martedì 10 marzo 2020


L'ADALGISA.
Carlo Emilio Gadda
“.... E che ero una qui, e che ero una là; e che cantavo nei teatri di strapazzo, per i militari; che avevo già avuto una cinquantina d'amanti!.... ma si!.... cento.... mille.... un milione!”
Una frenesia improvvisa aveva colto quella donna, per solito così “normale”. I ragazzi si erano allontanati a guardare una  carabina  che  aveva  un  ragazzo,  e  pareva  vera:  non  ad  aria  compressa,  ma  con  le  “vere  cartucce”.  Stavano osservandola estasiati, pezzo per pezzo: la toccavano, timidi, con un ditino, l'uno dopo l'altro, mentre il ragazzo, muto e sprezzante, gioiva di orgoglio.
“.... Se non fosse stato per il mio povero Carlo, che mi adorava.... senza esagerazione.... mi adorava”, ricordò di aver sorriso del verbo adorare nel caso di Elsa, “.... povero figliolo!.... se non fosse stato per lui.... ti dico io che me lo sarei preso  davvero  l'amoroso....  ma  de  quii  viscor  (1),  però....  un  tenente  dei  bersaglieri....  s¡,  proprio,  un  tenente....”, pareva una bambina in capricci, che dicesse un cioccolattino col rosolio.... s¡, proprio, col rosolio! “con delle piume fino alla vita!”, e segnò davvero la cintura, “per farla crepare di rabbia.... quella stregaccia!.... E ce l'avevo l¡ pronto, veh?.... bastava solo che avessi voluto!... Vedova.... padrona di fare quel che volevo.... dopotutto.... Ed era perfino un nobile.... un meridionale, magari.... ma un gran bel ragazzo!”
“E'  una  strega!”,  gridò;  “sono  delle  streghe!  tutte  quante  insieme!....  Gli  manca  soltanto  la  pentola  da  far  bollire  i malefizŒ, con dentro le lingue dei rospi.... Mi hanno avvelenato la vita!”
“Non pensarci, cara, a certe tristezze”, disse Elsa assai triste, con una sincera pietà. “Rasserenati.... hai almeno i tuoi figli....”: e un pianto le velò improvvisamente gli occhi.
“Non  voglio  rasserenarmi,  che  rasserenarmi  d'Egitto!”,  gridò  l'altra  con  una  rabbia  crescente,  facendo  volgere  chi passava. “Non voglio. E tutto perché ero rimasta vedova! Cosa non me ne han dette! Cosa non me ne avevano fatte passare già fin da prima!.... perché cantavo! S¡, cantavo; oh bella!.... Cantavo!.... perché avevo una voce.... che se non avessi sposato il mio povero Carlo.... a quest'ora sarei sul palco del Metropolitan.... con una cinquantina di file di perle intorno al collo....”
I ragazzi, laggiù, ipnotizzati da quella carabina.
“E questi due disgraziati lo devono a me, solo a me, se domani avranno qualche cosa addosso anche loro, come t  tt i alter, una posizione, un po' di sostanza....”
Elsa considerò che in realtà la cognata le era sempre parsa pi£ sollecita dell'ordine che del disordine: pi£ preoccupata della casa, dei “paviment de cera”, che del palcoscenico del Metropolitan. Una tenuta inappuntabile della persona, una borsetta  chiusa,  stretta  a  due  mani  sulla  cerniera,  una  oculata amministrazione  della “sostanza”.  Intenta  sempre alle cose  fondate,  alle  scuole  e  alle  scarpe  dei  ragazzi,  e  impegnata  a  tutt'altro  che  a  cercar  bersaglieri,  o  ufficiali  de'
bersaglieri, con le penne fino alla vita....
Solo la patita umiliazione, lo sdegno che l'aveva r“sa per anni, lunghi anni, potevano indurla ad esprimersi cos¡. Solo il ricordo degli anni di gioventù e d'orgoglio, che aveva sperato felici dopo le nozze: e invece nella “nuova famiglia”
l'avevano considerata come una disgrazia, una debolezza “di quel benedetto Carlo”. E l'avevano lasciata freddamente in disparte, o addirittura respinta, come una profittatrice e una ex-cantante d'operette, una furba, insomma, a cui fosse riuscito di fare il colpo.
