giovedì 12 marzo 2020


LA PADRONA 
Estratto da "Racconti"
Fëdor Dostoevskij 

[...] D'un tratto gli parve che lei di nuovo si chinasse su di lui, che lo guardasse negli occhi con i suoi occhi meravigliosamente chiari, umidi di scintillanti lacrime di placida, luminosa gioia, quieti e chiari come l'immensa volta turchina del cielo in un meriggio caldo. [...]

PARTE PRIMA

I

Ordynov si decise finalmente a cambiare appartamento. La sua padrona di casa, la vedova assai povera e anziana di un impiegato presso la quale egli affittava un alloggio, in seguito a circostanze impreviste era partita da Pietroburgo per non so quale remota località di provincia dove intendeva sistemarsi presso certi suoi parenti, senza aspettare il primo del mese, data alla quale scadeva il suo contratto d'affitto. Il giovane, in attesa della scadenza del termine, pensava con rimpianto al suo vecchio angolo e si rammaricava di doverlo abbandonare: egli era povero e gli affitti erano cari. All'indomani stesso della partenza della padrona egli prese il berretto e si mise a girare per i vicoli di Pietroburgo, adocchiando tutti i cartellini inchiodati ai portoni delle case, alla ricerca di quella più malridotta, più affollata e più d'affitto, nella quale fosse più facile trovare presso qualche inquilino povero l'angolo che faceva al caso suo.
Era già un pezzo che stava cercando con estrema diligenza, ma ben presto sensazioni nuove, quasi sconosciute, lo assalirono. Egli prese a guardarsi attorno dapprima distrattamente e negligentemente, poi con attenzione e infine con estrema curiosità. La folla e la vita della strada, il frastuono, il movimento, la novità degli oggetti, la novità della situazione, tutta questa vita minuta e tutte le banalità quotidiane, da lungo tempo venute a noia all'indaffarato e pratico pietroburghese, infruttuosamente ma attivamente alla ricerca durante tutta la sua vita dei mezzi per pacificarsi, calmarsi e tranquillizzarsi da qualche parte in un caldo nido, conquistato col lavoro, col sudore e con svariati altri mezzi - tutta questa volgare e noiosa prosa suscitò, all'opposto, in lui una strana sensazione quietamente gioiosa e luminosa. Le sue guance pallide si coprirono di un leggero rossore, i suoi occhi cominciarono a brillare come per una nuova speranza, ed egli prese a inspirare avidamente e profondamente l'aria fredda e pura e si sentì straordinariamente leggero.
Aveva sempre condotto una vita tranquilla, completamente solitaria. Circa tre anni prima, avendo conseguito il titolo accademico ed essendo divenuto relativamente libero, si era recato da un vecchietto, che fino ad allora conosceva solo per sentito dire, ed era rimasto a lungo in attesa finché il cameriere in livrea si era deciso ad annunciarlo per la seconda volta. Era poi entrato in una sala dal soffitto alto, oscura e vuota, che dava un senso estremo di noia, come se ne vedono ancora nelle vecchie case signorili risparmiate dal tempo, e in essa aveva visto un vecchietto coperto di decorazioni e ornato da canizie, amico e collega di suo padre, nonché suo tutore. Il vecchietto gli aveva consegnato una manciata di denari. La somma era risultata insignificante: si trattava dei resti dell'eredità del bisnonno, venduta all'asta per debiti. Ordynov ne aveva preso possesso con indifferenza, si era congedato per sempre dal suo tutore ed era uscito nella strada. Era una serata autunnale, fredda e tetra; il giovane era pensieroso e una inconsapevole tristezza gli dava una fitta al cuore. Aveva il fuoco negli occhi; avvertiva i sintomi della febbre, brividi e un gran calore 19
alternatamente. Strada facendo aveva calcolato che con i mezzi di cui disponeva avrebbe potuto sopravvivere due o tre anni, persino quattro, facendo la fame. Era calato il crepuscolo e aveva cominciato a piovigginare. Aveva contrattato il prezzo del primo angolo che gli era capitato e un'ora dopo aveva traslocato. Lì era come se si fosse chiuso in un Convento separandosi dal resto del mondo. Dopo due anni, senza rendersene conto, si era completamente inselvatichito; per il momento non gli veniva neppure in mente che esistesse un'altra vita - rumorosa, chiassosa, eternamente agitata, eternamente in trasformazione, eternamente invitante e sempre, prima o poi, inevitabile. Egli, è vero, non poteva fare a meno di sentirne parlare, ma non la conosceva, né la cercava mai. Fin dall'infanzia era vissuto in maniera singolare; ora questa singolarità aveva preso una forma definita. Lo divorava la passione più profonda e insaziabile, quella che assorbe l'intera vita di un uomo e che alle creature come Ordynov non consente neppure un angolo nell'altra sfera, quella dell'attività pratica, ordinaria. Questa passione era la scienza. Per ora essa stava divorando la sua giovinezza, come un veleno lento e inebriante avvelenava il suo riposo notturno, lo privava di un cibo sano e dell'aria fresca, della quale non c'era mai traccia nel suo soffocante angolo, ma Ordynov, tutto preso dalla sua passione, non voleva accorgersene. Egli era giovane e per il momento non chiedeva di più. Questa passione lo aveva trasformato in un lattante per quanto riguarda la vita esteriore, ormai per sempre incapace di far sì che certe brave persone si scansassero, quando ciò si rendeva necessario, per ritagliargli almeno un angolino in mezzo a loro. La scienza di certa gente abile è un capitale nelle loro mani; la passione di Ordynov era invece un'arma rivolta contro lui stesso.
In lui c'era un'attrazione inconscia, piuttosto che un motivo logicamente definito di imparare e di sapere, come in qualsiasi altra, anche la più insignificante, delle attività di cui si era occupato fino ad allora. Fin dagli anni dell'infanzia aveva avuto fama di testa balzana e non assomigliava ai compagni. Non aveva mai conosciuto i genitori e, a causa del suo carattere strano e poco socievole, aveva dovuto soffrire per la crudeltà e la grossolanità dei compagni. A causa di ciò era diventato davvero poco socievole e tetro e a poco a poco si era accentuata la sua singolarità. Ma nei suoi studi solitari mai, neppure ora, c'era stato un ordine e un sistema definito; ora non v'era altro che il primo entusiasmo, il primo slancio, la prima febbre dell'artista. Egli si andava creando da sé un suo sistema, che via via prendeva forma in lui nel corso degli anni, e nella sua anima ormai stava sorgendo a poco a poco l'immagine ancora oscura, confusa, ma in un certo qual modo stupendamente rallegrante, di un'idea incarnata in una forma nuova, luminosa, e questa forma chiedeva di sgorgare dalla sua anima straziandola; egli avvertiva ancora timidamente l'originalità, la verità e l'autenticità di essa: la creazione stava già facendo appello alle sue forze; essa cresceva e si rafforzava. Ma il giorno in cui essa si sarebbe incarnata e avrebbe preso forma era ancora lontano, forse molto lontano, forse addirittura del tutto irraggiungibile!
Ora egli camminava per le strade come un estraneo, come un eremita venuto dal suo muto deserto nella città rumorosa, assordante. Tutto gli pareva nuovo e strano. Ma egli era così estraneo al mondo che gli ribolliva e gli rumoreggiava intorno che non gli passò neppure per il capo di meravigliarsi della strana sensazione che provava. Non sembrava neppure accorgersi della propria selvatichezza; al contrario nasceva in lui una specie di gioioso sentimento, una specie di ebbrezza, come quella che prova un affamato al quale dopo un lungo digiuno diano da mangiare e da bere; sebbene, naturalmente, fosse strano che una così insignificante novità nella sua situazione, come il cambio di appartamento, potesse suscitare turbamento ed emozione in un abitante di Pietroburgo, si trattasse pure di Ordynov; ma è vero anche che fino ad allora non gli era accaduto quasi neppure una volta di uscire per sbrigare delle faccende.
Gli piaceva sempre di più vagare per le strade. Egli sgranava gli occhi su ogni cosa come flâneur.
Ma anche ora, fedele alla sua disposizione di sempre, nel brillante quadro che gli si apriva dinanzi egli leggeva come tra le righe di un libro. Ogni cosa lo colpiva; non si lasciava sfuggire una sola impressione e con sguardo raziocinante guardava in viso i passanti, scrutava la fisionomia di ogni persona che gli stava attorno, tendeva l'orecchio con amore ai discorsi della gente, come se 20
volesse verificare su ogni cosa le ipotesi nate nel silenzio delle sue notti solitarie. Sovente una qualche inezia lo colpiva facendo scaturire un'idea e, per la prima volta, cominciò a provare rimpianto d'essersi seppellito vivo a quel modo nella sua cella. Qui tutto andava più in fretta; il suo polso batteva pieno e rapido, il suo intelletto, oppresso dalla solitudine, sollecitato e innalzato soltanto da un'attività tesa ed esaltata, ora lavorava velocemente, tranquillamente e con audacia.
Inoltre provava quasi inconsciamente il desiderio di entrare in qualche maniera anche lui a far parte di quella vita a lui estranea, che fino ad allora aveva conosciuta, o, per dir meglio, aveva soltanto presentita con l'infallibile istinto dell'artista. Inavvertitamente il suo cuore prese a battere d'una nostalgia d'amore e di solidarietà. Egli fissava più attentamente le persone che gli passavano accanto; ma quelle persone erano estranee, indaffarate e pensierose... E poco a poco la spensieratezza di Ordynov cominciò inavvertitamente a dissolversi; la realtà già lo opprimeva, ispirandogli un involontario timoroso rispetto.
Cominciò ad esser stanco del flusso di nuove sensazioni, fino ad allora a lui ignote, come un inalato che gioiosamente si alzi dal suo letto di dolore e cada spossato dalla luce, dallo scintillio, dal turbinio della vita, dal rumore e dalla varietà di colori della folla che gli guizza accanto, stordito e ottenebrato dal movimento. Provò un senso di tristezza e di malinconia. Incominciò a temere per tutta la sua esistenza, per la sua attività e persino per il suo futuro. Un pensiero nuovo uccideva la sua quiete. All'improvviso gli venne in mente che durante tutta la sua vita egli era stato solo, che nessuno lo aveva mai amato e che non era riuscito ad amare nessuno. Alcuni tra i passanti, con i quali casualmente aveva scambiato qualche parola all'inizio della sua passeggiata, lo avevano guardato con un'aria aspra e strana. Egli vedeva che lo prendevano per un pazzo o per un tipo strampalato e bizzarro, il che, del resto, era perfettamente vero. Si rammentò che tutti avevano sempre provato una sensazione penosa in sua presenza, che fin dall'infanzia tutti l'avevano sfuggito per il suo carattere pensieroso e caparbio, che la sua solidarietà si era manifestata in maniera penosa e depressa, passando inosservata agli occhi degli altri, che essa era presente in lui, ma in essa non si era mai osservata traccia di eguaglianza morale, cosa che lo aveva fatto soffrire fin da quando era bambino, quando si era accorto di non assomigliare in nulla ai suoi coetanei. Ora se ne rammentò e si rese conto che da sempre e in ogni occasione tutti lo avevano sfuggito ed evitato.
Senza avvedersene si addentrò in uno dei sobborghi di Pietroburgo lontani dal centro. Dopo aver alla meglio pranzato in una trattoria fuori mano, egli uscì e riprese a vagare senza meta. Di nuovo attraversò numerose vie e piazze. Dietro di esse si stendevano lunghe file di staccionate gialle e grigie e, al posto delle ricche case, cominciò a incontrare vetuste casupole ed enormi edifici adibiti a fabbriche, orribili, anneriti, rossi, con alte ciminiere. Il luogo era deserto e vuoto; ogni cosa aveva un aspetto tetro e ostile: così per lo meno parve a Ordynov. Era ormai sera. Dopo aver percorso un lungo vicolo sbucò in una piazza dove sorgeva una chiesa parrocchiale.
Vi entrò distrattamente. La funzione era appena terminata; la chiesa era quasi completamente vuota e c'erano soltanto due vecchiette in ginocchio vicino all'ingresso. Il sacrestano, un vecchietto dai capelli bianchi, spegneva le candele. I raggi del sole che tramontava irrompevano dall'alto come un ampio torrente attraverso l'angusta lanterna della cupola, illuminando con un mare di luce scintillante uno degli altari; ma essi si facevano via via sempre più deboli, e quanto più nera diventava l'oscurità che si addensava sotto le volte del tempio, tanto più splendevano qua e là le icone dorate, illuminate dal tremolante chiarore delle lampade e delle candele. In un accesso di struggente nostalgia e oppresso da un sentimento indefinito Ordynov si addossò alla parete nell'angolo più buio della chiesa e per un attimo si abbandonò all'oblio. Si riscosse quando sotto le volte del tempio echeggiò il suono cadenzato e sordo dei passi di due parrocchiani che erano entrati. Egli sollevò gli occhi e una sorta di strana e inesprimibile curiosità si impadronì di lui alla vista dei due nuovi venuti. Si trattava di un vecchio e di una giovane donna. Il vecchio era alto, ancora diritto ed energico, ma magro e pallidissimo. Dall'aspetto lo si poteva prendere per un mercante venuto da qualche luogo lontano. Indossava un lungo caffetano nero, evidentemente il suo abito delle feste, foderato di pelliccia, portato aperto. Sotto il caffetano si scorgeva un altro lungo abito di foggia russa, accuratamente abbottonato per tutta la sua lunghezza.
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Intorno al collo scoperto portava annodato negligentemente un fazzoletto d'un rosso vivace; in mano aveva un colbacco di pelliccia. Una barba lunga, sottile e brizzolata gli ricadeva sul petto e di sotto alle sopracciglia folte e aggrottate scintillava uno sguardo infuocato, febbrilmente acceso, altero e penetrante. La donna poteva avere vent'anni ed era meravigliosamente bella. Indossava una ricca casacca azzurra foderata di pelliccia e aveva in testa un fazzoletto di raso bianco annodato sotto il mento. Camminava con gli occhi abbassati e una sorta di pensosa dignità, che pervadeva tutta la sua figura, si rifletteva in modo netto e triste sul tenero disegno delle linee infantilmente dolci e miti del suo volto. C'era qualcosa di strano in questa coppia inattesa.
Il vecchio si arrestò in mezzo alla chiesa e si inchinò in tutte e quattro le direzioni, sebbene la chiesa fosse completamente vuota; lo stesso fece la sua compagna. Poi egli la prese per mano e la condusse ai piedi della grande icona della Vergine locale, in onore della quale era stata costruita la chiesa, che brillava accanto all'altare dello scintillio accecante delle fiammelle che si riflettevano sul rivestimento fiammeggiante d'oro e di pietre preziose. Il sacrestano, che era l'ultima persona rimasta nella chiesa, si inchinò rispettosamente davanti al vecchio e questi gli rispose con un cenno del capo. La donna si prosternò davanti all'icona. Il vecchio prese un lembo del drappo che pendeva dalla predella dell'icona e le coprì la testa. Sordi singhiozzi risuonarono nella chiesa.
Ordynov era colpito dalla solennità di tutta questa scena e ne attendeva con impazienza la conclusione. Dopo un paio di minuti la donna sollevò la testa e di nuovo la viva luce della lampada illuminò il suo volto incantevole. Ordynov trasalì e fece un passo in avanti. Ella aveva già porto la mano al vecchio ed entrambi si avviarono silenziosamente verso l'uscita della chiesa. Le lacrime sgorgavano dai suoi occhi azzurro-scuri, dalle lunghe ciglia abbassate, che risaltavano sul latteo candore del viso, e rigavano le sue gote pallide. Sulle sue labbra aleggiava un sorriso; ma sul suo viso erano visibili le tracce di chissà quale infantile timore e di un misterioso terrore. Ella si stringeva timidamente al vecchio e si vedeva bene come trepidasse tutta per la commozione.
Colpito, sferzato da una sensazione tenace di sconosciuta voluttà Ordynov si avviò rapidamente dietro a loro e sul sagrato della chiesa tagliò loro la strada. Il vecchio lo guardò con un'espressione ostile e severa; ella pure gli gettò uno sguardo, ma senza curiosità e distrattamente, come se un altro, remoto pensiero occupasse la sua mente. Ordynov continuò a seguirli senza nemmeno rendersi conto di quel che faceva. Era ormai sceso il crepuscolo ed egli camminava a una certa distanza. Il vecchio e la giovane donna imboccarono una strada principale, larga e sporca, affollata di popolazione operaia di vario genere, di depositi di farina e di locande, che conduceva direttamente alla porta della città, poi svoltarono in un vicolo lungo e stretto, con lunghe staccionate su entrambi i lati, che andava a terminare contro la parete enorme e annerita di una casa d'affitto a quattro piani, attraverso il doppio ingresso della quale si poteva uscir fuori su un'altra strada anch'essa principale e affollata. Stavano già avvicinandosi alla casa, quando improvvisamente il vecchio si voltò e guardò con impazienza Ordynov. Il giovane si fermò come impietrito; a lui stesso apparve strana quella sua attrazione. Il vecchio si voltò una seconda volta, quasi volesse assicurarsi che la sua minaccia avesse fatto effetto, e poi entrambi, lui e la giovane donna, entrarono attraverso lo stretto portone nel cortile della casa. Ordynov ritornò indietro.
Era nello stato d'animo più spiacevole e si indispettiva con se stesso al pensiero di aver inutilmente perduto la giornata, di essersi inutilmente stancato e, per giunta, di aver concluso con una sciocchezza, attribuendo il significato di una vera e propria avventura a un avvenimento più che banale.
Per quanto quella mattina si fosse indispettito con se stesso per la propria selvatichezza, pure l'istinto gli suggeriva di rifuggire da tutto ciò che, nel mondo esterno, non nel suo mondo interiore, artistico, poteva distrarlo, colpirlo e scuoterlo. Ora pensò con tristezza e con una sorta di pentimento al suo angolo tranquillo; poi lo invasero l'angoscia e la preoccupazione per la sua situazione non risolta e per le seccature che lo attendevano, e, nello stesso tempo, lo infastidì il fatto che simili piccolezze potessero preoccuparlo. Infine, stanco e non più in grado di collegare tra di loro due idee, giunse ormai la sera tardi al suo appartamento e si accorse con meraviglia di esser passato oltre la casa in cui abitava. Stupefatto e scuotendo la testa al pensiero della sua distrazione egli la 22
attribuì alla stanchezza e, salite le scale, entrò finalmente nella sua camera in soffitta. Qui accese la candela e, un momento più tardi, l'immagine di quella donna piangente colpì vividamente la sua immaginazione. L'impressione fu così forte e fiammeggiante, con tale amore il suo cuore rievocò i tratti miti e tranquilli di quel viso sconvolto da una misteriosa commozione e dal terrore, bagnato di lacrime di entusiasmo o di infantile pentimento, che i suoi occhi si annebbiarono e gli sembrò che il fuoco gli corresse per tutte le membra. Ma la visione non durò a lungo. L'entusiasmo lasciò il posto prima alla riflessione, poi all'irritazione, infine a una sorta di rabbia impotente; senza spogliarsi egli si avvolse in una coperta e si gettò sul suo duro giaciglio...
Ordynov si svegliò ormai abbastanza tardi la mattina dopo, in uno stato d'animo irritato, pavido e depresso, si preparò in fretta, cercando quasi con sforzo di pensare alle sue preoccupazioni impellenti, e si avviò nella direzione opposta a quella della sua passeggiata del giorno prima; Infine riuscì a trovare un alloggio da qualche parte, nella stanzetta di un povero tedesco soprannominato Špis, che viveva assieme alla sua figliuola Tinchen. Spis, non appena ebbe ricevuto la caparra, staccò subito il cartellino inchiodato sul portone e, dopo aver chiamato gli altri pigionanti, lodò Ordynov per il suo amore per la scienza e promise che si sarebbe messo seriamente a studiare assieme a lui. Ordynov disse che avrebbe traslocato verso sera. Di lì si avviò verso casa, ma cambiò idea e svoltò nella direzione opposta; si sentiva di nuovo energico e sorrise dentro di sé della propria curiosità. La strada per l'impazienza gli parve estremamente lunga, ma infine arrivò alla chiesa dove era stato la sera prima. Stavano celebrando la messa. Egli si scelse un posto dal quale poteva vedere praticamente tutti i fedeli; ma quelli che cercava non c'erano. Dopo aver atteso a lungo usci arrossendo. Reprimendo tenacemente dentro di sé non so quale involontario sentimento, egli tentava con ostinazione e con sforzo di mutare il corso dei propri pensieri. Riflettendo sulle sue faccende quotidiane, si sovvenne che era ora di pranzare e, accorgendosi di avere veramente fame, entrò in quella stessa trattoria dove aveva pranzato il giorno prima. Più tardi non ricordava nemmeno come ne fosse uscito. Errò a lungo e inconsapevolmente per le vie, passando per vicoli affollati e solitari, e, infine, capitò in un angolo remoto dove ormai non c'era più la città e si stendeva un prato ingiallito; si riscosse colpito dalla sensazione nuova, a lui da tanto tempo sconosciuta, che provocava in lui il silenzio assoluto. Era una giornata secca e gelida, come non di rado accade a Pietroburgo in ottobre. Poco lontano sorgeva una casupola; accanto ad essa c'erano due cumuli di fieno; un piccolo cavallo dalle costole sporgenti era ritto senza finimenti, con la testa abbassata e il labbro pendente, accanto a un calesse a due ruote, come se stesse meditando. Un cane da cortile accanto a una ruota rotta rosicchiava ringhiando un osso, mentre un bambino di tre anni coperto soltanto di una camiciola, grattandosi la testa bianca e lanuginosa, guardava meravigliato il solitario intruso cittadino. Dietro la casupola si stendevano orti e campi. Lungo l'estremità del cielo azzurro nereggiava il bosco, mentre dal lato opposto avanzavano nel cielo nivee nubi arruffate, come cacciando davanti a sé uno stormo di uccelli di passo che, senza grida, in fila l'uno dietro l'altro, attraversavano il cielo. Tutto era silenzioso e, per così dire, solennemente malinconico, pieno di un'attesa palpitante e nascosta... Ordynov si sarebbe inoltrato sempre più nei campi, ma quel deserto lo opprimeva. Tornò sui suoi passi, verso la città dalla quale improvvisamente risuonò un fitto suono di campane che chiamavano i fedeli alla funzione serale. Egli affrettò i passi e poco dopo entrò nuovamente nel tempio che conosceva così bene dal giorno precedente.
La sua sconosciuta era già lì.
Era inginocchiata proprio vicino all'ingresso in mezzo alla folla dei fedeli in preghiera.
Ordynov si fece strada attraverso la folta folla di mendicanti, di vecchiette coperte di stracci, di malati e di storpi in attesa delle elemosine presso le porte del tempio, e si inginocchiò accanto alla sconosciuta. Il suo abito sfiorava la veste di lei ed egli udiva il respiro affannoso che usciva dalle sue labbra che mormoravano una fervida preghiera. I tratti del suo viso erano sempre animati da un sentimento di infinita devozione e di nuovo le lacrime scorrevano e si seccavano sulle sue guance ardenti, come a lavare qualche orrendo delitto. Nel luogo dove si trovavano regnava una perfetta oscurità e solo a tratti la fioca fiammella di una lampada votiva agitata dal vento che penetrava attraverso un'angusta finestrella aperta illuminava di un chiarore tremolante il volto di lei, ogni 23
lineamento del quale si scolpiva nella memoria del giovane offuscandogli la vista e lacerandogli il cuore con una pena sorda e intollerabile. Ma in quella sofferenza era racchiusa una sorta di frenetica ebbrezza. Alla fine egli non riuscì più a resistere; tutto il suo petto cominciò a un tratto a sussultare e a spasimare in uno slancio di ignota tenerezza ed egli, scoppiando in singhiozzi, si prosternò fino a toccare con la fronte infuocata il freddo piancito di legno della chiesa. Non udiva e non sentiva nulla all'infuori della fitta che gli serrava il cuore palpitante di dolci spasimi.
Era stata la solitudine a sviluppare quell'esasperata impressionabilità, inerme e indifesa, del suo sentimento? O era stato nell'esasperante, soffocante, disperato silenzio delle lunghe notti insonni, che si era preparata tra gli slanci inconsapevoli e gli impazienti sussulti dell'animo, questa condizione esplosiva del cuore, pronta, infine, a saltare in aria, oppure ad effondersi? Ad essa doveva accadere come quando, improvvisamente, in un giorno torrido e afoso tutto il cielo d'un tratto si oscura e un temporale inonda d'acqua e di fuoco la terra assetata appendendo perle di pioggia ai rami smeraldini, gualcendo l'erba, i campi, abbattendo a terra le tenere corolle dei fiori, acciocché, poi, ai primi raggi del sole, tutto di nuovo riprenda vita e slancio sollevandosi incontro ad esso ed esalando solennemente al cielo il suo sontuoso, dolce incenso, gioendo e rallegrandosi della propria vita rinnovata... Ma Ordynov non sarebbe stato neppure in grado in quel momento di pensare a ciò che stava avvenendo in lui: a stento egli aveva coscienza di sé...
