mercoledì 4 marzo 2020


5. L’Occidente e il suo «altro»

Estratto da 

UN ILLUMINISMO AUTOCRITICO

  | 
Rino Genovese

Spalle al muro

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Dalla fine del colonialismo, cioè della diretta dominazione europea, il comunismo marxista divenne un intermediario attraverso cui l’Occidente riuscì a esercitare ancora un’egemonia planetaria. Certo, per tutto il tempo della guerra fredda, il «pericolo rosso» o l’«impero del male» furono un costante spauracchio per i paesi occidentali; ma è altrettanto certo che questo comunismo era spurio, sottoposto a un adattamento e a una creolizzazione attraverso cui si poteva osservare, più che la realizzazione dell’utopia marxista, la resistenza delle culture locali alla perdurante invasione dall’esterno; e al tempo stesso esso fu il tramite attraverso cui massicce componenti della cultura occidentale, come l’esaltazione dello sviluppo e la fiducia nelle illimitate virtù della tecnica, arrivarono a impiantarsi in paesi lontani e perfino in Cina. La figura di Mao – in cui si fondevano il leader rivoluzionario, il maestro di saggezza orientale e il nuovo dispotico imperatore – può essere considerata la più caratteristica personificazione di un’ibridazione tra la tradizione e la modernità che si direbbe molto riuscita. Ancora oggi, infatti, la chiave di lettura del mistero cinese e della sua strabiliante crescita economica è da cercare nell’ibridazione occidentale-orientale.
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Dopo la scomparsa del suo principale antagonista, però, l’Occidente ha perso la capacità d’influenzare i conflitti mondiali riconducendoli al proprio universalismo grazie alla polarità di capitalismo e comunismo. È venuto meno, con il marxismo militante, il principale organo di pensiero capace di ridurre qualsiasi conflitto, anche nelle realtà «periferiche» del mondo, a un conflitto centrale fissato dall’Occidente stesso. Sul finire degli anni ottanta del Novecento, uno schema consolidato della politica mondiale è andato in pezzi. Ma l’Occidente non ha potuto neppure rallegrarsi della vittoria nei confronti del suo storico nemico che subito ha assistito al proliferare, davanti ai suoi occhi stupefatti, di una congerie di conflitti in nessun modo interpretabili secondo un’unica e rassicurante prospettiva. Per di più, nella mutata situazione, gli stessi vessilli propagandistici innalzati nel confronto con il comunismo avevano smarrito gran parte del loro significato. Democrazia liberale e società del benessere perdono molto del loro appeal se non si riesce a porle in rapporto con qualcosa da biasimare come loro negazione. L’Occidente allora si è trovato con le spalle al muro, alle prese innanzi tutto con se stesso. Affinché una forma di vita possa godere di un’identità purchessia, in grado di sprigionare da sé una grande capacità d’influenza, è difatti molto utile un «altro» interno su cui contare, non interamente estraneo e corrispondente al medesimo principio. Dal confronto-scontro che ne deriva, la forma di vita trarrà linfa per arricchire e confermare se stessa. Ma se l’«altro» interno crolla, se l’alterità che si profila diventa irreparabilmente straniera e in nessun modo gestibile, l’identità di quella forma di vita subirà un duro contraccolpo.
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È quanto accaduto appena ieri. L’Occidente ha come smarrito se stesso insieme con il suo antagonista. Il comunismo era l’Occidente e non lo era, suo figlio e insieme suo nemico: in questa duplicità consisteva il gioco dell’«altro» interno. Esso era infatti sia un’emanazione dell’Occidente sia il velo che copriva la sua miseria particolaristica affidandogli, con il rapporto di competizione che instaurava, una missione planetaria. Ma chiuso il gioco, l’Occidente si è visto ricacciato al di qua di se stesso, privo di quel cuscinetto di alterità su cui l’«altro» interno gli permetteva di adagiarsi, senza più quel «doppio» facilmente riconoscibile che gli consentiva di rinviare il confronto con la propria impotenza. In questione, da allora, è la sua stessa identità. Che cos’è infatti l’Occidente? Al di fuori di un sogno di benessere e strabilianti consumi, cos’è mai? Ammesso che oggi il sogno ci sia ancora, lo si ritrova solo nello sguardo perso dei migranti; mentre i paesi già detti dell’Est, lanciati a un inseguimento sfrenato, hanno visto al loro interno aumentare le diseguaglianze sociali e affermarsi un benessere selettivo per pochi.
Terra del tramonto
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Privato della sua capacità espansiva e proiettiva, l’Occidente non è nulla più di un vago miraggio per ciò che è diverso dall’Occidente. Se l’«altro» si pone in una lontananza troppo lontana, se sfugge alla consustanzialità cui l’Occidente a lungo l’aveva ridotto, se non si fa né partner né alter ego, il gioco salta: l’Occidente non riesce più a essere l’«altro» del suo altro. Il comunismo – cuscinetto di alterità che mediava il rapporto con qualsiasi forma di manifestazione dell’«altro» – era quindi molto utile. La cultura occidentale aveva creato un mito totalizzante dentro cui metà dell’umanità si riconosceva mentre l’altra metà si riconosceva nel suo contrario, che era poi un prolungamento del suo stesso mito: così il problema del pianeta era virtualmente risolto. La guerra fredda era stata un’ancora di salvezza; soprattutto nella sua forma derivata, cioè come cogestione e spartizione del mondo in zone d’influenza sotto il cosiddetto equilibrio del terrore, un’autentica panacea. Polarizzando l’ordine mondiale intorno a un grande conflitto insolubile (di cui reggeva le fila grazie alla superiorità tecnica e militare), l’Occidente mirava a un’egemonia planetaria perenne, all’interno di una partita a scacchi internazionale che consentiva di polverizzare la guerra tra le superpotenze in una serie di conflitti locali minori. In questo modo poteva allontanare da sé lo spettro di un tramonto incombente.
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Che l’Occidente sia la terra del tramonto, come si evince dal termine tedesco Abendland non meno che da una sommaria conoscenza dei quattro punti cardinali, e che il tramontare faccia parte della sua «essenza», è una preoccupazione che ritorna periodicamente ad affacciarsi in alcuni animi pensosi dopo la pubblicazione del celebre libro di Spengler1. Ma con la trasmigrazione del suo spirito dall’Europa in America, soprattutto con la guerra fredda, la sua prospettiva di egemonia planetaria aveva potuto consolidarsi, e l’Occidente aveva rimandato il suo tramonto. Con lo spostamento dell’asse più a ovest, all’Europa toccava un ruolo certamente subordinato ma anche di frontiera nel gioco dell’Occidente con il suo «altro»: la linea di divisione era la linea di divisione dell’Europa. Ancor sempre nel vecchio mondo, dunque, passava il discrimine tra la libertà e il comunismo, tra la civiltà e la barbarie.
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Il sistema crollato alla fine degli anni ottanta era importante, insomma, non da ultimo perché, nonostante il suo spirito fosse ormai trasvolato in America, dava all’Europa un significato di cerniera geopolitica. Si è osservato che la vita nei paesi europei occidentali sarebbe stata diversa in assenza dell’Unione Sovietica e del suo sistema di paesi satelliti2. Nessuna riforma su larga scala, nessuno Stato sociale si sarebbero probabilmente mai realizzati senza il confronto con l’altro sistema e senza l’incubo della sua più o meno immaginaria minaccia. Per evitare una radicalizzazione del conflitto sociale, che avrebbe favorito – così si riteneva – le mire del campo avversario, i governi e le classi dirigenti dei paesi europei occidentali accolsero molte delle richieste provenienti dai loro rispettivi movimenti operai. Lo spauracchio esterno funzionava da reagente per la sicurezza interna. E del resto l’aspetto plumbeo e oppressivo di quei regimi contribuiva non poco alla stabilità sociopolitica dei paesi occidentali.
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L’Occidente avrebbe potuto rinviare sine die la questione del tramonto se il mito dell’eterna lotta del bene contro il male fosse continuato in eterno. Ma il mito è andato in pezzi, e una coerente visione del mondo non c’è più: finita la connessione ininterrotta con ciò che ininterrottamente doveva essere ricacciato indietro. A venir meno, allora, è stata la capacità totalizzante dell’Occidente, quella d’inserire l’«altro» nel proprio orizzonte: perciò la sua identità è entrata in crisi, in quanto l’Occidente è quella forma di vita particolare che non può esistere senza proiettarsi in un compito planetario. Da questa mancanza viene a riproporsi la questione del tramonto. Si direbbe che la caduta dell’Impero dell’Est, e il conseguente restringimento di ciò che può essere rappresentato come Oriente, si rifletta in un restringimento dell’Occidente stesso. È una perdita di orizzonte, di visibilità – e dunque anche di autovisibilità, giacché qualcosa può autosservarsi solo stagliandosi su qualcos’altro come su uno sfondo. Del resto è un fatto: prima l’Oriente cominciava a Praga e a Budapest, cioè nel cuore dell’Europa, adesso non si sa più dove incominci. E se non si sa dove far iniziare l’Oriente, nemmeno l’Occidente può essere più facilmente definito.
