla quale mangiava. Indipendentemente dal caldo o dal chiaro di fuori, lui teneva la luce accesa, cioè la lampadina nuda appesa al soffitto. L’immenso caos e gli strati di luridume là dentro ingoiavano la luce. Tornando a casa, io e Owen a volte provavamo a elencare tutte le cose ammassate soltanto in cucina. – Due tostapane, uno con le portine, l’altro con la piastra. – Un sedile da macchina. – Materassi arrotolati. Una fisarmonica. Ma non arrivavamo nemmeno a metà, lo sapevamo. Gli oggetti che ricordavamo erano quelli trasportabili, roba che non poteva sfuggire allo sguardo, ma si trattava giusto del poco che c’era di visibile e identificabile in cima a una tale congerie di rottami, a un unico generoso ammasso di tappeti scuri e marcescenti, linoleum, parti di mobili, pezzi di macchinari, chiodi, cavi, arnesi, utensili. La casa era la stessa in cui erano vissuti i genitori dello zio Benny dacché si erano sposati. (Me li ricordavo appena, vecchi corpacciuti e mezzi ciechi, seduti nel portico sotto il sole, con addosso un campionario a strati di indumenti scuri in fase di sbrindellamento). Perciò, una parte della roba accumulata proveniva da suppergiú cinquant’anni di vita familiare. Ma era anche composta dai rifiuti altrui, oggetti che lo zio Benny chiedeva e si portava a casa, o che addirittura si andava a prendere nella discarica di Jubilee. La sua speranza era di risistemarli e renderli utilizzabili di nuovo per poi rivenderli, diceva. Se avesse abitato in città di sicuro avrebbe aperto un immenso magazzino da rigattiere; avrebbe passato la vita fra montagne di mobili lerci, elettrodomestici rotti, piatti sbreccati e luride foto di parenti di chissà chi. Adorava i rottami in quanto tali e raccontava a sé come agli altri la balla di volerci cavare qualcosa di utile. Ma quello che a me soprattutto piaceva di casa sua, quello di cui non mi sarei mai stancata, erano i vecchi giornali ammucchiati nel portico. Benny non prendeva né l’«Herald-Advance» di Jubilee né i quotidiani di città che a noi arrivavano nella buca delle lettere con un giorno di ritardo. Non era abbonato al «Family Herald» né al «Saturday Evening Post». Il suo giornale arrivava una volta alla settimana, era stampato male su carta scadente e aveva i titoli alti mezza spanna. Era la sua sola fonte di informazioni sul mondo, visto che non capitava spesso che disponesse di una radio funzionante. Il mondo di quel giornale non assomigliava affatto a quello di cui leggevano i miei, o di cui sentivano dire nei notiziari. I titoli non avevano niente a che fare con la guerra appena iniziata, né con le elezioni, le ondate di caldo, né gli incidenti, e riportavano invece cose come queste: PADRE GETTA NEONATE GEMELLE IN PASTO AI MAIALI PUERPERA DÀ ALLA LUCE QUADRUMANE UMANO VERGINE STUPRATA SULLA CROCE DA MONACI FORSENNATI SPEDISCE PER POSTA IL BUSTO DEL MARITO Mi sedevo a leggere sulle assi imbarcate del portico, spolverando coi piedi i garofani a mazzetti che doveva aver piantato la madre dello zio Benny. Dopo un po’ zio Benny diceva: «Te li puoi anche portare a casa, se vuoi. Tanto io li ho già letti». Me ne guardavo bene. Leggevo piú in fretta che potevo, quanto piú possibile, poi caracollavo sotto il sole e mi incamminavo sul sentiero che portava da noi attraverso i campi. Avevo fatto il pieno fino alla nausea di rivelazioni del maligno in tutta la sua versatilità, la sua formidabile fantasia e orripilante esuberanza. Ma piú mi avvicinavo a casa e piú sbiadita si faceva la visione. Chissà come mai, bastavano il semplice muro sul retro, coi suoi mattoni chiari scheggiati, lo spiazzo in cemento davanti alla cucina, i mastelli appesi ai chiodi, la pompa dell’acqua, il cespuglio di lillà dalle foglie chiazzate di marrone, e subito il fatto che una donna potesse davvero spedire in un pacco il busto del marito, avvolto in carta di Natale, alla sua amichetta in Sud Carolina, diventava improbabile. Casa nostra era alla fine di Flats Road, che cominciava dal negozio di Buckle e puntava a ovest verso il fondo del paese. L’edificio di legno, malfermo e talmente stretto da sembrare uno scatolone messo in piedi, intonacato alla bell’e meglio e tappezzato di insegne in metallo e vernice che reclamizzavano tè, farina, bibite, fiocchi d’avena e sigarette, era sempre stato per me il punto preciso dove finiva il paese. Marciapiedi, lampioni, filari di alberi da viale, carretti del latte o del ghiaccio, vaschette per uccelli, aiuole fiorite, verande con sedie di vimini da cui le signore tenevano d’occhio la via, tutte queste belle manifestazioni di civiltà cessavano e noi procedevamo (Owen e io, al ritorno da scuola, mia madre e io dopo la spesa di sabato pomeriggio) sull’ampia e tortuosa Flats Road senza un angolo d’ombra dal negozio di Buckle a casa nostra, in mezzo a campi di erbacce, tutti gialli di tarassaco in fiore, senape selvatica o verga d’oro, a seconda della stagione. Da quelle parti le case erano piú distanti le une dalle altre e in linea di massima meno curate, piú misere e bislacche di quanto sarebbero mai state in paese; con un muro magari mezzo dipinto e lasciato cosí, la scala a pioli non ritirata; gli sfregi di un portico che era crollato mai risistemati, una porta d’ingresso senza scalini, a quasi un metro da terra; finestre foderate di fogli di giornale ingialliti al posto degli scuri. Flats Road non era in paese ma nemmeno in aperta campagna. A tagliarla fuori dall’abitato del Comune al quale nominalmente apparteneva erano la curva del fiume e la palude di Grenoch. Non vi si trovavano vere e proprie fattorie. Solo la casa dello zio Benny e quella dei Potter, rispettivamente sei e otto ettari, con il terreno del vecchio Benny che si andava inselvatichendo. I ragazzi Potter allevavano pecore. Noi, sui nostri quattro ettari, volpi. Quasi tutti allora avevano un pezzo di terra, anche solo un ettaro, e qualche bestia, di solito una vacca e dei polli, a volte qualche animale strano che non si vedeva nelle fattorie piú comuni. I Potter avevano una famiglia di capre che lasciavano