Egli quasi non si accorse che la funzione era terminata e ritornò in sé solo mentre si faceva strada seguendo la sua sconosciuta attraverso la folla che faceva ressa alla porta. A tratti egli incontrava il suo sguardo stupito e luminoso. Arrestandosi ogni momento a causa della gente che stava uscendo, ella si voltò ripetutamente verso di lui; si vedeva come il suo stupore aumentasse sempre più e, d'un tratto, ella arrossì tutta come illuminata da una vampata. In quell'istante, all'improvviso, spuntò dalla folla il vecchio del giorno prima e la prese per mano. Ordynov incontrò di nuovo il suo sguardo irritato e beffardo e una strana rabbia improvvisamente invase il suo cuore.
Alla fine egli li perse di vista nell'oscurità; allora, con uno sforzo sovrumano, si gettò in avanti ed uscì dalla chiesa. Ma la fresca aria della sera non ebbe il potere di rinfrescarlo: il respiro gli rimaneva imprigionato e compresso nel petto e il cuore prese a battergli lentamente e violentemente, come se volesse balzargli fuori dal petto. Alla fine si rese conto di aver veramente perduto di vista i suoi sconosciuti; di essi ormai non c'era più traccia né nella via, né nel vicolo.
Nella testa di Ordynov, però, era già apparso un pensiero, aveva già preso forma uno di quei piani strani e risolutivi, che, benché pazzeschi, in compenso quasi sempre riescono e vanno a segno in simili casi; il giorno successivo, alle otto del mattino, egli raggiunse quella casa dalla parte del vicolo ed entrò nell'angusto, sudicio e fangoso cortile posteriore, una specie di immondezzaio. Il custode, che era intento a fare non so che cosa nel cortile, si fermò, appoggiò il mento sul manico della pala, squadrò Ordynov dalla testa ai piedi e gli chiese che cosa volesse.
Il custode era un giovanotto di circa venticinque anni con un volto straordinariamente vecchio e grinzoso, piccolo di statura, un tartaro.
«Cerco alloggio», rispose con impazienza Ordynov.
«Di che genere?», domandò il custode con un sogghigno. Guardava Ordynov come se fosse al corrente di tutta la sua faccenda.
«Una camera in subaffitto», rispose Ordynov.
«Nell'altro cortile non ce ne sono», rispose enigmaticamente il custode.
«E qui?».
«Qui neppure». E a questo punto il custode diede di nuovo di piglio alla pala.
«Forse qualcuno me l'affitterà», disse Ordynov porgendo al custode una moneta da dieci copeche.
Il tartaro lanciò un'occhiata a Ordynov, prese la moneta, poi diede di nuovo di piglio alla pala e dopo un attimo di silenzio dichiarò che «no, niente alloggio». Ma il giovane non lo stava più ascoltando e si era incamminato sulle assi putride e traballanti gettate sopra la pozzanghera verso l'unico ingresso che dall'ala della casa dava su questo cortile, un ingresso nero, sudicio, fangoso che sembrava annegare nella pozzanghera. Al piano inferiore era installato un povero fabbricante di 24
bare. Dopo esser passato accanto alla sua pittoresca bottega, Ordynov salì al piano superiore per una scala a chiocciola mezza rotta e scivolosa, tastò nel buio una spessa e rozza porta ricoperta di stuoie lacere, trovò la maniglia e la socchiuse. Non si era sbagliato. Davanti a lui era ritto il vecchio che conosceva, il quale lo fissava intento e con estremo stupore.
«Che vuoi?», gli domandò parlando a scatti e quasi sussurrando.
«Ci sarebbe un alloggio? ... », domandò a sua volta Ordynov, quasi dimentico di tutto quello che voleva dire. Dietro le spalle del vecchio aveva scorto la sua sconosciuta.
Il vecchio senza rispondere cominciò a richiudere la porta spingendo fuori Ordynov.
«L'alloggio c'è», risuonò d'improvviso la carezzevole voce della giovane donna.
Il vecchio lasciò la porta.
«Mi occorre un angolo», disse Ordynov, entrando in fretta nella stanza e rivolgendosi alla bella giovane.
Ma subito si arrestò sbalordito, come inchiodato a terra, guardando i suoi futuri padroni di casa; sotto i suoi occhi si stava svolgendo una straordinaria scena muta. Il vecchio era pallido come un morto, come se stesse per perdere i sensi. Egli fissava la donna con uno sguardo plumbeo, immobile, penetrante. Anche lei dapprima impallidì, ma poi tutto il sangue le affluì al viso e i suoi occhi scintillarono stranamente. Ella condusse Ordynov nello stambugio adiacente.
Tutto l'appartamento consisteva di un'unica stanza abbastanza ampia, suddivisa in tre parti per mezzo di due divisori; dall'andito si entrava direttamente in un angusto e buio corridoio, in faccia una porta dava oltre il divisorio in quella che, evidentemente, doveva essere la stanza da letto dei padroni. A destra, attraverso il corridoio, si accedeva a una stanza che veniva data in affitto.
Questa era stretta, schiacciata dal divisorio contro due basse finestre. Tutto lo spazio era occupato e ingombrato dagli oggetti indispensabili a ogni soggiorno; tutto era povero, angusto, ma, nella misura del possibile, pulito. Il mobilio era composto da un semplice tavolo bianco, da due semplici sedie e da una cassapanca lungo due delle pareti. Una grande icona antica con una corona dorata era appoggiata su una mensola in un angolo e davanti a essa ardeva una lampada. Nella camera che veniva affittata e, in parte, nel corridoio, si ergeva un'enorme, goffa stufa russa. Era chiaro che in un appartamento del genere era impossibile vivere in tre.
Si misero a prendere gli accordi, ma in maniera sconclusionata e comprendendosi a stento.
Ordynov a due passi di distanza sentiva come batteva il suo cuore; egli vedeva come lei tremasse tutta per l'agitazione e come di paura. Finalmente riuscirono in qualche modo a mettersi d'accordo.
Il giovane dichiarò che avrebbe subito traslocato e guardò il padrone di casa. Il vecchio era ritto sulla porta sempre pallido; ma un sorriso quieto, persino pensieroso, spuntava sulle sue labbra.
Incontrando lo sguardo di Ordynov egli aggrottò nuovamente le ciglia.
«Hai il passaporto?», domandò improvvisamente parlando a scatti e ad alta voce mentre gli apriva la porta che dava sull'andito.
«Sì!», rispose Ordynov, leggermente sconcertato.
«Chi sei, tu?».
«Vasìlij Ordynov, nobile, non sono in servizio, mi occupo di faccende mie», rispose facendo il verso al vecchio.
«E io pure», rispose il vecchio. «Io sono Il'jà Murin, borghese; ti basta? Vattene ... ».
Un'ora dopo Ordynov si trovava già nel suo nuovo alloggio, con grande sorpresa sua e del tedesco, il quale, assieme alla mite Tinchen, cominciava ormai a sospettare che l'inquilino che gli era capitato lo avesse ingannato. Ordynov stesso non riusciva a capire come tutto ciò fosse avvenuto, e neppure voleva capirlo...
II
Il suo cuore batteva così forte che gli si oscurava la vista e gli girava la testa.
Macchinalmente si mise a sistemare nel nuovo alloggio i suoi poveri averi, slegò il fagotto che conteneva svariate cose indispensabili, aprì il baule coi libri e cominciò a disporli sul tavolo; ma 25
presto gli caddero le braccia. Ogni momento gli balenava davanti agli occhi l'immagine della donna, l'incontro con la quale aveva sconvolto e scosso tutta la sua esistenza, l'immagine che riempiva il suo cuore di una tale incontenibile, spasmodica estasi: tanta felicità aveva fatto irruzione di colpo nella sua squallida esistenza, che i suoi pensieri si confondevano e gli mancava il fiato per l'angoscia e il turbamento. Nella speranza di vederla, prese il suo passaporto e lo portò al padrone di casa, ma Murin socchiuse appena la porta, prese il documento, gli disse: «Bene, vivi in pace», e si rinchiuse nuovamente nella sua camera. Un sentimento sgradevole invase Ordynov. Non sapeva perché, ma la vista di quel vecchio gli era divenuta odiosa. Nel suo sguardo c'era qualcosa di sprezzante e di astioso. Ma quella sensazione spiacevole ben presto si dissolse. Era ormai il terzo giorno che Ordynov viveva in una sorta di turbine in confronto alla quiete della sua vita antecedente; ma non era in grado di riflettere e ne aveva anzi paura. Tutta la sua esistenza era uscita dai binari ed era stata messa sottosopra; avvertiva sordamente che tutta la sua vita era come spaccata in due; un'unica aspirazione, un'unica attesa lo dominavano e nessun altro pensiero lo turbava.
Perplesso tornò nella sua stanza. Lì, accanto alla stufa, sulla quale si cucinava, era affaccendata una vecchietta minuscola e tutta curva, così sudicia e coperta di stracci così ripugnanti che metteva pena a guardarla. Aveva un'aria assai rabbiosa e, a tratti, brontolava biascicando con le labbra sotto il naso. Era la domestica dei padroni. Ordynov tentò di attaccar discorso con lei, ma ella rimase muta, evidentemente perché maldisposta. Venne infine l'ora di pranzo; la vecchia tolse dalla stufa gli sc i, dei pirogì e della carne di manzo e portò tutto ai padroni. Le stesse cose servì a Ordynov. Terminato il pranzo, nell'appartamento scese un silenzio di morte.
Ordynov prese in mano un libro e lo sfogliò a lungo cercando di afferrare il significato di quello che aveva già riletto varie volte. Spazientito gettò il libro e provò di nuovo a mettersi a riordinare le sue cose; infine prese il berretto, indossò il mantello e uscì in strada. Camminando a caso, senza badare a dove andava, si sforzava continuamente, per quanto gli era possibile, di concentrarsi, di rimettere ordine tra i suoi pensieri frammentari e di riflettere un po' sulla sua situazione. Ma quello sforzo si tramutava per lui in una sofferenza, in una tortura. Alternatamente era preso da brividi di freddo e da vampate di calore e, a tratti, il cuore cominciava a battergli così forte che era costretto a fermarsi e ad appoggiarsi al muro. «No, meglio la morte», pensava, «meglio la morte», mormorava con labbra ardenti e tremanti, senza rendersi conto di quel che diceva.
Camminò assai a lungo; infine, accorgendosi di essersi inzuppato fino alle ossa e avvedendosi per la prima volta che stava piovendo a dirotto, si diresse verso casa. Non lontano da casa scorse il custode. Gli parve che il tartaro lo fissasse per qualche istante intensamente e con curiosità e poi, accorgendosi di essere stato visto, riprendesse per la sua strada.
«Salve», disse Ordynov raggiungendolo. «Come ti chiami?». «Mi chiamo custode», rispose questi sogghignando.
«Fai il custode qui da molto tempo?».
«Sì, da molto tempo».
«Il mio padrone di casa è un borghese?». «Sarà un borghese, se ha detto così».
«Che cosa fa?».
«È malato; campa, prega Dio, ecco cosa fa». «Lei è sua moglie?».
«Quale moglie?».
«Quella che vive con lui».
«Sarà sua moglie, se ha detto così. Addio signore».
Il tartaro si toccò il colbacco ed entrò nel suo stambugio.
Ordynov salì nel suo alloggio. La vecchia biascicando e brontolando qualcosa tra di sé gli aprì la porta, la richiuse col chiavistello e poi si arrampicò di nuovo sulla stufa dove trascorreva quel che le restava della sua vita. Calava ormai il crepuscolo. Ordynov andò a cercare del fuoco e si avvide che la porta della stanza dei suoi padroni era chiusa con un lucchetto. Chiamò la vecchia la quale, appoggiandosi su un gomito, lo osservava dalla stufa con sguardo vigile, chiedendosi, pareva, cosa andasse mai cercando vicino alla porta dei padroni. Questa, in silenzio, gli gettò giù un 26
pacchetto di fiammiferi. Egli ritornò nella sua stanza e si mise di nuovo, per la centesima volta, a riordinare le sue cose e i suoi libri. Ma, a poco a poco, senza rendersi ben conto di quello che faceva, si lasciò andare su una delle panche e gli parve di addormentarsi. A tratti egli ritornava in sé e intuiva che in realtà il suo non era un vero sonno, ma una sorta di penoso, morboso torpore. Udì aprirsi e sbattere la porta e capì che i suoi padroni erano ritornati dalla funzione serale. Allora gli venne in mente che bisognava che si recasse da loro per qualche motivo. Si alzò, e gli parve di avviarsi da loro, ma inciampò e cadde sopra un mucchio di legna che la vecchia aveva raccolto in mezzo alla camera. A questo punto perse del tutto conoscenza e, quando riaprì gli occhi dopo lungo tempo, si avvide con stupore di essere sdraiato sulla stessa panca nella stessa posizione In cui era prima, vestito, e che sopra di lui, con tenera premura, era chino un volto di donna, stupendamente bello e tutto bagnato, gli parve, di silenziose lacrime materne. Sentì che gli mettevano un cuscino sotto la testa, che gli mettevano addosso qualcosa di caldo e che una tenera mano si posava sulla sua fronte ardente. Avrebbe voluto esprimere la sua riconoscenza, avrebbe voluto prendere quella mano, accostarla alle labbra riarse, bagnarla di lacrime e baciarla, baciarla per un'intera eternità.
Avrebbe voluto dire tante cose, ma che cosa, egli stesso non lo sapeva; provò il desiderio di morire in quell'istante. Ma le sue mani erano come di piombo e non riusciva a muoverle; era tutto come intorpidito e avvertiva soltanto il sangue scorrere veloce attraverso tutte le sue vene come sollevandolo al di sopra del letto. Qualcuno gli diede da bere dell'acqua... Alla fine cadde in deliquio.
Si svegliò il mattino successivo verso le otto. Il sole gettava un fascio di raggi dorati attraverso le finestre verdi e ammuffite della sua camera; un ignoto sentimento di gioia pervadeva dolcemente tutte le membra del malato. Egli era tranquillo e quieto, infinitamente felice. Gli pareva che ci fosse qualcuno accanto al suo capezzale. Si risvegliò cercando con sollecitudine attorno a sé quell'essere invisibile; avrebbe voluto abbracciare quella persona amica e dirle per la prima volta in vita sua: «Salve, buon giorno a te, cara».
«Come dormi a lungo!», disse una dolce voce femminile.
Ordynov aprì gli occhi e su di lui si chinò con un sorriso cordiale e luminoso come il sole il volto della sua bella padrona di casa.
«Quanto a lungo sei stato malato», diceva, «ora basta, alzati; perché rimani lì come in prigione? La libertà è più dolce del pane e più bella del sole! Alzati, colombo mio, alzati».
Ordynov afferrò e strinse forte la sua mano. Gli pareva di stare ancora sognando.
«Aspetta, ti ho preparato il tè; vuoi del tè? Prendilo, ti farà bene. Anch'io sono stata malata e lo so».
«Sì, dammi da bere», disse Ordynov con voce debole e si alzò in piedi. Era ancora molto stanco. I brividi gli correvano per la schiena e gli facevano male tutte le membra come se fossero state rotte. Ma nel suo cuore c'era una sensazione luminosa e gli pareva che i raggi del sole gli infondessero una gioia chiara e solenne. Sentiva che per lui era cominciata una vita nuova, forte, mai immaginata prima. Cominciò a girargli lievemente la testa.
«Ti chiami Vasìlij, non è vero?», gli chiese lei. «Se non ho sentito male, il padrone ti ha chiamato così ieri».
«Sì, Vasìlij. E tu come ti chiami?», chiese Ordynov, avvicinandosi a lei reggendosi in piedi a malapena. Egli barcollò. Lei lo afferrò per le mani scoppiando a ridere.
«Io mi chiamo Katerina», replicò, fissandolo con i suoi grandi e limpidi occhi azzurri. Si tenevano a vicenda per le mani.
«Mi vuoi dire qualcosa?», proferì lei finalmente.
«Non lo so», rispose Ordynov mentre la vista gli si annebbiava.
«Guarda in che stato sei. Basta, colombo mio, basta; non darti pena, non sforzarti; siediti qui a tavola, al sole; stattene lì tranquillo e non venirmi dietro», aggiunse lei vedendo che il giovane faceva un movimento quasi volesse trattenerla, «verrò io da te tra un istante; avrai tempo di guardarmi a sazietà». Un attimo dopo ella portò il tè, lo depose sulla tavola e si sedette dirimpetto a lui.
27
«Ecco, bevi», disse. «Ti fa male la testa?».
«No, adesso non mi fa male», rispose lui. «Non so, però, forse mi fa anche male... non voglio... basta, basta!... Non so che cos'ho», proseguì ansimando e riuscendo, infine, a prenderle la mano, «resta qui, non allontanarti da me; dammi, dammi ancora la tua mano... Mi si annebbia la vista; quando ti guardo è come se guardassi il sole», disse lui come se si strappasse dal cuore ogni parola, col fiato mozzato dall'emozione con la quale le pronunciava. I singhiozzi gli serravano la gola.
«Poverino! Si vede che non hai avuto accanto a te una persona buona. Sei solo e abbandonato; non hai parenti?».
«Non ho nessuno; sono solo... ma non fa niente, pazienza! Ora sto meglio... ora sto bene!», disse Ordynov come nel delirio. Gli sembrava che la stanza gli girasse attorno.
«Anch'io per molti anni non ho visto nessuno. Mi guardi in una maniera tale ... », proferì lei dopo un attimo di silenzio.
«Perché? Come?».
«Come se i miei occhi ti riscaldassero! Sai quando si ama qualcuno... Sin dalle tue prime parole ti ho accolto nel mio cuore. Se ti ammalerai ancora ti curerò. Ma tu cerca di non ammalarti, no. Quando ti rimetterai vivremo come fratello e sorella. Vuoi? È difficile, si sa, procurarsi una sorella, se Dio non te ne ha dato una per nascita».
«Chi sei? Di dove vieni?», domandò Ordynov con un fil di voce.
«Non sono di qui... che t'importa? Sai, raccontano che dodici fratelli vivevano in una buia foresta e che in quella foresta si smarrì un giorno una bella fanciulla. Essa entrò nella loro casa e rassettò ogni loro cosa, prodigando a tutti il proprio amore. Tornarono a casa i fratelli e si accorsero che quel giorno era stata loro ospite una sorella. Si misero allora a chiamarla ed ella si mostrò loro.
Tutti la trattarono come una sorella, le diedero la libertà e la trattarono come una loro pari. La conosci la favola?».
«La conosco», mormorò Ordynov.
«La vita è bella; ti piace stare a questo mondo?».
«Sì, sì; vorrei vivere un secolo, vorrei vivere a lungo», rispose Ordynov.
«Non so», replicò pensierosamente Katerina, «Io desidererei anche morire. È una cosa buona amare la vita, amare le persone buone, sì... Guardati, sei diventato di nuovo bianco come la farina!».
«Sì, mi gira la testa ... ».
«Aspetta, ti porterò qui le mie lenzuola e le mie coperte e un cuscino, un altro; ti preparerò il letto qui. Ti addormenterai, sognerai di me e il male se ne andrà. Anche la nostra vecchia è ammalata ... ».
Ella continuò a parlare mentre preparava il letto, ogni tanto voltandosi a guardare con un sorriso Ordynov al di sopra della spalla.
«Quanti libri hai!», esclamò spostando la cassa.
Ella gli si avvicinò, gli prese la mano destra, lo condusse al letto, lo fece coricare e lo ricoprì con la coperta.
«Dicono che i libri guastino l'uomo», aggiunse poi pensierosa scuotendo la testa. «Ti piace leggere quel che c'è scritto nei libri?».
«Sì», rispose Ordynov senza rendersi conto se stesse sognando oppure no e stringendo più forte la mano di Katerina per convincersi che non stava sognando.
«Il mio padrone ha molti libri, vedessi quali! Dice che sono libri divini. Mi legge sempre qualcosa. Poi te li mostrerò; mi spiegherai poi che cosa mi legge?».
«Te lo spiegherò», sussurrò Ordynov senza staccare lo sguardo da lei.
«Ti piace pregare?», gli domandò lei dopo un momento di silenzio. «Sai una cosa? Io ho sempre paura, ho sempre paura...».
Ella non terminò la frase, sembrava che stesse riflettendo su qualche cosa. Ordynov, finalmente, si portò la mano di lei alle labbra.
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«Perché baci la mia mano?». (E le sue gote arrossirono leggermente). «Ecco, baciala», proseguì ridendo e porgendogli entrambe le mani; poi ne liberò una e la accostò alla sua fronte ardente cominciando poi a lisciargli e ad accarezzargli i capelli. Ella arrossiva sempre più; infine si sedette sul pavimento accanto al suo letto e appoggiò la sua guancia contro la guancia di lui; il suo respiro tiepido e umido gli sfiorava il viso... Improvvisamente Ordynov sentì che lacrime ardenti sgorgavano copiosamente dagli occhi di lei e cadevano come gocce di piombo fuso sulle sue guance. Egli si sentiva sempre più debole e non era già più in grado di sollevare la mano. In quell'istante si udì bussare alla porta e il rumore del chiavistello. Ordynov sentì anche il padrone di casa entrare nella stanza al di là del divisorio. Egli sentì poi che Katerina si alzava, senza fretta e senza scomporsi, e prendeva i propri libri; la sentì poi fargli il segno della croce prima di andarsene e chiuse gli occhi. D'improvviso un ardente, lungo bacio si posò sulle sue labbra riarse e fu come se gli avessero piantato un coltello nel cuore. Emise un debole grido e perse i sensi...
Ebbe poi inizio per lui una strana vita.
A tratti, in qualche attimo di confusa consapevolezza, balenava nella sua mente l'idea di essere condannato a vivere in una sorta di lungo, interminabile sogno, pieno di strane e sterili inquietudini, di lotta e di sofferenze. Atterrito si sforzava di insorgere contro l'esiziale fatalismo che lo opprimeva, ma nel momento in cui la lotta era più tesa e disperata una forza sconosciuta si abbatteva di nuovo su di lui ed egli sentiva, avvertiva chiaramente che perdeva di nuovo la conoscenza, che di nuovo un invalicabile, sterminato abisso di tenebre si spalancava davanti a lui ed egli vi sprofondava con un lamento di angoscia e di disperazione. A volte sopravvenivano fulminei istanti di intollerabile, annichilante felicità, quando la vitalità si intensifica fino allo spasimo in ogni componente dell'uomo, si fa chiaro il passato, risuona di una trionfale gaiezza il luminoso attimo presente e si sogna a occhi aperti l'ignoto avvenire; quando una speranza inesprimibile cade sull'anima come una rugiada vivificatrice; quando si prova il desiderio di gridare per la gioia; si sente che la carne non può resistere a un tale impeto di impressioni e che si spezza il filo dell'esistenza, e quando, nello stesso tempo, ci si rallegra con la propria vita per il suo rinnovamento e la sua resurrezione. A tratti invece ricadeva nel sopore e allora tutto quello che gli era accaduto negli ultimi giorni si ripeteva di nuovo e passava attraverso la sua mente come uno sciame di impressioni confuso e tumultuante; ma quella visione gli si presentava con un aspetto strano ed enigmatico. Certe volte il malato si dimenticava di quello che gli era accaduto e si meravigliava di non trovarsi ancora nel vecchio appartamento, presso la sua vecchia padrona di casa. Egli si meravigliava che la vecchietta non si avvicinasse, come era sempre solita fare all'ora del crepuscolo, alla stufa che si spegneva che, a tratti, inondava d'intermittenti bagliori tutto l'angolo oscuro della stanza, e non si scaldasse, secondo la sua abitudine, le mani ossute e tremolanti alla fiamma morente, sempre chiacchierando e borbottando tra sé e sé e solo di rado gettando uno sguardo perplesso su di lui, su quel suo strambo pigionante che riteneva uscito di senno per esser rimasto troppo a lungo chino sul libri. Altre volte ricordava di aver cambiato alloggio, ma come ciò fosse avvenuto, che cosa gli fosse accaduto e perché avesse dovuto traslocare lo ignorava, sebbene tutto il suo spirito venisse meno per l'incessante, incontrollabile slancio verso qualcosa... Ma verso che cosa? Che cosa lo chiamava e lo tormentava e chi aveva gettato in lui quell'insostenibile fiamma che soffocava e divorava tutto il suo sangue? Neppure questo lo sapeva né lo ricordava.