Invenzione dell’«altro»
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Tutte le culture e le forme di vita si definiscono distinguendosi da ciò che viene avvertito come straniero o addirittura come inquietante, minaccioso; e tutte ripropongono al loro interno (per esempio attraverso i miti) la differenza specifica di un’identità come rapporto con un’alterità resa comprensibile e controllabile, in un certo senso familiare. Ma ciò che può essere detto in termini generali, vale in modo affatto speciale per la cultura occidentale. L’Occidente, infatti, è l’invenzione dell’«altro». Il rapporto che intrattiene con esso ha caratteristiche sue proprie: non quello di una cultura con un’altra, di una tribù con un’altra magari a lei vicina, e neppure il rapporto con un’alterità assoluta, con un dio, che bisogna custodire e far vivere dentro la comunità: piuttosto un rapporto con il mondo, di una cultura con tutte le altre, capace così di ricoprire la terra intera. L’Occidente ha inventato l’«altro», perché ha esteso la sua presenza ai luoghi dove è arrivato, ossia dappertutto (e perché per trattare con l’«altro», sia detto tra parentesi, ha messo a punto il concetto di cultura, cioè lo stesso strumento che sto adoperando qui). L’«altro», ovunque appaia, dev’essere ricondotto, se non ridotto, alle coordinate occidentali. Quest’obiettivo può essere raggiunto tramite l’influenza o la sottomissione violenta, ovvero ambedue. Caratteristica del rapporto che l’Occidente intrattiene con l’«altro» è quella di ottenere una sorta di riconoscimento della propria supremazia, assumendo l’«altro» come partner o alter ego all’interno della relazione. Il gioco dell’«altro» interno appare come un’autentica vocazione. È d’importanza relativamente secondaria che si realizzi nella forma dell’inclusione o dell’esclusione, che il partner sia tenuto in schiavitù o liberato dal giogo, che si cerchi d’integrarlo rendendolo un soggetto di diritti o di distruggerlo poco alla volta. Importante è che la relazione con l’«altro» sia resa stabile imprimendo nell’identità altrui lo stigma dell’Occidente. Il caso occorso agli indiani d’America, eliminati e contemporaneamente convertiti, è esemplare: vittime o assimilati ai carnefici, comunque fatti rientrare nella cerchia occidentale.
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Inclusione ed esclusione sono dunque due forme del medesimo gioco dell’«altro» interno che si estende (o si estendeva) all’intera terra. In questo senso, l’esistenza di un partner come il sistema sovietico permetteva d’includere o di escludere a colpo sicuro, di ricondurre cioè qualsiasi momento della politica internazionale all’Occidente, affinché il gioco potesse continuare. Perciò era importante che quello sovietico fosse un alter ego, anzi un suo proprio figlio. Con questo non mi riferisco all’eredità ideale della Rivoluzione francese rivendicata dall’Ottobre russo, e neppure al nesso che lega i bolscevichi al movimento operaio europeo; mi riferisco a quel processo di occidentalizzazione della Russia iniziato ben prima della rivoluzione (e del cui problema, del resto, si trova ampia traccia nella grande letteratura di quel paese). L’industrializzazione a tappe forzate, la collettivizzazione coatta delle campagne in epoca staliniana, la subordinazione dell’intera vita sociale prima all’élite politica del partito, e poi a un ceto burocratico e manageriale dentro il partito – sono tutti elementi di una modernizzazione occidentalizzante e insieme di forte continuità con la tradizione zarista, con il suo dirigismo dall’alto. Quella che in Russia è stata realizzata – sotto la spinta della rivoluzione, ma ben al di là, o per meglio dire al di sotto, della sua ideologia – è in sostanza la più stupefacente ibridazione di tempi storici e di culture che l’umanità abbia conosciuto. Le forme di vita e i modi di pensare che venivano affermandosi nell’Occidente sviluppato, tra gli anni venti e trenta, trapiantati sul suolo russo formarono un miscuglio micidiale di modernità e tradizione. L’organizzazione del lavoro di tipo fordista-taylorista, basata sulla parcellizzazione delle mansioni produttive e sulla massificazione degli individui, e connessa alla formazione di élite dirigenti manageriali, ebbe nella Russia sovietica un laboratorio di sperimentazione per molti versi privilegiato. Le nuove forme di vita mutuate dall’Occidente, combinate con la tradizione zarista burocratica e accentratrice, servite in salsa marxista-leninista, diedero luogo a una fantastica teratologia sociale che, retrospettivamente, sembra più l’invenzione di uno scrittore visionario che qualcosa accaduto nella realtà. Eppure il nuovo autoritarismo tecnoburocratico e il vecchio dispotismo russo – la simbiosi da cui nasce il terrore staliniano – produssero un regime durato settant’anni ma che cadde, si può dire, in pochi mesi. Com’è stato possibile?
Il compromesso sovietico
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La risposta a questa domanda va cercata nella particolare composizione del compromesso sovietico tra forme di vita occidentali moderne e forme di vita tradizionali non occidentali. Se ci si fa caso, il periodo di maggior fulgore della potenza sovietica (da Stalin a Breznev) coincide con il periodo in cui in Occidente si assiste al massiccio intervento dello Stato nell’economia: dal New Deal americano ai fascismi europei, fino alle diverse forme di «economia mista» nel dopoguerra e nel nuovo clima della guerra fredda. La potenza sovietica dev’essere considerata all’interno di questo quadro storico: al di fuori di esso sarebbe incomprensibile. Ma laddove in Occidente lo statalismo e l’organizzazione del lavoro fordista si orientarono, ancora nel senso della proprietà e dei consumi privati, verso la produzione in serie di beni di consumo di massa, nell’Unione Sovietica, al contrario, in maniera esclusivamente statalistica, gli stessi sistemi produttivi furono indirizzati con sforzi enormi verso l’industria pesante e gli armamenti. Ciò non impedì, tuttavia, di raggiungere un certo grado di benessere, soprattutto nell’era di Breznev. Fino agli inizi degli anni ottanta il compromesso tra dispotismo tradizionale e modernizzazione autoritaria funzionava ancora. Cos’accadde allora negli anni immediatamente successivi?
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In Occidente, insieme con la forte innovazione tecnologica, si andò realizzando una profonda trasformazione del modo di produrre. Alla fabbrica fondata sulla catena di montaggio e la parcellizzazione delle mansioni, si sostituì gradualmente un’organizzazione del lavoro basata sempre più sulla comunicazione tra reparti e tra aziende, sul coinvolgimento dell’operaio nel ciclo produttivo e così via – in breve, tutto ciò che va sotto il nome di toyotismo e postfordismo. Ciò ha implicato una modifica non solo dei criteri della produzione ma anche della sua ideologia: il ritorno, per esempio, all’idea di mercato, già ridotto a un ruolo puramente ancillare nella precedente fase di sviluppo dei grandi monopoli, insieme con il tentativo di riconvertire il consumatore massificato in un cliente personalizzato, in un fruitore che sceglie l’oggetto da acquistare e non è ridotto a un semplice bersaglio passivo della produzione di merci in serie. A fronte di questi cambiamenti, l’élite che deteneva il potere in Unione Sovietica si accorse di non essere più in grado di tenere il passo con l’Occidente, ritenne che la sfida fosse ormai persa (anche sotto il profilo strategico-militare, considerati gli esiti disastrosi della campagna in Afghanistan), avviando così una riforma del socialismo reale che rompeva il compromesso con la tradizione russa. Improvvisamente si scoprì pluralista e democratica, facendosi paladina dell’economia di mercato e delle sue virtù salvifiche (che in Russia non avevano mai attecchito), e immemore di sé – cioè di essere essa stessa, in quanto gruppo sociale, uno degli aspetti del miscuglio di modernizzazione occidentalizzante e tradizioni autoctone – credette di poter procedere all’occidentalizzazione ulteriore di quell’immenso paese, come al solito attraverso un’iniziativa dall’alto. Si ebbe così un effetto valanga che travolse gli stessi dirigenti che avevano dato inizio al rinnovamento, e condusse in breve alla dissoluzione dell’Unione Sovietica.
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Si osserva insomma una sintonia che colpisce: la Russia decide di ritornare al «mercato» proprio quando l’ideologia economica occidentale vi ritorna. Soltanto, quello che in Occidente può a giusto titolo essere considerato un ritorno o un revival, nei paesi del continente sovietico è stata un’invenzione ex novo, perché, almeno nella maggior parte di essi, un’economia di mercato non era mai esistita. Sotto la forte spinta occidentalizzante impressa dall’alto, si sfalda il compromesso di modernità e tradizione instaurato dalla rivoluzione d’Ottobre: e vengono così a liberarsi i mostri ibernati del passato. A ritornare, nel dissolversi di un impero multinazionale e multietnico come quello sovietico (per tacere del suo sistema di paesi satelliti), sono infatti i nazionalismi a base etnica, particolaristica, con la stessa aggressività che si credeva sepolta nella notte dei tempi. Sotto la crosta, dunque, immobile ma viva, la tradizione aveva continuato a battere il ritmo lento del sempre-uguale.