Il colpo col povero Carlo.
“Hai  da  vendicarmi,  Elsa  mia!”,  disse  a  un  tratto;  in  un  tono  sommesso,  cattivo,  quasi  un  suggerimento.  Cercò  un fazzoletto nella borsetta: se lo premé sugli occhi, si soffiò il naso.
“Vendicarti?”
“Voglio dire sta' allegra; divertiti intanto che sei ancora in tempo. Non pensarci, non essere cos¡ triste. E' tutta poesia, nient'altro che poesia, credi a me....”
Disse “poesia” come avrebbe detto le feci o altri materiali putrescenti.
“Soltanto.... sceglilo bene.... Càtel foeura cont i occ avert.... (2).
“Ma non dargli la soddisfazione di credere al loro stemma.... alla loro superbia.... di prendere come oro colato tutte le minchionerie che gli vengono fuori della bocca.... Sono dei marchesi minchioni! Dai retta a me! Tu poi! Che sei come me,  che  sei  pi£  bella  di  me....  che  sei  giovane....”:  la  guardò  con  l'occhio  ammirato  d'una  sacerdotessa,  d'una medichessa.  “Se  non  sei  felice....  se  non  hai  tutte  le  soddisfazioni  che  meriti....  ascoltami!  Gli  anni  fanno  presto  a passare.... è inutile consumarli a far via la polvere ai mobili, ai ritratti.... Credimi, Elsa, non meritano....”
“Ma di che parli? Che dici? a quali marchesi alludi?....”, implorò Elsa, con una voce tuttavia cos¡ limpida, che disarmò la cognata. La quale, come una scolaretta redarguita dalla maestra, inghiott¡ senza batter ciglio quel difficile “alludi”.
I  ragazzi  tornarono  rasserenati,  e  ormai  dimentichi  dell'uomo  cattivo,  a  raccontare  le  perfezioni  della  carabina.
Litigavano però intanto fra loro, in un “a parte” sottolineato da qualche calcio in tralice, sostenendo l'uno che era una Vetterly, l'altro una Royal Manchester. “Sei stupido!” “E tu sei scemo!” “Finitela!”, si inviper¡ l'Adalgisa; pareva fuor di sé. “Finiscila, Gianfranco, o ti do uno schiaffo!” E lo schiaffo arrivò prima ancora della formulazione dell'ipotesi, come il lampo in precedenza sul tuono.
Gianfranco, interdetto, zitt¡ e smise di tirar calci al fratello, ma non pianse. Luciano si affievol¡ subito lui pure.
Elsa  ebbe  delle  parole  buone  e  dolci  per  entrambi:  ma  intanto  che  si  chinava  sul  pi£  piccolo,  a  racconsolarlo,  e  a persuaderlo  che  i  calci  sugli  stinchi  potevano  far  del  male  anche  a  Gianfranco,  Bruno  ripassò  pedalando,  lento, preciso.  E  le  parve,  mentre  lui  la  guardò,  un  pensiero  inesorabile  e  fulgido  scaturito  dalla  folla  tediosa  dei  viventi.
L'Adalgisa,  stavolta,  segu¡  quel  ciclista  con  l'occhio,  esasperata  anche  di lui,  come  di  una  cosa  irregolare,  contraria alla decenza, e al buon ordine della società. Dopo quel po' po' di sermoncino. Oh! Ella avrebbe voluto veder pedalare il suo Carlo! Oh! allora s¡!