Spesso egli cercava avidamente di afferrare con le mani qualche ombra, spesso gli pareva di udire un fruscio di passi vicini e lievi accanto al suo letto e un mormorio, dolce come una musica, di parole carezzevoli pronunciate da qualcuno; il respiro di qualcuno, umido e affannoso, sfiorava il suo volto e tutto il suo essere era scosso dall'amore; le lacrime ardenti di qualcuno bruciavano le sue gote fiammeggianti e, all'improvviso, un bacio lungo e tenero si imprimeva sulle sue labbra; allora la sua vita si struggeva in un tormento inestinguibile; pareva che tutto l'essere, che tutto l'universo, si arrestasse per interi secoli attorno a lui e che una lunga, millenaria notte si stendesse su tutto...
Talvolta era come se fossero ritornati per lui i teneri, placidi anni della prima infanzia, con la loro luminosa allegria, con la loro inestinguibile felicità, con il primo, voluttuoso stupore davanti alla vita, con gli sciami di spiritelli luminosi che volavano fuori da sotto ogni fiore che coglieva, che 29
giocavano con lui sul verde e folto prato davanti alla casetta circondata dalle acacie, che gli sorridevano dal lago di cristallo che si stendeva a perdita d'occhio, sulla riva del quale egli rimaneva seduto per ore intere ad ascoltare il rumore delle onde e il frullare delle ali attorno a lui, che amorosamente cullavano con sogni luminosi, iridescenti, la sua piccola culla, quando sua madre, chinandosi su di essa, gli faceva il segno della croce, lo baciava e gli cantava piano-piano una ninna-nanna nelle lunghe, placide notti. Ma a questo punto, all'improvviso, appariva un essere che lo turbava incutendogli un terrore non infantile, infondendo nella sua vita il primo, lento veleno del dolore e delle lacrime; egli avvertiva confusamente che l'ignoto vecchio reggeva nelle sue mani tutti i suoi anni a venire, e, tremante, non riusciva a distogliere gli occhi da lui. Il malvagio vecchio lo seguiva ovunque. Spuntava facendogli cenni ingannevoli da ogni cespuglio del bosco, lo derideva e lo beffeggiava, si incarnava in ogni pupazzo del bambino, facendogli smorfie e sghignazzando tra le sue mani come un malvagio, perfido gnomo; aizzava contro di lui ciascuno dei suoi spietati compagni di scuola, oppure, sedendosi con i bimbi sulla panca della scuola, faceva capolino da sotto ogni lettera della sua grammatica facendogli sberleffi. Poi, quando dormiva, il vecchio malvagio si sedeva al suo capezzale... Egli aveva scacciato lo sciame degli spiritelli luminosi che facevano frullare le loro ali dorate e di zaffiro attorno alla sua culla, gli aveva portato via per sempre la sua povera madre, e, per notti intere, aveva cominciato a sussurrargli una lunga, straordinaria favola, incomprensibile per il suo cuore di fanciullo, ma che lo straziava e lo sconvolgeva incutendogli un terrore e una tensione non infantili. Ma il vecchio malvagio non badava ai suoi singhiozzi e alle sue preghiere e continuava a parlargli finché egli non cadeva nel torpore e non smarriva i sensi. Poi il bimbo si risvegliava improvvisamente uomo; anni interi erano passati sopra di lui inavvertitamente. D'un tratto egli prendeva coscienza della sua reale situazione, d'un tratto cominciava a capire di essere solo ed estraneo a tutto il mondo, solo in casa altrui, fra gente misteriosa e sospetta, fra nemici che di continuo si radunavano a confabulare negli angoli della sua buia stanza, facendo cenno alla vecchia che, accoccolata accanto al fuoco, si riscaldava le mani vecchie e decrepite indicandolo. Egli cadeva in uno stato di confusione e di allarme; avrebbe continuamente voluto scoprire chi fosse quella gente, per quale motivo essi fossero lì, perché lui stesso si trovasse in quella stanza, e indovinava di essere capitato in qualche oscuro covo di malfattori, attratto da una forza potente e sconosciuta, senza aver capito prima chi e quali fossero gli inquilini e chi fossero esattamente i suoi padroni di casa. Cominciava a torturarlo il sospetto e, improvvisamente, nell'oscurità della notte, ricominciava la bisbigliante, interminabile favola, e la raccontava piano, con voce quasi impercettibile, fra di sé, una vecchia sconosciuta, dondolando malinconicamente la testa canuta davanti al fuoco morente. Ma - e il terrore lo afferrava di nuovo -
la fiaba prendeva corpo davanti a lui in volti e forme. Vedeva come tutto, cominciando dai confusi sogni infantili, tutti i suoi pensieri e le sue aspirazioni, tutto ciò che aveva vissuto nel corso della sua vita, tutto ciò che aveva letto nel libri, tutto ciò di cui da lungo tempo si era dimenticato, tutto si animava, si ricomponeva, si incarnava, sorgeva davanti a lui in forme e immagini colossali, muovendosi e sciamando attorno a lui; vedeva stendersi davanti a lui magici, lussureggianti giardini, sorgere e crollare sotto i suoi occhi intere città, interi cimiteri mandargli i loro morti che ritornavano a vivere, stirpi e popoli interi giungere, nascere e perire sotto i suoi occhi, vedeva infine, ora, ogni suo pensiero, ogni sua vaga fantasticheria prendere corpo intorno al suo letto di dolore quasi nell'istante stesso in cui veniva concepita; come, infine, egli non pensava con idee incorporee, ma con interi mondi, con interi creati; come veniva trasportato simile a un granello di polvere attraverso tutto quello sconfinato, strano, interminabile mondo e come tutta quella vita lo schiacciasse, lo opprimesse con la sua tumultuosa indipendenza, e lo perseguitasse con la sua eterna, infinita ironia; egli si sentiva morire, disintegrarsi in polvere e in cenere, senza resurrezione, nel secoli dei secoli; avrebbe voluto fuggire, ma non vi era angolo al mondo dove potesse rifugiarsi.
Infine, in un accesso di disperazione, egli raccolse tutte le sue forze, lanciò un grido e si risvegliò...
Era tutto inondato di freddo, gelido sudore. Attorno a lui regnava un silenzio di morte; era notte fonda. Ma gli sembrava ancora che da qualche parte continuasse la sua straordinaria favola, che la voce stridula di qualcuno realmente incominciasse un lungo racconto su un argomento che gli 30
pareva familiare. Sentiva narrare di oscure foreste, di certi arditi briganti, di un certo giovane audace, forse addirittura di Sten'ka Razin in persona, degli allegri alatori ubriaconi, di una bella fanciulla e della madre Volga. Non era dunque una favola? Sentiva davvero tutto ciò nella realtà?
Per un'ora intera egli rimase disteso, con gli occhi aperti, senza muovere neppure un dito, immerso in un penoso torpore. Infine si alzò con cautela e con gioia avvertì in sé il vigore che la grave malattia non aveva esaurito. Il delirio era passato, ricominciava la realtà. Si accorse di essere ancora vestito come durante il colloquio con Katerina e che, di conseguenza, non era passato molto tempo da quella mattina in cui ella lo aveva lasciato. Il fuoco della decisione gli corse per le vene.
Macchinalmente cercò con le mani il grande chiodo piantato chissà a quale scopo in alto nel divisorio a ridosso del quale gli avevano preparato il letto, si afferrò ad esso e in qualche modo si sollevò fino alla fessura dalla quale filtrava nella sua stanza un quasi impercettibile raggio di luce.
Avvicinò l'occhio all'apertura e si mise a guardare trattenendo il fiato per l'agitazione.
Nell'angolo del bugigattolo dei padroni c'era un letto, davanti al letto un tavolo coperto da un tappeto e ingombro di libri antichi, di grande formato, con rilegature che assomigliavano a quelle dei libri di chiesa. In un altro angolo c'era una icona, anch'essa antica come quella che stava nella sua camera, davanti a cui ardeva una lampada. Sul letto giaceva il vecchio Murin, ammalato, spossato dalle sofferenze, pallido come un cencio, avviluppato in una coltre di pelliccia. Sulle sue ginocchia c'era un libro aperto. Sulla panca accanto al letto era coricata Katerina con un braccio sul petto del vecchio e la testa posata sulla sua spalla. Ella lo guardava con occhi intenti, colmi di infantile stupore, e sembrava che ascoltasse ciò che le raccontava Murin con intensa curiosità, trepidando per l'attesa. A tratti la voce del narratore si innalzava, l'animazione si rifletteva sul suo volto pallido, egli aggrottava le ciglia, i suoi occhi scintillavano e Katerina pareva impallidire per la paura e la commozione. Allora qualcosa di simile a un sorriso appariva sul volto del vecchio e Katerina si metteva a ridere piano. A tratti nei suoi occhi spuntavano le lacrime e allora il vecchio le accarezzava dolcemente la testa come si fa con un bambino ed ella lo abbracciava più forte col suo braccio nudo, splendente come neve, abbandonandosi ancora più amorosamente sul suo petto. A tratti Ordynov pensava che tutto ciò fosse ancora un sogno, ne era anzi sicuro; ma il sangue gli salì alla testa e le vene delle tempie gli si gonfiarono pulsando dolorosamente. Lasciò andare il chiodo, si alzò dal letto e barcollando, brancolando come un sonnambulo, senza comprendere lui stesso l'impulso divampato come un incendio nel suo sangue, si accostò alla porta della stanza dei padroni e si gettò con forza contro di essa; il chiavistello arrugginito saltò via e di colpo con gran strepito e rumore egli si trovò nel bel mezzo della stanza da letto dei suoi padroni di casa. Egli vide Katerina trasalire e sussultare, e gli occhi del vecchio scintillare rabbiosamente sotto le sopracciglia aggrottate e l'ira improvvisamente sfigurargli il volto. Egli vide il vecchio cercare in fretta, a tentoni, senza distogliere gli occhi da lui, il fucile che era appeso alla parete e scintillare la bocca del fucile diretta con mano malferma, tremante per l'ira, diritto contro il suo petto... Echeggiò uno sparo, seguito da un urlo selvaggio, quasi disumano, e quando il fumo si diradò uno spettacolo orribile sconvolse Ordynov. Tremando tutto si chinò sul vecchio. Murin giaceva sul pavimento contorcendosi per gli spasimi, il suo volto era sfigurato dalla sofferenza e la schiuma spuntava sulle sue labbra contratte. Ordynov intuì che lo sventurato era in preda a un violentissimo attacco di mal caduco. Assieme a Katerina si precipitò a soccorrerlo...
III
Tutta la notte trascorse nell'agitazione. Il giorno successivo Ordynov uscì di casa la mattina presto, incurante della propria debolezza e della febbre che ancora non lo abbandonava. Nel cortile si imbatté di nuovo nel custode. Questa volta il tartaro sollevò il suo colbacco ancora da lontano e lo guardò con curiosità. Poi, come riscuotendosi, diede di nuovo di piglio alla scopa lanciando occhiate di traverso a Ordynov che si avvicinava lentamente.
«Be', non hai sentito niente questa notte?», domandò Ordynov.
«Ho sentito».
31
«Che uomo è quello? Chi è?».
«Tua affittato, tua sa; mia non c'entra».
«Ma vuoi parlare una buona volta!», urlò Ordynov fuori di sé, in preda a un accesso di morbosa irritazione.
«Ma mia cosa ha fatto? Tua colpa, tua spaventato inquilini. Sotto stava fabbricante di bare: è sordo, ma ha sentito tutto, e sua femmina anche lei sorda, ma ha sentito anche quella. E nell'altro cortile, anche se è lontano, anche sentito, ecco. Andrò dal sorvegliante».
«Ci andrò io», ribatté Ordynov e si avviò verso il portone.
«Fa' come vuoi; tua affittato... Signore, signore, fermati!».
Ordynov si voltò e il custode si toccò rispettosamente il colbacco.
«Be'?».
«Se ci vai, io andrò dal padrone».
«E allora?».
«Meglio cambia casa».
«Sei uno stupido», disse Ordynov e fece di nuovo per andarsene.
«Signore, signore, aspetta!», il tartaro si toccò di nuovo il colbacco e mostrò i denti.
«Ascolta signore: trattieni il cuore; perché perseguitare il povero? Perseguitare il povero è peccato. Dio non vuole, lo sai?».
«Stammi un po' a sentire, tu: ecco, prendi questo. Chi è, allora, quest'uomo?».
«Chi è?».
«Sì».
«Te lo dirò anche senza soldi».
Qui il custode riprese la scopa, diede due o tre spazzate e poi si arrestò guardando Ordynov attentamente e con sussiego.
«Tu sei un bravo signore. Ma se non vuoi vivere con uomo bravo, come vuoi; ecco come mia detto».
Qui il tartaro lo guardò con un'espressione ancora più significativa e, come stizzito, diede di nuovo di piglio alla scopa.
Finalmente, dando a divedere di aver terminato non so quale faccenda, con fare misterioso si accostò ad Ordynov e facendo un gesto assai espressivo disse:
«Lui, ecco che cosa!».
«Come? Cosa?».
«Cervello non c'è».
«Che cosa?».
«Volato via. Sì! Volato via!», ripeté il custode con aria ancor più misteriosa. «Lui malata.
Aveva barca, grande; due, tre, andavano su Volga; anche fabbrica aveva, ma bruciata e lui senza zucca».
«È pazzo?».
«No!... No ... !», replicò scandendo le sillabe il tartaro. «Non è pazza. Lui uomo intelligente.
Lui tutto sa, libri molti leggeva, leggeva, leggeva, sempre leggeva e agli altri verità diceva. Così una veniva: due rubli, tre rubli, quaranta rubli, e se non vuoi, come vuoi; libro guarda, vede e tutta verità dice. Ma moneta sul tavolo, subito sul tavolo: senza moneta, niente!».
Qui il tartaro, che si addentrava nelle faccende economiche di Murin con eccessiva partecipazione, scoppiò persino a ridere per la gioia.
«Ma cosa faceva? Faceva incantesimi, prediceva il futuro?».
«Mm ... », mugolò il custode facendo rapidamente cenno di no con la testa. «Lui verità diceva. Lui Dio pregava, molto pregava. Ma qualche volta così, gli viene».
Qui il tartaro fece di nuovo il suo gesto espressivo.
In quell'istante qualcuno dall'altro cortile chiamò il custode e subito dopo comparve un ometto ricurvo, canuto, che aveva indosso un tulùp. Egli camminava ansimando, inciampando, con 32
gli occhi fissi a terra, mormorando qualcosa fra sé. Si poteva pensare che fosse un po' fuori di testa per la vecchiaia.
«Padroni, padroni!», sussurrò in fretta il custode, facendo un rapido cenno di saluto con la testa a Ordynov, e strappatosi di testa il colbacco, si lanciò di corsa verso il vecchietto il cui volto era stranamente familiare a Ordynov; quanto meno lo doveva aver incontrato assai di recente.
Avendo riflettuto che, d'altronde, in ciò non c'era nulla di straordinario, egli uscì dal cortile. Il custode gli parve un furfante e un imbroglione di prima qualità. «Quel fannullone, sembrava stesse contrattando con me!», pensò, «Dio sa che cosa c'è sotto!».
Egli pronunciò queste parole quando era ormai nella strada.
A poco a poco fu assorbito da altri pensieri. Provava una sensazione sgradevole: era una giornata fredda e grigia e nell'aria volavano fiocchi di neve. Il giovane sentiva di nuovo i brividi cominciare a corrergli per le ossa; sentì anche che il terreno cominciava a ondeggiargli sotto i piedi.
All'improvviso una voce familiare gli augurò buon giorno con un tono tenorile sgradevolmente dolciastro e tremulo.
«Jaroslàv Il'ìè!», esclamò Ordynov.
Davanti a lui c'era un uomo energico e rubicondo dell'età apparente di trent'anni, basso di statura, con piccoli occhi grigi e acquosi, con un sorrisetto sulle labbra, abbigliato... come è sempre abbigliato Jaroslàv Il'ìè, e gli tendeva la mano nella maniera più affabile. Ordynov aveva fatto conoscenza con Jaroslàv Il'ìè esattamente un anno prima, del tutto casualmente, si può dire per la strada. Questo assai facile contatto era stato propiziato, oltre che dal caso, dalla inconsueta propensione di Jaroslàv Il'ìè a scovare ovunque persone buone, dabbene, colte, soprattutto, e degne, per lo meno per talento e per finezza di tratto, di appartenere alla migliore società. Sebbene Jaroslàv Il'ìè possedesse una voce di tenore straordinariamente dolce, tuttavia, perfino nella conversazione con i suoi amici più cari, nell'intonazione di essa trapelava qualcosa di straordinariamente luminoso, possente e imperioso, che non tollerava indugi, conseguenza, forse, dell'abitudine.
«Qual buon vento?», esclamò Jaroslàv Il'ìè con un tono che esprimeva la più sincera e più entusiastica gioia.
«Abito qui».
«Da molto?», continuò Jaroslàv Il'ìè, innalzando la voce su una nota sempre più alta. «E io non lo sapevo! Ma allora sono vostro vicino! Ora abito da queste parti. È ormai un mese che sono tornato dal governatorato di Rjazàn'. Vi ho acchiappato, mio vecchio e nobilissimo amico!». E
Jaroslàv Il'ìè scoppiò a ridere nella maniera più bonaria.
«Sergeev!», gridò con tono ispirato, «aspettami da Tarasov; bada che senza di me non tocchino i sacchi. E va' a chiamare il custode di Olsuf'ev; digli di presentarsi immediatamente in ufficio. Io arriverò tra un'ora...».
Dopo aver impartito in fretta a qualcuno questo ordine il premuroso Jaroslàv Il'ìè prese Ordynov sotto braccio e lo condusse nella trattoria più vicina.
«Non avrò pace finché non avremo scambiato due parole a tu per tu dopo tanto tempo che non ci vediamo. Cosa mi raccontate dei vostri studi?», aggiunse poi abbassando la voce con fare misterioso e quasi con venerazione. «Siete sempre sprofondato nelle scienze?».
«Sì, sempre allo stesso modo», rispose Ordynov, al quale era balenata un'idea luminosa.
«Nobile cosa, Vasìlij Michàjloviè, nobile cosa!». Qui Jaroslàv Il'ìè strinse con forza il braccio di Ordynov. «Voi sarete l'ornamento della nostra società. Che Dio vi conceda di progredire felicemente nel vostro campo... Mio Dio! Come sono felice di avervi incontrato! Quante volte ho pensato a voi, quante volte mi sono chiesto: ma dov'è il nostro buon, magnanimo, acuto Vasìlij Michàjloviè?».
Si installarono in un salottino riservato. Jaroslàv Il'ìè ordinò degli antipasti, fece servire della vodka e si mise a guardare Ordynov con occhi pieni di tenerezza.
«Ho letto molto in vostra assenza», cominciò a dire con voce timida e lievemente insinuante.
«Ho letto tutto Puškin ... ».
Ordynov lo guardò distrattamente.
33
«È straordinaria la rappresentazione delle passioni umane. Ma prima di tutto permettetemi di esprimervi la mia riconoscenza. Voi avete fatto tanto per me con i vostri nobili suggerimenti di un giusto indirizzo di pensiero ...».
«Per carità!».
«No, permettetemi. Mi piace sempre rendere giustizia e sono fiero che per lo meno questo sentimento non si sia spento in me».
«Per carità, siete ingiusto con voi stesso. Quanto a me, davvero ... ».
«No, sono del tutto giusto», obiettò con straordinario calore Jaroslàv Il'ìè. «Cosa sono mai io in confronto con voi? Non è vero?».
«Oh, Dio mio!».
«Sissignore ... ».
Qui seguì un attimo di silenzio.
«Seguendo il vostro consiglio ho interrotto molte grossolane frequentazioni e ho in parte corretto la grossolanità delle mie abitudini», riprese Jaroslàv Il'ìè con voce un po' timida e insinuante. «Nelle ore che mi rimangono libere dal lavoro me ne sto per lo più in casa; la sera leggo qualche libro istruttivo e... io ho un solo desiderio, Vasilij Michàjloviè, quello di rendermi utile alla patria, sia pure nella misura delle mie forze...».
«Vi ho sempre stimato una persona nobilissima, Jaroslàv Il'ìè».
«Le vostre parole sono sempre un balsamo per me... nobile giovane ... ».
Jaroslàv Il'ìè strinse con calore la mano a Ordynov.
«Non bevete?», osservò, quando si fu un poco acquietata la sua agitazione.
«Non posso; sono malato».
«Siete malato? Sì, è vero! E da molto? In che modo vi siete compiaciuto di ammalarvi?
Volete che dica... Quale medico vi cura? Volete che dica subito di visitarvi al nostro medico di quartiere? M recherò subito da lui lo stesso. È un medico straordinario!».
Jaroslàv Il'ìè stava già per afferrare il cappello.
«Vi ringrazio di cuore, ma io non mi curo e non ho stima dei medici ... ».
«Ma che dite mai! Ma come si può! Ma questo è un medico straordinario», proseguì Jaroslàv Il'ìè con tono supplichevole, «poco tempo fa - permettetemi di raccontarvi questo episodio, caro Vasìlij Michàjloviè - poco tempo fa si presenta da lui un povero fabbro e dice: "Ecco, mi sono trapassata la mano con un mio attrezzo; guaritemi...". Semën Pafnùt'iè, vedendo che lo sventurato correva il pericolo di essere colpito dal fuoco di Sant'Antonio, prese la decisione di amputargli l'arto infetto. Egli eseguì l'operazione in mia presenza. Ma fece tutto in modo tale, in maniera così non...
voglio dire in maniera così squisita, che, lo confesso, non fosse per la compassione per l'umanità sofferente, sarebbe stato un piacere stare a guardare semplicemente così, per curiosità. Ma dove e come vi siete compiaciuto di ammalarvi?».
«Traslocando nel nuovo alloggio... mi sono appena alzato dal letto».
«Ma voi state ancora molto male. Non avreste dovuto uscire. Dunque non state più dove abitavate prima? Ma che cosa vi ha spinto a cambiare casa?».
«La mia padrona di casa si è trasferita altrove».
«Domna Sàvi9na? Possibile?... Buona, veramente nobile vecchietta! Sapete? Provavo per lei una devozione quasi filiale. In quella vita ormai fuori moda riluceva qualcosa di elevato, di caratteristico dell'età dei nostri avi; guardandola, sembrava di avere davanti una incarnazione della nostra remota, maestosa antichità ... voglio dire, di quel... c'era qualcosa, sapete, di così poetico! ...
», concluse Jaroslàv Il'ìè sopraffatto dall'imbarazzo e arrossendo fino alle orecchie.
«Sì, era una brava donna».
«Ma, permettetemi di chiedervelo, dove vi siete compiaciuto di installarvi ora?».
«Non lontano da qui, nella casa di Ko9marov».
«Lo conosco. Un vecchio imponente! Oserei dire che sono quasi un suo sincero amico.
Nobile vecchiaia!».
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A Jaroslàv Il'ìè quasi tremavano le labbra per la tenerezza. Chiese un altro bicchierino di vodka e una pipa.
«Affittate direttamente?».
«No, sto presso un inquilino».
«Chi è? Forse lo conosco».
«Sto da Murin, un borghese; un vecchio alto ... ».
«Murin, Murin; sì, perdonate, è nel cortile posteriore, sopra il fabbricante di bare?»,
«Sì, sì, nell'ultimo cortile».
«Mm.... e ci state tranquillo?».
«Sì, mi sono appena trasferito».
«Mm... volevo dire soltanto, mm... del resto... Ma voi non avete notato nulla di strano?».
«Veramente ... ».
«Cioè, sono convinto che da lui vi troverete bene, se vi accontenterete della stanza... non ho niente da dire, lo premetto; ma, conoscendo il vostro carattere... Che impressione vi ha fatto quel vecchio borghese?».
«A quel che sembra è molto malato».
«Sì, è molto sofferente... Ma voi non avete notato nulla di particolare? Avete parlato con lui?».
«Assai poco; è così poco socievole e bilioso ... ».
«Mm ... ». Jaroslàv Il'ìè rimase un po' soprappensiero.
«È un uomo disgraziato!», disse dopo un breve silenzio.
«Lui?».
«Sì, è un uomo disgraziato e, nello stesso tempo, incredibilmente strano e interessante. Del resto, se non vi dà fastidio... Scusatemi se ho portato il discorso su questo argomento, ma ero incuriosito ... ».