Rottura del compromesso
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Non v’è dubbio che la vicenda della dissoluzione dell’Unione Sovietica sia stato un esempio di rottura della ripetizione, cioè il repentino venir meno di un compromesso tra modernità e tradizione che aveva dato vita a sua volta a una tradizione, e quindi il venir meno di una determinata forma della costituzione dei soggetti, della loro ripetizione appunto, della loro relativa stabilità. Si pensi a quegli uomini e quelle donne, a figure sociali come il piccolo burocrate di partito abituato al suo trantran, all’operaio abituato a lavorare poco e male eppure sicuro del posto di lavoro, ai cittadini avvezzi a far la fila ma a trovare i generi di prima necessità a prezzi accessibili; si pensi ai loro sogni consentiti (la dacia al mare, l’automobile dalla tecnologia un po’ antiquata) e a quelli proibiti (i jeans, le calze di nylon), alla loro vita com’era – monotona, presa nella routine – e a com’è diventata poi, sprofondata nell’incertezza; e ancora, per continuare il raffronto, si pensi ai loro punti di vista sul mondo, chiusi in se stessi, ripetentisi in forma di salde credenze prima, e in seguito aperti su un avvenire imprecisato, in una quotidianità in cui tutto ciò che era incrollabile è crollato. Non v’è dubbio, allora, che la dissoluzione dell’Unione Sovietica fu una rivoluzione, sia pure promossa dall’alto e sfuggita di mano a chi avrebbe dovuto guidarla: un cambiamento che ha rotto le abitudini consolidate e sbattuto i soggetti dinanzi alla struttura riflessiva dell’abitudine all’abitudine (come ho cercato di definirla nel terzo capitolo), cioè dinanzi alla questione di un riassetto delle forme della loro ripetizione in quanto soggetti.
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Eppure questa rivoluzione non ha saputo ereditare niente, non ha insegnato niente, non ha proposto alcuna nuova forma di soggettività. È andata brancolando alla cieca nel passato, un po’ verso il «mercato», un po’ verso i nazionalismi a base etnica. Lo sbocco è stato il neoautoritarismo di Putin, quest’uomo dell’apparato che si è riciclato con il compito di far ridiscendere agli inferi i demoni maldestramente evocati dal seno stesso dell’apparato. Il vecchio compromesso di modernità occidentalizzante e tradizioni russe è ritornato a profilarsi con i metodi accentratori e brutali, a piacere zaristi o staliniani, reintrodotti da Eltsin e perfezionati da Putin. Ma in fondo la Russia non ha fatto altro che aggiornarsi alla moda cangiante dell’Occidente. Quando nella parte più sviluppata del globo erano in voga gli interventi statali nell’economia, essa aveva il socialismo reale, cioè lo statalismo assoluto; quando lì è ritornato in voga il liberismo, la Russia è andata verso l’autoritarismo neoliberista: in ogni caso più realista del re, ma sempre attraverso l’iniziativa dall’alto.
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La lezione che si può trarre dagli avvenimenti della ex Unione Sovietica consiste molto semplicemente in questo: le forme di vita occidentali, specie se esportate e trapiantate in un suolo estraneo, possono formare tutt’al più un compromesso proficuo (dal loro punto di vista) con le forme di vita non occidentali, ma non possono spazzarle via. L’Occidente ha la peculiarità di riuscire a stabilire una simbiosi con infinite altre culture: ma è pur sempre una cultura particolare, non riesce a liquidare tutte le altre e a realizzare la sua pacifica egemonia planetaria. O mette in azione l’imponente macchina distruttiva di cui dispone, o è costretto al compromesso. E se questo viene meno, nient’altro che un nuovo compromesso, migliore o peggiore del precedente, gli si prospetta. Ciò non vale solo per il rapporto con l’«altro», ma anche (come ho cercato di mostrare nel primo capitolo) per il rapporto dell’Occidente con se stesso: la sua vita interna è infatti un compromesso e un ininterrotto riaggiustamento di tradizione e modernità: qualcosa di molto instabile e insieme di molto bloccato, che non corrisponde alle speranze ma neppure cessa di suscitarne. Lo sviluppo tecnico-scientifico di cui godono alcune regioni del pianeta, e d’altronde la stessa drammaticità dei conflitti, non cessano infatti di alimentare la speranza di un progresso esteso alla vita civile e al mondo intero. L’aspirazione a un governo mondiale della ragione (come lo sognava l’illuminismo di Kant) si ripropone di continuo: anche se la divaricazione, ormai apparentemente irreversibile, tra lo sviluppo e il progresso le conferisce soltanto lo statuto dell’utopia.
Paradossalità dell’Occidente
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Dell’intrinseca paradossalità dell’Occidente potranno dolersi i suoi apologeti (conservatori o progressisti che siano) ovvero rallegrarsi i suoi critici (anch’essi divisi tra conservatori e progressisti). Ma ciò che né gli uni né gli altri potranno più permettersi, in quanto osservatori disincantati, sarà di puntare le proprie chance teoriche (intendo, di descrizione teorica della società contemporanea) alternativamente sui due poli di quella coppia che si lascia esprimere con i termini di universalismo e differenzialismo. Se con il primo dei due ci si riferisce, com’è chiaro, alla vocazione planetaria dell’Occidente – al suo voler essere non una civiltà ma la civiltà –, con il secondo si vuole alludere alle crepe che dappertutto si aprono dentro la pretesa universalistica, nell’edificio sicuro eretto dalla sua volontà di potenza. Le differenze differirebbero dall’identità universalistica per impercettibili scarti o fratture, in grado di spezzarne comunque qualsiasi pretesa uniformante. La visione differenzialistica apre al relativismo culturale (diversamente dalla concezione tardodialettica adorniana, che resisteva a questa prospettiva): ma vi apre come se le culture differissero l’una dall’altra per la positività dei valori che esprimono, per i diversi modi in cui viene declinato un medesimo essere. Il differenzialismo di stampo ermeneutico-heideggeriano è allora solo il rovescio del classico universalismo illuministico. Quell’identità che un piatto universalismo proclama a gran voce fin dall’inizio, il più sensibile differenzialismo si sforza di comporla a poco a poco mediante un principio del dialogo, che terrebbe insieme ciò che di comune le diverse culture hanno tra loro.
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In un caso come nell’altro, però, sia nell’universalismo sia nel suo rovescio differenzialistico, ciò che viene presupposto, in modo spesso tacito, è il grado ormai onnipervasivo raggiunto dalla tecnica e dalla volontà di potenza occidentali. Gli uni, gli universalisti, prendono le mosse da qui per difendere il valore della tradizione occidentale ovvero per rilanciare le virtù emancipatrici di un progresso secondo loro estendibile a tutta l’umanità; gli altri, i differenzialisti, basandosi in sostanza sulla medesima visione della situazione, assumono la difesa d’ufficio delle tradizioni locali premoderne, ovvero puntano sulla varietà e sulla ricchezza delle differenze in quanto aspetti di una rifondazione dell’universalismo in maniera non costrittiva. Ma sia gli uni sia gli altri (anche sopravvalutando fenomeni come la globalizzazione economico-finanziaria) si comportano come se l’Occidente godesse ormai di un’egemonia incontrastata. Essi non vedono l’intrinseca paradossalità della sua forma di vita: il fatto che la semplice esistenza di uno sviluppo tanto rigoglioso alimenta di continuo la speranza di un progresso civile generalizzato; ma che, altrettanto di continuo, questa speranza viene frustrata: perché l’Occidente è una cultura, una forma di vita tra altre con i suoi interessi particolari, e non può davvero adempiere (a prescindere dalla considerazione se questo sia un bene o un male) il compito universale cui si sente chiamato. Così l’Occidente precipita più o meno al rango di una tribù ricca e potente, la cui realtà è il frutto di una combinazione irripetibile di circostanze, e che deve al caso o alla benevolenza degli spiriti, come qualsiasi altra tribù, la sua immensa fortuna.