pascolare libere lungo la strada. Sandy Stevenson, scapolo, teneva un asinello grigio, tipo quelli delle Bibbie illustrate per bambini, cintato in un angolo sassoso del campo. L’impresa di mio padre non era fuori luogo da quelle parti. Mitch Plim e i ragazzi Potter erano i contrabbandieri di Flats Road. Diversi, in fatto di stile. Allegri i Potter, anche se violenti quando si ubriacavano. Caricavano Owen e me sul pick-up e ci davano un passaggio a casa da scuola; seduti dietro venivamo sballottati di qua e di là perché guidavano veloci e prendevano mille buche; mia madre doveva fare un respiro lungo quando veniva a saperlo. Mitch Plim abitava nella casa con i giornali sui vetri delle finestre; non toccava alcol, era tutto rovinato dai reumatismi, e non parlava con nessuno; la moglie se ne usciva di casa per controllare la cassetta della posta a ogni ora del giorno, scalza e con addosso una logora vestaglia a balze. La loro casa nel suo insieme sembrava rappresentare cosí tante cose arcane e malvagie che non le rivolgevo mai uno sguardo diretto, e le passavo accanto con gli occhi puntati davanti a me, cercando di controllare l’impulso di mettermi a correre. Ci stavano anche due idioti, su quella via. Uno era Frankie Hall; abitava con suo fratello Louie Hall, un orologiaio che gestiva una bottega con la facciata posticcia e non intonacata accanto al negozio di Buckle. Era cereo e grasso come se l’avessero intagliato dentro una saponetta Ivory. Si metteva seduto al sole, vicino alla vetrina lurida dove dormivano i gatti. L’altra era Irene Pollox, meno bonaria e anche meno idiota di Frank; lei rincorreva i bambini per strada e si appendeva al cancello gracchiando e dimenandosi come un galletto ubriaco. Perciò anche casa sua era pericolosa da superare, e bisognava recitare una formula che tutti sapevano a memoria: Attenta, Irene, se provi a prendermi ti appendo per le tette al melo finché non fai i vermi. La recitavo passando di lí con mia madre ma facevo attenzione a sostituire piedi a tette. Da dove usciva quella filastrocca? La ripeteva perfino lo zio Benny. Irene era bianca di capelli non per vecchiaia ma perché ci era nata cosí, e aveva anche la pelle bianca come piuma d’oca. Flats Road era l’ultimo posto dove mia madre avrebbe voluto vivere. Appena muoveva un passo su un marciapiede dell’abitato, tirava su la testa, grata per l’ombra del paese dopo il sole implacabile della via, come sollevata, emanando un nuovo senso d’importanza. Se le mancava qualcosa mandava me a prenderla al negozio di Buckle, ma la spesa vera la faceva sempre in paese. Capitava che Charlie Buckle stesse affettando della carne nel retrobottega quando passavamo; lo scorgevamo attraverso lo schermo scuro, come l’immagine seminascosta di un mosaico; allora chinavamo il capo, affrettandoci, nella speranza che non ci vedesse. Mia madre mi correggeva se mi sentiva dire che abitavamo in Flats Road; precisava che noi stavamo al fondo di Flats Road, come se facesse una gran differenza. In seguito avrebbe scoperto di non sentirsi a casa neppure a Jubilee, ma per il momento si aggrappava speranzosa e determinata alla prospettiva e faceva di tutto per farsi notare salutando a destra e a manca signore che le rivolgevano facce sorprese, seppure garbate, oppure entrando nella merceria semibuia per mettersi a sedere su uno degli sgabellini alti e chiedere se per favore le offrivano un bicchier d’acqua, dopo la sgambata fra il caldo e la polvere. Al tempo la seguivo ancora senza imbarazzi, godendomi quel trambusto. Mia madre non era amata in Flats Road. Alla gente che abitava lí parlava con una voce meno cordiale di quella che utilizzava in paese, ostentando una gentilezza severa e un uso in qualche modo ostile della correttezza grammaticale. Alla moglie di Mitch Plim – che in passato aveva prestato servizio al bordello di Mrs McQuade, anche se al tempo io non lo sapevo – non rivolgeva proprio la parola. Lei stava dalla parte dei poveri sempre e dovunque, dalla parte di negri, ebrei, cinesi e donne, ma quelli che si ubriacavano no, non li tollerava, e nemmeno chi esagerava col sesso, e le parolacce, la vita sregolata, l’ignoranza compiaciuta; perciò le toccava escludere la gente di Flats Road dal novero degli oppressi e dei diseredati, vale a dire dei poveri veri che invece continuava ad amare. Mio padre era un altro tipo. Piaceva a tutti. E a lui piaceva Flats Road, benché non toccasse quasi mai alcol, non sfarfallasse con le signore e non usasse parolacce, pur credendo nel lavoro e lavorando sodo ogni giorno. Lui lí stava bene, mentre con chi abitava in paese, con gli uomini che andavano a lavorare in giacca e cravatta, non poteva evitare di sentirsi sul chi vive, in parte fiero di sé, in parte in ansia per l’eventuale offesa, grazie al particolare fiuto di certa gente di campagna nel riconoscere la presunzione. Come mia madre (la quale però si era gettata tutto alle spalle), era cresciuto in aperta campagna, ma nemmeno lí si sentiva a casa, circondato da tradizioni dure a morire, dalla miseria orgogliosa e la monotonia della vita rurale. Flats Road era il posto ideale per lui; zio Benny il tipo ideale come suo amico. A zio Benny mia madre ci aveva fatto l’abitudine. Pranzava da noi ogni giorno, domeniche escluse. Attaccava la gomma da masticare sul manico della forchetta e a fine pasto, staccandola, ce la mostrava per farci notare l’intarsio inciso sulla gomma color peltro: era talmente bello che spiaceva ricominciare a masticarla. Si versava il tè nel piattino e ci soffiava per raffreddarlo. Con un pezzo di pane infilzato sui rebbi ripuliva il piatto come la ciotola di un micio. Entrando, portava in cucina un odore che a me non spiaceva, di pesce, di pelo animale e acqua di palude. Ricordando la sua educazione contadina, non si serviva mai e non faceva il bis se non glielo si chiedeva tre volte. Raccontava aneddoti in cui quasi sempre succedeva qualcosa che secondo mia madre non aveva la minima possibilità di capitare, tipo la storia del matrimonio di Sandy Stevenson. Sandy Stevenson