«E, a dire il vero, avete stuzzicato anche la mia curiosità... M piacerebbe molto sapere chi è.
Tanto più che abito in casa sua ... ».
«Vedete, dicono che quell'uomo prima fosse molto ricco. Commerciava, come probabilmente avete sentito dire. Per varie disgraziate circostanze è diventato povero; una tempesta gli ha distrutto diverse chiatte cariche di merce. La fabbrica, a dirigere la quale aveva messo un suo stretto e caro parente, ha fatto anch'essa una fine disgraziata: è bruciata e nell'incendio è perito anche quel suo parente. Una perdita terribile, convenitene! Allora Murin, si racconta, è caduto in un terribile sconforto; si cominciò a temere per la sua ragione e, in effetti, durante una lite con un altro mercante, anch'egli proprietario di chiatte che navigano sul Volga, d'improvviso egli si manifestò sotto un aspetto così strano e inaspettato che tutto quel che accadde fu attribuito a uno stato di grave alienazione, il che sono propenso a credere anch'io. Ho sentito raccontare particolareggiatamente di talune sue stranezze; infine, improvvisamente gli è successo un caso assai strano, fatale, per così dire, che non si può spiegare altrimenti che con l'intervento ostile del destino adirato».
«Quale?», domandò Ordynov.
«Si dice che in un accesso morboso di pazzia abbia attentato alla vita di un giovane mercante che prima amava straordinariamente. Ed era così sbalordito quando si riebbe dall'accesso che avrebbe voluto togliersi la vita: così, per lo meno, si racconta. Non so di preciso cosa accadesse dopo di ciò, ma risulta che è stato diversi anni sotto penitenza... Ma cosa avete, Vasìlij Michàjloviè, non vi annoia, per caso, il mio semplice racconto?».
«Oh, no, per l'amor di Dio... Voi dite che è stato sotto penitenza; ma egli non è solo».
«Non lo so. Si dice che fosse solo. Per lo meno nessun altro era implicato in questa faccenda. Ma, del resto, non ho sentito dire nulla di quello che è successo in seguito, so soltanto ...
».
«Che cosa?».
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«So soltanto... cioè io, veramente, non avevo in mente di aggiungere nient'altro... voglio dire soltanto che, se voi troverete in lui qualcosa di inconsueto e che esce fuori dalla norma usuale, ciò non è altro che la conseguenza delle disgrazie che sono piombate su di lui una dopo l'altra ... ».
«Sì, egli è così devoto, un vero baciapile».
«Non credo, Vasilij Michàjloviè; egli ha sofferto tanto... credo che il suo cuore sia puro».
«Ma ora - non è vero? - non è più pazzo; è sano di mente».
«Oh, no, no; questo ve lo posso garantire, sono pronto a giurarlo; egli è nel pieno possesso delle sue facoltà mentali. Soltanto, come avete giustamente osservato di passaggio, è oltremodo strano e devoto. È una persona perfino molto saggia. Parla con disinvoltura, audacemente e assai ingegnosamente. Sulla sua faccia si scorge ancora la traccia della sua burrascosa vita passata. Sì, è un uomo interessante e che ha letto moltissimo».
«Sembra che legga unicamente libri di religione».
«Sì, è un mistico».
«Che cosa?».
«È un mistico. Ma questo ve lo confido in segreto. E in segreto vi dirò anche che un tempo è stato sottoposto a stretta sorveglianza. Quell'uomo esercitava un'influenza spaventosa su chi si recava da lui».
«E quale?».
«Ma voi non ci crederete; vedete: allora egli non abitava ancora nel nostro quartiere; Aleksàndr Ignàt'iè, cittadino onorario, alto dignitario e persona che gode del rispetto di tutti, si recò da lui per curiosità assieme a un certo tenente. Arrivano da lui, vengono ricevuti e quell'uomo strano comincia a scrutare le loro facce. È così di solito che faceva, quando acconsentiva a occuparsi di qualcuno; in caso contrario rimandava indietro la gente che si recava da lui e in maniera persino assai irriguardosa, si dice. Poi domanda loro: che cosa desiderate, signori? Così e così, risponde Aleksàndr Igriàt'iè: il dono che possedete ve lo può dire senza che ve lo diciamo noi.
Favorite con me, dice lui, nell'altra stanza; qui egli indicò chi di loro due precisamente aveva bisogno di lui. Aleksàndr Ignàt'iè non mi ha raccontato che cosa succedesse dopo, ma egli uscì di lì pallido come un cencio. La stessa cosa è accaduta a una nobildonna dell'alta società: anche lei uscì di lì pallida come un cencio, in lacrime e stupefatta per le sue profezie e per la sua eloquenza».
«Strano. Ma adesso non si occupa più di queste cose?».
«Gli è stato severissimamente vietato. Si sono verificati dei casi straordinari. Una giovane cornetta, fiore e speranza di una famiglia altolocata, guardandolo si mise a ridere. "Di che cosa ridi?", gli chiese irritato il vecchio. "Tra tre giorni ecco come sarai!", e incrociò le braccia a indicare la posizione del cadavere».
«E allora?».
«Non oso crederlo, ma si dice che la profezia si avverasse. Egli possiede un dono particolare, Vasilij Michàjloviè... Voi avete avuto la bontà di sorridere alla mia narrazione fatta con semplicità. So che voi siete tanto più avanti di me quanto all'istruzione; ma io gli credo: non è un ciarlatano. Pu9kin stesso parla di qualcosa di questo genere nelle sue opere».
«Mm. Non voglio contraddirvi. Mi pare che abbiate detto che non vive da solo».
«Non lo so... mi sembra che abiti con lui sua figlia».
«Sua figlia?».
«Sì, oppure, forse, sua moglie; so che una donna vive con lui. L'ho vista di sfuggita e non ci ho fatto caso».
«Mm. Strano ... ».
Il giovane si sprofondò nei suoi pensieri, Jaroslàv in tenera contemplazione. Era commosso sia perché aveva incontrato un vecchio amico, sia perché gli aveva raccontato in maniera soddisfacente una cosa molto interessante. Egli sedeva senza staccare lo sguardo da Vasìlij Michàjloviè e aspirava dalla pipa; ma all'improvviso balzò su e cominciò ad agitarsi.
36
«È passata un'ora intera e io mi sono dimenticato! Caro Vasìlij Michàjloviè, ringrazio un'altra volta il destino di aver fatto sì che ci incontrassimo, ma debbo andare. Mi permetterete di venirvi a far visita nella vostra studiosa dimora?».
«Fatemi questo favore, ne sarò assai contento. Verrò io stesso a trovarvi, non appena ne avrò il tempo».
«Debbo credere a questa piacevole notizia? Ne sarò obbligato, ne sarò immensamente obbligato! Voi non potete credere quale esultanza mi avete procurato!».
Uscirono dalla trattoria. Sergeev stava già volando loro incontro e riferiva in gran fretta a Jaroslàv Il'ìè che Vil'm Emel'jànoviè si degnava di arrivare. Ed effettivamente sulla prospettiva apparvero due focosi bai attaccati a un veloce calesse. Particolarmente notevole era lo straordinario cavallo di rinforzo. Jaroslàv Il'ìè strinse come in una morsa la mano del suo migliore amico, portò la mano al cappello, e si slanciò incontro al calesse che stava volando verso di loro. Lungo il cammino egli si voltò indietro un paio di volte facendo con la testa un cenno di saluto a Ordynov.
Ordynov sentiva una tale stanchezza, una tale spossatezza in tutte le membra, che riusciva a stento a trascinare le gambe. In qualche modo riuscì ad arrivare a casa. Sul portone si imbattè di nuovo nel custode che aveva diligentemente osservato tutto il suo commiato da Jaroslàv Il'ìè e che, ancora da lontano, gli aveva fatto un cenno di invito. Ma il giovane gli passò davanti senza fermarsi.
Sulla porta dell'appartamento si scontrò violentemente contro una piccola figura canuta, che usciva a testa bassa dalla casa di Murin.
«Signore, perdona i miei peccati!», sussurrò la piccola figura rimbalzando da un lato con l'elasticità di un turacciolo.
«Vi ho fatto male?».
«No, vi ringrazio umilissimamente per il riguardo... Oh, Signore, Signore!».
Il mite omino ansimando, sospirando e mormorando qualcosa di edificante fra sé e sé, scese cautamente per le scale. Era il proprietario della casa, del quale si era tanto spaventato il custode.
Soltanto ora Ordynov si rammentò che lo aveva visto per la prima volta proprio lì, in casa di Murin, il giorno che si era trasferito nell'appartamento.
Egli sentiva di essere irritato e scosso; sapeva che la sua fantasia e la sua sensibilità erano tese fino all'estremo limite e decise di non fidarsi di se stesso. A poco a poco cadde in una specie di torpore. Un sentimento penoso, opprimente gli serrò il petto. Il cuore gli doleva, come se fosse stato tutto piagato e tutta la sua anima era gonfia di sorde, inesauribili lacrime.
Si gettò di nuovo sul letto che lei gli aveva preparato e si mise di nuovo ad ascoltare. Sentiva due respiri: uno pesante, malato, discontinuo, un altro lieve, ma ineguale e anch'esso come agitato, come se di là battessero due cuori animati dallo stesso desiderio, dalla stessa passione. A tratti udiva il fruscio del suo vestito, il calpestio leggero dei suoi leggeri, morbidi passi e persino il rumore dei suoi piedi echeggiava nel suo cuore come un dolore sordo e tormentosamente voluttuoso. Infine gli parve di sentire i suoi singhiozzi, un tumultuoso sospirare e, finalmente, di nuovo la sua preghiera.
Sapeva che era inginocchiata davanti all'icona, e si torceva le mani in preda a una sorta di frenetica disperazione... Ma chi era dunque? Per chi pregava? Quale passione senza speranza turbava il suo cuore? Perché soffriva tanto ed era angosciata e si effondeva in lacrime così ardenti e disperate?...
Cominciò a passare in rassegna nella mente le sue parole.
Tutto quello che lei gli aveva detto risuonava ancora nelle sue orecchie come una musica e il suo cuore rispondeva con un tonfo sordo e pesante a ogni ricordo, a ogni parola di lei devotamente ripetuta... Per un attimo gli balenò nella mente il dubbio che fosse stato tutto un sogno. Ma nel medesimo istante tutto il suo essere spasimò in preda a una struggente angoscia quando la sensazione del suo ardente respiro, delle sue parole, del suo bacio si impresse nuovamente nella sua immaginazione. Egli chiuse gli occhi e si assopì. Da qualche parte un orologio batté le ore; si faceva tardi; calava il crepuscolo.
D'un tratto gli parve che lei di nuovo si chinasse su di lui, che lo guardasse negli occhi con i suoi occhi meravigliosamente chiari, umidi di scintillanti lacrime di placida, luminosa gioia, quieti e chiari come l'immensa volta turchina del cielo in un meriggio caldo. Di una così solenne calma 37
splendeva il suo volto, da una tale promessa di infinita beatitudine era riscaldato il suo sorriso, con tale affetto, con tale infantile trasporto gli si abbandonò sulla spalla, che un gemito proruppe dal suo petto sopraffatto dalla gioia. Ella voleva dirgli qualcosa; gli confidava teneramente qualcosa. Di nuovo una musica che trafiggeva il cuore si impresse nel suo orecchio. Egli aspirava avidamente l'aria riscaldata, elettrizzata dal respiro di lei. Sopraffatto dalla nostalgia egli stese le braccia, sospirò, aprì gli occhi... Ella era lì davanti a lui, china sopra il suo viso, tutta pallida come se avesse paura, tutta in lacrime, tutta tremante per l'emozione. Ella gli diceva qualcosa, lo supplicava, stringendo al petto e torcendo le braccia seminude. Egli la avvinse tra le proprie braccia e la strinse tutta palpitante sul suo petto...

PARTE SECONDA

I

«Che cos'hai? Cosa ti succede?», le chiese Ordynov risvegliandosi del tutto, continuando a stringerla nel suo forte e caldo abbraccio, «che cos'hai, Katerina? Che cos'hai, amore mio?».
Ella singhiozzava piano, tenendo gli occhi bassi e nascondendo il volto in fiamme contro il petto di lui. Per lungo tempo ancora non riuscì a parlare e tremava tutta come se avesse paura.
«Non lo so, non lo so», disse finalmente con voce quasi impercettibile, col fiato che le mancava e quasi incapace di parlare, «non ricordo neppure come sono entrata qui da te...». Qui ella si strinse a lui ancora più forte, con ancora maggior trasporto, e in uno slancio incontenibile e spasmodico gli baciò la spalla, le mani, il petto; infine, come vinta dalla disperazione, si coprì il volto con le mani, cadde in ginocchio e nascose il capo tra le sue ginocchia. Quando poi Ordynov, in preda a un inesprimibile struggimento, impazientemente la sollevò e la fece sedere accanto a sé, il suo viso si infiammò di vergogna, i suoi occhi piangenti chiesero mercé e il forzato sorriso che le appariva sulle labbra non riusciva a reprimere la forza incontenibile di un nuovo sentimento. Ora ella sembrava di nuovo spaventata, lo respingeva con diffidenza con la mano, lo guardava appena e rispondeva alle sue domande affannose a testa bassa, timorosamente e in un sussurro.
«Forse hai fatto un brutto sogno», le diceva Ordynov, «forse hai avuto qualche visione...
vero? Forse lui ti ha spaventata... Delira e ha perso la conoscenza... Forse ha detto qualcosa che tu non avresti dovuto sentire?... Hai udito qualcosa, vero?».
«No, non dormivo», rispose Katerina sforzandosi di dominare la propria agitazione. «Non riuscivo a prender sonno. Lui continuava a tacere e mi ha chiamato soltanto una volta. Mi sono avvicinata a lui, l'ho chiamato, gli ho parlato; ho avuto paura: non si svegliava e non mi sentiva. La sua malattia è grave, gli porga aiuto il Signore! Allora l'angoscia ha afferrato il mio cuore, un'amara angoscia! Ho pregato, ho pregato tanto e d'un tratto m'è venuto questo impulso».
«Basta, Katerina, basta, vita mia, basta! Ieri ti sei spaventata...».
«No, non mi sono spaventata ieri!...».
«Ti accade questo, qualche volta?».
«Sì, mi accade». Ella si mise tutta a tremare e di nuovo, in preda alla paura, si strinse a lui come un bambino. «Vedi», disse poi tra i singhiozzi, «non sono venuta da te invano, non resistevo da sola», ripeteva stringendogli con riconoscenza le mani. «Ma basta, basta versare lacrime per il dolore altrui! Conservale per i giorni neri, quando la solitudine ti opprimerà e non ci sarà nessuno accanto a te!... Ascolta, hai mai avuto un'innamorata?».
«No... prima di te non ho mai avuto nessuno...».
«Prima di me... mi consideri la tua innamorata?».
A un tratto ella lo guardò negli occhi come sorpresa, avrebbe voluto dirgli qualcosa, ma poi rinunciò e abbassò gli occhi. A poco a poco il suo volto si imporporò tutto di nuovo di un improvviso rossore; i suoi occhi scintillarono più vividamente attraverso le lacrime già dimenticate 38
che ancora pendevano dalle sue ciglia. Si vedeva che voleva fargli una domanda. Con timida malizia gli lanciò ancora un paio di occhiate e poi a un tratto chinò di nuovo la testa.
«No, non posso essere io la tua prima innamorata», disse «no, no», ripeté scuotendo la testa pensierosa, mentre il sorriso rispuntava piano piano sul suo volto, «no», disse infine scoppiando a ridere, «non posso essere io, caro, la tua piccola innamorata».
Qui lei lo guardò; ma sul suo viso apparve d'un tratto tanta malinconia, una tale disperata tristezza si dipinse di colpo su tutti i suoi lineamenti, tanto inattesa la disperazione traboccò dal suo cuore, che un inesplicabile, doloroso sentimento di compassione per quell'ignoto dolore mozzò il fiato a Ordynov ed egli la guardò con indicibile tormento.
«Ascolta quello che ti dirò», ella gli disse con una voce che trafiggeva il cuore, serrandogli le mani nelle sue, sforzandosi di reprimere i singhiozzi. «Ascoltami bene, ascoltami, gioia mia!
Doma il tuo cuore e non amarmi come hai cominciato ad amarmi ora. Starai meglio, il tuo cuore si sentirà più sollevato e più lieto, ti salverai da un nemico crudele e avrai acquistato una cara sorella.
Verrò da te, se vorrai, ti vorrò bene e non ricadrà su di me come una vergogna l'esserti amica. Sono stata accanto a te due giorni quando giacevi in preda alla tua crudele malattia! Ama la tua sorellina!
Non per niente ci siamo voluti bene come fratelli, non per niente piangendo ho pregato per te la Madonna! Non potrai mai procurartene un'altra come me! Potresti fare il giro del mondo e cercare in tutto l'universo, ma non troveresti un'altra innamorata così, se è un'innamorata che il tuo cuore desidera. Ti amerò ardentemente, ti amerò sempre, come adesso; ti amerò perché la tua anima è pura, luminosa, ci si può vedere dentro; perché, fin dal primo sguardo, ho subito capito che eri l'ospite della mia casa, l'ospite bramato e che non era invano che avevi bussato alla nostra porta; ti amerò perché quando mi guardi i tuoi occhi esprimono amore e parlano del tuo cuore e quando dicono qualcosa, io so subito tutto quello che c'è dentro di te, e per questo darei la vita per il tuo amore, la cara libertà, perché è dolce essere la schiava dell'uomo di cui hai trovato il cuore... sì la mia vita non è più mia, ma di un altro e la mia libertà è incatenata! Prendimi dunque come sorellina e sii mio fratello, accoglimi dentro il tuo cuore, quando di nuovo la tristezza e l'angoscia crudele mi assaliranno; solo fa' in modo che non mi sia di vergogna venire da te e starti accanto, come ora, per una lunga notte. Mi hai sentito? Mi hai aperto il tuo cuore? Hai inteso bene quello che ti ho detto?...».
Ella avrebbe voluto aggiungere ancora qualcosa, lo guardò, posò una mano sulla sua spalla e, infine, si abbandonò sul suo petto priva di forze. La sua voce si spense in un singhiozzo spasmodico, appassionato, il suo petto sussultava e il suo viso si infiammò come il cielo al tramonto.
«Vita mia!», mormorò Ordynov a cui mancava il fiato e si annebbiava la vista. «Gioia mia!», diceva senza rendersi conto delle proprie parole, senza ricordarsene, senza comprendere se stesso, trepidando per il timore di distruggere in un soffio l'incanto, di distruggere tutto ciò che gli era accaduto e che egli prendeva piuttosto per una visione che per la realtà: tanto ogni cosa davanti a lui si era annebbiata! «Io non ti conosco, non ti comprendo, non ricordo quello che mi hai detto ora, la mia mente si confonde, il cuore mi duole nel petto, dominatrice mia!...».
Di nuovo la sua voce si spezzò per l'emozione. Ella si stringeva a lui sempre più forte, sempre più teneramente, sempre più ardentemente. Egli si alzò in piedi e, senza più trattenersi, travolto, privato di ogni volontà dalla passione, cadde in ginocchio. Spasmodicamente, dolorosamente, i singhiozzi infine proruppero dal suo petto e, sgorgando direttamente dal cuore, la sua voce tremò come una corda tesa per il traboccare di una passione e di una felicità ignote.
«Chi sei, chi sei, amata mia? Da dove vieni, colombella mia?», diceva sforzandosi di soffocare i singhiozzi. «Da quale cielo sei volata nei miei cieli? Tutto attorno a me mi sembra un sogno; non posso credere che tu esista realmente. Non rimproverarmi... lasciami parlare, lascia che ti dica tutto, tutto!... Voglio parlarti a lungo... Chi sei, chi sei, gioia mia?... Come hai trovato il mio cuore? Raccontami, è da tanto che tu sei la mia sorellina?... Raccontami tutto di te, dove sei stata fino a ora, raccontami come si chiamava il luogo dove vivevi, che cosa hai amato laggiù, di che cosa ti sei rallegrata e che cosa ti ha dato pena. Era tiepida l'aria laggiù, e il cielo era sereno?... Chi 39
ti era caro e chi ti ha amato prima di me, verso chi si è protesa per la prima volta la tua anima?...
Hai avuto una mamma e lei ti ha coccolato quand'eri piccina, oppure hai guardato in faccia la vita da sola, come me? Dimmi, sei sempre stata come sei ora? Che cosa sognavi, che cosa speravi dall'avvenire, che cosa si è avverato e che cosa non si è avverato, raccontami tutto... Per chi ha battuto per la prima volta il tuo cuore di fanciulla e per che cosa l'hai donato? Dimmi che cosa debbo donare a te in cambio di esso, dimmi che cosa debbo donare a te in cambio di te stessa?...
Dimmi, piccola innamorata, luce mia, sorellina mia, dimmi in che modo posso guadagnarmi il tuo cuore?...».
Qui la sua voce di nuovo si spense ed egli chinò il capo. Ma quando sollevò gli occhi un muto orrore lo agghiacciò di colpo e i capelli gli si rizzarono sulla testa.
Katerina era bianca come un cencio e guardava immobile nel vuoto, le sue labbra erano livide, i suoi occhi appannati da una muta, tormentosa sofferenza. Ella si levò lentamente, fece due passi e con un gemito straziante si gettò a terra davanti all'icona... Frasi convulse e sconnesse prorompevano dal suo petto. Ella perdette i sensi. Ordynov, sconvolto dal terrore, la sollevò da terra e la trasportò sul suo letto; egli stava immobile davanti a lei fuori di sé. Un momento dopo ella riaprì gli occhi, si sollevò un po' sul letto, si guardò intorno ed afferrò la sua mano. Ella lo attirò a sé, sforzandosi di sussurrargli qualcosa con le labbra ancora pallide, ma la voce seguitava a tradirla.
Infine scoppiò in lacrime che, cadendo come grandine, bruciavano la fredda mano di Ordynov.
«Che pena, che pena provo, la mia ultima ora è giunta!», proferì infine struggendosi in una disperata sofferenza.
Ella si sforzò di dire ancora qualcosa, ma la sua lingua irrigidita non riusciva a pronunciare neppure una parola. Disperata guardava Ordynov che non la comprendeva. Egli si chinò su di lei e tese l'orecchio... Infine la sentì mormorare distintamente:
«Sono una donna corrotta, mi hanno corrotto, mi hanno portato alla perdizione!».
Ordynov sollevò la testa e la guardò esterrefatto. Un pensiero immondo gli balenò nella mente. Katerina vide il suo volto contrarsi spasmodicamente.
«Sì, mi hanno corrotto!», continuò lei, «un uomo malvagio mi ha corrotto, lui mi ha portata alla perdizione!... Io gli ho venduto la mia anima... Perché, perché mi hai chiamato "amata"? Perché hai voluto torturarmi? Dio ti giudicherà!...».
Un attimo dopo ella scoppiò in lacrime; il cuore di Ordynov batteva e doleva afferrato da un'angoscia mortale.
«Egli dice», sussurrava lei misteriosamente con un fil di voce, «che quando morirà verrà a prendere la mia anima peccatrice... Io gliel'ho venduta... Egli mi tormentava, mi leggeva dei libri...
Tieni, guarda, guarda il suo libro! Ecco il suo libro. Egli dice che ho commesso peccato mortale...
Guarda, guarda...».
E gli mostrava un libro; Ordynov non aveva visto da dove esso fosse uscito. Lo prese macchinalmente: era tutto scritto come gli antichi libri degli Scismatici che aveva avuto occasione di vedere in precedenza. Ma ora non aveva la forza di esaminarlo, né di concentrare la sua attenzione su qualche cosa. Il libro gli cadde di mano. Egli abbracciò delicatamente Katerina cercando di farla tornare in sé.
«Basta, basta!», le diceva, «ti hanno spaventata; adesso ci sono io con te; chetati qui con me, amata mia, amore mio, luce mia!».
«Tu non sai niente, niente!», replicò lei serrandogli forte le mani. «Io sono sempre così!...
Ho sempre paura... Smetti, smetti di torturarmi!...».
«Allora io vado da lui», riprese a dire dopo un attimo, dopo aver ripreso fiato. «Qualche volta egli mi esorcizza semplicemente con le sue parole, altre volte prende il suo libro, il più grande, e me lo legge. Legge sempre delle cose così terribili, spaventose! Io non so che cosa legga, non comprendo tutte le parole; ma mi afferra la paura e quando ascolto la sua voce mi sembra che non sia lui a parlare, ma qualcun altro, un uomo cattivo, spietato, inesorabile, e provo una pena terribile nel cuore, e il cuore mi brucia... Provo una pena maggiore di quando mi aveva presa l'angoscia!».