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Prendiamo la questione ambientale. Le coscienze più avvertite possono proporre, e a certe condizioni persino ottenere, sotto il rischio crescente di una catastrofe ecologica, un arresto dello sviluppo o la sua drastica riconversione. Ma questo, che per la forma di vita occidentale sarebbe da considerare un progresso civile, come potrebbe essere esteso al resto del mondo senza un’imposizione? Senza cioè totalizzare l’intero pianeta, diffondendo anche nei paesi in via di sviluppo la buona novella dell’inanità dello sviluppo? Le conquiste del progresso possono essere generalizzate soltanto attraverso i mezzi dello sviluppo: ciò fa sì che ci si avvolga immediatamente in una contraddizione. D’altronde nessuno può essere «convinto» del progresso se non si persuade da sé, e soprattutto se non ha i mezzi per realizzarlo; nessun popolo può essere indotto a percorrere una via piuttosto che un’altra. E la via che conduce fuori da un modello di sviluppo comincia a intravedersi quando si è al suo vertice. L’opulenza occidentale è il risultato di condizioni irripetibili: e lo è forse altrettanto la consapevolezza critica che essa comporta. Dalla prospettiva del sottosviluppo si continuerà a guardare allo sviluppo come a un miraggio – quando non subentri, dal rancore per le offese subite, l’orgoglio delle radici arcaico-tradizionali –, per il semplice fatto che i paesi sviluppati hanno almeno risolto il problema della fame. Per il solo essere apparso nella storia del mondo, l’Occidente detiene un potere di attrazione. La consapevolezza della paradossalità della sua forma di vita fa parte della coscienza autocritica cresciuta al suo interno: non appartiene alla sfera di un’alterità più o meno mitizzata; non la si trova nei paesi esclusi dallo sviluppo da cui il terzomondismo dei tempi andati si attendeva la spinta rivoluzionaria decisiva che avrebbe liberato anche l’Occidente dalla sua maledizione.
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Questa maledizione deriva da una radicale, irredimibile non-contemporaneità. Il moderno si definisce solo in rapporto al suo «altro», ossia a ciò che non è moderno: perciò è sempre dipendente dal suo «altro». Una regione indefinita del mondo (l’Occidente) e uno spazio temporale incerto (la modernità) proiettano se stessi, per autosservarsi e autoidentificarsi, su quello che dalla loro prospettiva appare uno sfondo opaco. Da una prospettiva più esterna, com’è quella introdotta da una teoria, si può tuttavia osservare un certo equilibrio: le forme di vita occidentali moderne e quelle tradizionali fanno reciprocamente da sfondo le une alle altre, in un’oscillazione paradossale. L’«altro» non potrebbe essere liquidato, e neanche ridotto definitivamente a uno sfondo. L’oscillare esprime però un compromesso proficuo per l’Occidente, un gioco con il suo «altro» che gli consente di vedersi come moderno. Questo è l’aspetto placidamente cognitivo del rapporto paradossale della modernità con ciò che non lo è: e la sua funzione torna ancora a vantaggio dell’Occidente. Interno o esterno che sia, l’«altro» è addomesticato dall’operazione di distinzione che la modernità gli impone per definire se stessa.
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Ma accade che la non-contemporaneità deflagri in maniera implosiva: il moderno allora non appare più così moderno, i suoi confini cedono sotto la pressione dell’«altro». La questione, a questo punto, non è più cognitiva: diventa maledettamente storica. La compresenza di tempi storici diversi passa da uno stato di coesistenza, o tutt’al più di conflitto strisciante, a uno di conflitto aperto. Appare così inceppata la linea ascensionale del progresso, che, risolvendo in sé i residui del passato, avrebbe dovuto condurre dalle latebre del buio ctonio alla luminosità dell’«incedere eretti»; irrimediabilmente bloccata è quella dialettica «a più livelli» che, secondo le intenzioni di Ernst Bloch, avrebbe dovuto ricomporre i momenti della contraddizione non-contemporanea in una superiore unità3. Dopo l’ibernazione del socialismo reale, infatti, in molte parti di quel mondo hanno ripreso corpo gli antichi fantasmi del sangue e del suolo nella forma di un nuovo tribalismo etnico. Dunque i «residui» non erano affatto residui, mai ci si era liberati dal passato arcaico.
Mutevoli costellazioni
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L’idea che il tradizionale, l’arcaico, l’oscuro, siano soltanto dei relitti privi di vita o delle sopravvivenze biodegradabili nel grande fiume della storia universale, sia che si approvi il corso storico sia che lo si condanni, è da rifiutare. La storia, al contrario, sembra conservare dentro di sé tutto il passato, tutti i tempi trascorsi, che si compongono nel tempo ora presente in mutevoli costellazioni. Riallacciandosi alla fondamentale intuizione di Benjamin, si potrebbe vedere la storia come un processo di costante simultaneizzazione, operata da un punto di vista presente, di volta in volta nella forma di una diversa composizione degli eventi. La storia così sarebbe immaginata, letteralmente sognata in quanto moda con le sue frequenti reviviscenze, non meno che teorizzata in quanto storiografia, costruita cioè secondo linee che dipendono dai differenti colpi di caleidoscopio impressi dalla prospettiva teorica attraverso cui la si guarda. La storia – invenzione occidentale quant’altre mai – sarebbe quindi la figura temporale del compromesso cui l’Occidente costringe le altre forme di vita, l’espressione della simbiosi tra il passato e il presente, e insieme il tentativo di ridurre a «passato» tutto ciò che non viene dichiarato moderno. Ma proprio in virtù della dipendenza di ogni ricostruzione storica da un momento teorico, la prospettiva può essere rovesciata: il passato può ritornare, l’alterità irrompere. Il faticoso equilibrio su cui l’Occidente ha poggiato tutte le sue fortune si rivela precario appena si effettui uno spostamento del punto di vista con cui si osserva la storia. Rovesciando la prospettiva, infatti, il compromesso cui l’Occidente costringe le altre forme di vita può essere considerato, altrettanto legittimamente, come quello cui il passato costringe il moderno.
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La stessa maledizione allora è relativa. Appare soltanto dinanzi a una preoccupata coscienza illuministica. Per i tribalismi tacitati, per i nazionalismi repressi, per il demone delle guerre civili e di religione a lungo sopito – insomma, per tutto un passato arcaico che non ritorna solo perché da sempre è stato qui –, la stessa violenza appare come lo sprigionarsi di nuove possibilità. Nella sua ottica la pace è solo una parentesi, un’eccezione che conferma la regola della guerra di tutti contro tutti. Cosa si può obiettare? L’equilibrio tiene finché tiene. Il compromesso del moderno con le forze del passato è proficuo finché è proficuo. Non bisogna illudersi. La combinazione storica che ha ridotto, fin quasi a cancellarla, la divaricazione tra lo sviluppo e il progresso, e ha regalato ad alcune limitate regioni del globo decenni di pace e prosperità, è una combinazione unica: anche a gettare i dadi un numero infinito di volte, non è detto che si ripeta. A livello planetario, invece, la divaricazione è ognora crescente, e i suoi estremi oscillano in forme sempre nuovamente paradossali. Quanto è avvenuto con la caduta del socialismo reale, e dieci anni prima con la rivoluzione iraniana, è la rottura di forme determinate del compromesso tra la modernità e la tradizione, tra la cosiddetta civilizzazione e il retaggio del passato.
La contraddizione riassorbita
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I teorici critici di certo non si facevano illusioni. Essi pensavano che la catastrofe si fosse già manifestata con i lager nazisti, e che noi tutti fossimo al massimo dei sopravvissuti in attesa dell’ultima replica, forse nella forma di una guerra nucleare che avrebbe distrutto la stessa possibilità di vita sul pianeta. Già molto per tempo (come svariati altri autori, del resto), avevano cessato di farsi illusioni sulla natura del regime sovietico, che appariva loro in perfetta sintonia con il dominio. Dopo la fine della seconda guerra mondiale, la «società totalmente amministrata» aveva assunto le sembianze, essenzialmente analoghe, del neocapitalismo falsamente democratico a Ovest e del socialismo autoritario a Est. In un libro oggi dimenticato sul marxismo sovietico4, Marcuse mostrava la sostanziale omogeneità tra le due forme di vita, equiparando nella sua analisi la pubblicità commerciale a Ovest e la propaganda ideologica a Est: identiche le formule rituali e vuote, identica la funzione d’istupidimento delle masse. (Naturalmente ieri come oggi, quando il nemico era alle porte ma anche dopo il suo dileguarsi, si preferisce non tenere conto di simili provocatorie analogie). D’altronde una delle tesi centrali della Scuola di Francoforte – espressa in linguaggio marxista nei termini di un’integrazione tra forze produttive e rapporti di produzione, così da registrare la scomparsa della contraddizione principale del capitalismo – sosteneva che l’integrazione sociale della «classe rivoluzionaria» all’interno di rapporti ormai completamente alienati fosse un fatto compiuto. La razionalizzazione di tipo weberiano, la concentrazione monopolistica del capitale, la centralizzazione dei processi decisionali (a Ovest con l’intervento dello Stato nell’economia, a Est con l’economia pianificata), avevano riassorbito l’antagonismo del proletariato: cosicché la speranza di una rivoluzione mondiale era tramontata per sempre.
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Occorre soffermarsi su questa tesi per valutarne la portata e il significato complessivi. Essa s’innerva dentro l’intera teoria critica delle origini, e ha insieme il carattere di un giudizio sulla «fase storica» e di un pronostico sulla sua linea di tendenza: il tutto, nonostante l’evidente eterodossia, ancora in puro stile marxiano. I teorici francofortesi ritengono di cogliere l’essenza stessa dello sviluppo postliberale della borghesia: ovverosia il processo, ai loro tempi già in atto e in via di consolidamento come tratto distintivo dell’epoca, verso uno Stato e una società globalmente autoritari. A questa diagnosi, che è anche una prognosi sull’immediato futuro, si ricollegano tutti gli altri ben noti argomenti: intorno alla fine dell’individuo dell’era liberale ancora dotato di un’interiorità non frantumata; intorno alla conseguente perdita della capacità di fare esperienze; intorno al progressivo delinearsi di una personalità autoritaria, chiusa e regressiva, per non dire razzista e antisemita. E in definitiva vi si ricollega la stessa nozione di dominio, in quanto termine sintetizzante un insieme di analisi e tesi circa la tendenza fondamentale della società contemporanea.