si era sposato una grassona che veniva da chissà dove giú all’Est, un’altra contea del tutto, una con duemila dollari in banca e una Pontiac. Non era ancora venuta a stare con Sandy, lí in Flats Road, una dozzina d’anni prima, che cominciarono a succedere cose, piatti che si scaraventavano a terra da soli di notte. Uno spezzatino che volava via all’improvviso dalla pentola inzaccherando tutti i muri di cucina. Sandy che si svegliava la notte con la sensazione che qualcosa, tipo un caprone, lo spintonasse dal materasso, ma sotto il letto non c’era nessuno. La camicia da notte piú bella di sua moglie che veniva trovata aperta in due da cima a fondo e annodata alla corda della tapparella. La sera, quando avrebbero avuto voglia di mettersi seduti in pace a chiacchierare un po’, qualcuno raspava sul muro tanto forte da non riuscire nemmeno piú a pensare. Un bel giorno la moglie disse a Sandy che lei conosceva il responsabile. Era il suo marito precedente, arrabbiato con lei per essersi risposata. Lo riconosceva dal modo di raspare, quelle erano le sue manacce, senza dubbio. Provarono a ignorarlo ma non c’era verso. Decisero di tentare con brevi escursioni in macchina per vedere se si scoraggiava. Macché, si accodava pure lui. Si piazzava sul tettuccio. E batteva pugni e calci sulla carrozzeria, e tanti erano i colpi e gli scrolloni che Sandy riusciva a stento a tenersi in carreggiata. Alla fine i nervi di Sandy cedettero. Accostò a bordo strada e disse alla moglie di proseguire in auto, lui scendeva a piedi, o cercava un passaggio. Le suggerí di tornarsene al suo paese e cercare di dimenticarsi di lui. La donna scoppiò a piangere ma dovette ammettere che non c’era altro da fare. – Non crederai a questa roba, spero, – disse mia madre con spassionata convinzione. E prese a chiarire che era tutta questione di coincidenze, fantasie, autosuggestioni. Zio Benny rivolse a mia madre un’occhiata di feroce commiserazione. – Chiedi a Sandy Stevenson, se non mi credi. Io ho visto i lividi con i miei occhi, però. – Che lividi? – Nei punti dove lo prendevano a spintoni da sotto il letto. – Duemila dollari in banca, – rifletté mio padre per impedire a quel discorso di andare avanti. – Quella sí che è una donna. Dovresti trovartela anche tu una cosí, Benny. – Infatti, cosa credi? – disse zio Benny, adeguandosi al tono tra il serio e il faceto. – Dammi solo il tempo di organizzarmi… – Una cosí potrebbe far comodo, no? – È quello che mi dico sempre anch’io. – La domanda semmai è, grassa o secca? Le grasse è facile che sappiano cucinare, e d’altra parte magari mangiano un sacco. Del resto a volte si ingozzano anche le secche, non si può dire. Può anche succedere di beccarne una grossa che sopravvive piú o meno con le proprie riserve, un bel risparmio alla fine del mese. L’importante è assicurarsi che abbiano denti buoni, in caso contrario via tutti e ci si fa fare una bella dentiera. L’ideale è che si sia fatta levare pure l’appendice e la cistifellea. – Sembra che compri una mucca, – disse mia madre. Ma in realtà non le spiaceva; allora aveva degli imprevedibili momenti di clemenza (che purtroppo poi perse) in cui le si addolcivano perfino i lineamenti, e i gesti, come sparecchiare, assumevano una disinvolta autorevolezza. Era una donna piú in carne e piú bella di come diventò poi. – Certo, potrebbe sempre truffarti, – continuò serio mio padre. – Dirti che non ha piú né appendice né cistifellea quando invece sono ancora al loro posto. Meglio chiedere di vedere le cicatrici. Lo zio Benny singhiozzò in silenzio tutto rosso dal ridere e chino sul piatto. – Sai scrivere? – mi disse zio Benny. Eravamo a casa sua; io leggevo seduta sul portico e lui svuotava le foglie esauste da una teiera di latta oltre il mancorrente. – Quanto tempo è che vai a scuola. Che classe fai? – Faccio quarta, quest’anno che viene. – Entra un attimo. Mi portò al tavolo di cucina, sgomberò un ferro che stava riparando e un pentolino forato sul fondo, tirò fuori un bloc-notes nuovo, inchiostro e penna. – Scrivimi un po’ qualcosa… – Cosa vuoi che ti scriva? – Non importa. Voglio solo vedere come fai. Scrissi il suo nome e il suo indirizzo completo: Signor Benjamin Thomas Poole, Flats Road, Jubilee, Contea del Wawanash, Ontario, Canada, Nordamerica, Emisfero Occidentale, Mondo, Sistema Solare, Universo. Lui intanto mi leggeva da dietro le spalle e domandò brusco: – E il Paradiso? C’è ancora il Paradiso, dopo, no? Non è oltre l’Universo, il Paradiso? – L’Universo comprende tutto. Non c’è nient’altro. – D’accordo, visto che credi di sapere tutto: cosa c’è quando si arriva alla fine dell’Universo? Qualcosa deve esserci per forza, sennò non ci sarebbe la fine; perché ci sia una fine, dopo deve esserci qualcosa, o mi sbaglio? – Non c’è niente, – dissi poco convinta. – Oh, sí che c’è invece. C’è il Paradiso. – E allora cosa c’è quando arrivi alla fine del Paradiso? – Alla fine del Paradiso non arriva nessuno, perché lí c’è solo il Signore! – esclamò trionfante zio Benny, concentrandosi sulla mia scrittura tondeggiante, tremula e insicura. – Beh, si legge bene la tua scrittura. Voglio che tu scriva una lettera per me. Leggere, leggeva benissimo, ma non sapeva scrivere. Disse che a scuola la maestra gliene aveva date tante cercando di cacciargli la scrittura nella zucca, e aveva fatto bene secondo lui, ma non era mai servito a niente. Quando aveva bisogno di scrivere una lettera, di solito lo chiedeva a mio padre o a mia madre. Mi stava addosso per vedere che cosa avevo scritto nell’intestazione: Flats Road, Jubilee, 22 agosto 1942. – Ecco, brava, cosí! Adesso comincia. Cara Donna. – Si comincia con Cara e poi il nome della persona, – dissi io. – A meno che non sia una lettera commerciale, allora si parte con Egregio Signore, o Gentile Signora se è una donna. Questa è una lettera commerciale? – Sí e no. Metti Cara Donna. – Non ce l’ha un nome? – dissi petulante. – Tanto vale chiamarla per nome. – Non lo so, il nome –. Spazientito, zio Benny mi prese il giornale, uno dei suoi giornali; lo aprí verso il