giovedì 19 marzo 2020


IL BACILLO RUBATO
H.G. Wells
Traduzione di Andrea Filippi
Adelphiana
INTRODUZIONE

  Queste poche pagine hanno un andamento molto curioso.
  Cominciano in un laboratorio dove si maneggiano spore letali, e finiscono per le strade di Londra, in un inseguimento fra carrozze che possiamo immaginare come una comica del muto, con i cartelli a sostituire le voci dei protagonisti. Ora, per dimostrare quanto il mondo futuro potesse somigliare ai suoi racconti, H.G. Wells non aveva bisogno di scrivere, nel 1895, una storia di bioterrorismo.
Ma lo ha fatto, e per una volta vorremmo stupirci fino in fondo della sua assoluta preveggenza.

  
IL BACILLO RUBATO

  «Questo, invece,» disse il batteriologo, facendo scivolare un vetrino sotto il microscopio «è un preparato del famoso bacillus del colera». L’uomo pallido si chinò sul microscopio. Evidentemente non aveva dimestichezza con quel genere di cose, e si coprì l’occhio libero con la mano bianca e molle. «Vedo molto poco».
  «Regoli questa vite,» suggerì il batteriologo «può darsi che per lei il microscopio sia fuori fuoco. La vista varia molto da persona a persona. Basta una frazione di giro, da una parte o dall’altra».
  «Ah! ora vedo» disse il visitatore. «Dopotutto non c’è granché da vedere: striscioline e filamenti rosa. Eppure queste particelle minuscole, questi semplici atomi, potrebbero moltiplicarsi e devastare un’intera città! Stupendo!».
 Il visitatore si alzò in piedi, tolse il vetrino dal microscopio e lo sollevò verso la finestra. «A malapena si riesce a vederli» aggiunse osservando il preparato. Poi esitò. «Questi... sono vivi Voglio dire, sono pericolosi».
 «No, sono stati trattati con una sostanza colorante e uccisi» rispose il batteriologo. «E, per quanto mi riguarda, mi piacerebbe vedere uccisi e colorati tutti quelli ancora esistenti nell’intero universo».
 «Immagino» disse l’uomo pallido con un lieve sorriso «che persino voi studiosi vi guardiate bene dal tenere cose simili nella loro forma vivente, attiva...».
 «Al contrario, siamo costretti a farlo. Ecco, per esempio...». Il batteriologo attraversò la stanza e scelse, tra varie altre, una provetta sigillata. «Qui è vivo.
 Questa è una coltura del batterio vivente». Poi esitò. «Colera in bottiglia, per così dire».
 Un tenue lampo di soddisfazione apparve per un istante sul volto dell’uomo pallido. «Ciò significa avere tra le mani un potere mortale» disse divorando con gli occhi la provetta. Il batteriologo notò il piacere morboso nell’espressione del suo ospite.
 Quel tizio, giunto lì in visita nel pomeriggio con un biglietto di presentazione di un suo vecchio amico, gli pareva interessante proprio in virtù della profonda diversità dei loro caratteri. I capelli neri e lisci e i fondi occhi grigi, l’espressione stralunata, il nervosismo, l’interesse discontinuo ma vivace del visitatore rappresentavano una novità rispetto alle flemmatiche considerazioni degli uomini di scienza che solitamente frequentava. E, forse per questo, gli venne spontaneo, davanti a un interlocutore così sensibile all’aspetto «letale» dell’argomento, soffermarsi sui lati più impressionanti della faccenda. Sollevò la provetta con aria pensierosa. «Sì, qui dentro è imprigionato un morbo pestilenziale. Basta spezzare una piccola provetta come questa in un impianto di acqua potabile, basta dire a queste minuscole particelle vive, che sono visibili solo dopo essere state colorate e usando tutta la potenza di un microscopio, e inoltre non hanno odore né sapore... basta dire loro: “Andate, crescete e moltiplicatevi, riempite i serbatoi dell’acqua”, perché la morte... una morte misteriosa e inafferrabile, rapida e orribile, dolorosa e degradante, si sparga su questa città, vagando in cerca di prede. Il bacillo strapperebbe il marito alla moglie, il figlio alla madre, l’uomo pubblico ai suoi incarichi, il lavoratore ai suoi guai. Si spargerebbe nelle condutture, scorrerebbe per le strade, colpendo alla cieca le case dove non si bolle l’acqua da bere, si infiltrerebbe nei pozzi dei venditori di acque minerali, nell’acqua per lavare l’insalata, rimarrebbe in letargo nel ghiaccio. Aspetterebbe di essere bevuto dai cavalli negli abbeveratoi, dai bambini ignari nelle fontane pubbliche. Penetrerebbe nel suolo, per poi riapparire nelle sorgenti e nei pozzi di mille altri posti imprevedibili. Basta gettarlo nelle tubature dell’acqua e, ancora prima di poterlo circoscrivere e debellare, avrà decimato la metropoli». Si interruppe bruscamente. Già in passato gli avevano detto che il suo punto debole era la retorica.