Oh! Col suo Carlo “era una cosa diversa”. Il loro romanzo era stato una cosa incredibile, cos¡ davvero credeva. “Una pagina  meravigliosa  nel  breve  libro  della  vita!”  diceva  la  “strega”,  cioè  donna  Eleonora  Vigoni,  (adoratrice  di Longfellow), con molta dolcezza; e con altrettanta perf¡dia. Ella possedeva in sommo grado l'arte di lodare il Signore per far dispetto agli uomini. In tali occasioni atteggiava la lunga faccia vizza a un cos¡ compunto e disciplinato "Deo gratias",  che  veniva  voglia  di  prenderla  a  schiaffi.  Certi  ingegneri  e  fabbricanti  di  scaldabagni  -  il  suo  salotto  non poteva respingerli, per via delle parentele e degli affetti familiari che ad esse conseguono - quando lei gli rivolgeva due parole d'obbligo piene di indulgenza e d'una commiserante sopportazione, avevano proprio difficoltà a non uscir dai  gangheri.  Dai  quali  gangheri  usciva  poi  viceversa  ella  stessa  non  appena  il  garzonaccio  del  macellaio,  e  il  suo degno sosia della drogheria Usuelli, avesse pronunziato il nome illustre dei Vigoni “come solo può pronunciarlo un teppista”,  eccetera  eccetera.  La  cattiva  pronuncia  di  simili  “farabutti”  era  stata  anzi  causa  efficiente  (3)  a  mutar  di macelleria nove volte in due anni: addebitandone però la colpa alla fesa.
La  “pagina  meravigliosa  nel  breve  libro  della  vita”  aveva  avuto,  per  il  povero  Carlo,  un  inizio  assolutamente imprevisto dall'austerità ironica dei Vigoni, per quanto alcuni, i Tantardini marito e moglie, ad esempio, che ebbero loro  pure  occasione  di  commentarmi  tutta  la  storia,  lo  ritengano  invece  de'  pi£  comuni  e  direi  usuali  nella  fisica dell'uman genere.
Il povero Carlo, per quanto affetto da onestà cronica, utilizzava il suo diploma di ragioniere “amministrando” alcune case popolari in corso Vercelli, ma giù in fondo, però: e “on para de palazz de sciori in via Brisa.... che domà quii....”: e rivedeva seralmente i conti ad alcuni droghieri de' pi£ pepati tra il Pontaccio e il Terraggio, passando anche da via San  Giovanni  sul  Muro.  Questi  droghieri,  immersi  da  anni  in  un'atmosfera  mista  di  zafferano  e  portorico  (4)  tra scatole di biscotti Wafer, non lo erano altrettanto nella computisteria, poveracci.
Come dice anche solo il nome, Carlo!, egli era un bravo e bell'uomo. I suoi baffi, al loro tempo, avevano trionfato in Libia, terrore del deserto. Neri e guglielmini sotto il casco, sublimi in vetta al mehàra, perseguirono implacabili alcuni beduini  dagli  occhi  cisposi;  e  li  avevano  fugati  ogniqualvolta.  I  beduini,  accoccolati  nel  rovescio  delle  dune, avvistavano  quei  baffi  a  tre  chilometri  e  mantenevano  poi  il  vantaggio  per  tutta  la  corsa.  Quei  baffi  avevano innamorato una mora, ma una mora vera, di Tobr£k: nonché un paio di morettone un po' pi£ nostrane, svoltando fuori da corso Vercelli, giù, giù, per i sentieri e lungo i filari dei salci, fino alla cascina Caccialèpori.
E poi altre more, da mangiare, colte qua e là, in Valassina, “lunghesso” le siepi che circoscrivono campi di patate o di granturco: delle di cui foglie silicose, cra cra cra, larghe e lustre, le vacche sono amantissime.
Carlo  tornava  dalle  sue  passeggiate  suburbane  con  delle  scarpe  da  masnadiero,  che  facevano  la  disperazione  della serva.  Pareva  un  “ingegner  civile”  reduce  da  misurazioni  di  terre.  Per  quanto  avesse  avuto  cura  di  rimboccarsi  i pantaloni, la Giovanna doveva lasciarli seccare “e poeu gratà e spazetà on para d'or”, rompendosi di quando in quando una  qualche  unghia  sul  panno,  nella  devota  cancellazione  delle  pillàcchere.  Tornava  quasi  affannato,  con  la  bocca mezzo aperta al respiro, le labbra infebbrate, e un grande appetito in corpo: un po' “sperlusciato” (5) nei capelli e nei baffi, i due grandi e lucidi occhi un po' spauriti, il viso incavato, l'animo piegato a clemenza. Soprattutto, diceva lui,
“stràkk me n'àsen”.
Unico “vero amore” l'Adalgisa! l'esaudimento  di questo amore  aveva però richiesto tutta  una complicata  procedura, delle visite piene di sorrisetti, dei brindisi in famiglia: la lieta sciarpa, infine, del sindaco.