Concetti totalizzanti
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Ora, non v’è dubbio che in questo modo i teorici francofortesi riuscivano a cogliere degli aspetti che restavano per lo più in ombra nelle descrizioni del loro tempo (per esempio, i tratti comuni tra sistemi apparentemente molto diversi tra loro, come la società americana, il fascismo e il regime sovietico). E tuttavia – si direbbe, per la persistenza in loro di una residua mentalità storicistica – ragionavano come se si trattasse non già di evidenziare degli elementi accanto ad altri, delle tendenze coesistenti con altre, ma la nota dominante della fase in corso come quella che superava e portava a compimento tutte le precedenti. Se ci si fa caso, si ritrova qui l’atteggiamento (in specie marxista) che punta a realizzare delle previsioni storiche. Prima c’è la riduzione della storia a un’unica linea di sviluppo, a un punto di vista totalizzante che dovrebbe individuarne il tratto distintivo, la tendenza caratterizzante; poi scatta l’esaltazione prognostica, che dilata questa presunta tendenza trasponendola nel futuro. Così la complessa interrelazione di elementi di cui la storia è fatta – e che può certo essere ridotta per ragioni di comprensione o d’intervento immediato, per dare magari visibilità a questo o quel bisogno o interesse – viene ridotta una volta per tutte.
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È ciò che accade con concetti totalizzanti come quello di società amministrata, o altri consimili – e comunque tra loro avvicinabili per via della vicinanza dei fenomeni che intendono comprendere – come quelli di società manageriale in Burnham e di società dello spettacolo in Debord5. Si tratti dell’essenza del dominio che svuota gli individui riducendo la loro vita a semplice amministrazione; o piuttosto dell’emergere di una «nuova classe» di tecnici dell’organizzazione industriale, che s’impadronisce del controllo dei mezzi di produzione confiscando le potenzialità di rivolta (Burnham); o ancora dell’espandersi del carattere marxiano di feticcio della merce in una pura fantasmagoria spettacolare, così da ricoprire la società intera in una maniera pseudodemocratica che implica un’accresciuta segretezza dei centri decisionali di potere (Debord), – il difetto di tutti questi modelli teorici sta nel presentarsi come storicamente risolutivi, quasi potessero compendiare l’intera epoca estrapolandone uno o due elementi e cancellandone gli altri. Il difetto consiste soprattutto nella soppressione (storicistica) della compresenza di diversi tempi storici nella storia, nel ritenere di potere esaurire l’analisi dell’epoca cogliendone l’aspetto essenziale, la tendenza fondamentale – quella che, con un rapido colpo d’occhio, riassume il passato, designa il presente e anticipa il futuro. Il faticoso coesistere e sovrapporsi, ovvero il complicato intrecciarsi e talvolta il neutralizzarsi reciproco di momenti eterogenei, è drasticamente ridotto dallo sguardo totalizzante della teoria, che ritiene di avere trovato la combinazione giusta per accedere alla «fase storica».
Analisi del fascismo
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Prendiamo per esempio l’analisi del fascismo: consideriamo le tesi di Ernst Bloch del 1934-35, basate sull’idea di non-contemporaneità, e quelle, di soli pochi anni successive, di Horkheimer e Adorno, incentrate invece sul concetto di dominio. Ambedue le posizioni, sia quella di Bloch sia quella di Horkheimer e Adorno, sono fortemente intrise di dialettica: mirano, cioè, a una redenzione della storia (sia pure per i francofortesi soltanto ipotetica) dalle forze regressive che hanno dato vita al fascismo. Ma la posizione di Bloch (sebbene la sua idea di non-contemporaneità non sia ancora affatto relativisticamente impostata e consideri il passato solo sotto la specie del «residuo» che ostacolerebbe, con la sua perniciosa contraddizione non-contemporanea, il progredire della storia) vede il fascismo come il risultato del passato «non ancora esaurito»: una rivolta disperata di ceti tagliati fuori dallo sviluppo (la piccola borghesia, i contadini) che recuperano aspetti culturali tradizionali e arcaici in chiave antiproletaria, nel tentativo di deviare il corso storico dal grande conflitto tra la borghesia e il proletariato, che contemplerebbe la sicura vittoria di quest’ultimo in quanto portatore del futuro.
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Approfondendo questa visione, andando cioè oltre la stessa autocomprensione di Bloch, il fascismo risulta essere una combinazione di elementi, un compromesso tra il moderno e l’arcaico irripetibile in quella forma – eppure eventualmente del tutto ripetibile in maniera diversa e analoga. Se si riprende la visione di Bloch, eliminandone la fiducia dialettica in un positivo esito finale, si possono concepire alcuni degli ingredienti che hanno prodotto il fascismo (per esempio il risentimento degli esclusi dallo sviluppo, che si appoggiano a tradizioni mitiche autoctone, resuscitate o inventate di sana pianta) come elementi ricombinabili nel presente in maniera anche molto diversa da quella del fascismo storico; mentre altri aspetti (per esempio l’elemento, a suo tempo «moderno», del comando centralizzato nella fabbrica e nella società) appaiono attualmente più sullo sfondo, pur essendo magari riattivabili, all’occorrenza, dentro un’altra forma del compromesso tra il passato e il presente. Insomma, l’approfondimento in senso relativistico dell’idea di non-contemporaneità palesa una molteplicità di prospettive secondo cui osservare gli equilibri instabili che la pluralità di tempi storici di volta in volta propone. E gli elementi di cui quelli sono composti – sempre disponibili per comprendere e giudicare il presente costruendo analogie – di fatto sono anche sempre riattivati nelle mutevoli costellazioni storiche.
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Le tesi sul fascismo di Horkheimer e Adorno sono invece strettamente legate al loro concetto di dominio. La tendenza generale della società a divenire autoritaria, il rovesciarsi dell’illuminismo in mito, il riprecipitare della civiltà nella barbarie, sono fenomeni che possono assumere guise diverse, ma di cui il fascismo in un certo senso è il «tipo puro». Esso non è una particolare forma del compromesso tra il passato e la modernità: al contrario, è questa stessa modernità all’apice del suo sviluppo, che alla fine scatena la sua immane potenza distruttiva. Secondo questa visione, dunque, non possono darsi combinazioni e ricombinazioni di tempi storici diversi in forme fascistiche o non fascistiche: piuttosto il fascismo è sempre in agguato, perché non è altro che la tendenza dell’epoca contemporanea spinta al massimo grado. La centralizzazione del potere, e la cancellazione di qualsiasi opposizione radicale, con la parziale eccezione di forme di resistenza intellettuale e artistica (la tesi della Scuola di Francoforte che solo Marcuse tentò di scalfire intorno al 1968, teorizzando la rivolta degli emarginati, degli studenti e delle sottoculture giovanili), sono ognora presenti e costituiscono la sostanza del dominio, il punto di non ritorno cui è arrivata l’evoluzione sociale. Il dominio c’è sempre stato, le sue radici affondano nella notte dei tempi – ma solo nella modernità esso dispone, grazie allo sviluppo tecnico, di un raffinato apparato repressivo e distruttivo. Dunque, che il dominio si riaggiusti e si consolidi (com’è avvenuto in Russia dopo la rivoluzione d’Ottobre e il suo breve periodo «consiliare»), è il frutto amaro dell’epoca che porta in sé il totalitarismo come suo tratto distintivo – indipendentemente dallo scontrarsi, o incontrarsi, di tempi e interessi storici eterogenei –, ed è questo stesso tratto a esprimersi nelle forme del fascismo, dello stalinismo e della cosiddetta società dei consumi.
Scetticismo storico
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A emergere, da questo tipo di analisi, non è soltanto la chiusura unidimensionale dell’orizzonte storico (dovuta alla presunzione di avere individuato l’aspetto essenziale della «fase»), ma anche l’estrema rigidità dello schema teorico: per cui, se accade un fatto nuovo – la rivolta degli studenti a Berkeley o la caduta del muro di Berlino –, questo si risolve comunque in una riconferma del dominio. Con ciò non voglio sostenere, come certi banali apologeti della forma di vita occidentale, che la libertà vada affermandosi dappertutto e che l’avvenire sia radioso. Vorrei piuttosto rivendicare la necessità di un modo di far teoria, ossia di produrre descrizioni, che non sia vincolato in partenza a un giudizio storico, a una diagnosi e insieme a una prognosi che anticipi costantemente il risultato finale. Per una teoria scettica della conoscenza storica, se così vogliamo chiamarla, la storia è imprevedibile. D’altronde, l’importanza di un’analisi condotta secondo il concetto di dominio starebbe proprio nella capacità di cogliere, a ogni svolta storica, il riproporsi del sempre-uguale, cioè di quello che si può sempre prevedere. Ma il giudizio malinconico che induce a vedere la cosiddetta storia universale come un’unica sequenza di orrori – un giudizio morale del tutto plausibile –, non deve impedire di osservare e descrivere le diverse combinazioni e ricombinazioni di elementi cui la storia dà luogo.