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«Non andare da lui! Perché vai da lui?», le disse Ordynov senza rendersi ben conto di quello che diceva.
«Perché sono venuta da te? Se me lo domandi, non so neppure questo... Ed egli mi dice sempre: prega, prega! Qualche volta mi alzo a notte fonda e prego a lungo, per ore intere; a volte cado dal sonno, ma la paura mi ridesta, mi ridesta sempre e mi sembra che la tempesta si addensi attorno a me, che mi accadrà una disgrazia, che i malvagi mi strazieranno e mi tormenteranno a morte, che non riuscirò con le mie preghiere a ottenere l'aiuto dei santi intercessori e che essi non mi proteggeranno da una pena terribile. Ho l'anima tutta straziata e mi sembra che tutto il mio corpo voglia fondersi in lacrime... Allora mi rimetto a pregare e continuo a pregare e a pregare finché la Regina Celeste non mi guarda dall'icona con un'espressione più amorosa. Allora mi alzo e piombo nel sonno come morta; a volte mi addormento sul pavimento, inginocchiata davanti all'icona. Allora talvolta egli si sveglia, mi chiama e si mette a farmi tenerezze, ad accarezzarmi, a consolarmi, e allora mi sento meglio e se sopravvenisse anche qualche disgrazia, insieme a lui non ho più paura.
Egli è potente! Grande è la sua parola!».
«Ma quale sventura, quale sventura dunque ti affligge?...», e Ordynov si torceva le mani dalla disperazione.
Katerina impallidì terribilmente. Ella lo guardava come un condannato a morte che non spera misericordia.
«Me?... Io sono una figlia che è stata maledetta, sono un'assassina; mia madre mi ha maledetta! Io ho portato alla morte mia madre!...».
Ordynov l'abbracciò in silenzio e lei gli si strinse contro trepidando. Egli sentì un tremore spasmodico percorrerle tutto il corpo. Sembrava che la sua anima si separasse dal corpo.
«Io l'ho sepolta con le mie mani nell'umida terra», continuava lei tutta turbata dai ricordi, tutta assorta nelle visioni del suo fatale passato, «è tanto tempo che volevo parlare; egli me lo proibiva con la preghiera, col rimprovero e con la parola irata, ma a volte era lui stesso a risvegliare la mia angoscia come se fosse il mio nemico peggiore. E tutto, tutto, come questa notte, mi torna alla mente... Ascoltami, ascoltami! È successo ormai tanto, tanto tempo fa, non ricordo neppure quando, eppure vedo tutto davanti ai miei occhi come se fosse accaduto ieri, come se fosse il sogno che mi ha straziato il cuore tutta la notte passata. L'angoscia fa sembrare il tempo due volte più lungo. Siedi, siedi qui accanto a me: ti racconterò tutto il mio dolore; liberami dalla maledizione materna... Ti affido la mia vita...».
Ordynov avrebbe voluto fermarla, ma ella congiunse le mani, facendo appello al suo amore perché prestasse attenzione, e poi riprese a parlare con ancora maggiore inquietudine. Il suo racconto era confuso, nelle sue parole echeggiava il tumulto della sua anima, ma Ordynov comprendeva ogni cosa perché la vita di lei era diventata la sua vita, il dolore di lei il suo dolore, e perché il suo nemico era ormai visibile davanti a lui, si incarnava e prendeva forma davanti a lui in ogni parola di lei e sembrava che gli serrasse il cuore con forza immane e schernisse la sua rabbia. Il suo sangue era in ebollizione, gli affluiva alla testa e gli confondeva i pensieri. Il vecchio malvagio del suo sogno (Ordynov ne era convinto) stava in carne e ossa dinanzi a lui.
«Era una notte come questa», cominciò a raccontare Katerina, «solo più terribile, il vento ululava nel nostro bosco come mai mi era accaduto di udire... ed è stato proprio in quella notte che è cominciata la mia rovina! Una quercia fu schiantata proprio sotto le nostre finestre e venne da noi un vecchio decrepito, coi capelli bianchi, lacero e ci disse che si ricordava quella quercia fin da quando era ancora bambino e che già allora era come adesso quando il vento l'aveva spezzata...
Quella notte - me lo ricordo come se fosse ora - la tempesta fracassò le chiatte del babbo sul fiume ed egli, benché spossato dalla malattia, non appena accorsero da noi alla fabbrica i pescatori, partì per recarsi sul posto. Rimanemmo sole io e la mamma, io dormivo e lei era triste per qualcosa e piangeva amaramente... sì, io sapevo perché! Era appena stata malata, era pallida e mi diceva continuamente di prepararle il lenzuolo funebre... Improvvisamente a mezzanotte si udì bussare al portone; io balzai in piedi e il sangue mi inondò il cuore; la mamma gettò un grido... io non la guardai, avevo paura, presi la lanterna e andai io ad aprire il portone... Era lui! Ho avuto paura, 41
infatti mi spaventavo sempre quando veniva, ed era sempre stato così fin da quando ero una bambina, fin da quando iniziano i miei ricordi! Allora non aveva nemmeno un capello bianco; la sua barba era nera come la pece, i suoi occhi ardevano come carboni accesi e nemmeno una volta fino ad allora egli mi aveva gettato uno sguardo affettuoso. Mi domandò se mia madre era in casa.
Io richiusi il cancello e gli risposi che mio padre non c'era. Egli replicò che lo sapeva e all'improvviso mi guardò, oh come mi guardò!... Era la prima volta che mi guardava in quel modo...
Io mi avviai ma lui rimaneva lì fermo. "Perché non vieni dentro?". "Sto pensando una cosa".
Salimmo in casa. "Perché mi hai detto che tuo padre non era in casa, mentre io ti avevo domandato se c'era tua madre?". Io tacevo... A mia madre mancò il fiato e si gettò verso di lui... egli la guardò appena - io vedevo tutto. Era tutto bagnato, tremante: la tempesta lo aveva sospinto per venti verste, ma di dove venisse e in quali luoghi fosse solito recarsi né io, né mia madre lo abbiamo mai saputo; erano ormai nove settimane che non lo vedevamo... egli gettò il colbacco, si tolse i guanti e, senza aver rivolto una preghiera alle icone e senza aver salutato i padroni di casa, si sedette accanto al fuoco...».
Katerina si passò una mano sul viso come se qualcosa la opprimesse e la schiacciasse, ma un momento dopo sollevò di nuovo la testa e riprese il racconto:
«Egli si mise a parlare con mia madre in tartaro. Mia madre conosceva quella lingua, mentre io non ne comprendevo nemmeno una parola. Le altre volte, quando veniva, mi mandavano via; ma adesso mia madre non ebbe il coraggio di dire nemmeno una parola a sua figlia. Lo spirito impuro aveva comprato la mia anima e io, compiaciuta di me stessa, guardavo mia madre. Vedevo che stavano parlando di me e mi guardavano; lei si mise a piangere; vidi che egli afferrava il coltello: non era la prima volta negli ultimi tempi che, quando parlava con mia madre, afferrava il coltello.
Allora mi alzai e lo afferrai alla cintura: volevo strappargli il suo maledetto coltello. Egli digrignò i denti e cercò di scacciarmi: mi colpì al petto, ma non riuscì a respingermi. Credetti di morire, gli occhi mi si annebbiarono e caddi a terra, ma non gridai. Guardai con quante forze mi rimanevano per vedere, lui si tolse la cintura, si rimboccò la manica del braccio col quale mi aveva colpito, estrasse il coltello e me lo porse dicendo: "Prendi, tagliamelo via, vendicati su di lui per l'offesa che ti ho recata, e io, che sono un uomo orgoglioso, per questo mi inchinerò fino a terra davanti a te". Io misi da parte il coltello: il sangue mi soffocava. Mi ricordo che non lo guardai, ma risi con le labbra serrate e guardai diritto negli occhi tristi di mia madre, la guardai minacciosa con quel riso impudente sulle labbra; e mia madre stava lì seduta, pallida come una morta...».
Ordynov ascoltava con tesa attenzione quel racconto sconnesso; ma, dopo il primo impeto, a poco a poco l'agitazione di Katerina si placò e il suo racconto si fece più pacato; la povera donna era stata travolta dai ricordi che disperdevano la sua angoscia nel loro mare sconfinato.
«Egli afferrò il colbacco senza salutare. Io presi di nuovo la lanterna per accompagnarlo al portone al posto di mia madre che, benché fosse malata, voleva seguirlo. Giungemmo al portone: in silenzio gli aprii il cancello e cacciai i cani. Guardo e vedo che si toglie il colbacco e mi fa un inchino. Poi si infila una mano in seno, ne tira fuori una scatoletta di marocchino rosso, apre il fermaglio; guardo, erano delle perle in regalo per me. "Nel sobborgo ho una innamorata, gliele avevo portate in regalo, ma non è a lei che le ho portate; prendile, bella fanciulla, adorna la tua bellezza, calpestale pure sotto i piedi, ma prendile". Io le presi, ma non le calpestai sotto i piedi, non volevo fargli questo onore, invece le presi e malignamente non dissi neppure una parola. Tornai invece in casa e le deposi sul tavolo davanti a mia madre - per questo le avevo prese. Mia madre per un po' tacque, bianca come un fazzoletto, come se avesse paura a parlare con me. "Che cos'è questo, Katja?". Ed io le rispondo: "È a te, cara, che il mercante le ha portate, io non ne so niente". Guardo: le spuntavano le lacrime e le mancava il respiro. "Non è a me, Katja, non è a me, figliola malvagia, che le ha portate". Ricordo che pronunciò queste parole con tanta amarezza come se tutta la sua anima si sciogliesse in pianto. Io sollevai gli occhi e avrei voluto gettarmi ai suoi piedi, ma all'improvviso il maligno mi suggerì: "Be', se non le ha portate a te, le avrà certamente portate per il babbo; le darò a lui quando tornerà; gli dirò: sono stati qui i mercanti e hanno scordato questa mercanzia...". A questo punto come scoppiò a piangere la mia povera mamma... "Gli dirò io che 42
specie di mercanti sono venuti e in cerca di quale mercanzia... Gli dirò io di chi sei figlia, tu, svergognata! Tu non sei più mia figlia, ma una vipera! Tu figlia mia maledetta!". Io tacevo e le lacrime non salivano ai miei occhi... ah, come se tutto fosse morto dentro di me... Andai nella mia camera e per tutta la notte rimasi ad ascoltare la tempesta e al fragore della tempesta componevo i miei pensieri.
«Passarono intanto cinque giorni e alla sera, cinque giorni dopo, arriva il babbo, cupo e minaccioso perché la malattia l'aveva fiaccato per la strada. Guardo: aveva un braccio fasciato; indovinai che il nemico gli aveva attraversato la strada spossandolo e gettandogli addosso la malattia. Sapevo anche chi era il suo nemico, sapevo tutto. Con mia madre non disse neppure una parola, di me non domandò, radunò tutti gli uomini, diede ordine che fermassero il lavoro e di preservare la casa dal malocchio. Avvertii col cuore in quel momento che nella nostra casa era entrato il male. Dunque, aspettiamo, passò la notte, anch'essa di tempesta, di bufera e l'allarme mi invase il cuore. Aprii la finestra - la faccia mi ardeva, gli occhi mi lacrimavano, il cuore inconsolabile mi bruciava; mi sembrava di essere in mezzo alle fiamme; avrei voluto correr fuori dalla mia stanza, il più lontano possibile, in capo al mondo, dove nascono i fulmini e le tempeste. Il mio petto di fanciulla sobbalzava tutto... improvvisamente, era già tardi - forse mi ero assopita, oppure una nebbia era scesa sulla mia anima ottenebrandomi la mente - sento che bussano alla finestra: "Apri!". Guardo: un uomo si era arrampicato su una corda fino alla mia finestra. Capii chi era venuto a farmi visita, aprii la finestra e lo feci entrare nella mia cameretta solitaria. Era lui!
Senza togliersi il colbacco, si sedette sulla panca ansimando, riuscendo a stento a respirare, come se fosse stato inseguito. Io mi misi in un angolo e so bene com'ero impallidita. "È in casa tuo padre?".
"È in casa". "E tua madre?". "È in casa anche mia madre". "Allora taci adesso; senti?". "Sento".
"Che cos'è?". "Un fischio sotto la finestra!". "Su, bella fanciulla, vuoi spiccare la testa al tuo nemico, chiamare tuo padre e causare la mia perdizione? Non sfuggirò alla tua volontà di fanciulla; ecco la corda, legami, se il cuore ti comanda di vendicarti della tua offesa". Io tacevo. "Parla, dunque, gioia mia!". "Cosa vuoi da me?". "Voglio vincere il nemico, congedarmi per bene e convenientemente dalla mia vecchia innamorata e inchinare la mia anima davanti a una nuova, bella fanciulla, giovane come te...". Io scoppiai a ridere; e non so neppure io come le sue parole impure penetrassero nella mia anima. "Lascia dunque, bella fanciulla, che scenda da basso per mettere alla prova il mio cuore e recare il mio saluto ai padroni di casa". Io tremavo tutta, battevo i denti e il mio cuore era come un ferro incandescente. Andai ad aprirgli la porta, lo feci entrare in casa e sulla soglia ebbi infine la forza di dire: "Ecco, prenditi le tue perle e non farmi mai più regali", e gli scagliai dietro la scatoletta».
Qui Katerina si fermò per tirare il fiato; ora tremava come una foglia e impallidiva, ora il sangue le affluiva alla testa, e adesso che si era arrestata le sue gote erano in fiamme, i suoi occhi scintillavano attraverso le lacrime e un respiro affannoso e convulso le faceva sussultare il petto. Ma a un tratto ella impallidì di nuovo e la sua voce si abbassò tremando per l'inquietudine e la tristezza.
«Allora rimasi sola e fu come se mi trovassi in mezzo alla tempesta. Improvvisamente odo un grido, vedo della gente nel cortile che corre verso la fabbrica e sento che dicono: "La fabbrica brucia". Mi nascosi, tutti corsero fuori dalla casa; rimanemmo sole io e la mamma. Sapevo che la sua vita se ne stava andando, che da tre giorni era in agonia, lo sapevo bene, io, figlia infame!...
D'un tratto odo un grido sotto la mia camera, debole, come grida un bambino quando si spaventa nel sonno, poi tutto tacque. Spensi la candela. Agghiacciata, mi coprii il volto con le mani: avevo paura di guardare. D'un tratto odo un grido vicino a me, sento della gente accorrere dalla fabbrica. Mi sporsi dalla finestra: vedo che trasportano il babbo morto, sento che dicono tra di loro: "Ha inciampato e dalla scala è caduto nella caldaia bollente; si vede che lo spirito impuro l'ha spinto là dentro". Mi gettai sul letto; aspettavo, più morta che viva, senza sapere che cosa e chi aspettassi; so solo che provavo una pena indicibile in quel momento. Non ricordo quanto tempo aspettassi; ricordo che ad un tratto mi parve che il pavimento ondeggiasse, mi sentii la testa pesante, gli occhi mi bruciavano per il fumo ed ero felice che la mia fine fosse vicina! All'improvviso sentii che 43
qualcuno mi sollevava per le spalle. Guardo, per quanto mi era possibile vedere, e vedo lui tutto bruciacchiato, col caffetano ardente a toccarlo che fumava.
«"Sono venuto a prenderti, bella fanciulla; tirami fuori dalla sventura, così come prima mi hai gettato nella sventura; per te ho perduto la mia anima. Non riuscirò mai a riscattare con la preghiera questa notte maledetta! Dunque pregheremo insieme!". Rideva quell'uomo malvagio!
"Mostrami la strada per andarmene senza che la gente mi veda!". Io lo presi per mano e lo condussi con me. Passammo per il corridoio - avevo con me le chiavi - aprii la porta del magazzino e gli indicai una finestra che dava sul giardino. Egli mi afferrò con le sue braccia possenti, e abbracciato a me saltò fuori dalla finestra. Ci mettemmo a correre mano nella mano e corremmo a lungo. Ci trovammo in un bosco fitto e oscuro. Egli tese l'orecchio: "Ci stanno inseguendo, Katja! Ci stanno inseguendo, bella fanciulla, ma non è ancora giunta per noi l'ora di congedarci dalla vita! Baciami bella fanciulla, come pegno d'amore e d'eterna felicità!". "Ma perché le tue mani sono macchiate di sangue?". "Sono macchiate di sangue? Ho sgozzato i vostri cani perché si erano messi ad abbaiare troppo forte contro l'ospite tardivo. Andiamo!". Ci rimettemmo a correre; vediamo sul sentiero il cavallo del babbo che aveva spezzato la briglia ed era fuggito dalla stalla per non bruciare vivo.
"Monta assieme a me, Katja! Dio l'ha mandato in nostro aiuto!". Io tacevo. "Non vuoi, dunque? Ma io non sono un senzacristo, non sono l'impuro; guarda, mi segno, se vuoi", e si fece il segno della croce. Montai, mi strinsi tutta a lui e mi sentii venir meno sul suo petto, come se il sonno fosse sceso su di me. Quando riaprii gli occhi vidi che eravamo sulla riva di un fiume immenso. Egli smontò da cavallo, fece scendere anche me ed entrò in un canneto: lì aveva nascosto la sua barca.
Vi salimmo sopra. "Addio, buon cavallo, va' incontro al tuo nuovo padrone, visto che quelli vecchi ti abbandonano tutti!". Io mi gettai verso il cavallo del babbo e lo abbracciai forte congedandomi da lui. Poi salimmo sulla barca, egli prese i remi e in un attimo non si vedeva più né l'una né l'altra riva. E quando fummo dove non si vedevano più le rive, guardo, e vedo che lui ha deposto i remi e si guarda tutto attorno in mezzo all'acqua.
«"Salve", disse, "madre Volga, fiume impetuoso, che abbeveri il popolo di Dio e dai nutrimento a me! Dimmi, hai custodito i miei beni in mia assenza, sono salve le mie mercanzie?".
Io tacevo con gli occhi abbassati sul petto; il mio viso avvampava di vergogna. E lui: "Ma prenditi pure tutto, fiume impetuoso e insaziabile, purché tu mi prometta però di proteggere e accarezzare la mia perla preziosa! Di' almeno una parolina, bella fanciulla, risplendi come il sole in mezzo alla tempesta, scaccia con la tua luce la buia notte!". Ma dicendo così rideva; il suo cuore ardeva di me, ma per la vergogna che provavo, non volevo sopportare le sue risa; avrei voluto dirgli qualcosa, ma ebbi paura e tacqui. "Bene, sia dunque così", replicò lui al mio timido pensiero, parlando come se fosse addolorato. "Vuol dire che con la forza non si riesce ad ottenere nulla. Dio sia con te, superba, colomba mia, bella fanciulla! Si vede che forte è il tuo odio per me, oppure che non sono caro ai tuoi chiari occhi". Io lo ascoltavo e mi prese la rabbia, una rabbia che nasceva dall'amore. Facendo forza al mio cuore dissi: "Se tu mi sia caro o no, non è a me che è dato saperlo, ma a quell'altra folle, svergognata, che nella notte buia ha insozzato la sua cameretta di fanciulla, che ha venduto la sua anima in cambio di un peccato mortale e che non ha saputo frenare il suo folle cuore; è dato di saperlo alle mie lacrime ardenti e a colui che come un ladro mena vanto della sventura altrui ridendo del cuore di una fanciulla!". E dicendo queste parole non mi seppi più trattenere e scoppiai in lacrime... Egli rimase per un po' in silenzio guardandomi in una maniera tale che mi misi a tremare come una foglia. "Ascoltami, dunque, bella fanciulla", mi dice, e i suoi occhi ardevano meravigliosamente, "non ti dirò parole vane, ma ti farò una grande promessa: fintanto che mi vorrai donare felicità, fino ad allora io sarò tuo signore, ma se un giorno cesserai di amarmi, non dirmelo neppure, non spendere una parola, non darti alcuna pena, ma aggrotta soltanto le tue ciglia di zibellino, muovi il tuo occhio nero, fa' cenno soltanto col tuo dito mignolo ed io ti renderò il tuo amore insieme con l'aurea libertà; soltanto quel giorno, mia bella superba e dominatrice, sarà anche il mio ultimo giorno!". E tutta la mia carne sorrise alle sue parole...».
Un turbamento profondo interruppe il racconto di Katerina; ella tirò il fiato, sorrise per un nuovo pensiero che le era venuto alla mente e avrebbe voluto proseguire, ma a un tratto il suo 44
sguardo scintillante incontrò lo sguardo ardente, intento di Ordynov. Ella sussultò, avrebbe voluto dire qualcosa, ma il sangue le inondò il viso... Come in deliquio ella si coprì la faccia con le mani e l'affondò nei cuscini. L'anima di Ordynov era tutta sottosopra! Un sentimento tormentoso, uno smarrimento inconsapevole, intollerabile si era diffuso come un veleno per tutte le sue vene e aumentava a ogni parola del racconto di Katerina: un desiderio disperato, una passione avida e intollerabile si era impossessata dei suoi pensieri e intorbidava i suoi sentimenti. Ma nello stesso tempo una tristezza infinita e opprimente serrava il suo cuore. A momenti avrebbe voluto urlare a Katerina che tacesse, avrebbe voluto gettarsi ai suoi piedi e supplicarla piangendo che gli restituisse le sue pene d'amore di prima, il suo precedente, inconsapevole, puro desiderio, e rimpianse le sue lacrime ormai da gran tempo asciugate. Il cuore gli faceva male, dolorosamente gonfio di sangue, rifiutando le lacrime alla sua anima esulcerata. Egli non comprendeva quello che gli diceva Katerina e il suo amore era atterrito dal sentimento che sconvolgeva la povera donna. In quel momento egli maledisse la propria passione: essa lo soffocava, lo struggeva e gli pareva che in quel momento, al posto del sangue, gli scorresse nelle vene piombo fuso.
«Ah, ma non sta in ciò che ti ho raccontato adesso la mia sciagura», disse Katerina, sollevando improvvisamente la testa, «non sta in questo la mia sciagura», proseguì con una voce che squillava come bronzo per un nuovo, inatteso sentimento, mentre la sua anima era tutta straziata per le lacrime disperate che vi si nascondevano, «non sta in questo la mia sciagura, non sta in questo il mio tormento, il mio assillo! Che cosa, che cosa me ne importa di mia madre, anche se non potrò mai trovarne un'altra al mondo! Che m'importa, se anche mi ha maledetta nella sua ultima, fatale ora! Che m'importa della mia dorata vita d'un tempo, della mia calda cameretta, della mia libertà di fanciulla! Che m'importa se mi sono venduta all'impuro e ho dato la mia anima a chi mi porta alla perdizione, se in cambio della felicità ho commesso peccato mortale! Ah, non sta in questo la mia sciagura, anche se grande a causa di ciò è la mia rovina! Quel che mi amareggia e mi strazia il cuore è che sono la sua schiava disonorata, che il mio disonore e la mia vergogna sono cari a me, svergognata, che il mio cuore ricorda avidamente il proprio dolore come se fosse una gioia e una felicità, la mia sciagura sta nel fatto che in essa non v'è né forza, né ira per l'offesa patita!...».
Alla povera donna mancò il fiato e un pianto isterico, spasmodico troncò le sue parole. Un respiro ardente e convulso bruciava le sue labbra, il suo petto si sollevava e si abbassava profondamente e i suoi occhi scintillavano di un'ira inspiegabile. Ma un tale incanto emanava in quel momento dal suo volto, un così appassionato torrente di sentimenti, una così intollerabile, inaudita bellezza vibrava in ogni lineamento, in ogni muscolo di esso, che di colpo nel petto di Ordynov si dileguarono i pensieri neri e tacque la lancinante tristezza. Il suo cuore avrebbe voluto slanciarsi e stringersi al cuore di lei, obliarsi con esso e in esso in un appassionato, folle turbamento, battere al ritmo della stessa tempesta, dello stesso impeto di sconosciuta passione e magari morire assieme ad esso. Katerina incontrò lo sguardo offuscato di Ordynov e gli sorrise in modo tale che un torrente di fuoco gli avvolse il cuore due volte più forte. Egli non aveva quasi coscienza di sé.
«Abbi pietà di me, risparmiami!», le sussurrò cercando di dominare la voce tremante, chinandosi verso di lei, appoggiandole la mano sulla spalla e guardandola così da vicino negli occhi che i loro respiri si fondevano in uno solo. «Tu mi hai ucciso! Io non conosco il tuo dolore e la mia anima è turbata... Che cosa m'importa del motivo per cui piange il tuo cuore? Dimmi che cosa vuoi da me... io lo farò. Vieni via con me, andiamo via, non uccidermi, non portarmi alla rovina!...».