fondo alla pagina degli annunci, dove io non arrivavo mai a leggere, e me la tenne sotto il naso. Donna con figlio unico cerca impiego come governante per uomo solo residente in tranquilla casa di campagna. Ama vita nei campi. Disponibile eventuale matrimonio. – Ecco, è a lei che voglio scrivere perciò, come altro la devo chiamare, a parte donna? Ci rinunciai e scrissi come diceva, apposi una bella virgola ben fatta e attesi pronta a partire con il corpo della lettera sotto la seconda a di Cara, come ci avevano insegnato a scuola. – Cara Donna, – disse zio Benny imperterrito, – le scrivo questa mia… le scrivo questa mia in risposta al suo annuncio sul giornale che mi arriva per posta. Sono un uomo di trentasette anni e abito da solo su una proprietà di sei ettari in fondo a Flats Road. Ho una casa in buone condizioni, con le fondamenta in pietra, molto vicina al bosco perciò d’inverno la legna non manca mai. C’è anche un buon pozzo profondo venti metri, e una cisterna. Il bosco è strapieno di frutti e nel fiume non mancano i pesci, e si potrebbe coltivare un bell’orto se solo si riuscisse a tenere a bada i conigli. Tengo una volpe domestica in un recinto dietro casa, insieme a un furetto e due visoni, senza contare gli scoiattoli, le marmotte e i procioni che circolano liberi tutto il tempo. Suo figlio si troverà bene. Non dice se è maschio o femmina. Se è maschio potrei insegnargli a posare le trappole e farne un buon cacciatore. Io lavoro per un tale che alleva volpi argentate nella fattoria accanto. Sua moglie è una persona istruita, se le fa piacere avere compagnia. Spero di ricevere presto una sua risposta. Distinti saluti, Benjamin Thomas Poole. In capo a una settimana zio Benny ebbe una lettera. Caro signor Benjamin Poole, le scrivo a nome di mia sorella, signorina Madeleine Howey, per dirle che sarà lieta di accettare la sua offerta ed è pronta a partire in qualsiasi data, dopo il primo di settembre. Ci sono autobus e treni per Jubilee? O forse ancora meglio sarebbe se lei potesse venire quaggiú, le metto il nostro indirizzo completo in fondo alla lettera. Casa nostra non è difficile da trovare. Il figlio di mia sorella non è maschio, è una bambina di 18 mesi, e si chiama Diane. In attesa di una sua risposta, le mando i miei distinti saluti; Mason Howey, 121 Chalmers Street, Kitchener, Ont. – Certo che corri un bel rischio, – disse mio padre, quando zio Benny ci mostrò la lettera, a pranzo. – Cosa ti fa pensare che sia quella che vuoi? – Non vedo che male ci sia a fare un tentativo. – Mi dà l’impressione che il fratello non vede l’ora di sbarazzarsi di lei. – Portala da un dottore, falle fare delle analisi, – disse decisa mia madre. Zio Benny disse senz’altro. Da quel momento i preparativi procedettero in fretta. Si comprò dei vestiti nuovi. Chiese l’auto in prestito per andare a Kitchener. Partí la mattina presto, in completo verde chiaro, camicia bianca, cravatta rossa verde e arancione, cappello verde scuro e scarpe bicolori bianche e marroni. Si era fatto tagliare i capelli e pareggiare i baffi, e si era perfino lavato. Aveva un’aria strana, esangue, sacrificale. – Animo, Benny, – disse mio padre. – Non vai mica al patibolo. Se le cose non ti piacciono, giri sui tacchi e te ne torni a casa. Mia madre e io attraversammo i campi armate di straccio, ramazza, paletta, sapone e detersivo per pavimenti. Ma mia madre non aveva mai messo piede in quella cucina, non ci era mai entrata e non resse l’impatto. Cominciò a buttar fuori di tutto nel portico, ma dopo un po’ si rese conto che non serviva. – Bisognerebbe scavare una fossa e seppellire tutto, – disse sedendosi sui gradini col mento appoggiato al manico della scopa come la strega di una fiaba. Rideva. – Ci sarebbe da piangere, altro che ridere. Pensa a quella che arriva qui. Non dura una settimana. Se ne torna a Kitchener a piedi, se c’è bisogno. Oppure va a buttarsi nel fiume. Ripulimmo il tavolo, due sedie e lo spazio centrale del pavimento, sgrassammo la stufa con carta da pane e tirammo giú le ragnatele appese alla lampadina. Io raccolsi un mazzolino di verga d’oro che sistemai in centro tavola dentro un barattolo. – Meglio non stare a lavare la finestra, – disse mia madre, – si vedrebbe soltanto meglio il disastro. Tornate a casa aggiunse: – Ecco, da questo momento io sto dalla parte di quella donna. Era già buio quando zio Benny passò a lasciarci le chiavi sul tavolo. Ci guardava con l’aria di uno che torni da un viaggio talmente lungo e avventuroso da sapere che da una parte sarà impossibile raccontarlo come si deve, e dall’altra che ci dovrà provare. – Te la sei cavata bene? – domandò incoraggiante mio padre. – Ti ha dato grane, la macchina? – Macché. Va benone. Ho sbagliato strada una volta, ma me ne sono accorto per tempo. – Hai usato la mappa che ti avevo dato? – No, c’era un tizio con un trattore; ho chiesto a lui e mi ha fatto tornare indietro. – Quindi, tutto a posto, sei arrivato bene. – Oh, sí, sí, bene. Intervenne mia madre. – Credevo che portassi la signorina Howey a bere una tazza di tè. – Eh, ma era stanca del viaggio e doveva mettere la bambina a letto. – La bambina! – esclamò mia madre pentita. – Me ne ero dimenticata. Dove pensate di metterla a dormire? – Ci inventiamo qualcosa. Mi pare di avere una culla da qualche parte, ci sistemo qualche asse nuova –. Si tolse il cappello mostrando la striscia rossa sulla fronte sudata, e disse: – Ah, volevo dirvi che non è piú la signorina Howey adesso, è la signora Poole. – Ma… congratulazioni, Benny! Auguri. Ti sei deciso appena l’hai vista, eh? È andata cosí? Zio Benny diede in una risatina nervosa. – Beh, era già tutto pronto. Per il matrimonio, dico. Prima ancora che arrivassi. C’era tanto di prete e gli anelli e avevano trovato un modo per farsi dare la licenza in fretta. Me ne sono subito accorto che era tutto già pronto. Per il matrimonio, dico. Non si erano scordati di niente. – Insomma, Benny, adesso sei un uomo sposato. – Oh, sí, sí, sposato eccome! – Devi portarci la sposa, farcela conoscere, – disse