  «Ma qui si trova al sicuro, sa Proprio al sicuro».

  L’uomo pallido annuì. I suoi occhi scintillavano.

  Si schiarì la voce. «Quei delinquenti... quegli anarchici,» disse «sono pazzi, anzi idioti a usare le bombe quando potrebbero disporre di roba simile. Io credo...».

  Qualcuno bussò gentilmente alla porta, appena una grattatina con le unghie. Il batteriologo andò ad aprire. «Solo un minuto, caro» gli bisbigliò sua moglie.

  Quando il batteriologo tornò nel laboratorio, il visitatore stava consultando l’orologio. «Quasi non mi rendevo conto di averle già fatto perdere un’ora del suo tempo» disse. «Mancano dodici minuti alle quattro. Avrei dovuto andarmene alle tre e mezzo.

  Ma ciò che mi ha mostrato era davvero troppo interessante. No, assolutamente, non posso restare un minuto di più. Alle quattro ho un appuntamento».

  Mentre usciva dalla stanza, il visitatore rinnovò i suoi ringraziamenti al batteriologo, che, dopo averlo accompagnato al portone, se ne tornò pensieroso in laboratorio.

  Si stava facendo alcune domande di tipo etnologico su quell’individuo. Sicuramente non era di origine teutonica, né aveva le caratteristiche del tipo latino comune. «A parte questo, un soggetto dalla sensibilità morbosa, temo» si disse il batteriologo.

  «Con che godimento maligno guardava le colture di microbi!». Un pensiero allarmante lo colpì. Si voltò verso il bancone accanto al bagno di vapore e corse alla scrivania. Quindi si frugò alla svelta nelle tasche e si precipitò verso la porta. «Magari l’ho lasciata sul tavolo dell’ingresso» si disse.

  «Minnie!» gridò con voce rauca dall’atrio.

  «Sì, caro» rispose una voce di lontano.

  «Poco fa, quando ti ho parlato, avevo qualcosa in mano».

  Silenzio.

  «No, caro, perché ricordo che...».

  «Orrore!» gridò il batteriologo precipitandosi all’uscita e giù per i gradini fino in strada.

  Udendo sbattere violentemente il portone, Minnie corse, tutta allarmata, alla finestra. In fondo alla strada un uomo magro stava salendo su una vettura pubblica. Il batteriologo, senza cappello, in pantofole, correva gesticolando frenetico in quella direzione. Perse una pantofola, ma non se ne curò.

  «È impazzito!» disse Minnie. «Tutta colpa di quella sua orribile scienza!». E aprì la finestra per chiamarlo. L’uomo magro, guardandosi improvvisamente intorno, parve anch’egli pensare a una forma di disturbo mentale. Additò il batteriologo, dicendo qualcosa al vetturino. In un attimo la ribalta della carrozza sbatté, la frusta schioccò, gli zoccoli dei cavalli risuonarono sul selciato e la carrozza e l’esagitato inseguitore scomparvero dietro l’angolo.

  Minnie restò per un momento sporta dalla finestra, poi rientrò nella stanza. Era ammutolita. «Va bene che è sempre stato un eccentrico,» si disse «ma scorrazzare per Londra... e al culmine della stagione mondana... e in calzini!». Quindi decise al volo il da farsi. Indossò in tutta fretta la sua cuffia e afferrò le scarpe del marito, prese dall’attaccapanni dell’atrio il suo cappello e un soprabito, uscì sulle scale e dal pianerottolo chiamò una vettura che, molto opportunamente, si trovava a passare di lì.

  «Risalga la strada e prenda per Havelock Crescent, e veda se riusciamo a rintracciare un signore che corre con indosso una casacca di velluto e senza cappello».

  «Casacca di velluto, signora, niente cappello. Bene, signora».