Katerina lo guardava immobile; le lacrime si erano asciugate sulle sue guance ardenti.
Avrebbe voluto interromperlo, gli prese la mano e avrebbe voluto dire qualcosa, ma sembrava che non trovasse le parole. Uno strano sorriso spuntò lentamente sulle sue labbra: sembrava che una risata volesse prorompere attraverso quel sorriso.
«Si vede che non ti ho raccontato tutto», proferì infine con voce convulsa. «Ti racconterò ancora, ma tu, cuore ardente, mi ascolterai, eh, mi ascolterai? Sta' a sentire la tua sorellina! Si vede che conosci ancora poco la sua crudele sventura! Avrei voluto raccontarti come ho vissuto un anno con lui, ma non lo farò... Trascorso che fu un anno egli se ne andò con i suoi compagni giù per il fiume e io rimasi presso la sua madre adottiva ad attenderlo all'approdo. Lo attendo un mese, due, e 45
nel sobborgo mi imbattei in un giovane mercante, lo guardai e mi rammentai dei dorati anni di un tempo. "Piccola innamorata, sorellina!", esclama lui dopo aver scambiato con me due parole. "Sono Alëša, il tuo promesso! Fin da bambini i nostri vecchi avevano stabilito che ci sposassimo; ma tu ti sei scordata di me; ricordatene ora, sono anch'io del tuo paese...". "E che cosa si dice di me al vostro paese?". "La gente dice che ti sei disonorata, che hai scordato il tuo pudore verginale, che ti sei messa con un brigante e un assassino", mi dice Alëša ridendo. "E tu cosa dici di me?". "Avrei voluto dire molte cose mentre venivo qui", e il suo cuore si turbò, "ma ora che ti ho visto la mia anima è tramortita; tu mi hai ucciso", mi dice. "Compra anche la mia anima, prendila, ridi pure del mio cuore e del mio amore, bella fanciulla. Ora sono orfano, padrone di me stesso, e anche la mia anima è mia e di nessun altro, non l'ho venduta ad alcuno, come qualcuno che ha perso la memoria!
E il mio cuore non c'è bisogno che tu lo compri, te lo donerò, è un affare conveniente, vedi?". Io scoppiai a ridere; e non fu solo una volta o due che mi fece questi discorsi, ma per un mese intero visse solo soletto in una fattoria, non si curava delle sue mercanzie, aveva licenziato la sua gente.
Provai pietà delle sue lacrime d'orfano. Così una mattina gli dissi: "Aspettami, Alëša, non appena farà buio vicino al molo; ce ne andremo assieme al tuo paese! Non ne posso più di questa misera vita!". Si fece notte ed io annodai il mio fagotto. La mia anima doleva e gioiva. Quand'ecco, inatteso e non si sa come, entra il mio padrone. "Salve; andiamo; ci sarà tempesta sul fiume e il tempo non aspetta". Mi avviai dietro a lui; arrivammo sulla riva, ma la nostra gente era lontana; guardiamo e vediamo una barca sulla quale sedeva un rematore che sembrava in attesa di qualcuno.
"Salve, Alëša, Dio ti ha mandato in nostro soccorso! Che c'è? Hai tardato al molo e ora stai raggiungendo le tue barche? Porta anche noi, anima buona, me e la mia padroncina, fino alla nostra gente; ho rimandato indietro la mia barca e di arrivarci a nuoto non son capace". "Monta", rispose Alëša, e la mia anima fu trafitta come udii la sua voce. "Monta insieme alla padroncina; il vento soffia per tutti e nella mia casa ci sarà posto anche per voi". Salimmo sulla barca; la notte era buia, le stelle si erano nascoste, il vento ululava, le onde erano alte ed eravamo lontani una verstà dalla riva. Tacevamo tutti e tre.
«"Ecco la tempesta!", esclama il mio padrone. "Questa tempesta non è di buon augurio! Da quando sono nato non ho ancora mai visto una tempesta come quella che ora si scatenerà! La nostra barca è troppo carica! Non può portare tutti e tre!". "Sì, non ci può portare tutti e tre", risponde Alëša, "e dunque uno di noi è di troppo", dice e la sua voce trema come una corda. "Allora, Alëša, ti conosco fin da quando eri un bambino, con tuo padre ero come un fratello, ci dividevamo il pane e il sale, dimmi, dunque, Alëša, riusciresti ad arrivare fino alla riva senza la barca, oppure creperesti per nulla perdendo la tua anima?". "Non ci arriverei!". "Ma tu sei un'anima buona, l'ora, come succede, è terribile, e anche a te, a volte, può toccare di bere molta acqua, ci arriverai, oppure no?".
"Non ci arriverò; sarebbe la fine per la mia anima, non posso farcela a superare il fiume in tempesta!". "Ascoltami ora tu, Katerìnuška, perla mia preziosa! Ricordo un'altra notte come questa, solo che allora le onde non erano agitate, brillavano le stelle e splendeva la luna... Voglio chiederti, così, semplicemente: te la sei dimenticata?". "Me la ricordo", rispondo io... "E se non hai dimenticato quella notte, allora non hai dimenticato neppure il patto e ricordi come un gagliardo insegnò a una bella fanciulla a farsi rendere la sua libertà da chi non le fosse più caro, eh?". "No, non mi sono dimenticata neppure questo", dico io più morta che viva. "Dunque non te lo sei scordato! Allora guarda: ora la barca è troppo carica. Non è forse giunta l'ora per qualcuno? Parla, amata, parla, colombella, pronuncia nel tuo linguaggio di colomba una dolce parola"...
«Io non dissi la mia parola, allora!», mormorò Katerina impallidendo... Ma non riuscì a terminare la frase.
«Katerina!», risuonò sopra di loro una voce sorda e rauca.
Ordynov sussultò. Murin era ritto sulla porta. Era a malapena coperto con la coltre di pelliccia, pallido come un morto, e li guardava con uno sguardo quasi forsennato. Katerina impallidiva sempre più e lo fissava a sua volta immobile, come stregata.
«Vieni da me, Katerina!», mormorò il malato con voce quasi impercettibile, e uscì dalla stanza. Katerina continuava a guardare immobile nel vuoto, come se il vecchio fosse stato ancora lì, 46
davanti a lei. Ma ad un tratto il sangue infiammò di colpo le sue gote pallide ed ella si levò lentamente dal letto. Ordynov si ricordò del loro primo incontro.
«A domani, dunque, lacrime mie!», disse lei con uno strano sorriso. «A domani! Ricordati dunque il punto dove mi sono fermata: "Scegli uno dei due: chi ti è caro o non ti è caro, bella fanciulla!". Te lo ricorderai, aspetterai una breve notte?», ripeté ponendogli le mani sulle spalle e guardandolo con tenerezza.
«Katerina, non andare, non distruggere te stessa! Egli è pazzo!», mormorò Ordynov tremando per lei.
«Katerina!», risuonò la voce da dietro il divisorio.
«Che sarà mai? Mi sgozzerà, forse?», ribatté, ridendo, Katerina. «Buona notte a te, cuore mio adorato, colombo mio ardente, fratellino caro!», diceva premendo la testa di lui sul suo petto, mentre le lacrime improvvisamente irroravano il suo viso.
«Sono le mie ultime lacrime. Col sonno il dolore ti passerà, mio amato, e domani ti desterai alla gioia». E lo baciò appassionatamente.
«Katerina! Katerina!», mormorò Ordynov gettandosi in ginocchio davanti a lei e tentando di fermarla. «Katerina!».
Ella si voltò, sorridendo gli fece un cenno con la testa, e uscì dalla stanza. Ordynov la udì entrare nella stanza di Murin; trattenendo il respiro tese l'orecchio, ma non udì più nemmeno il più piccolo rumore. Il vecchio taceva, oppure, forse, era di nuovo privo di sensi... Avrebbe voluto andare di là da lei, ma le gambe gli si piegarono sotto... Spossato si lasciò andare sul letto...
II
A lungo non riuscì a capire che ora fosse quando riaprì gli occhi. Era l'alba o il crepuscolo?
Nella camera era ancora buio. Non avrebbe saputo dire quanto tempo esattamente avesse dormito, ma sentiva che il suo era stato un sonno dovuto alla malattia. Ritornando in sé si passò una mano sul viso come per scacciare il sonno e le visioni notturne. Ma quando fece per posare i piedi a terra gli parve che tutto il suo corpo fosse a pezzi e le sue membra esauste si rifiutarono di obbedirgli. La testa gli faceva male e gli girava, e tutto il suo corpo era percorso ora da brividi, ora da vampate di fuoco. Con la coscienza gli tornò anche la memoria, e il cuore gli tremò quando in un attimo rivisse nel ricordo tutta la notte passata. Il suo cuore batteva così forte a quel pensiero, tanto ardenti e vive erano le sue sensazioni, che pareva che non una notte, non lunghe ore, bensì soltanto un istante fosse passato da quando Katerina lo aveva lasciato. Sentì che i suoi occhi non si erano ancora asciugati o forse erano lacrime nuove, fresche, che sgorgavano come una fonte dalla sua anima ardente? E, ciò che è straordinario, provava persino voluttà nei propri tormenti, benché avvertisse sordamente con tutto il proprio essere che non avrebbe resistito oltre a una simile violenza. Ci fu un momento in cui gli parve quasi di percepire la morte ed era pronto ad accoglierla come un'ospite luminosa: tanto tesa era la sua sensibilità, con così possente slancio al suo risveglio aveva ripreso a ribollire la sua passione, tale era l'eccitazione che agitava la sua anima che la vita, accelerata da un'attività frenetica, sembrava fosse pronta a spezzarsi, a crollare, a incenerirsi in un attimo spegnendosi per sempre. Quasi in quel medesimo istante, come rispondendo alla sua angoscia, come rispondendo al tremito del suo cuore, risuonò, come quella musica interiore che l'anima dell'uomo conosce nelle ore in cui gioisce della propria vita, nelle ore di imperturbata felicità, la voce a lui ben nota, densa e squillante, di Katerina. Vicino, accanto a lui, quasi sopra il suo capezzale echeggiò una canzone, dapprima sommessa e malinconica... La voce ora si innalzava, ora si abbassava spegnendosi in uno spasimo, come celando per sé e cullando teneramente la tumultuosa sofferenza derivante da un insaziabile, represso desiderio, gelosamente racchiuso nel cuore angosciato; ora di nuovo si levava come il gorgheggio di un usignolo e, tutta vibrante, infiammandosi ormai di un'incontenibile passione, si effondeva in un mare intero di esultanza, in un mare di suoni possenti e sconfinati come il primo istante di beatitudine dell'amore. Ordynov distingueva anche le parole: erano parole semplici, che sgorgavano dal cuore, composte tanto tempo 47
fa da un sentimento diritto, tranquillo, puro e chiaro a se stesso. Ma egli si dimenticava di esse e sentiva soltanto i suoni. Dietro lo stile semplice e ingenuo della canzone scintillavano alla sua mente altre parole, nelle quali risuonava tutto lo slancio di cui traboccava il suo petto, che davano voce a tutte le sinuosità più segrete e a lui stesso ignote della sua passione, nelle quali avvertiva chiaramente, con tutta la propria coscienza, il suono di essa. E ora gli pareva di udire l'estremo gemito di un cuore che ineluttabilmente moriva per la passione, ora la gioia della volontà e dello spirito che hanno spezzato le proprie catene e si lanciano liberi e luminosi nello sconfinato mare di un amore totalmente libero; ora gli pareva di udire il primo giuramento di un'innamorata col suo profumo pudico per il primo rossore in volto, accompagnato da suppliche, da lacrime, da misteriosi e timidi sussurri; ora il desiderio di una baccante, fiera e felice della propria forza, senza veli, senza segreti, che gira intorno gli occhi ebbri scintillanti di riso...
Ordynov non riuscì ad attendere fino alla fine della canzone e si alzò dal letto. Il canto cessò immediatamente.
«Il buon mattino e il buon dì sono trascorsi, mio bramato!», risuonò la voce di Katerina,
«buona sera a te! Alzati, vieni da noi, destati a una luminosa gioia; ti attendiamo, io e il padrone, tutta gente buona, ubbidiente ai tuoi voleri; spegni l'odio con l'amore, se ancora il tuo cuore duole per l'offesa. Di' una parola amorevole!...».
Ordynov fin dalla prima parola di lei era uscito dalla sua stanza e, senza quasi rendersene conto, stava entrando nella stanza dei padroni. La porta si aprì davanti a lui e, luminoso come il sole, gli risplendette il sorriso dorato della sua meravigliosa padrona di casa. In quel momento egli non vedeva e non sentiva nessuno, all'infuori di lei. Istantaneamente tutta la sua vita, tutta la sua gioia nel suo cuore si fusero in una cosa sola; l'immagine luminosa della sua Katerina.
«Due aurore sono passate», disse lei porgendogli le mani, «da quando ci siamo congedati; la seconda si sta spegnendo ora, guarda dalla finestra. Come le due aurore dell'anima di una bella fanciulla», proseguì ridendo Katerina, «la prima è quella che fa arrossire il volto per la prima vergogna, quando per la prima volta trasale nel petto il cuore solitario della fanciulla, mentre la seconda, quando la bella fanciulla dimentica la prima vergogna, avvampa come una fiamma, opprime il suo petto e le inonda il viso di sangue scarlatto... Entra, entra nella nostra casa, buon giovane! Perché te ne stai sulla soglia? Onore a te, e amore, il saluto del padrone!».
Con un riso squillante come musica ella prese per mano Ordynov e lo fece entrare nella stanza. La timidezza si era impossessata del suo cuore. Tutta la fiamma, tutto l'incendio che divampavano nel suo cuore sembrava che si fossero consumati e spenti in un attimo e per un attimo; egli abbassò gli occhi imbarazzato e non aveva il coraggio di guardarla. Egli sentiva che era così meravigliosamente bella che il suo cuore non avrebbe sopportato il suo sguardo infuocato. Non aveva mai visto così la sua Katerina. Il riso e l'allegria per la prima volta sfolgoravano sul suo viso prosciugando le amare lacrime sulle ciglia nere. La mano di lui tremava in quella di lei. E se avesse sollevato gli occhi egli avrebbe visto che Katerina teneva fissi i suoi occhi luminosi sul suo viso offuscato dall'imbarazzo e dalla passione.
«Alzati, dunque, vecchio!», disse lei infine come tornando in sé d'un tratto, «di' all'ospite una parola gentile. L'ospite è come un fratello carnale! Alzati, dunque, burbero, altero vecchio, alzati, inchinati, prendilo per le bianche mani e fallo sedere alla tavola!».
Ordynov sollevò gli occhi e fu come se ritornasse in sé solo in quel momento. Ora pensava soltanto a Murin. Gli occhi del vecchio, come offuscati dall'angoscia che precede la morte, lo guardavano immobili; e con dolore egli si rammentò dello sguardo che aveva visto scintillare l'ultima volta sotto le sopracciglia nere, contratte, aggrottate come adesso per l'angoscia e l'ira. La testa cominciò a girargli. Si guardò attorno e solo allora si rese conto chiaramente e distintamente di ogni cosa. Murin era ancora disteso sul letto, ma era quasi completamente vestito e, a quanto sembrava, si era già alzato ed era uscito quella mattina. Aveva un fazzoletto rosso annodato al collo, come nei giorni precedenti e ai piedi aveva delle scarpe da città. Il male, evidentemente, gli era passato, solamente il suo volto era ancora terribilmente pallido e giallastro. Katerina era ritta accanto al letto, appoggiata con una mano sul tavolo, e osservava ambedue attentamente. Ma un 48
sorriso affettuoso non abbandonava il suo viso. Sembrava che ogni cosa si svolgesse obbedendo ai suoi cenni.
«Ah, sei tu», disse Murin tirandosi su a sedere sul letto. «Sei il mio pigionante. Sono in colpa davanti a te, signore, ho fallato e ti ho offeso senza sapere, né rendermi conto, ho fatto il burlone testé col fucile! E chi poteva sapere che anche su di te piomba la nera infermità? A me succede così», aggiunse poi con voce rauca, dolorante, aggrottando le sopracciglia e distogliendo istintivamente gli occhi da Ordynov. «La sciagura arriva senza bussare alla porta, si accosta di soppiatto come un ladro! A momenti anche a lei, or non è molto, per poco non piantavo il coltello nel petto...», proferì accennando con la testa a Katerina. «Sono malato, mi vengono degli attacchi...
Ma parliamo d'altro! Siediti, sarai nostro ospite!».
Ordynov continuava a guardarlo fissamente.
«Siediti, dunque, siediti!», gridò il vecchio con impazienza, «siediti, visto che ciò le fa piacere! Siete diventati come fratelli usciti dalla stessa matrice! Vi siete affezionati come se foste due innamorati!».
Ordynov si sedette.
«Vedi che sorellina», continuò il vecchio scoppiando a ridere e mostrando due file di denti bianchi e tutti quanti sani. «Fatevi le carezze, miei cari! È bella la tua sorellina, signore? Dimmi, rispondimi! Guarda come bruciano le sue guance. Guarda, dunque, rendi onore davanti a tutto il mondo alla sua bellezza! Mostra come si strugge per lei il tuo fervido cuore!».
Ordynov aggrottò le sopracciglia e guardò pieno di rabbia il vecchio. Questi sussultò al suo sguardo. Un cieco furore ribollì nel cuore di Ordynov. Per una sorta di istinto animale sentiva accanto a sé un nemico mortale. Non riusciva lui stesso a rendersi conto di che cosa gli accadesse, la ragione si rifiutava di obbedirgli.
«Non guardarlo!», risuonò una voce dietro di lui. Ordynov si voltò.
«Non guardarlo, dunque, non guardarlo, ti dico, se il demonio ti aizza, abbi pietà della tua amata», disse ridendo Katerina e d'un tratto, standogli dietro, gli coprì gli occhi con le mani; poi all'improvviso tolse le mani dal suo viso e si coprì gli occhi a sua volta. Ma il colore del suo volto sembrava effondersi attraverso le sue dita. Ella si tolse le mani dal viso e, tutta ardente come il fuoco, si preparò a sostenere con uno sguardo luminoso e fermo il loro riso e i loro sguardi incuriositi. Ma entrambi la guardavano in silenzio - Ordynov con una sorta di innamorata meraviglia, come se fosse la prima volta che una così terribile bellezza gli trafiggeva il cuore; il vecchio con fredda attenzione. Nessuna espressione trapelava dal suo viso pallido; soltanto le sue labbra erano diventate livide e tremavano leggermente.
Katerina, senza più ridere, si avvicinò alla tavola e cominciò a raccogliere i libri, le carte, l'inchiostro e tutto quello che era posato su di essa e a metterlo sul davanzale della finestra.
Respirava in fretta, convulsamente e, a tratti, aspirava l'aria avidamente come se il suo cuore fosse in affanno. Pesantemente, simile all'onda che batte sulla riva, il suo petto turgido si abbassava e si sollevava di nuovo. Ella abbassò gli occhi e le sue ciglia nere come pece brillarono simili ad aghi appuntiti sulle sue guance luminose...
«Regale fanciulla!», disse il vecchio.
«Mia regina!», mormorò Ordynov tremando tutto. Egli tornò in sé sentendo su di lui lo sguardo del vecchio: per un attimo quello sguardo lampeggiò come un fulmine, avido, malvagio, freddamente sprezzante. Ordynov fece per alzarsi in piedi, ma sembrava che una forza invisibile gli avesse incatenato le gambe. Ricadde a sedere. A tratti egli si stringeva la mano come se non credesse ai propri occhi. Gli pareva di vivere un incubo opprimente e che sui suoi occhi gravasse un angoscioso e doloroso sonno! Ma la cosa straordinaria è che non desiderava risvegliarsi...
Katerina tolse dalla tavola il vecchio tappeto, poi aprì un baule, tirò fuori una preziosa tovaglia tutta ricamata di sete colorate e d'oro e la distese sulla tavola; poi tirò fuori dall'armadio un antico cofanetto d'argento appartenuto ai suoi bisavoli, lo depose al centro della tavola ed estrasse da esso tre coppe d'argento: per il padrone di casa, per l'ospite e per sé; poi fissò il vecchio e l'ospite con aria solenne, quasi pensierosa.
49
«Chi fra noi è caro o non è caro all'altro?», disse. «Colui che non è caro all'altro è caro a me e berrà la sua coppa con me. A me invece è caro ognuno di voi due, ognuno è diletto: beviamo quindi tutti all'amore e alla concordia!».
«Beviamo e anneghiamo nel vino i pensieri neri!», disse il vecchio con voce alterata.
«Mesci, Katerina!».
«E tu comandi di mescere?», domandò Katerina guardando Ordynov.
Ordynov in silenzio le porse la sua coppa.
«Aspetta! Che il desiderio e il pensiero di ognuno si avveri secondo la sua volontà!», esclamò il vecchio levando in alto la sua coppa.
Tutti urtarono le coppe e bevvero.
«Ed ora beviamo noi due insieme, vecchio!», disse Katerina, rivolgendosi al padrone di casa. «Beviamo, se il tuo cuore è amorevole verso di me! Beviamo alla passata felicità, facciamo un inchino agli anni vissuti, inchiniamoci col cuore e con l'amore per la felicità! Comanda di mescere, se il tuo cuore è caldo per me!».
«Il tuo vinello è forte, colombella mia, mentre tu te ne bagni soltanto le labbra!», disse il vecchio ridendo mentre porgeva di nuovo la coppa.
«Bene, ne berrò un sorso, ma tu bevi fino in fondo!... Che vita è, vecchio, se ci si trascina dietro un grave pensiero? I pensieri gravi fanno soltanto dolere il cuore! Il pensiero nasce dal dolore e chiama il dolore, mentre quando si è felici si vive senza pensieri! Bevi, vecchio! Annega il tuo pensiero!».
«Molto dolore deve essersi accumulato nel tuo animo se ti premunisci in questo modo contro di esso! Si vede che hai deciso di farla finita con esso tutto in una volta, bianca colombella mia. Bevo assieme a te, Katja! E tu hai un dolore, signore, se consenti di domandartelo?».
«Quello che ho me lo tengo per me», mormorò Ordynov senza staccare gli occhi da Katerina.
«Hai sentito, vecchio? Anch'io per lungo tempo non conoscevo, non ricordavo me stessa, ma è venuto il tempo che tutto ho conosciuto e ricordato; e ho rivissuto di nuovo con la mia anima insaziabile tutto ciò che è stato».
«È una brutta cosa se si comincia a vivere solo del passato», disse il vecchio pensierosamente. «Quel che è passato è come il vino che è stato bevuto! Che felicità c'è nel passato? Quando il caffetano si è consumato, lo getti via...».
«Ne occorre uno nuovo!», assentì Katerina scoppiando a ridere forzatamente, mentre due grosse lacrime, simili a due diamanti, scintillarono sulle sue ciglia. «Si vede che non si può vivere un secolo in un solo istante e il cuore di una fanciulla è vivace e non si riesce a stare al passo con lui! Hai capito, vecchio? Guarda, seppellisco la mia lacrima nella tua coppa!».
«Ed è in cambio di molta felicità che hai comprato il tuo dolore?», chiese Ordynov con voce tremante per l'emozione.
«Si vede, signore, che hai molto da vendere del tuo!», ribatté il vecchio, «visto che ti intrometti senza essere stato pregato». E scoppiò in una risata rabbiosa e silenziosa, guardando sfrontatamente Ordynov negli occhi.
«Per quanto ho venduto, tanto ho avuto», rispose Katerina con tono quasi scontento e offeso.
«A uno pare tanto, a un altro poco. Uno vuol dare tutto, ma non riesce a prender nulla, un altro non promette nulla, eppure il cuore lo segue obbediente! Ma tu non rimproverare l'uomo», aggiunse poi guardando con tristezza Ordynov, «un uomo è così, l'altro è diverso, come se si sapesse perché l'anima si protende verso questo piuttosto che quell'altro! Riempi dunque la tua coppa, vecchio!
Bevi alla felicità della tua figliola, della tua amata, della tua schiava silenziosa e sottomessa, com'era dapprincipio quando ti ha conosciuto per la prima volta. Leva in alto la tua coppa!».
«Sia dunque così! Riempi anche la tua!», disse il vecchio prendendo il vino.
«Aspetta, vecchio! Aspetta a bere, lascia che prima dica una parola!...».
Katerina appoggiò i gomiti sulla tavola e fissò i suoi occhi accesi e appassionati in quelli del vecchio. Una strana decisione scintillava nel suo sguardo. Ma tutti i suoi movimenti erano inquieti, i 50
suoi gesti erano convulsi, inattesi, rapidi. Ella sembrava ardere tutta in maniera stupefacente.