“Del  resto,  non  bisogna  credere  che  pensasse  domà  a  godere”  (6),  affermò  l'Adalgisa  con  un  moto  d'orgoglio.  “Lo studio, la scienza, erano il suo pane. Non era certo uno che viveva per il ventre. Nelle poche ore libere, studiava sui libri.  Continuava  a leggere fino  alla  una,  in letto,  che io  ero  già  bell'e  addormentata.  Si  occupava  di tante  di  quelle cose! Faceva delle raccolte. Le raccolte, oltre ai ritratti dei paesaggi della Libia (7), erano il suo pi£ grande ideale”.
E infatti accumulava sistematicamente, nelle scatole disusate delle scarpe e dei biscotti di Novara, doviziosi strati di pezzetti di buste “con tutti i francobolli del mondo”: ma non solo quelli vecchi del Venezuela o della Martinica, s¡
anche  quelli  di  jeri  l'altro,  e  del  Regno  d'Italia.  Del  Regno  d'Italia,  anzi,  con  la  venerata  effigie  di  Sua  Maestà,  ne arrivò a possedere un duemila. Tutte le migliaia di pezzi di busta avevano sedimentato in ventitre scatole di ex-biscotti le  quali,  in  cima  a  un  armadio,  guai  a  chi  le  toccasse.  L'Adalgisa  aveva  finito  per  convincersi:  chi  pò  savell?,  che forse, un giorno, magari, si sarebbe anche.... potuto realizzare....
Ed oltre che appassionato filatelico era un dilettante mineralogista: parlava di cassiterite e di orneblenda, di schisti e di faglie: di stato crioscopico, di allotropia, di rocce peridotico-serpentinose....
Più che la “geometria dei cristalli”, però, “che quella, magari, l'è minga pan per i me dent....”, lo interessavano invece
“i minerali in se stessi”; si lisciava i baffi, stirandoli e filandoli come da una conocchia, con un gesto un po' alla zuava;
“.... che la nat  ra, domà derv¡ i oecc, l'è talment varia.... talment infinida....” E apriva davvero sui suoi ascoltatori due occhi nerissimi, rotondi, da intimidire i bambini.

Dei “minerali in se stessi” aveva riempito pi£ d'un armadio di casa, e una credenza vecchia, dei nonni, e i tiretti della scrivania, la mensola d'un caminetto senza canna, i due tavolini della “sala de ricéf”, il pi£ grande e il pi£ piccolo. Per tutta la casa abbondavano i fermacarte (di calcite o di solfo) e, in conseguenza, le carte.
I bimbi, crescendo, ebbero il permesso di giocare con alcuni minerali dei pi£ tenaci e dei meno avvenenti, ma fu loro proibito di “consumarli”. Ciò non ostante, fra i residui della spolveratura e della spazzatura, nella “lana” che veniva stanata da dietro i mobili, e già magari in prossimità dell'atra r  éra - ch'è, da noi, come la bocca d'un domestico Erebo
- si reperivano quasi ogni giorno, sotto alla scopa, delle briciole di solfo cristallizzato, delle lamette o scagliette, ahi ahi, di mica; talora dei minuzzoli di ortoclasio.
Le  donne,  è  ovvio,  congiuravano  di  celare  lo  scelus  al  pater-familias,  deviandone  i  complessi  talenti,  a  colazione, verso un qualche altro ramo dello scibile: o addirittura verso il prosciutto. Di San Daniele? Certo: vero San Daniele.
“E' buonissimo, proprio!” conveniva lui. Ma poi lo scelus finiva per trapelare dalle fenditure della reticenza, come il sospetto d'un incesto dalla casa delle Vestali.
E non c'era passeggiata nei monti, a Intronno, né bagno di mare, a Varazze, che non ne discendesse o non ne uscisse greve di testimonianze geologiche o talassologiche, di conchiglie, ricci, cavallucci duri, secchi in breve come un'ala di pollo arrosto  troppo  arrostito: o gelatinose meduse,  enfiate  della loro  urticante idropisia. O, giù dai  dirupi,  silice. O
pulverulenta dolomite.
Il “periodo glaciale”, poi, lo zavorrava senza misericordia.