coraggiosamente mia madre. L’uso della parola sposa metteva in allarme, evocando di fatto lunghi veli bianchissimi, fiori, cerimonie impensate nella circostanza specifica. Zio Benny disse senz’altro. Appena si riprendeva dal viaggio, sí, certo, senz’altro. Non lo fece. Non c’era traccia di Madeleine. Mia madre pensava che adesso sarebbe tornato a casa quando era ora di pranzo, ma lo zio Benny continuò a frequentare la nostra cucina. Mia madre chiedeva: «Come sta tua moglie? Come se la cava? Era abituata a quel tipo di stufa?» e lui rispondeva a tutto in maniera vagamente affermativa, un po’ ridendo e scrollando la testa. Un pomeriggio tardi, dopo il lavoro mi disse: – Volete vedere una cosa? – Cosa? – Venite con me e la vedete. Io e Owen ci accodammo tra i campi. Si fermò per girarsi indietro quando arrivammo al limite del suo terreno. – Owen vorrebbe vedere il furetto, – dissi. – Adesso no, un’altra volta. Non dovete venire piú in là di questo punto. Dopo un po’ uscí di casa con una bambina piccola in braccio. Ero delusa: tutto lí? La posò a terra. Lei si chinò vacillando, a raccogliere una penna di corvo. – Di’ un po’ come ti chiami, – disse zio Benny smanceroso. – Come ti chiami? Ti chiami… Di-a-ne. Glielo dici ai bambini? Non voleva dirlo. – Parla bene quando ha voglia. Sa dire Mamma e Benny e Di-a-ne e voio acca. Eh? Voiio acca? Una ragazza in giacca rossa si affacciò alla porta. – Vieni subito qui! Diceva a Diane o a zio Benny? La voce era minacciosa. Zio Benny prese in braccio la bambina e ci disse con dolcezza: – Meglio se correte a casa adesso. Il furetto potete venire a vederlo un’altra volta, – e poi si diresse in casa. La rivedemmo da lontano, sempre con la giacca rossa, mentre andava a piedi al negozio di Buckle. Teneva le mani in tasca, la testa reclinata, e sforbiciava le lunghe gambe, camminando. Mia madre la incontrò alla fine, dentro il negozio. Ci tenne a precisarlo. C’era fuori lo zio Benny, con Diane in braccio, e quando gli chiese che ci facesse lí, lui rispose: – Aspettiamo solo la mamma. Perciò mia madre entrò e si diresse al banco dove stava la ragazza mentre Charlie Buckle le faceva il conto. – Lei dev’essere la signora Poole –. Si presentò. La ragazza non disse niente. Guardò mia madre, ascoltò quel che diceva ma non disse una sola parola. Charlie Buckle lanciò un’occhiata a mia madre. – Chissà quanto ha avuto da fare a sistemarsi. Deve venire a trovarmi quando ne ha voglia. – Non cammino su strade sterrate se non sono costretta. – Perché non passa dai campi, – disse mia madre, giusto per non uscire dal negozio lasciando l’ultima parola a quella ragazzetta. – Ma è una bambina, – disse a mio padre. – Non può avere piú di diciassette anni, non di piú di sicuro. Occhiali. Magrissima. Idiota non è idiota, dunque non è per questo che la volevano far fuori, ma squinternata di sicuro, o comunque poco ci manca. Beh, povero Benny. Comunque, è venuta a stare nel posto giusto. Si troverà bene a Flats Road. Si era già fatta una certa fama nella zona. Aveva rincorso Irene Pollox fin dentro il cortile e su per i gradini di casa dove l’aveva buttata in ginocchio tenendola per i capelli bianchi da neonata con tutte e due le mani. Cosí si diceva. Mia madre ci ammoní: – Non voglio che andiate laggiú, furetto o non furetto, intesi? Non voglio che qualcuno si faccia del male. Io però ci andai lo stesso. Non mi portai Owen, perché avrebbe parlato. Pensavo di bussare alla porta e chiedere, con bel garbo, se potevo sedermi nel portico a leggere i giornali. Ma prima che arrivassi ai gradini la porta si aprí e comparve Madeleine con in mano un ferro uncinato da stufa. Può darsi che stesse proprio sollevando i cerchi della stufa quando mi aveva sentito, può darsi che non l’avesse preso apposta, ma non riuscii a vederlo se non come un’arma. Mi guardò in faccia per un istante. Somigliava a Diane, sottile, pallida, un’espressione a tutta prima sfuggente. La sua non era una furia immediata. Le occorreva tempo per ricordarsela, per radunare le forze. Non che esistesse del resto la possibilità che la mia visita le suscitasse altro che furia. O quella o il mutismo, non sembrava disporre di alternative. – Cosa vieni qui a spiare? Perché vieni a spiare in casa mia? Levati dai piedi che è meglio –. Si diresse ai gradini. Io intanto retrocedevo davanti a lei senza affrettarmi, incantata. – Sei una lurida carognetta. Carognetta e spiona. Sei proprio cosí, spiona e carognetta, no? – Aveva i capelli corti, spettinati, e indossava uno straccetto di cotone stampato, sul giovane corpo scarno. Esibiva una violenza che pareva teatrale, calcolata; veniva voglia di stare a guardarla, come se fosse una recita, anche se, d’altra parte, quando levò il ferro da stufa non dubitai che me l’avrebbe schiantato sul cranio se le fosse girato di farlo – cioè se avesse ritenuto che la scena lo richiedesse. Si osservava agire, pensai, e in qualunque momento avrebbe potuto bloccarsi e sprofondare nell’abulia oppure vantarsi come un bambino: «Visto? Ti ho messo paura, eh? Non avevi capito che ti prendevo in giro, eh?» Avrei voluto poter riferire a casa l’episodio. Circolavano già tante storie su Madeleine, nella via. Qualcosa l’aveva irritata al negozio e lei aveva lanciato una scatola di assorbenti Kotex contro Charlie Buckle. (Fortuna che in quel momento non aveva in mano una latta di sciroppo!) Zio Benny viveva sotto una grandine di maltrattamenti; si sentivano già dalla strada. «Ti sei trovato una vera Attila eh, Benny?», diceva la gente, e lui ridacchiava, e annuiva, imbarazzato, come se fosse un complimento. Dopo un po’ si mise a raccontare aneddoti anche lui. Di quando lei aveva scagliato il bollitore dalla finestra perché dentro non c’era l’acqua. Di quando con le forbici gli aveva tagliuzzato il completo verde che aveva messo addosso un’unica volta, per il matrimonio. Chissà poi cosa le aveva fatto di male, quel completo. Di quando aveva minacciato di dar fuoco alla casa, perché lui le aveva portato le sigarette della marca sbagliata. – Secondo te beve, Benny? – Macché. Mai