Tuttavia sembrava che la sua bellezza crescesse insieme alla sua emozione e alla sua animazione.
Dalle sue labbra che si socchiudevano in un sorriso, mostrando due file di denti bianchi, regolari come perle, usciva un respiro convulso che dilatava leggermente le sue narici. Il suo petto era agitato; la treccia avvolta in tre giri sulla sua nuca era scivolata negligentemente un po' sull'orecchio sinistro, coprendole una parte della guancia ardente. Un velo di sudore spuntava sulle sue tempie.
«Leggimi la mano, vecchio! Leggimela, mio amato, leggimela prima che il vino ti annebbi la mente; eccoti il mio palmo bianco! Non per nulla la gente da noi ti chiamava mago. Tu hai studiato sui libri e conosci ogni formula magica! Guarda, dunque, vecchio mio, leggimi tutto il mio triste destino; bada soltanto di non mentirmi! Dimmi, dunque, quel che sai: sarà felice la tua figliuola, oppure tu non la risparmierai e invocherai sul suo cammino soltanto la malasorte? Dimmi, sarà caldo l'angolo dove farò il mio nido, oppure, come l'uccello migratore, cercherò come un'orfanella il mio posto in mezzo alla brava gente? Dimmi chi mi è nemico, chi amore mi prepara, chi ordisce trame contro di me? Dimmi, in solitudine il mio cuore giovane e ardente dovrà vivere il suo tempo e prima del suo tempo smorzarsi, oppure troverà il suo gemello e batterà all'unisono con esso per la felicità... fino a un nuovo dolore! E già che ci sei, vecchio mio, indovina anche in quale azzurro cielo, al di là di quali mari e boschi vive il mio chiaro falco, se egli scruta con l'occhio acuto per trovare la sua falchetta e se mi attende o non mi attende con amore, se si innamorerà di me profondamente, se si disamorerà presto, se mi ingannerà o se non mi ingannerà. E infine dimmi tutto in una volta ancora, vecchio mio, se ci resta ancora molto da accorciare il tempo insieme in quest'angolo squallido, a leggere i libri neri; e quando, vecchio, mi toccherà inchinarmi profondamente a te, congedarmi benignamente, e ringraziarti per il pane e per il sale, perché mi hai dato da mangiare, da bere e mi hai raccontato le favole... E bada di dire tutta la verità, non mentire; è venuto il momento di mostrare quel che vali!».
La sua animazione era andata crescendo sempre più fino all'ultima parola, quando, a un tratto, l'emozione le spezzò la voce, come se un turbine avesse trascinato via il suo cuore. I suoi occhi scintillarono e il labbro superiore le tremò leggermente. Si sentiva un riso maligno serpeggiare e nascondersi in ogni sua parola, ma sembrava che in quel riso risuonasse il pianto. Ella si era protesa verso il vecchio al di sopra della tavola e lo guardava fissamente, con avida attenzione negli occhi fattisi torbidi. Ordynov sentì il suo cuore cominciare a battere forte non appena ella ebbe terminato di parlare e, quando le rivolse lo sguardo, proruppe in un'esclamazione estatica e fece per alzarsi dalla panca. Ma un fuggevole, istantaneo sguardo del vecchio lo inchiodò di nuovo al suo posto. In esso traluceva uno strano miscuglio di disprezzo, di derisione, di impaziente, irritata inquietudine e, nello stesso tempo, di maligna, astuta curiosità, che faceva sussultare ogni volta Ordynov riempiendo il suo cuore di bile, di dispetto e di rabbia impotente.
Il vecchio guardò la sua Katerina pensosamente e con una sorta di triste curiosità. Il suo cuore era esacerbato, le parole erano state dette. Ma neppure un muscolo del suo viso si mosse! Egli si limitò soltanto a sorridere quando ella ebbe finito di parlare.
«Tante cose vuoi sapere in una volta sola, uccellino mio che ha messo le piume, rondinella che ha appena cominciato a battere le ali! Versami presto una coppa colma; beviamo prima alla pace fra noi e alla buona volontà; altrimenti l'occhio nero e malefico di qualcuno potrebbe guastare il mio auspicio. Il demonio è forte e si fa presto a cadere nel peccato!».
Egli sollevò la sua coppa e bevve. Quanto più beveva tanto più pallido egli diventava. I suoi occhi si fecero rossi come carboni accesi. Il loro luccicare febbrile e il subitaneo, mortale pallora del viso facevano chiaramente presagire un imminente nuovo attacco della sua malattia. Il vino poi era forte, così che per l'unica coppa da lui bevuta gli occhi di Ordynov si annebbiavano sempre più. Il sangue infiammato dalla febbre gli inondava il cuore, confondendo e offuscando la sua mente. La sua inquietudine diveniva via via sempre più forte. Egli si versò e bevve dell'altro vino, senza neppure sapere lui stesso quello che faceva, come acquetare la sua crescente agitazione, e il sangue si mise a scorrere ancora più velocemente nelle sue vene. Era in una sorta di delirio e riusciva a 51
stento a seguire, tendendo più che poteva la sua attenzione, quanto stava accadendo tra i suoi due strani padroni di casa.
Il vecchio batté rumorosamente sul tavolo la sua coppa d'argento.
«Mesci, Katerina», gridò. «Mesci ancora, figliola cattiva, mesci fino a farmi cadere! Stendi morto il vecchio e falla finita con lui! Ecco, così, mesci ancora, riempimi la coppa, bella fanciulla!
Beviamo insieme! Perché hai bevuto così poco? Credi che non t'abbia vista?...».
Katerina gli rispose qualcosa, ma Ordynov non capì che cosa avesse detto: il vecchio non le lasciò terminare la frase e le afferrò la mano come se non riuscisse più a trattenere ciò che gli faceva ressa nel petto. Il suo volto era pallido; gli occhi ora gli si offuscavano, ora scintillavano di una vivida fiamma; le labbra sbiancate tremavano e con voce ineguale e turbata, nella quale a tratti sfavillava una strana esaltazione, le disse:
«Dammi la manina, bella fanciulla! Orsù, ti predirò la sorte, ti dirò tutta la verità. Io sono davvero un mago; dunque non ti sei sbagliata, Katerina! Dunque ti ha detto la verità il tuo piccolo cuore d'oro, che sono io il suo unico mago e che a lui, semplice e ingenuo, non terrò celata la verità!
Ma una cosa sola tu non hai capito: non sono io, il mago, che potrò insegnarti la ragione e il buon senso! La ragione non è la volontà per la fanciulla e se anche sente tutta la verità è come se non l'avesse mai conosciuta né saputa! La sua testa è come una serpe astuta, anche se il suo cuore s'inonda di lacrime! Si troverà da sé la strada, saprà strisciare di soppiatto in mezzo alle sciagure preservando il suo astuto volere! Da una parte riuscirà a vincere con la mente, e dove non ce la farà con la mente, offuscherà la mente altrui con la sua bellezza, la inebrierà col suo occhio nero: la bellezza spezza la forza e persino il cuore di ferro si fende in due! Ci sarà dunque tristezza e dolore nella tua vita? È cosa dura la tristezza umana! Ma per il cuore debole non v'è sciagura! È il cuore forte che conosce la sciagura e questa si effonde in silenzio con una lacrima di sangue, ma non si espone alla gente con facile disonore: il tuo dolore, fanciulla, è invece come una traccia sulla sabbia, la pioggia la laverà, il sole l'asciugherà, il vento selvaggio la cancellerà e la spazzerà via!
Ma voglio farti un'altra predizione: di colui che ti amerà tu sarai la schiava, incatenerai tu stessa la tua volontà e gliela darai in pegno; non saprai disamare in tempo; seminerai un chicco e chi sarà la tua rovina si prenderà indietro una spiga intera! Bambina mia tenera, testolina d'oro, hai seppellito nella mia coppa la tua piccola lacrima, la tua perla, ma non hai saputo trattenerti e ne hai versate subito altre cento, hai perduto la tua paroletta bella e ti sei vantata del tuo dolore! Ma per essa, per quella piccola lacrima, non devi darti pena e rattristarti. Essa ti verrà restituita a usura, la tua piccola lacrima di perla, in una lunga notte di dolore quando un atroce rovello, un nero pensiero comincerà a roderti: allora sul tuo cuore ardente, sempre per quella stessa piccola lacrima, ti gocciolerà una diversa lacrima, la lacrima di qualcun altro, di sangue, e non tiepida, ma simile a piombo fuso; essa ti brucerà a sangue il bianco petto e fino al mattino, un mattino triste e uggioso, come quello dei giorni piovosi, ti rivolterai nel letto stillando scarlatto sangue e la tua fresca ferita non si rimarginerà fino al mattino seguente! Mesci ancora, Katerina, mesci, colombella mia, mescimi così che ti dia un saggio consiglio; quanto al seguito, poi, non è il caso di spender altre parole...».
La sua voce si affievolì e tremò: sembrava che dal petto stesse per prorompergli un singhiozzo... Egli si versò del vino e bevve avidamente un'altra coppa; poi batté di nuovo la coppa sul tavolo. Il suo sguardo torbido fiammeggiò nuovamente.
«Ah, vivi come viene!», esclamò. «Ciò che è passato scrollatelo dalle spalle! Mescimi, mescimi ancora, porgimi continuamente la coppa piena che mi spicchi la testa indocile dalle spalle, che tutta l'anima sia tramortita da essa! Stendimi per una lunga notte, e che sia senza mattino, che la memoria si allontani da me per sempre. Quel che è stato bevuto, è stato vissuto! Si vede che la mercanzia ha perso di valore, è rimasta troppo a lungo nelle mani del mercante e ora egli la dà via per nulla! Ma quel mercante di sua spontanea volontà non avrebbe mai venduto quella merce per meno del suo prezzo: sarebbe stato versato il sangue del nemico, sarebbe stato sparso anche il sangue innocente e quel compratore ci avrebbe messo per giunta anche la propria anima perduta!
Mesci, mescimi ancora, Katerina!...».
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Ma la mano con cui reggeva la coppa sembrava divenuta inerte e non si muoveva; egli respirava affannosamente e con fatica e la testa involontariamente gli si piegò. Per l'ultima volta egli piantò il suo sguardo appannato su Ordynov, ma anche quello sguardo infine si spense e le sue palpebre ricaddero, come se fossero state di piombo. Un pallore mortale si diffuse sul suo volto...
Ancora per qualche istante le sue labbra tremolarono e sussultarono come se si sforzasse di dire qualcosa, e improvvisamente un'ardente, grossa lacrima penzolò dal suo ciglio, si distaccò e rotolò per la guancia pallida... Ordynov non ebbe più la forza di resistere oltre. Egli si alzò, si avvicinò a Katerina e l'afferrò per la mano; ma lei non lo guardò, come se non lo avesse visto, come se non lo avesse riconosciuto...
Sembrava che anch'essa avesse perduto la conoscenza, come se un unico pensiero, un'unica immobile idea l'avesse completamente assorbita. Ella si aggrappò al petto del vecchio dormiente, lo avvinse col suo bianco braccio e lo contemplò fissamente, come se non potesse distaccarsi, con uno sguardo di fuoco, febbrile. Sembrava che non si fosse accorta che Ordynov l'aveva presa per mano.
Infine ella girò verso di lui la testa e gli lanciò uno sguardo lungo e penetrante. Sembrava che lo avesse compreso, finalmente, e un sorriso sforzato, stupito, penoso, che sembrava le costasse sofferenza, si disegnò a fatica sulle sue labbra...
«Vattene, vattene via», mormorò, «sei ubriaco e cattivo! Non sei un ospite per me!...». Qui ella si rivolse di nuovo al vecchio e di nuovo fissò su di lui i suoi occhi.
Sembrava che essa vegliasse su ogni suo respiro e cullasse con lo sguardo il suo sonno.
Sembrava che avesse persino paura di respirare e che raffrenasse il cuore in subbuglio. E nel cuore di lei v'era tanta forsennata adorazione che d'un tratto la disperazione, il furore e una rabbia incontenibile si impadronirono dell'animo di Ordynov...
«Katerina, Katerina!», la chiamò stringendo la sua mano nella propria come in una morsa.
Un'espressione di dolore passò per il viso di lei; ella sollevò di nuovo la testa e lo guardò con tale derisione, in modo così sfacciato e sprezzante, che egli a stento si resse in piedi. Poi ella gli indicò il vecchio che dormiva e, come se tutta la derisione del suo nemico si fosse trasmessa agli occhi di lei, fissò di nuovo Ordynov con uno sguardo tagliente e agghiacciante.
«Che è, dunque? Ti sgozzerà forse?», proferì Ordynov fuori di sé dal furore.
Era come se il demonio gli avesse sussurrato all'orecchio che l'aveva compresa... E tutto il suo cuore rise al pensiero fisso di Katerina...
«Ti comprerò, dunque, dal tuo mercante, bellezza mia, se hai bisogno della mia anima! Non è certo in stato di sgozzare nessuno lui!...».
Un riso immobile che tramortiva tutto l'essere di Ordynov non si cancellava dal viso di Katerina. Quello scherno senza fine straziava il suo cuore. Senza rendersi conto di quel che faceva, fuori di sé, egli si appoggiò con la mano contro la parete e staccò dal chiodo il prezioso, antico pugnale del vecchio. Sembrò che lo stupore si riflettesse sul volto di Katerina; ma sembrò nello stesso tempo che la rabbia e il disprezzo per la prima volta si riflettessero con tanta forza nei suoi occhi. Ordynov si sentiva male a guardarla... Gli sembrava che qualcuno tirasse la sua mano errante spingendola a una pazzia; egli estrasse il pugnale... Katerina immobile, come se avesse cessato di respirare, lo osservava...
Egli guardò il vecchio...
In quell'istante gli parve che un occhio del vecchio si aprisse lentamente e, ridendo, lo guardasse. I loro occhi si incontrarono. Per alcuni istanti Ordynov lo fissò immobile...
Improvvisamente gli parve che tutto il volto del vecchio scoppiasse a ridere e che una risata diabolica, assassina, agghiacciante echeggiasse infine nella stanza. Un pensiero osceno, tenebroso guizzò come un serpente attraverso la sua testa. Egli sussultò e il pugnale gli scivolò di mano e cadde sul pavimento tintinnando. Katerina lanciò un grido come riscuotendosi dal torpore, da un incubo, da una penosa, immobile visione... Il vecchio, pallido, si alzò lentamente dal letto e con rabbia spinse col piede il pugnale in un angolo della stanza. Katerina era in piedi pallida, tramortita, immobile; i suoi occhi si chiudevano; una sorda, intollerabile sofferenza contraeva 53
spasmodicamente il suo volto; ella si coprì la faccia con le mani e con un grido straziante, quasi senza fiato, cadde ai piedi del vecchio...
«Alëša! Alëša!», proruppe dal suo petto oppresso...
Il vecchio la cinse tra le sue braccia possenti quasi stritolandola contro il proprio petto. Ma, quando ella gli ebbe nascosta la testa contro il cuore, ogni minimo tratto del volto del vecchio scoppiò in una risata così sfacciata e spudorata che tutto l'essere di Ordynov fu pervaso dal terrore.
Inganno, calcolo, fredda e gelosa tirannia e terrore per un povero cuore straziato - ecco cosa lesse in questo riso impudente e non più celato...
III
Quando Ordynov, pallido, inquieto, non ancora ripresosi dalle emozioni della sera precedente, il giorno successivo, verso le otto del mattino, aprì la porta dell'appartamento di Jaroslàv Il'ìè, dal quale si era recato, senza peraltro sapere neppure lui il perché, barcollò quasi dallo stupore e rimase come inchiodato sulla soglia vedendo nella stanza Murin. Il vecchio era ancora più pallido di Ordynov e sembrava si reggesse a malapena sulle gambe a causa della sua malattia; d'altronde non aveva voluto sedersi nonostante i reiterati inviti di Jaroslàv Il'ìè felicissimo di tale visita. Jaroslàv Il'ìè lanciò anche lui un grido vedendo Ordynov, ma quasi nello stesso istante la sua gioia svanì e improvvisamente una sorta di imbarazzo lo colse, del tutto di sorpresa, a metà strada tra il tavolo e la sedia vicina. Era evidente che non sapeva che cosa dire e che cosa fare, e che si rendeva perfettamente conto di tutta la sconvenienza di continuare a succhiare in un momento così delicato una sua pipetta, lasciando solo e in disparte l'ospite, ma, nello stesso tempo (tanto forte era il suo imbarazzo) continuava ad aspirare dalla sua pipa con tutte le proprie forze e persino con una specie di trasporto. Ordynov entrò, finalmente, nella stanza. Egli gettò un fuggevole sguardo a Murin. Qualcosa che assomigliava al maligno sorriso del giorno prima, che ancora suscitava il tremito e il furore di Ordynov, passò sul volto del vecchio. D'altra parte ogni espressione ostile si nascose e sparì immediatamente e il suo viso prese l'espressione più chiusa e impenetrabile che si potesse immaginare. Egli fece un profondo inchino al proprio pigionante... Tutta questa scena fece infine tornare in sé Ordynov. Egli guardò fissamente Jaroslàv Il'ìè cercando di comprendere come stessero le cose. Jaroslàv Il'ìè si agitò e si confuse.
«Entrate, entrate», proferì finalmente, «entrate, preziosissimo Vasìlij Michàjloviè, onorate con la vostra presenza e apponete il vostro sigillo... su tutti questi banali oggetti...», disse Jaroslàv Il'ìè indicando con una mano un angolo della stanza, arrossendo come una rosa purpurea, perdendo il filo del discorso, confondendosi e irritandosi perché la sua nobilissima frase si era inceppata e aveva fatto cilecca senza costrutto, e spinse con gran rumore una sedia nel bel mezzo della stanza.
«Non vi disturbo, Jaroslàv Il'ìè? Volevo... due minuti soltanto».
«Per carità, Vasìlij Michàjloviè! È mai possibile che voi mi disturbiate?... Ma permettete che vi offra una tazza di tè! Ehi, servitore!... Son sicuro che anche voi non rifiuterete un'altra tazzina!».
Murin accennò con la testa facendo in tal modo capire che non l'avrebbe rifiutata.
Jaroslàv Il'ìè si mise a gridare all'indirizzo del servitore, che nel frattempo era entrato, esigendo col tono più severo altri tre bicchieri di tè, poi si assise accanto a Ordynov. Per qualche tempo egli girò continuamente la testa, come un gattino di gesso, ora a destra, ora a sinistra, da Murin a Ordynov e da Ordynov a Murin. La sua situazione era estremamente spiacevole. Si vedeva che aveva voglia di dire qualcosa che, secondo le sue idee, era estremamente spinoso, quanto meno per una delle due parti. Ma, nonostante tutti i suoi sforzi, decisamente non riusciva a spiccicar verbo... Anche Ordynov pareva sconcertato. Ci fu un momento in cui, d'un tratto, cominciarono a parlare entrambi nello stesso tempo... Il silenzioso Murin, che li stava osservando con curiosità, lentamente socchiuse le labbra mostrando tutti i denti fino all'ultimo...
«Sono venuto a comunicarvi», prese a dire all'improvviso Ordynov, «che in seguito a un fatto estremamente spiacevole sono costretto a lasciare il mio alloggio e...».
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«Figuratevi che caso strano!», lo interruppe a un tratto Jaroslàv Il'ìè. «Confesso che ero fuori di me dalla sorpresa quando questo venerando vecchio mi ha comunicato stamane la Vostra decisione. Ma...»
« Lui ve l'ha comunicata?», chiese stupefatto Ordynov guardando Murin.
Murin si lisciò la barba ridendo sotto i baffi.
«Sissignore», confermò Jaroslàv Il'ìè, «d'altronde posso anche sbagliarmi. Ma, vi dirò francamente che posso garantirvi sul mio onore che, al vostro riguardo, nelle parole di questo venerando vecchio non c'è stato assolutamente nulla di offensivo!...».
Qui Jaroslav Il'ìè arrossì dominando a fatica la propria agitazione. Murin, come se si fosse goduto finalmente a sazietà l'imbarazzo del padrone di casa e dell'ospite, fece un passo in avanti.
«Io, ecco, è a proposito di ciò, Vostra Eccellenza», cominciò a dire, dopo essersi rispettosamente inchinato a Ordynov, «che ho osato importunare Sua Eccellenza sul conto vostro...
Il fatto è, signore, lo sapete da voi, che io e la mia padrona, cioè, saremmo contenti di cuore e non ci saremmmo azzardati a dire una parola... ma qual è la mia vita lo sapete, lo vedete da voi, signore! Il Signore Iddio ci conserva giusto la vita, e di ciò ringraziamo la Sua santa volontà, ma, per il resto, vedete bene, signore, che posso fare, se non mettermi a piangere?». Qui Murin si lisciò di nuovo la barba con la manica.
Ordynov si sentiva quasi venir meno.
«Sì, sì, vi avevo parlato anch'io di lui: è malato, ossia malheur... cioè, avrei voluto esprimermi in francese, ma, scusatemi, non parlo tanto bene francese, cioè...».
«Sì...».
«Sì, cioè...».
Ordynov e Jaroslàv Il'ìè si fecero vicendevolmente un mezzo inchino, ciascuno dalla sua sedia e un po' lateralmente, ed entrambi nascosero il proprio imbarazzo con una risata di scusa.
Jaroslàv Il'ìè, da persona pratica, si riprese subito.
«Io, d'altra parte, ho interrogato dettagliatamente questo galantuomo», riprese a dire, «il quale mi ha detto che la malattia di quella donna...».
Qui il delicato Jaroslàv Il'ìè, desiderando verosimilmente celare un piccolo imbarazzo che di nuovo aveva fatto capolino sul suo viso, lanciò un rapido sguardo interrogativo a Murin.
«Sì, la nostra padrona...».
Il delicato Jaroslàv Il'ìè non insistette.
«Della padrona, cioè, della vostra ex padrona, io, davvero,... ah, sì! Quella, vedete, è una donna malata. Lui dice che vi disturba... nei vostri studi, e lui stesso... ma voi mi avete tenuta nascosta un'importante circostanza, Vasìlij Michàjloviè!».
«Quale?».
«A proposito del fucile», mormorò Jaroslàv Il'ìè quasi in un bisbiglio, con il tono più indulgente che si potesse immaginare, e nella sua cordiale voce tenorile risuonò una milionesima parte di rimprovero. «Ma», aggiunse subito, «io so tutto, mi ha raccontato tutto lui, e voi vi siete comportato nobilmente perdonando il fallo involontariamente da lui commesso nei vostri confronti.
Vi giuro che ho visto le lacrime nei suoi occhi!».
Jaroslàv Il'ìè arrossì nuovamente; i suoi occhi si illuminarono e si girò sulla sedia.
«Io, cioè, noi, signore, Vostra Eccellenza, cioè io, per fare un esempio, e la mia padrona, preghiamo davvero Dio per voi», prese a dire Murin rivolto a Ordynov fissandolo intensamente, mentre Jaroslàv Il'ìè raffrenava la sua solita agitazione. «Lei, lo sapete anche voi, signore, è una donnetta malata, stupida, e io stesso a stento mi reggo in piedi...».
«Ma io sono pronto», disse con impazienza Ordynov, «basta, per favore; anche subito...».
«No, cioè, signore, noi siamo molto contenti della grazia che ci fate». Murin si inchinò profondamente. «Ma non era di questo che vi volevo parlare - il fatto è che lei, signore, mi è quasi parente, cioè alla lontana, come si suol dire, per fare un esempio, della settima acqua, compatite il nostro modo di parlare, signore: noi siamo gente ignorante - e fin da piccola è sempre stata così! Ha una testolina malata, capricciosa, è venuta su nella foresta, come una contadina, sempre in mezzo 55
agli alatori e agli operai; a un certo punto la loro casa è bruciata; e anche sua madre è bruciata; e suo padre ha reso l'anima - chissà lei che cosa vi ha raccontato... Io non me ne impiccio, ma l'ha visitata il consiglio chir-chir-rurrgico a Mosca... cioè, signore, le ha dato di volta completamente il cervello, ecco come stanno le cose! Le sono rimasto soltanto io e lei vive con me. Viviamo, preghiamo Dio, confidiamo nella potenza dell'Altissimo; io non la contraddico mai...».
Il volto di Ordynov mutò espressione. Jaroslàv Il'ìè guardava ora l'uno, ora l'altro.