  E il vetturino fece schioccare la frusta nel più naturale dei modi, come se portare i clienti a quell’indirizzo fosse cosa di ogni giorno.

  Dopo pochi minuti, il gruppetto di vetturini e fannulloni che è solito stazionare nei pressi della pensilina di Haverstock Hill assistette allibito al passaggio di una carrozza, tirata da un ronzino rossastro, che filava di gran carriera.

  La guardarono sfrecciare in silenzio, poi, mentre la carrozza si allontanava: «Quello è ’Arry ’Icks. Che gli ha preso» disse un signore tarchiato, che tutti chiamavano il «vecchio Tootles».

  «Gli sta dando di frusta, non c’è che dire!» fece il mozzo di stalla.

  «Ehi!» intervenne il buon Tommy Byles «ecco che arriva un altro bel matto. Mi venga un colpo se non è così».

  «È il vecchio George» disse il vecchio Tootles «e mi sa che hai ragione, sta portando davvero un matto. Si spenzola fuori della carrozza... chissà se sta inseguendo ’Arry ’Icks».

  Il gruppetto si animò, gridando in coro: «Dagli, George!». «È una corsa!». «Dai, che li prendi!».

  «Frusta!».

  «Ragazzi, se corre!» disse il mozzo di stalla.

  «Mi fan venire il capogiro!» gridò il vecchio Tootles. «Ecco, tra poco mi viene! Ne sta arrivando un’altra. Ma che gli piglia ai vetturini di Hampstead, sono ammattiti tutti, stamani».

  «È una femmina, ’sta volta» disse il mozzo di stalla.

  «Lei che rincorre lui» disse il vecchio Tootles. «Di solito è il contrario».

  «Ma cos’ha in mano».

  «Parrebbe un cilindro».

  «Che forza, che spasso! Do il vecchio George tre a uno!» disse il mozzo di stalla. «Avanti il prossimo!».

  Minnie passò in mezzo a uno scroscio di applausi.

  Tutta quella storia non le piaceva neanche un po’, ma riteneva di dover compiere il proprio dovere, pertanto sfrecciò giù per Haverstock Hill e Camden Town High Street senza mai distogliere lo sguardo dalla schiena sussultante della vettura del «vecchio George», il quale, senza una ragione al mondo, le stava portando via quel matto di suo marito.

  L’occupante della prima carrozza se ne stava acquattato in un angolo dell’abitacolo, con le braccia saldamente incrociate e serrando in mano la piccola provetta dall’immenso potere distruttivo.

  Il suo stato d’animo era un misto di paura ed esultanza. Più di tutto temeva di essere catturato prima di aver realizzato il suo proposito; dietro a questo timore si celava però una paura più vaga, ma più grande, che gli derivava dalla natura orrenda del suo crimine. Ma l’esultanza dominava su tutto.

  Nessun altro anarchico prima di lui aveva osato mirare tanto in alto. Ravachol, Vaillant, tutti quegli illustri personaggi dei quali aveva invidiato la fama, accanto a lui diventavano figure minori. Ora gli bastava raggiungere l’acquedotto e spezzare la provetta dentro uno dei serbatoi. Era stato davvero bravo, sia a concepire il piano per introdursi nel laboratorio con una falsa lettera di presentazione, sia a cogliere al volo l’occasione appena gli si era offerta. Il mondo, finalmente, avrebbe sentito parlare di lui. Tutti quelli che lo avevano irriso, ignorato, che gli avevano preferito altri e avevano fuggito la sua compagnia, adesso sarebbero stati costretti a prenderlo sul serio. Morte, morte, morte!