fatto entrare una bottiglia d’alcol in casa, perciò dove andrebbe a prenderlo, e comunque, glielo sentirei dall’odore, no? – Perché, le vai cosí vicino da sentirlo, Benny? Lui chinava la testa, ridacchiando. – Le vai mai cosí vicino, Benny? Quella è peggio di un branco di gatti randagi. Ti conviene legarla un giorno di questi, mentre dorme. Quando zio Benny veniva da noi a scuoiare, si portava anche Diane. Lui e mio padre lavoravano nello scantinato di casa, scuoiavano le volpi, rovesciavano le pelli e le tiravano per metterle ad asciugare su delle lunghe assi. Diane andava su e giú dalla scala oppure si sedeva su un gradino a guardare. Non rivolgeva la parola a nessuno tranne allo zio Benny. Era diffidente di giochi, biscotti, latte, di tutto quello che le proponevamo, ma non frignava né piangeva mai. Se si provava a toccarla o a prenderla in braccio, lasciava fare con circospezione, emettendo piccole scariche di tremori sgomenti, col cuore che batteva all’impazzata come quello di un uccellino catturato in una mano. In compenso, si coricava in grembo allo zio Benny e gli si addormentava sulla spalla, molle come pasta stracotta. Lui le copriva con le mani i lividi che aveva sulle gambe. – Va sempre a sbattere contro tutto, a casa. Ho tanta di quella roba in giro, come fa a non andare a sbattere o non arrampicarsi e cadere dappertutto? A inizio della primavera, c’era perfino ancora un po’ di neve, un giorno venne a dirci che Madeleine se n’era andata. La sera prima al ritorno dal lavoro non l’aveva piú trovata. Pensando che potesse essere a Jubilee, l’aveva aspettata a casa. Ma poi si era accorto che mancavano parecchie altre cose: una lampada da tavolo che voleva sempre aggiustare, un bel tappetino, dei piatti e una teiera azzurra che era stata di sua madre, e due seggiole pieghevoli in ottimo stato. Aveva preso anche Diane, naturalmente. – Deve essersene andata con un furgone; tutta quella roba in una macchina non ci entra. A quel punto mia madre si ricordò di aver visto un furgoncino, le pareva fosse grigio, andare verso il paese, intorno alle tre del pomeriggio, il giorno prima. Ma non aveva fatto caso a chi fosse a bordo. – Un furgoncino grigio! Scommetto che era lei. Deve aver caricato tutto dietro. Hai visto se era coperto con un telo, per caso? Mia madre non aveva notato. – Devo trovarla, – disse concitato zio Benny. – Non è che può andarsene cosí, con della roba non sua. Non fa che ripetermi, porta via ’sta roba, sgombera tutto ’sto ciarpame. Beh, non è poi tanto ciarpame quando decide di servirsi, no? L’unico problema adesso è, come faccio a sapere dove è andata? Sarà meglio che cerchi suo fratello. Dopo le sette, quando scattarono le tariffe piú economiche, mio padre fece l’intercomunale, col nostro telefono – perché zio Benny non ce l’aveva –, e chiamò il fratello di Madeleine. Poi gli passò lo zio Benny. – È venuta lí da te? – gridò subito zio Benny. – Se ne è andata su un furgone. Un furgoncino grigio. Si è presentata lí? – All’altro capo del filo sembravano confusi; forse zio Benny urlava troppo forte e non capivano. Dovette intervenire mio padre e spiegare con pazienza che cosa era successo. Si scoprí che Madeleine non era andata a Kitchener. Il fratello non si mostrò tanto curioso di scoprire dove fosse finita. Riagganciò senza salutare. Mio padre provò a convincere lo zio Benny che liberarsi di Madeleine non era poi cosí male, in fondo. Fece notare che non era mai stata chissà quale massaia e che non aveva reso la vita dello zio Benny esattamente comoda e serena. Si espresse in tono diplomatico, senza dimenticarsi che parlava della moglie di un altro. Non accennò alla sua scarsa avvenenza e nemmeno ai vestiti malmessi. Quanto alla roba che Madeleine si era presa – rubata, precisò zio Benny –, beh, certo era una vergogna e un peccato (mio padre era consapevole di come fosse meglio non insinuare che si trattava di oggetti di ben scarso valore), ma forse poteva considerarla il prezzo da pagare per farsela fuori, e magari col tempo lo zio Benny l’avrebbe giudicata una fortuna. – Non è quello, – intervenne a un tratto mia madre. – È la bambina. Diane. Zio Benny ridacchiò mesto. – La madre la picchia, eh? – esclamò mia madre con la voce carica di spavento per l’improvvisa rivelazione. – Ecco cos’era. Cos’erano quei lividi sulle gambe… Quando partiva con quelle sue risatine, lo zio Benny non riusciva piú a fermarsi, come avesse il singhiozzo. – Eh, sí. Sí, la… – Ma perché non ce l’hai detto mentre era qui? Perché non ce l’hai detto quest’inverno? Come ho fatto a non pensarci? A saperlo, potevo denunciarla… Zio Benny alzò lo sguardo, stupefatto. – Alla polizia! Potevamo sporgere denuncia. Farle togliere la bambina. Adesso comunque dobbiamo farla rintracciare. Vedrai che la trovano. Non avere paura. Lo zio Benny non sembrava soddisfatto né rassicurato alla prospettiva. Disse esitante: – Come fanno a sapere dove cercare? – La polizia provinciale, loro lo sanno. Possono lavorare su scala provinciale. Nazionale, se serve. Vedrai che la trovano. – Ferma un attimo, – disse mio padre. – Cosa ti fa pensare che la polizia si metta a cercarla? In quel modo si rintracciano solo i criminali. – E una donna che picchia una bambina non è una criminale adesso? – Bisogna avere delle prove. Portare dei testimoni. Per una denuncia pubblica ci vogliono le prove. – Benny è testimone. Glielo dice lui. Testimonia lui, contro di lei –. Si volse verso lo zio Benny, che riprese a singhiozzare come prima e chiese con aria stordita: – Cioè, che cosa dovrei fare? – Basta parlarne, per adesso, – disse mio padre. – Aspettiamo di vedere come si mette. Mia madre scattò in piedi, indignata e incredula. Doveva trovare un’altra cosa da dire, cosí disse quella che sapevamo tutti. – Io non capisco cosa c’è da aspettare. A me sembra chiaro come il sole. Ma quello che per lei era chiaro come il sole, evidentemente per lo zio Benny era una nebbia fitta e spaventosa. Impossibile stabilire se aveva paura della polizia, o solo dell’aspetto pubblico, dell’ufficialità