«Ma non era di questo che volevo parlari, signore... no!», si corresse Murin, scuotendo il capo con sussiego. «Lei, per fare un esempio; è un tale uragano, un turbine tale, una testa così amorosa, impetuosa, va cercando sempre il caro amichetto - con licenza parlando - e non pensa che all'amore: è la sua fissazione. Io la tengo buona con le favole, cioè, per modo di dire la tengo buona... Ho ben visto, signore, come lei, per fare un esempio - perdonate, signore, le mie stupide parole», proseguì Murin inchinandosi e lisciandosi la barba con la manica, «se l'è intesa con voi; voi, cioè, Vostra Magnificenza, tanto per fare un esempio, avete desiderato entrare in intimità con lei relativamente all'amore...».
Jaroslàv Il'ìè avvampò e lanciò uno sguardo di rimprovero a Murin. Ordynov riusciva a stento a rimanere fermo sulla sedia.
«No... cioè io, signore, non è di questo che volevo parlare... io, signore, parlo così, alla buona, sono un contadino, sono ai vostri comandi... noi, naturalmente, siamo gente ignorante, noi, signore, siamo i vostri servi», proseguì Murin inchinandosi profondamente, «ma come pregheremo Dio, io e mia moglie, per la vostra grazia!... Cosa ci occorre? Purché abbiamo di che nutrirci e siamo in buona salute noi non ci lamentiamo; cos'altro debbo dunque fare, signore, infilare la testa nel cappio, forse? Lo sapete da voi, signore, come vanno le cose della vita, abbiate compassione di noi, altrimenti che ne sarà mai di noi se ci si mette di mezzo anche l'amante!... Perdonate, signore, la parola volgare... io sono un contadino e voi siete un nobile... Voi, signore, Vostra Magnificenza, siete un uomo giovane, orgoglioso, ardente, e lei, signore, lo sapete da voi, è una bambina, una creatura senza criterio: ci vuol tanto con lei a commettere peccato! Lei è una femmina vigorosa, colorita, piacente, mentre io sono vecchio e sempre malato. Si vede che il demonio ha ingannato vostra grazia! Io tutto il tempo la tengo buona con le favole, in fede mia, credetemi! Ma come pregheremmo Dio, io e mia moglie, per la vostra grazia!... Cioè, tanto così lo pregheremmo! Del resto, che cos'è lei per voi, Vostra Magnificenza? Per quanto sia bella è pur sempre una contadina, una femmina sudicia, una stupida donnetta, buona a fare il paio con un contadino come me! Non si conviene a voi, per fare un esempio, signore e padre mio, che siete un nobile, correr dietro alle contadine! Ma come pregheremmo Dio, io e mia moglie, per la vostra grazia, tanto così lo pregheremmo!...».
Qui Murin si inchinò profondissimamente e a lungo non raddrizzò la schiena continuando incessantemente a lisciarsi la barba con la manica. Jaroslàv Il'ìè non sapeva che pesci pigliare.
«In effetti, signor mio, questo brav'uomo», osservò con fare imbarazzato, «mi ha parlato di certi dissapori insorti tra di voi; non oso credere, Vasìlij Michàjloviè... Ho saputo che siete ancora malato», si interruppe in fretta con le lacrime agli occhi per l'agitazione, guardando Ordynov con immenso imbarazzo.
«Dunque... Quanto vi debbo?», chiese in fretta Ordynov a Murin.
«Ma che dite mai, signore! Non ne parliamo nemmeno! Noi non siamo dei venditori di Cristo qualunque! Perché, signore, ci offendete? Dovreste vergognarvi, signore: in che cosa io e la mia sposa vi abbiamo offeso, di grazia?».
«Tuttavia, amico mio, ciò è strano! il signore qui presente ha affittato da voi: non vi rendete conto che con il vostro rifiuto lo offendete?», si intromise Jaroslàv Il'ìè, ritenendo suo dovere far presente a Murin tutta la stranezza e l'indelicatezza del suo gesto.
«Ma fatemi la grazia, padre mio! Che cosa dite mai, signore, padrone mio? Di grazia! In che cosa mai abbiamo mancato di riguardo al vostro onore? Ci siamo sforzati in ogni modo, ci siamo spezzati in due, di grazia! Non se ne parli più, signore; non se ne parli più, luce mia, padrone, che Cristo vi abbia in grazia! Chi siamo noi, dunque? Degli infedeli? Che avesse pure vissuto da noi, 56
che avesse mangiato il nostro cibo di contadini che buon pro gli faccia, che avesse pure dormito da noi, non avremmo detto nulla, nemmeno una parola avremmo detto; ma l'impuro ci ha messo la coda... io sono malato e la mia padrona è anche lei malata, che ci volete fare! Non c'è nessuno che vi possa accudire, altrimenti saremmo stati contenti che rimaneste, ne saremmo stati contenti di cuore! Ma io e la mia padrona pregheremo Dio per la vostra grazia, tanto così lo pregheremo!».
Murin si inchinò fino alla cintura. Una lacrima spuntò negli occhi estasiati di Jaroslàv Il'ìè che guardò Ordynov con espressione entusiasta.
«Pensate, quale nobile tratto! Quale santa ospitalità alberga nel popolo russo!».
Ordynov guardò stupefatto Jaroslàv Il'ìè. Quasi si spaventò... e lo squadrò da capo a piedi.
«Davvero, signore, proprio l'ospitalità onoriamo, e come l'onoriamo, signore!», intervenne Murin coprendosi interamente la barba con la manica. «Ecco che ora mi viene un pensiero: avreste potuto essere nostro ospite, quanto è vero Dio, avreste potuto esserlo», proseguì accostandosi a Ordynov, «e io non avrei detto nulla; per un giorno o due, davvero non avrei detto nulla. Ma il diavolo ci si è messo di mezzo, la mia padrona è malata! Ah, se non ci fosse stata la padrona! Se per esempio io fossi stato solo, come avrei onorato la vostra grazia, come l'avrei accudita! Tanto così l'avrei accudita! Chi altro, se non voi, dovremmo onorare? vi avrei guarito, davvero vi avrei guarito, io conosco un farmaco... Davvero, signore, avreste potuto essere nostro ospite, che gran parola!...».
«Davvero esiste un farmaco...», osservò Jaroslàv Il'ìè, ma lasciò la frase a metà.
Ordynov aveva fatto male poco prima a squadrare da capo a piedi Jaroslàv Il'ìè con offensiva stupefazione. Questi era, naturalmente, la persona più onesta e nobile che si possa immaginare, ma ora comprese tutto e, bisogna riconoscerlo, la sua posizione era estremamente imbarazzante! Aveva voglia, come si suol dire, di ridere a crepapelle! Se fosse stato a quattr'occhi con Ordynov - due amici come loro! - Jaroslàv Il'ìè non si sarebbe saputo trattenere e avrebbe dato sfogo senza ritegno alla sua allegria. In ogni caso, certo, egli avrebbe fatto ciò in maniera quanto mai nobile, avrebbe stretto con sentimento la mano di Ordynov, l'avrebbe assicurato con sincerità ed equità che provava per lui raddoppiata stima e che comunque lo giustificava... che, in fine, non avrebbe neppure fatto caso a queste ragazzate. Ma adesso, a causa della sua solita delicatezza, era nella posizione più imbarazzante e si può dire che non sapesse dove nascondersi...
«Dei farmaci, cioè delle medicine!», riprese Murin il cui viso era trasalito tutto all'inopportuna esclamazione di Jaroslàv Il'ìè. «Ecco, cioè, cosa direi io, signore, nella mia stupidità contadina», continuò facendo un altro passo avanti, «voi, signore, avete letto troppi libri e, vi dirò, siete diventato tremendamente intelligente; come diciamo noi in russo, alla contadina,
"l'intelligenza è andata al di là del senno"...».
«Basta!», lo interruppe con severità Jaroslàv Il'ìè...
«Me ne vado», disse Ordynov, «vi ringrazio, Jaroslàv Il'ìè; verrò a trovarvi, verrò immancabilmente», aggiunse poi in risposta alle raddoppiate cortesie di Jaroslàv Il'ìè, che non era più in grado di trattenerlo oltre. «Addio, addio...».
«Addio, Vostra Eccellenza; addio, signore; non ci dimenticate, venite a far visita a noi peccatori».
Ordynov non udiva più nulla e uscì come un forsennato.
Non riusciva più a sopportare; si sentiva come morto e la sua coscienza si irrigidiva.
Sordamente avvertiva che la malattia lo soffocava, ma una fredda disperazione si era insediata nella sua anima e sentiva soltanto un sordo dolore lacerargli, fargli spasimare e succhiargli il petto.
Avrebbe voluto morire in quell'istante. Le gambe gli si piegarono sotto ed egli si accovacciò accanto a una staccionata senza rivolgere più alcuna attenzione né ai passanti, né alla folla che cominciava a radunarsi attorno a lui, né ai richiami e alle domande dei curiosi che lo circondavano.
Ma, all'improvviso, in mezzo a quella moltitudine di voci, risuonò sopra di lui quella di Murin.
Ordynov sollevò la testa. Effettivamente il vecchio era lì davanti a lui; il suo viso pallido aveva un'espressione solenne e pensierosa. Si trattava ormai di una persona completamente diversa da quella che si era così rozzamente fatto beffe di lui a casa di Jaroslàv Il'ìè. Ordynov si sollevò; Murin lo prese per un braccio e lo condusse fuori dalla folla...
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«Devi ancora prendere la tua roba», disse guardandolo di sottecchi. «Non ti affliggere, signore!», esclamò Murin. «Tu sei giovane, che hai da affliggerti!».
Ordynov non rispondeva.
«Sei offeso, signore? Si vede che ti ha preso della brutta... ma non c'è motivo: ognuno difende la propria ricchezza!».
«Io non vi conosco», disse Ordynov, «non voglio conoscere i vostri misteri. Ma lei! Lei!...», proferì e come grandine le lacrime a ruscelli gli sgorgarono dagli occhi. Il vento le strappava una dopo l'altra dalle sue guance... Ordynov se le asciugava con la mano. I suoi gesti, lo sguardo, i movimenti involontari delle sue labbra illividite e tremanti - tutto in lui faceva presagire la pazzia.
«Te l'ho già spiegato», disse Murin corrugando le sopracciglia, «lei è pazza! Perché e come sia impazzita... a te che importa? Solo che anche così lei mi è cara! Io l'amo più della mia vita stessa e non la cederò a nessuno. Capisci, adesso?».
Una fiamma per un attimo brillò negli occhi di Ordynov.
«Ma perché allora io... perché ora è come se avessi perduto la mia vita? Perché dunque duole il mio cuore? Perché mi sono legato a Katerina?».
«Perché?». Murin sogghignò e rimase soprappensiero. «Il perché non lo so neppure io», disse infine. «L'indole femminile non è il fondo del mare, per scrutarla si può scrutarla, ma è astuta, tenace, vitale! Come dire: tira fuori e dammelo a tutti i costi! Si vede, signore, che davvero le era venuto il desiderio di lasciarmi e di andarsene con voi», proseguì con tono pensieroso. «Le era venuto a noia questo vecchio, aveva vissuto con lui tutto quello che si può vivere! Si era invaghita pazzamente di voi, al principio! Eppoi fa lo stesso, voi o un altro... Io non la contrario in nulla: se anche desidera il latte d'uccello, le procuro anche quello, e se un uccello così non esiste, lo faccio io con le mie mani! È vanitosa! Corre dietro alla libertà, ma non sa lei stessa di che cosa il suo cuore si invaghisca. E così salta fuori che è meglio alla vecchia maniera! Eh, signore! Tu sei terribilmente giovane! Il tuo cuore è ardente come quello di una fanciulla che, dopo essere stata abbandonata, si asciuga le lacrime con la manica! Sappilo, signore: l'uomo debole non può reggersi in piedi da solo!
Prova a dargli tutto e lui tornerà e ti darà indietro ogni cosa; prova a dargli in possesso metà del reame terrestre, cosa pensi? Egli lì per lì ti si acquatterà nella scarpa, tanto piccino si farà. Dagli la libertà, all'uomo debole, e lui stesso la legherà e te la riporterà indietro. Al cuore stupido neppure la libertà fa pro! Non si può vivere assieme a una simile indole! Io ti dico tutto questo tanto per dire: sei tremendamente giovincello! Cosa mi sei tu? Ci sei stato e te ne sei andato - tu o un altro, è la stessa cosa. Io lo sapevo fin dal principio come sarebbe andata a finire. Ma non si può contrariarla!
Non si può dire neppure una parola che vada contro i suoi desideri, se vuoi conservare la tua felicità. Si parla solo così, tanto per parlare», continuò a filosofeggiare Murin, «ma che cosa non succede? In un momento d'ira uno può dar di piglio a un coltello, oppure può saltar addosso al suo nemico come un montone, disarmato, a mani nude, e sgozzarlo coi denti. E se invece ti danno in mano quel coltello e il tuo nemico si scopre l'ampio petto davanti a te, ti tireresti forse indietro?».
Entrarono nel cortile. Il tartaro già da lontano scorse Murin, si levò il colbacco davanti a lui e guardò maliziosamente e fissamente Ordynov.
«Che fa tua madre? È a casa?», gli gridò Murin.
«Sì, è a casa».
«Dille che lo aiuti a trasportare la sua roba. E va' anche tu, muoviti!».
Salirono le scale. La vecchia che faceva i servizi da Murin e che era risultata essere in effetti la madre del custode, si dava da fare con le cose dell'ex inquilino e brontolando le stava legando in un grande fagotto.
«Aspetta; ti porterò un'altra cosa che ti appartiene che è rimasta di là...».
Murin entrò nella sua camera e un momento dopo ne ritornò e porse a Ordynov un prezioso cuscino tutto ricamato di seta e di perline di vetro - lo stesso cuscino che Katerina gli aveva messo sotto la testa quando si era ammalato.
«È lei che te lo manda», disse Murin. «E ora vattene in buona amicizia, e bada di non ripensarci», aggiunse a mezza voce, con tono paterno, «altrimenti andrà a finir male».
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Si vedeva che non voleva offendere il suo inquilino. Ma quando gli gettò l'ultimo sguardo, non riuscì a celare un'ondata d'ira inesauribile che gli sconvolse il viso. Quasi con ribrezzo richiuse la porta dietro a Ordynov.
Due ore dopo Ordynov si installò dal tedesco Špis. Tinchen proruppe in un'esclamazione di stupore guardandolo. Ella si informò subito della sua salute e, saputo di che si trattava, si accinse immediatamente a prendersi cura di lui. Il vecchio tedesco mostrò compiaciuto al suo inquilino che proprio un attimo prima voleva andare ad attaccare di nuovo il biglietto sul portone, poiché proprio quel giorno era finito esattamente al centesimo l'anticipo da lui lasciato, tenendo conto dei giorni di affitto trascorsi. Con l'occasione il vecchio, con lungimiranza, non mancò di lodare la precisione e l'onestà tedesche. Quel giorno stesso Ordynov si sentì male e solo tre mesi dopo poté alzarsi dal letto.
A poco a poco riprese le forze e cominciò a uscire. La vita dal tedesco era monotona e tranquilla. Il tedesco non era particolarmente cocciuto; la graziosa Tinchen, nei limiti della decenza, era totalmente disponibile - ma pareva che il fiore della vita fosse appassito per sempre per Ordynov! Era diventato pensieroso e irritabile; la sua sensibilità aveva assunto un carattere morboso e, senza accorgersene, egli stava sprofondando in una rabbiosa e raggelata ipocondria. A volte non apriva un libro per settimane intere. Il futuro per lui era sbarrato, i suoi soldi stavano finendo e si arrendeva in anticipo a questa circostanza; egli non pensava neppure al futuro. A volte la sua antica passione per la scienza, il calore e le immagini un tempo da lui stesso create, sorgevano vividamente davanti a lui emergendo dal passato, ma esse riuscivano soltanto a schiacciare e a soffocare la sua energia. Il pensiero non si tramutava in azione. La sua capacità di creare era bloccata e pareva che tutte quelle immagini si ingrandissero smisuratamente nella sua immaginazione apposta per farsi beffe dell'impotenza di colui che le aveva create. Nei momenti di tristezza gli veniva involontariamente fatto di paragonare se stesso a quel vanitoso apprendista stregone che, dopo aver rubato la formula magica al maestro, aveva ordinato alla scopa di portare dell'acqua ed era finito affogato perché si era dimenticato come si faceva a ordinarle di smettere.
Forse in lui si sarebbe realizzata un'intera idea, autentica e originale. Forse era destino che lui diventasse un artista della scienza. Per lo meno tale era stata un tempo la sua convinzione. Una fede sincera è già un pegno del futuro. Ma ora, in certi momenti, lui stesso rideva delle sue cieche convinzioni e non faceva un passo avanti. Sei mesi prima egli aveva concepito, creato e gettato giù sulla carta l'armonioso abbozzo di un'opera, sulla quale (a causa della sua giovinezza) nei momenti in cui non era impegnato nella creazione aveva costruito le sue più solide speranze. L'opera riguardava la storia della Chiesa e le sue più intime e ardenti convinzioni erano uscite dalla sua penna. Ora egli rilesse quello schema, lo rifece, ci pensò sopra, lesse, indagò e, alla fine, rinunciò alla sua idea senza costruire null'altro sopra quelle macerie. Qualcosa di simile al misticismo, alla predestinazione e al mistero cominciò a penetrare nella sua anima. Lo sventurato avvertiva le proprie sofferenze e chiedeva soccorso a Dio. La serva russa del tedesco, una pia vecchia, raccontava deliziata come il suo timorato inquilino pregava e come rimanesse per ore intere prostrato, come inanimato, sul piancito della chiesa...
Egli non aveva raccontato a nessuno nemmeno una parola di quello che gli era successo. Ma talvolta, specialmente al crepuscolo, nell'ora in cui i rintocchi delle campane gli richiamavano alla mente l'istante in cui tutto il suo petto per la prima volta aveva preso a tremare e a gemere a causa di un sentimento mai prima di allora provato, in cui egli si era inginocchiato accanto a lei nella casa di Dio, dimentico di tutto, e non aveva sentito altro che il battito del suo timido cuore, quando egli aveva irrorato con lacrime di entusiasmo e di gioia la nuova, luminosa e fresca speranza balenata nella sua anima solitaria - allora una tempesta si sollevava nella sua anima esulcerata in eterno.
Allora il suo spirito tremava e i tormenti d'amore simili a un fuoco implacabile gli bruciavano il petto. Allora il cuore gli doleva tristemente e appassionatamente e gli sembrava che il suo amore crescesse assieme al suo dolore. Sovente, dimentico di sé e di tutta la sua vita quotidiana, rimaneva seduto per ore intere nello stesso posto, solo, cupo e scuotendo disperato la testa versava lacrime 59
silenziose mormorando tra di sé: «Katerina! Colombella mia impareggiabile! Sorellina mia solitaria!...».
Sempre più cominciò a tormentarlo un pensiero indecente. Esso lo perseguitava con sempre maggior forza prendendo ogni giorno di più l'aspetto della verosimiglianza e della realtà. Gli parve -
ed egli, infine, credette in tutto ciò - che l'intelletto di Katerina fosse intatto, ma che Murin avesse a modo suo ragione a menzionare il suo cuore debole. Gli parve che non si sa quale mistero la legasse al vecchio, ma che Katerina, non rendendosi conto del delitto, fosse caduta in suo potere rimanendo pura. Chi erano? Egli non lo sapeva. Ma incessantemente si figurava una tirannia assoluta e senza scampo, esercitata sopra una povera creatura indifesa, e nel suo petto il cuore insorgeva e palpitava di impotente indignazione. Gli pareva che davanti a quell'anima che improvvisamente aveva aperto gli occhi fosse stata perfidamente mostrata la sua caduta e che perfidamente avessero tormentato quel povero e debole cuore deformando e travisando la verità, mantenendola di proposito in uno stato di cecità, lusingando, dove occorreva, le ingenue propensioni del suo cuore impetuoso e turbato e che, così facendo, a poco a poco avessero tagliato le ali della sua anima libera rendendola così, infine, incapace sia di ribellarsi, sia di slanciarsi liberamente verso la vera vita...
A poco a poco Ordynov si inselvatichì ancora più che in passato, nel che, a dire il vero, i suoi tedeschi non lo ostacolarono affatto. Sovente amava vagare per le strade a lungo e senza meta.
Sceglieva di preferenza l'ora del crepuscolo e, come scenario delle sue passeggiate, dei luoghi solitari, fuori mano, poco frequentati dalla gente. In una uggiosa e malsana serata di primavera, in uno di questi vicoletti egli si imbatté in Jaroslàv Il'ìè.
Jaroslàv Il'ìè era visibilmente dimagrito, i suoi simpatici occhi si erano fatti opachi e tutto in lui aveva una cert'aria di disincanto. Egli stava correndo in fretta per sbrigare non so quale affare urgente, era tutto inzuppato e infangato, ed era tutta la sera che una goccia di pioggia, per un fenomeno strano e quasi fantastico, non voleva staccarsi dal suo naso assai decoroso, ma ora divenuto livido. Inoltre egli si era fatto crescere i favoriti. Questi ultimi e il fatto che Jaroslàv Il'ìè gli avesse lanciato un'occhiata come se volesse evitare di incontrarsi con il suo vecchio conoscente, quasi sorpresero Ordynov... e, cosa davvero straordinaria, persino in qualche maniera urtarono e offesero il suo cuore che fino ad allora non aveva mai sentito bisogno della compassione di nessuno. In fondo gli era più gradita la persona di prima, semplice, bonaria, ingenua e - decidiamoci a dirlo apertamente una buona volta - perfino un po' stupida, ma senza pretese di diventare disincantata e intelligente. È infatti spiacevole quando una persona stupida, che prima amavamo forse proprio per la sua stupidità, improvvisamente diventa intelligente, decisamente spiacevole. Del resto, la diffidenza con la quale egli guardava Ordynov subito si dissolse. Nonostante tutto il suo disincanto egli non aveva abbandonato la sua vecchia abitudine, con la quale, come è noto, l'uomo scende anche nella tomba, e, come in passato, si insinuò nella cordiale anima di Ordynov. Prima di tutto egli osservò che aveva molto da fare, poi che non si erano visti da molto tempo; ma improvvisamente il discorso prese di nuovo una piega strana. Jaroslàv Il'ìè prese a parlare della falsità della gente in generale, della transitorietà dei beni di questo mondo, della vanità delle vanità, con l'occasione non mancò di pronunciare un giudizio con un tono più che indifferente su Puškin e, con un certo cinismo, su alcuni buoni conoscenti, e, in conclusione, accennò persino alla falsità e alla perfidia di coloro che in società vengono chiamati amici, mentre in questo mondo la vera amicizia non è mai esistita. In una parola Jaroslàv Il'ìè era diventato intelligente. Ordynov non lo contraddisse in nulla, ma provò un indicibile, tormentoso senso di tristezza, come se avesse seppellito il suo miglior amico!
«Ah, figuratevi! m'ero quasi scordato di raccontarvelo», proferì all'improvviso Jaroslàv Il'ìè, come sovvenendosi di qualcosa di estremamente interessante, «c'è una novità! Ve la racconterò in segreto. Ricordate la casa nella quale avete alloggiato?».
Ordynov sussultò e impallidì.
«Figuratevi, dunque, che poco tempo fa in quella casa è stata scoperta un'intera masnada di ladri, cioè, signor mio, una banda, un covo; contrabbandieri e malfattori di ogni genere! Alcuni 60
sono stati catturati, degli altri sono ancora alla caccia; sono state date le più severe disposizioni. E
figuratevi un po': ricordate il padrone della casa, quel tipo pio, dall'aspetto nobile e dignitoso?...».
«Be'?».
«Giudicate un po' dopo di questo dell'umanità intera! Era proprio lui il capo di tutta quella masnada, il loro caporione! Non è una cosa assurda?».
Jaroslàv Il'ìè parlava con sentimento e condannava a causa di uno l'umanità intera, perché Jaroslàv Il'ìè non può fare altrimenti: questo è il suo carattere.
«E quelli? E Murin?», chiese Ordynov in un bisbiglio.
«Ah, Murin, Murin! No, quello è un vecchio venerando e nobile. Ma, permettete, voi gettate nuova luce...».
«Come? Faceva parte anche lui della banda?».
Il cuore di Ordynov sembrava volesse balzargli fuori dal petto per l'impazienza...
«D'altra parte, come fate a dire questo...», soggiunse Jaroslàv Il'ìè, fissando insistentemente i suoi occhi plumbei su Ordynov, indizio che stava riflettendo, «Murin non poteva essere dei loro.
Esattamente tre settimane prima era partito con la moglie per fare ritorno dalle sue parti... L'ho saputo dal custode... Quel piccolo tartaro, ricordate?».