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A questo scopo, l’analisi dell’integrazione sociale o dell’omologazione culturale (per usare il termine di Pasolini) dev’essere sostituita dall’analisi dell’ibridazione e della creolizzazione incessanti di tempi storici eterogenei e culture diverse. Questa non è, di per sé, una prospettiva meno pessimistica o più ottimistica; è soltanto una descrizione non più universalistica ma relativistica – ed è, soprattutto, la descrizione di una mutata situazione. In nessun modo è possibile descrivere oggi (ammesso che lo sia stato ieri) la società contemporanea nei termini di un’unica linea di tendenza a essa immanente, di un dominio centralizzato e univoco, della soppressione generalizzata di ogni forma di alterità. Anzi, proprio la fine del gioco dell’«altro» interno, la scomparsa del comunismo, ha dissolto i confini dell’Occidente, e ha facilitato un’invasione di alterità che si sottrae al particolarismo cui questa era condannata dal precedente corso del mondo, ripresentandosi nelle vesti di un universalismo uguale e contrario, come nel caso dell’islam.
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Così, all’interno del mondo che continua a dirsi occidentale, sono da tempo mutate le condizioni che avevano dato il primo impulso alla formulazione di una teoria critica. La massiccia produzione di merci in serie – che andava nella direzione di un’organizzazione quasi militare del lavoro industriale, ed era uno dei presupposti dello Stato autoritario – ha ceduto il posto, sotto la spinta dell’innovazione tecnologica, a un’organizzazione forse altrettanto oppressiva ma più morbida, basata su un relativo coinvolgimento dei dipendenti nell’azienda. Di pari passo, è mutata la figura del consumatore seriale, che oggi è quella di un cliente, di un fruitore indotto a «scegliere» entro una gamma relativamente differenziata di prodotti. La società di massa di un tempo si è andata raffinando in un nuovo individualismo di massa a sfondo narcisistico. In questo quadro il ritorno al «mercato» (non più quello della libera concorrenza capitalistica ma una specie di sua simulazione postmoderna, soprattutto se si pensa al ruolo centrale assunto nel frattempo dai mercati finanziari), e il revival neoliberista in economia e neoliberale in politica, sono qualcosa di più di un’ideologia messa a punto per ingannare le masse: sono una cornice di riferimento culturale per il pluralismo caotico formato dai diversi gruppi d’interesse e dalle stesse concentrazioni monopolistiche transnazionali. Sul versante progressista, c’è anche il tentativo di fissare delle «regole» che frenino lo scivolamento dei conflitti verso l’anarchia. Il mondo contemporaneo, infatti, ha in sé il germe della lotta di tutti contro tutti. L’individualismo di massa, in modo particolare in Italia, ha oscillato tra la deriva più completa e lo sforzo di porvi rimedio con un ritorno moralistico, come si è visto negli scorsi anni con l’interminabile discorrere intorno alle regole e ai principi. Naturalmente nelle democrazie occidentali i conflitti restano per lo più al di qua della violenza aperta: ma forse ciò dipende meno da qualche intrinseca virtù morale che dal grado di benessere raggiunto, dal fatto che ognuno in una guerra civile avrebbe qualcosa da perderci.
Liberalismo?
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Un’analisi condotta secondo il concetto monocentrico di dominio rischia allora di fallire il bersaglio. L’approccio che si richiede è plurale: si tratta di descrivere un campo di battaglia in cui ciascun potere ha dinanzi a sé un contropotere, in cui ciascun interesse emergente tende a configurarsi a sua volta come un potere, non ad abolire i rapporti di potere tout court. Ciò riconduce alla concezione foucaultiana (di cui ho discusso nel capitolo precedente), da integrare tuttavia con una teoria della comunicazione. Niente di pacifico o neutrale in ciò che chiamiamo potere e che, in assenza di una coercizione diretta, potremmo chiamare semplicemente influenza. Il potere, in maniera ambigua, è mezzo di comunicazione in quanto codice simbolico e posta in gioco della comunicazione stessa, in quanto può essere tirato da una parte o dall’altra, usato per l’espressione di certi interessi (o bisogni, o desideri) oppure di altri. Questo è dimostrato anche dalla diuturna lotta intorno al controllo dei mass media, e cioè intorno alla capacità di esercitare influenza mediante la diffusione su larga scala di messaggi in grado di costruire il sé del ricevente. Così l’individualismo narcisistico può essere incessantemente riprodotto nello scorrere della comunicazione. La ripetizione è indotta dallo stesso operare dei micropoteri, sia da quello che cerca d’imporsi tenendo il sé del ricevente in una posizione passiva e soddisfatta, sia da questo che, eventualmente insoddisfatto, gli resiste e che, in quanto è pur sempre un micropotere (coincidente, nel caso, con lo spazio della cosiddetta autonomia individuale), si gonfia e si ripete a sua volta; mentre una rottura della ripetizione starebbe nell’interruzione del gioco e nel passaggio a un nuovo registro, non più meramente individualistico e narcisistico – ossia in un diverso assetto generale dei micropoteri: proprio ciò che l’odierno neoliberalismo, reso cieco dalla chiusura della sua stessa ripetizione, non riesce a vedere.
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Come si può ricavare da Foucault, il liberalismo, al di là della propria autocomprensione, è stato il dislocarsi su un terreno etico e politico di una determinata forma di costituzione della soggettività e di costruzione del sé. Gli individui del liberalismo non sono, come amavano considerarsi, meri presupposti antropologici, ma il risultato di un insieme di strategie di potere e di tecniche di governo. La scoperta delle virtù del mercato autoregolato, della sua specifica «moralità», è coeva alla messa in campo di una serie di dispositivi che vanno dalla formazione degli individui attraverso il dressage delle pulsioni, cioè mediante la disciplina, all’invenzione della polizia per il controllo degli stessi. Ma l’odierno liberalismo, nelle differenti versioni, preferisce non ricordare le sue origini poco nobili, nient’affatto «liberali». E la sua corta ondata è quindi la reviviscenza prodotta da una tarda modernità che, avvitandosi su se stessa, può solo ripetere le sue epoche precedenti, cercare con esse un compromesso, appigliandosi alla propria «tradizione» cui ritornare e tener fermo con ansia – quasi fosse una cultura locale in lotta per la sopravvivenza. Anche questa è una conseguenza della perdita del termine di paragone: finché all’universalismo liberale e democratico si contrapponeva l’universalismo comunista, era abbastanza facile per il primo sbandierare i vantaggi del suo ideale di «società aperta». Ma da quando il gioco è finito, soltanto un surplus di moralismo ha sopperito alla perdita d’identità. Schiere di chierici non hanno smesso di ripetere negli scorsi anni che, fissate le regole, il mercato era l’unica possibilità concessa agli umani per vivere in pace e progredire. Così l’Occidente ha fatto finta di non sapere che il suo liberalismo era un terreno di scontro tra poteri piccoli e grandi; e così, soprattutto, ritornando a se stesso, ha riesumato il passato per smania di radici, ripetendolo come unica possibilità, firmando l’armistizio tra la tradizione e uno spirito moderno ormai stanco – lo stesso che in origine significò invece la rivolta contro ogni tradizione, compresa la propria.
Identità e differenza
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Sebbene il crollo dell’impero sovietico abbia dimostrato che la pura razionalizzazione di tipo weberiano alla lunga non tiene, e che il Grande Fratello incontra qualche difficoltà nel controllare tutto e tutti, nondimeno una nuova teoria critica non può che essere disincantata quanto la vecchia. La situazione è infatti più aperta di quella che i maestri francofortesi avevano sotto gli occhi e di ciò che la loro nozione di dominio potesse prevedere, ma non certo più rosea. Dalla fine dell’equilibrio tra le superpotenze, il mondo è diventato un caotico melting pot di cui nessuno sa quale sia il punto di ebollizione. L’equilibrio precedente risultava oppressivo e repressivo per molti dei popoli della terra, e tuttavia era un equilibrio. In un certo senso era l’autentica occidentalizzazione del mondo: perché permetteva alla cultura occidentale, grazie alla sua variante interna sovietica, di arrivare dovunque mettendo a frutto la divaricazione paradossale tra lo sviluppo e il progresso. Se lo sviluppo non decolla, o va per fatti suoi, se il progresso civile non arriva, ciò dipende dal capitalismo (dicevano gli uni); se il progresso civile non arriva, ciò dipende dal comunismo (dicevano gli altri). Così la cultura occidentale era sempre vincente. L’equilibrio consisteva in un compromesso su scala mondiale sotto il suo controllo.