di quell’idea, delle parole per dirla, dei posti ignoti in cui l’avrebbe trascinato. Ma qualunque cosa fosse, zio Benny crollò, e smise per sempre di parlare di Madeleine e Diane. Che fare? Mia madre avrebbe voluto prendere lei l’iniziativa, ma mio padre le disse: – Ti metti nei guai di sicuro, a ficcare il naso nelle famiglie degli altri. – Io so comunque di avere ragione. – Può anche darsi, ma non vuol dire che tu possa farci qualcosa. In quel periodo dell’anno le volpi facevano i piccoli. Se un aereo della Scuola aeronautica sul lago volava a quota troppo bassa, o un estraneo si avvicinava ai recinti, se succedeva una qualsiasi cosa eccezionale o allarmante le madri potevano decidere di ucciderli. Nessuno sapeva se lo facessero per cieca irritazione o per un sollecitato senso materno misto a terrore: che volessero allontanare dei cuccioli che non avevano ancora nemmeno aperto gli occhi dalla situazione di pericolo in cui forse ritenevano di averli cacciati, partorendoli in quei recinti? Non erano come animali domestici. Conoscevano la vita in cattività solo da pochissime generazioni. Per convincere ulteriormente mia madre, mio padre disse che Madeleine poteva essersene andata negli Stati Uniti, dove nessuno sarebbe piú riuscito a ritrovarla. Ce n’era tanta di gente poco raccomandabile, balorda, ma anche solo ambiziosa e irrequieta, che prendeva quella strada prima o poi. Non Madeleine, comunque. Piú avanti nella primavera arrivò una lettera. Aveva avuto il fegato di scrivere, disse zio Benny quando venne a mostrarci la lettera. Senza nessun preambolo di cortesia, attaccava cosí: Ho lasciato la mia maglia gialla e un ombrello verde e la copertina di diane da te mandamele qui. 1249 Ridlet St., Toronto, Ont. Lo zio Benny aveva già preso la decisione di andarci personalmente. Chiese la macchina in prestito, non era mai stato a Toronto. Sul tavolo di cucina, mio padre allargò la carta per fargli vedere come arrivarci, pur dicendo che non era sicuro fosse una buona idea. Zio Benny rispose che intendeva prendersi Diane e riportarla a casa. Entrambi i miei genitori gli fecero notare che la legge non lo permetteva e che quindi glielo sconsigliavano. Eppure zio Benny, di norma terrorizzato alla prospettiva di andare per vie ufficiali e giuridiche, non si dava il minimo pensiero di un’iniziativa classificabile come sequestro di persona. Ora sí che raccontava storie sul comportamento di Madeleine. Legava le gambe di Diane alle sbarre del lettino con delle cinghie di cuoio. Una volta l’aveva picchiata con un’assicella. E chissà, forse faceva di peggio, in sua assenza. Sulla schiena della bambina, secondo lui, c’erano segni di bruciatura da attizzatoio. Mentre diceva queste cose, lo prendevano i soliti attacchi di risatine mortificate; gli toccava scrollare la testa e buttare giú tutto. Stette via due giorni. Mio padre ascoltava il notiziario delle dieci dicendo: «Sarà meglio sentire se il vecchio Benny si è fatto beccare!» La sera del secondo giorno, entrò nel nostro cortile e restò seduto in macchina per un momento, senza guardarci. Poi scese piano e si diresse con passo sfinito e dignitoso verso la casa. Diane non era con lui. Ci eravamo forse aspettati che riuscisse ad averla? Eravamo seduti sulla spianata di cemento fuori della porta di cucina. Mia madre sulla sua sdraio di tela che alludeva a tappeti erbosi e comodità cittadine, e mio padre su una sedia da cucina a schienale rigido. Si era all’inizio della stagione e gli insetti erano pochi. Guardavamo il tramonto. Certe volte mia madre ci radunava tutti a guardare il tramonto, quasi come se lo avesse organizzato personalmente, il che rovinava un po’ lo spettacolo – di lí a poco mi sarei rifiutata di prestarmi a guardare –, ma è innegabile che non c’era al mondo un posto migliore del fondo di Flats Road per osservare il calar del sole. Lo diceva lei stessa, mia madre. Mio padre aveva montato la zanzariera alla porta proprio quel giorno. Contravvenendo alle raccomandazioni, Owen ci stava giocando per il gusto di sentire il noto rumore della molla tirata indietro e subito dopo lasciata scattare. Qualcuno gli diceva di piantarla, lui smetteva ma poi ricominciava di nascosto, alle spalle dei miei. Zio Benny ci pareva avvolto da una cappa di tale pesante tristezza che nemmeno mia madre osava rivolgergli la parola. Mio padre disse a me sottovoce di andare a prendergli una sedia in cucina. – Benny, dài, siediti. Sarai stanco del viaggio. Come si è comportata la macchina? – Nessun problema. Sedette. Non tolse il cappello. Se ne stava lí rigido, come se si trovasse in un posto estraneo dove non si aspettava di essere il benvenuto e neppure lo desiderava. Alla fine mia madre gli parlò, affettando un tono di spensierata allegria. – Allora. Dove stanno, villetta o appartamento? – Che ne so, – fece zio Benny scostante. E dopo un po’ aggiunse: – Non l’ho trovato. – Non hai trovato il posto? Scosse il capo. – Perciò non le hai viste? – No. – Hai perso l’indirizzo? – No. Ce l’ho scritto su questo pezzo di carta. Eccolo qui –. Estrasse il portafoglio dalla tasca, tirò fuori un foglietto, ce lo mostrò e lesse. «1249 Ridlet Street». Lo ripiegò e rimise via. Ogni suo gesto sembrava addolorato, solenne, lentissimo. – Non l’ho trovato. Il posto, non l’ho trovato. – Ma non avevi uno stradario? Ti ricordi, ti avevamo detto fermati in una stazione di servizio e chiedi una carta di Toronto. – L’ho fatto, – disse zio Benny in tono di sconsolato trionfo. – Altro che. Mi sono fermato a una stazione di servizio, ho chiesto e mi hanno detto che non avevano nessuna carta. Cioè, ne avevano solo della provincia. – Quella della provincia ce l’avevi già. – Gliel’ho detto. Ho chiesto la carta di Toronto. Mi han detto che non ce l’avevano. – Hai provato in un’altra stazione? – Se in una non c’era ho pensato che non ne avevano neppure nelle altre. – Potevi comprartela in un negozio. – Non sapevo che negozio. – Un’edicola, una cartoleria! Un grande magazzino! Potevi chiedere alla stazione dove andare a comprarne una. – Ho pensato che