  Lo avevano sempre trattato come un uomo da nulla. Il mondo intero aveva cospirato per tenerlo nell’ombra. Avrebbero imparato a loro spese cosa vuol dire isolare un uomo! Ma quella strada gli era familiare... Ma certo: Great Saint Andrew’s Street!
  Come procedeva l’inseguimento Sporse il capo fuori della vettura. Il batteriologo era appena a una cinquantina di metri. Gran brutta faccenda. L’avrebbero fermato e catturato. Si frugò nelle tasche in cerca di soldi e trovò una mezza sovrana. Tese il braccio attraverso la botola e cacciò la moneta davanti agli occhi del vetturino. «Ne avrà ancora se non ci farà raggiungere!» gridò.
 La moneta gli venne strappata di mano. «Benone!»disse il vetturino. La botola si richiuse di schianto e la frusta colpì il fianco lucente del cavallo. La vettura sobbalzò e l’anarchico, ancora mezzo in piedi sotto la botola, per non perdere l’equilibrio appoggiò sulla ribalta la mano che reggeva la provetta. Sentì il fragile oggetto spezzarsi, e metà della provetta si frantumò tintinnando sul fondo della vettura. L’anarchico ricadde sul sedile con un’imprecazione, e osservò sgomento le due o tre gocce di liquido versate sulla ribalta.
  Si sentì raggelare.
  «Bene! Dunque il primo sarò io! Puah! Comunque, sarò un martire. E non è cosa da poco. Però, che morte schifosa! Chissà se si soffre come dicono...».
 In quell’istante ebbe un’intuizione, e subito si mise a tastare alla cieca ai suoi piedi. Nel fondo della fiala spezzata rimaneva una goccia di liquido e, per maggiore certezza, la bevve. Era meglio andare sul sicuro. In questo modo, il successo era garantito.
  Poi pensò che ormai non aveva più motivo di scappare dal batteriologo. In Wellington Street disse al vetturino di fermarsi e scese. Scivolò sul predellino e avvertì una strana sensazione alla testa. Era roba rapida, quel veleno del colera! Congedò con un gesto di commiato, per così dire eterno, il vetturino e rimase lì ritto sul marciapiedi, a braccia conserte, in attesa del batteriologo. Nel suo contegno c’era qualcosa di tragico. Il senso della morte imminente gli conferiva una certa dignità. Accolse il suo inseguitore con una risata di sfida.
 « Vive l’Anarchie! Arrivi troppo tardi, amico mio. L’ho bevuto. Il colera è già in circolo!».
  Il batteriologo, dalla sua vettura, lo osservava con viva curiosità attraverso gli occhiali. 
  «L’ha bevuto Un anarchico! Ora capisco». Era sul punto di aggiungere qualcos’altro, ma si trattenne. Un lieve sorriso gli aleggiò sulle labbra. Quando poi aprì la ribalta della vettura per scendere, l’anarchico gli fece un drammatico cenno d’addio e si allontanò a grandi passi verso il ponte di Waterloo, cercando di sfiorare col corpo infetto il maggior numero di persone possibile. Il batteriologo era così preso da quella visione che quasi non dette alcun cenno di sorpresa all’apparizione di Minnie sul marciapiedi, con in mano il cappello, le scarpe e il soprabito.
 «Sei stata davvero gentile a portarmi le mie cose»
 disse, insistendo a contemplare la figura sempre più lontana dell’anarchico.
  «Faresti meglio a salire» le disse, sempre con lo sguardo fisso. Minnie si convinse definitivamente che era diventato matto, e si assunse lei la responsabilità di dare al vetturino l’indirizzo di casa. «Mettermi le scarpe Certo cara» disse il marito, mentre la vettura curvava, celando alla sua vista la nera figura impettita, ormai invisibile, in lontananza.
  D’un tratto gli venne in mente qualcosa di grottesco, e scoppiò a ridere. Poi commentò: «Comunque, è una faccenda molto seria...
 «Capisci, quell’uomo che è venuto a casa nostra è un anarchico. No... non svenire, altrimenti non posso raccontarti il resto. Io, ignorando che era un anarchico, ho cercato di stupirlo tirando fuori una coltura della nuova specie di batteri di cui ti ho parlato, sai quelli che infestano di macchie blu vari tipi di scimmie e che, anzi, ritengo ne siano all’origine Ebbene, da vero sciocco, gli ho detto che si trattava di colera asiatico! E quello è fuggito via portandolo con sé per avvelenare l’acqua di Londra. Fosse stato per lui, la nostra città, così civile, ne avrebbe viste, è il caso di dire, di ogni colore!
 Bene, ora l’ha ingerito. Non posso prevedere cosa gli succederà, ma, sai, quel preparato aveva fatto diventare completamente blu il gattino e i tre cuccioli, questi ultimi a chiazze, e anche il passero...
  di un bel blu brillante. Il guaio è che ora dovrò affrontare altri fastidi e altre spese per prepararne ancora.
 «Mettermi il soprabito col caldo che fa oggi! E perché mai Perché potremmo incontrare la signora Jabber Cara, la signora Jabber non è mica una corrente d’aria! Dovrei indossare il cappotto in un giorno così caldo solo per via della signora... Oh, va bene, va bene!».