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Quali i termini odierni, invece, del nuovo equilibrio mondiale? Non è chiaro se il miscuglio nell’enorme pot conduca a una fusione, o non piuttosto a un’implosione disastrosa. Si può rimanere abbastanza tranquilli, e un poco sorridere, finché l’Occidente ritrova se stesso ritornando al suo universalismo stantio in forma liberale, perché questo almeno predica (più o meno sinceramente) la tolleranza, e dopotutto non è ancora il recupero delle guerre di religione. Ma c’è da preoccuparsi quando un neoliberismo economico cieco non riesce a vedere i danni che provoca e le tensioni di cui esso stesso è fatto, occultando la questione della rottura della ripetizione e di un riassetto generale dei poteri.
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D’altronde, tolleranza certo: ma verso cosa? Non verso l’Oriente, che era un’invenzione dell’Occidente e adesso, proprio come quest’ultimo, non si sa più nemmeno dove cominci. Tolleranza – si dirà in maniera generica – verso la diversità. Ma dove inizia la «diversità»? L’idea – in se stessa del tutto condivisibile – che fa di ciascuno la differenza da qualcun altro, e in un certo senso di ciascuno la differenza di sé da sé6, è debole se non tiene conto del formarsi di un’identità mediante la ripetizione della differenza, in un modo che si cristallizza spesso con toni aggressivi verso l’esterno. Questa uguaglianza di tutti nel differire da tutti è ancora troppo astratta, ancora universalisticamente impostata in senso affermativo (nel senso, cioè, di qualcosa di comune a tutti, appunto il loro differire) se non si misura con il problema dell’esclusione che ogni identità comporta: se non si misura, cioè, con l’esclusiva e ripetuta differenza del loro differire, e non semplicemente con l’unità comune del differire di tutti da tutti. Insomma, ciò che dà da pensare in ogni formazione d’identità, proprio in quanto è differente da tutte le altre, è il modo in cui questa differenza viene chiusa. Ciò vale in modo particolare per le identità culturali. Esse costituiscono delle chiusure dei possibili che, attraverso lo stabilimento di certe differenze al loro interno – attraverso delle preselezioni su ciò che può apparire o non apparire, sul vero e il falso, sul giusto e l’ingiusto, in definitiva sul possibile e l’impossibile –, si ripetono consolidandosi in quanto differenze dall’esterno. Certo, soprattutto nella cultura occidentale, la forma tipicamente culturale della chiusura dei possibili, basata sulla condivisione di norme e valori, non è l’unica: i soggetti, intesi come singoli individui e anche come gruppi sociali, introducono nel tessuto di questa condivisione altre prospettive di chiusura dei possibili, che possono confermare o smentire la forma dell’identità corrente. Ciò significa che un’identità culturale può essere più o meno chiusa: e di fatto sarà relativamente più aperta quanto più contemplerà altre possibili chiusure dei possibili.
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In questo quadro s’inserisce l’equivalenza funzionale tra la tolleranza e il razzismo (cui ho accennato nel terzo capitolo). Un’equivalenza circa il problema della relativa stabilizzazione dei processi della conoscenza individuale (quando le credenze di qualcuno, e quindi i suoi comportamenti abituali, possono definirsi tolleranti verso l’«altro», o al contrario intolleranti, xenofobi, razzisti); e ancor più riguardo al rapporto tra culture, spesso impostato nel senso di una reciproca esclusione. Il fenomeno della creolizzazione, infatti, non va sopravvalutato o mitizzato7. Si tratta di una mescolanza, di un processo d’ibridazione lento e costante nel tempo, che ha inizio dalla pressione anche violenta da parte di un’identità esterna: si pensi che le lingue dette appunto creole, con i loro rispettivi culti sincretici, sono essenzialmente quelle degli schiavi africani deportati nelle colonie americane. Ma la stessa creolizzazione non cancella la questione dell’identità, anzi la ripropone all’ennesima potenza sia come «difesa» della forma di vita precedente mediante la strategia della mescolanza, sia come peculiarità della nuova identità creolizzata rispetto a quelle culture che non hanno subìto il medesimo processo, o lo hanno affrontato in modi differenti. La Cina, che pure conobbe la dominazione europea, è altra cosa dalla creolità caraibica. Negli Stati Uniti la presenza «ispanica» di nuova immigrazione è diversamente contrassegnata rispetto a quella afroamericana più antica. E le differenze nelle rispettive creolizzazioni si fanno sentire come forme diverse dell’identità nei confronti della modernità occidentale. Per esempio, negli Stati Uniti i nuovi immigrati sono generalmente conservatori, gli afroamericani generalmente progressisti.
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Un problema di demarcazione tra se stessi e gli altri – e anche della diffusione e condivisione dei criteri della demarcazione in guisa di credenze –, il problema principale di ogni identità, si ripropone nel multiculturalismo. E quanto più culture differenti si ritrovano a convivere nella vicinanza, tanto più può diventare labile il confine tra la tolleranza e la rivendicazione, anche orgogliosa, dell’identità, che conduce a forme di comunitarismo e finanche di razzismo. L’equivalenza funzionale va intesa quindi, in senso strettamente sociologico, come diversità e analogia nel trattare uno stesso problema, nella fattispecie quello della differenza culturale. Ma risposte «equivalenti» non sono affatto interscambiabili se si guarda alle conseguenze morali e politiche alternative: in definitiva, convivenza pacifica oppure guerra strisciante o aperta.
Tra rivolta e guerra civile
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La rivolta del 1992 a Los Angeles, con la sua lotta di tutti contro tutti (ma, guarda caso, specialmente dei più poveri contro i più poveri e dei più emarginati contro i più emarginati), innescata da un episodio classicamente razzista (il pestaggio di un afroamericano da parte di alcuni poliziotti, documentato da un videoamatore, con il processo successivo chiuso da una sentenza che parve una beffa), inaugura un tipo di rivolta urbana che si rivedrà spesso nel primo scorcio del nuovo secolo. Ed è un prisma in cui si scompone l’intero spettro di un conflitto, strisciante o aperto, tra identità culturali diverse. Appaiono alla prova, in una rapida visione d’assieme, innanzi tutto la vera o presunta identità «americana» con il suo trionfalismo multiculturale8, poi quella nera da tempo integrata, e ancora l’identità dei latinos di recente immigrazione. Se la seconda dà inizio alla protesta in nome di una cittadinanza in linea di principio ormai acquisita, subito il conflitto, con le distruzioni e i saccheggi, coinvolge tuttavia la terza identità, quella meno inserita; mentre la prima si tappa in casa e manda l’esercito. Qui si vede dunque come il tradizionale razzismo americano – negato a parole ma sempre pronto a rispuntare – evolva in una sorta di neorazzismo, che mette i neri contro gli altri gruppi etnici e viceversa. La scintilla dell’intolleranza, scoccata da una parte, accende l’incendio che si propaga alle altre parti della società. In questo senso le realtà plurietniche sono più esposte al divampare dell’odio e all’esplodere, o meglio all’implodere, della violenza, di quanto lo sia la società incentrata sulla nazionalità monoetnica. Quest’ultima poneva essenzialmente un problema di confini rivolti verso uno straniero esterno. Il problema si complica quando, in un Occidente che non comincia e non finisce più da nessuna parte, si devono continuamente tracciare e ritracciare i confini del rispetto reciproco e della tolleranza interni prima ancora che esterni.
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Il caso della ex Jugoslavia, a questo proposito, è certo il più tragico. Qui, dopo il dissolversi del socialismo reale alla jugoslava, e della sua singolare mistura di federalismo e centralismo, i tempi storici diversi, tenuti per decenni in compressione, si diedero a confliggere in maniera selvaggia. L’universalismo infranto, la perdita della temporalità unidimensionale, i suoi pezzi gli uni contro gli altri armati, non furono una ricaduta nella barbarie intesa come un’epoca antecedente e remota, ma il ricombinarsi di frammenti ancora attuali in una costellazione temporale impazzita. La violenta affermazione particolaristica delle identità, con tutto quanto d’«inumano» questo comporta, non è la stessa cosa degli stermini nazisti, che provenivano dall’affermazione a suo modo universalistica di un dominio di nazione e di razza – a riprova del fatto che l’orrore può scaturire da qualcosa ma anche dal suo contrario. Non si trattò infatti, nella ex Jugoslavia, di uno sterminio pianificato dall’alto in maniera scientifica, anche se ci fu chi soffiò sul fuoco, ma di una violenza diffusa e quasi domestica. Il conflitto interetnico di oggi, e la xenofobia da cui si sprigiona, non sono l’antisemitismo di ieri: questo affondava le radici nell’odio accumulato e nella paura per la penetrazione interna di un nemico considerato potente ed esterno (l’ebreo); laddove il conflitto attuale coinvolge il vicino, colui con il quale si è convissuto a lungo, e nei cui confronti l’odio monta quasi all’improviso.