invece di correre di qua e di là a cercare una carta facevo prima a chiedere a qualcuno come arrivarci, visto che l’indirizzo l’avevo. – Chiedere in giro è sempre molto rischioso. – Dillo a me, – ribatté zio Benny. Quando ebbe cuore di farlo, attaccò la sua storia. – Prima ho chiesto a un tizio che mi ha detto di attraversare un ponte e io l’ho fatto e arrivato di là c’era un semaforo rosso. Dovevo svoltare a sinistra, cosí mi aveva detto il tizio, ma quando mi sono trovato lí, non sapevo come comportarmi. Come funziona, si svolta a sinistra quando il semaforo davanti è rosso o si svolta a sinistra quando il semaforo davanti è verde? – Per svoltare a sinistra devi avere il verde, – esclamò sconcertata mia madre. – Se giri a sinistra quando è rosso ti ritrovi nel traffico che ti attraversa davanti. – Eh già. Lo sapevo, ma se invece giri col verde ti ritrovi in mezzo a quelli che ti vengono addosso. – Aspetti che ti lascino passare. – Allora puoi stare lí tutto il giorno, passare non ti fanno passare. Insomma, non sapevo che cosa fare e mentre cercavo di capire, quelli si mettono a strombazzarmi da dietro e io penso, va beh, giro a destra, almeno non ho problemi e poi torno indietro e vengo dalla parte opposta. A quel punto dovrei essere nella direzione giusta. Solo che non trovo dove fare inversione e continuo ad andare, andare… Dopodiché svolto in una via diagonale e proseguo finché penso, beh, mi sono perso, inutile cercare di tornare al punto del primo tizio, tanto vale chiedere a un altro. Allora mi fermo e chiedo a una signora a spasso col cane al guinzaglio, ma quella mi dice che non ha mai sentito Ridlet Street. Mai sentita nominare. Eppure stava a Toronto da ventidue anni. Ha chiamato un ragazzo in bicicletta e lui invece l’aveva sentita, mi ha detto che era dalla parte opposta della città e che comunque io stavo uscendo dall’abitato, proseguendo in quella direzione. Io però ho pensato che forse era piú comodo fare il giro intorno al centro, anche se ci voleva di piú, e ho proseguito in quella direzione, tutto intorno al centro, cosí mi pareva, ma nel frattempo mi sono accorto che veniva buio e ho pensato, boia, qua è meglio muoversi, se voglio trovare questo posto prima di notte, perché non ho nessuna voglia di viaggiare da queste parti col buio… Aveva finito per dormire in macchina, a bordo strada, fuori dall’aia di una fattoria. Si era perso tra casali, strade senza uscita, magazzini, discariche, traversine ferroviarie. Ci descrisse ogni svolta e ogni persona a cui aveva chiesto indicazioni; ci riferí quel che ciascuno gli aveva detto e che cosa lui aveva pensato sul momento, le alternative valutate e le ragioni per cui aveva preso ogni particolare decisione. Si ricordava di tutto. La mappa del viaggio gli si era marchiata a fuoco nella mente. E mentre parlava un paesaggio diverso – fatto di macchine, cartelloni pubblicitari, capannoni industriali, strade e cancelli chiusi, vertiginosi recinti in filo spinato, traversine, immensi mucchi di scorie, tettoie in lamiera, fossati con un fondo d’acqua marrone, e poi lattine vuote, scatoloni ammaccati, ogni genere di rifiuto solido o semigalleggiante –, tutto questo pareva crescerci intorno come evocato dalla sua voce monotona e dal suo meticoloso ricordo grazie al quale vedevamo tutto e capivamo come fosse possibile perdersi e impossibile invece ritrovare qualcosa o continuare a cercare. Mia madre tuttavia protestò: – Ma le grandi città sono cosí! È per questo che ci vuole una carta! – Comunque. Mi sono svegliato lí, stamattina, – disse zio Benny come se non l’avesse sentita, – e ho capito che la cosa migliore era levarsi di torno in qualunque modo. Mio padre sospirò; annuí. Era vero. Dunque, accanto al nostro mondo, c’era il mondo dello zio Benny come un riflesso distorto e inquietante, identico all’altro ma mai proprio uguale del tutto. In quel mondo la gente poteva sparire, inghiottita dalle sabbie mobili, messa in fuga da spettri o da terribili grandi città qualunque; fortuna e perfidia assumevano proporzioni gigantesche e imprevedibili; niente era meritato, e tutto poteva succedere; le sconfitte venivano accolte con dissennato tripudio. Era questo il trionfo di Benny, di cui lui non poteva sapere: essere riuscito a farci comprendere. Owen si dondolava sulla zanzariera, canticchiando in tono di cauto disprezzo, come faceva quando le conversazioni si facevano troppo lunghe. Terra Suprema di Gloria Madre di Libertà come potremo onorarti noi figli della tua storia? Gliel’avevo insegnata io quella canzone – quell’anno non facevamo che cantare roba simile ogni giorno a scuola, per salvare l’Inghilterra da Hitler. Secondo mia madre era terra di speme e non suprema, ma io non ci credevo, perché cosa diavolo voleva dire sennò? Mia madre sulla sua sdraio di tela, mio padre sulla seggiola di legno; non si guardavano nemmeno in faccia. Ma erano uniti, di un’unione palese come una barriera, che separava noi dallo zio Benny, noi da Flats Road, noi da tutto il resto, sempre. Un po’ come quando d’inverno, a volte, si concedevano due mani a carte al tavolo di cucina e giocavano, in attesa del notiziario delle dieci, dopo averci spediti a letto, al piano di sopra. Lassú sembrava di stare a miglia di distanza, in un posto buio e pieno dei rumori del vento. Lassú scoprivamo quello che in cucina non ricordavamo mai: che casa nostra era piccola e chiusa come una barchetta in mare, in balia di una tempesta urlante. Sembrava che loro parlassero e giocassero a carte lontanissimo, dentro una minuscola chiazza di luce, irrilevanti; eppure il pensiero, come un singhiozzo, ovvio come il respiro, era ciò che mi sosteneva, ciò che ammiccava per me dal fondo del pozzo in cui il sonno mi sprofondava. Zio Benny non ebbe piú notizie di Madeleine e, se ne ebbe, non ce ne fece parola. Se qualcuno gli chiedeva di lei, o faceva una battuta, sembrava farsela tornare in mente senza rimpianti, con quel pizzico di sufficienza che si ha per qualcosa, o qualcuno, messo da parte da tanto tempo, come l’idea delle tartarughe.