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Perciò neppure il «ritiro» della tolleranza nei confronti degli intolleranti (secondo la proposta di Marcuse contenuta in un indimenticabile saggio degli anni sessanta9) sembra una scelta accettabile. Un’opzione del genere può valere all’interno di una stessa società nazionale per isolare e disarmare i violenti; non può valere e neppure essere presa in considerazione tra culture e nazionalità diverse, perché condurrebbe alla guerra perpetua. Se nei paesi occidentali si decidesse di ritirare la tolleranza nei confronti dell’islam, denunciandolo come fanatico e oscurantista, si andrebbe a uno scontro distruttivo. Se al contrario, per ipotesi, si tentasse una strategia di assorbimento e omologazione della sempre più marcata differenza culturale islamica, ci si troverebbe soltanto a rilanciare l’universalità di una forma di vita in modo ripetitivo e vuotamente conformistico.
Quale relativismo?
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Il principio della tolleranza, dunque, non può essere revocato: ma la sua riaffermazione non può avvenire riproponendo una prospettiva totalizzante. Si vede oscillare qui un dilemma tipico: quello tra l’esclusione e l’inclusione. L’universalismo per sua natura è ecumenico, incline a includere qualsiasi forma di vita dentro di sé, riducendola e riadattandola; se l’operazione non riesce, scattano però l’esclusione e l’emarginazione, quando non l’intolleranza e la repressione aperte. Se si occulta questa oscillazione drammatica sotto una specie di prolungato autoapplauso nei confronti della propria forma di vita e dei suoi meriti, questo è solo un segno di grave imbarazzo. Un relativismo culturale piuttosto diffuso (in sintonia, del resto, con un senso comune modificato dall’autocritica dell’illuminismo) suggerisce il riconoscimento delle culture, il dialogo e la loro comprensione reciproca, cercando di reimpostare la questione dell’universalismo nei termini iperuniversalistici dei valori comuni di un’umanità unica, cui tutte le culture fornirebbero il loro contributo. Ma se il dialogo viene rifiutato, come si è visto nel modo più terribile l’11 settembre 2001, questo stesso relativismo non può che ammutolire, privo com’è di qualsiasi radicalità teorica.
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È chiaro comunque che non c’è un’alternativa alla tolleranza: l’alternativa sarebbe infatti la guerra perpetua, aperta o strisciante. La domanda allora suona: quale tolleranza? Non più, certo, una tolleranza piattamente universalistica e onnicomprensiva, frutto di un universalismo che cerca di sottrarsi al fallimento negando la paradossale divaricazione tra lo sviluppo e il progresso e la specificità, ormai palese, della sua forma di vita non generalizzabile; e neppure una tolleranza neouniversalistica, corroborata da un relativismo teoricamente fiacco che può arrivare a sostenere, senza temere il ridicolo, la superiorità della cultura occidentale in quanto cultura che ha riconosciuto la relatività di tutte le culture. No: proprio dalla capziosità di argomenti del genere viene l’impulso a riformulare la domanda intorno alla tolleranza nei termini di – quale relativismo?
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Dopo la fine del gioco dell’«altro» interno, la risposta immediata al problema della perdita d’identità dell’Occidente sembrò consistere nel ripetere il vecchio gioco riadattandolo alle mutate condizioni, cercando un altro partner, magari in formato ridotto, un altro nemico non troppo nemico. Un atteggiamento da mettere certo sul conto dell’abitudine. Gennaio 1991: fior di chierici dai saldi principi, e non pochi convertiti dell’ultim’ora, si affannarono a spiegare che quella del Golfo era una guerra giusta, o tutt’al più non troppo ingiusta10. In quel caso il superiore relativismo occidentale non apparve. Le obiezioni pacifiste contarono meno di un soldo bucato. Si videro allora i traccianti luminosi delle bombe, e tutto quel che segue, più che vederlo, lo s’intuì. Il massacro fu organizzato con cura: non si arrivò a rovesciare Saddam Hussein per rispettare il mandato dell’Onu che prescriveva unicamente la liberazione del Kuwait proditoriamente occupato. Così il dittatore ebbe la possibilità di rifarsi sui curdi e gli oppositori interni, lasciati senza la minima protezione. La guerra venne a interrompersi – e si può dire che qui sia intervenuto il relativismo – dove in quel momento terminava l’interesse occidentale. Nella sua forma fredda, però, sarebbe stata da continuare in eterno. L’amministrazione Clinton sembrò quasi riuscirci, con una politica di dure sanzioni economiche contro l’Iraq punteggiata da brevi attacchi aerei nella forma di un continuo equilibrio-squilibrio; mentre Saddam Hussein – l’amico dell’Occidente imbottito di armi all’epoca del conflitto con l’Iran, e diventato con il tempo un perfido nemico – restava comunque al suo posto.
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La seconda puntata va in scena dopo l’attentato dell’11 settembre 2001 alle Torri gemelle. In quel momento è in carica un’amministrazione, quella di Bush figlio, dominata da un tenace gruppo di neoconservatori. La finalità è ridisegnare la carta geopolitica di un’intera regione, anche infischiandosene dell’Onu e del diritto internazionale. Prima viene invaso l’Afghanistan (ancora con una parvenza di legalità e nel quadro della Nato), successivamente l’Iraq, con l’obiettivo di eliminare Saddam Hussein. E in questo caso, per giustificare l’intervento, davanti al consiglio di sicurezza dell’Onu si montano prove inesistenti circa il possesso di armi di distruzione di massa da parte del dittatore iracheno. È come se – ormai archiviato il lungo periodo dell’ostilità contro l’«altro» interno, trattenuta al di qua della guerra aperta in virtù della deterrenza nucleare – l’amministrazione neoconservatrice volesse prendersi un’ideale rivincita nei confronti di quell’«impero del male», che ragionevolmente non fu possibile attaccare, guerreggiando contro un altro nemico, stavolta più piccolo, tirato su dall’Occidente (sia Saddam, infatti, sia gli stessi talebani afghani erano stati in precedenza degli alleati). Ma il gioco non riesce. L’Occidente a guida neoconservatrice s’impantana in due guerre infinite, prive di uno sbocco politico vero e proprio.
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Dall’intera vicenda si ricava con chiarezza che cosa sia l’oscillazione tra un fiacco relativismo e un universalismo più o meno peloso (anche in versioni differenti, alternativamente progressiste o conservatrici) che vale finché vale, ma è pronto a lasciare spazio al relativismo non appena scompare l’interesse che lo sosteneva. Con questo non voglio affermare che si tratti di mera ideologia. L’oscillazione è reale, radicata nella cultura. Una certa tolleranza relativistica è complementare a una certa intolleranza universalistica (di destra o di sinistra): e i chierici occidentali liberali o conservatori si appoggiano ora all’una ora all’altra. Ma i loro argomenti sono solo la riproduzione, nel cielo dei concetti, della prassi corrente dell’inclusione e dell’esclusione. Quando s’interrogano su chi includere e come, si stanno interrogando nel contempo su chi escludere e come. Né sembrano dar peso al fatto che il criterio della demarcazione, tra chi è dentro e chi è fuori, è dato dalla stessa cultura occidentale, dalla sua particolarità culturale. In questo modo diventano gli intellettuali organici della tribù occidentale, i suoi perfetti stregoni, quelli che conoscono la formula per tramutare il particolare in qualcosa di più-che-particolare.
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Altro è il caso di quella linea di pensiero che va da Nietzsche a Foucault, che si può far risalire fino a Montaigne, e va sotto il nome di autocritica dell’illuminismo. Essa non si presenta come un’apologia della modernità, ma come una tradizione intellettuale insofferente di ogni tradizione, soprattutto di quella illuministica in cui pure affonda le radici. Qui il relativismo non è il mezzo per mettere al loro posto tutte le culture, esaltando la cultura occidentale in quanto cultura che mette a posto tutte le altre; al contrario è lo strumento per criticare la propria cultura, per relativizzarla nel paragone con le altre e con gli altri tempi storici, anche interni alla storia dell’Occidente. Il relativismo implica così uno spostamento continuo del punto di vista, un rovesciamento incessante della prospettiva, tale da produrre un effetto di straniamento nell’autosservazione. È connesso a ciò, necessariamente, un momento scettico più o meno moderato o più o meno radicale, in una teoria pluralistica della conoscenza che fa dell’individuazione di un punto di vista, di volta in volta determinato, l’aspetto centrale del movimento dei punti di vista. La critica si rivolge allora verso il cosiddetto soggetto in tutte le sue forme, e verso la sua presunzione – peraltro non semplicemente illusoria – di poter restare fermo ripetendosi. La chiusura dei possibili, che ogni formazione d’identità implica, riguarda i soggetti ma anche le culture. E se la società planetaria di cui si favoleggia sarà forse destinata a rimanere qualcosa di puramente virtuale, ciò non dipende dalla società, che anzi sembra contenere in sé come orizzonte aperto la totalità dei possibili11, ma dalle culture, dalle mentalità, dalle forme diverse di costituzione dei soggetti che si stabiliscono in essa chiudendo i possibili in maniere differenti e tuttavia analoghe.