O con il brus¡o o il ronz¡o, in una qualche tasca, d'un qualche notturno silfoide. O d'un cervo reluttante, d'un disperato calabrone.  L'Adalgisa  disse  delle  parole  latine:  avvicinò  con  gran  sicurezza,  ma  naturalmente  non  riusc¡  a pronunziarli, i nomi del carabus violaceus e del purpurascens e s'imbrogliò poi del tutto nel carabus glabratus, un vero scioglilingua. La sua memoria di vedova e la sua bravura di donna milanese in un battibaleno menò sterminio degli sciagurati:  una  pioggia  di  beccacce  sotto  i  colpi  d'una  carabina  a  tre  canne.  Aveva,  dei  nomi  difficili  imparati  dal marito, l'idea che fossero assolutamente necessari a comprovare la sua qualità di “signora” e la sua fedeltà postuma di Adalgisa: e che in ogni modo bisognava pronunziarli come gnente fosse, con l'aria pi£ naturale del mondo.
Questi càlabi eran le prede pi£ frequenti nei boschi, dissepolti da sotto mucchi di fogliame e di rami fradici, inseguiti poi con le pinze, in un batticuore, dopo il cataclisma: quando irraggiavano in celere fuga sull'umidore denudato della terra, a celarsi nuovamente dentro le borraccine ed i muschi.
Perché infine il povero Carlo (8) era anche entomòlogo, ragione per cui diverse signore di mia conoscenza, tra le pi£
colte  anzi  della  nostra  società,  lo  dicevano  professore  d'etimologia.  La  sua  “passione”,  la  sua  “specialità”  furono  i coleotteri. Dapprima aveva tentennato, aveva svolazzato qua e là, come ad orizzontarsi, nel campo infinito: “la natura l'è  talment  granda,  talment  infinida!....”  Poi  “però,  poco  a  poco,  aveva  preso  a  ragionare,  a  restringersi.  Trovò  che bisognava  “specializzarsi”,  saper  resistere  alle  tentazioni  dissolvitrici  dell'Enciclopedia.  “Siamo  nel  secolo  della specializzazione”,  enunciava autorevolmente: ipnotizzando  gli interlocutori coi grossi occhi e coi  baffi, gli  uni e gli altri nerissimi.
Trascurò cos¡ a poco a poco calabroni e farfalle, mosche e cimici: abbandonò al loro destino lepidòtteri, imenòtteri e d¡tteri: non volle pi£ saper di rincòti, “roba de pomada merc  riàal”, soggiungeva ridacchiando, con un'a baritonale, lunga dai 18 ai 22 secondi.
Si liberò d'ogni scoria enciclopedica, si specializzò. Puntò sugli scarabei.
Tutta  questa  crisi,  diobono,  dopoché  alla  fiera  di  Sant'Ambrogio,  una  domenica,  s'era  imbattuto  in  un  volume scompagnato del Fabre, che aveva accompagnato in seguito con l'opera del Pirazzoli: “"I coleotteri italiani - Nozioni elementari"“ e con il libro di Eger Lessona: “"Il raccoglitore naturalista"“.
L'Adalgisa, a dir vero, non vedeva di troppo buon occhio questa nuova “inclinazione” del marito, ne era anzi un po'
seccata. Ma poi vi aveva tacitamente aderito, pensando tra sé e sé: “meglio questo che i vizzi,.... o un quai cornett....”
Tanto che dopo  lunga  lotta interiore, sentendosi con  le spalle al sicuro dal lato miée, Carlo aveva  osato cedere alla tentazione  d'un  nuovo  acquisto, un'offerta  proprio  vantaggiosa,  bisogna  convenirne,  anzi  una  “vera”  occasione: uno dei primi atlanti sistematici in Italia: "Il Catalogo dei Curculionidi Siciliani" del geometra Vitale.

L'Adalgisa,  rabbonitasi  alquanto,  prese  a  rivivere  in  una  elisia  mansuetudine,  o  come  nella  dolcezza  de'  rimpianti, quelle ricerche fervorose del povero Carlo: i coleotteri, proprio, erano modi della divina Sostanza (9). Nella vivezza appassionata  del ricordo,  nel  sopravvivente  orgoglio  della  donna,  della  sposa, ogni captato  cureulione  diventava  un atto di amore.
Raccozzando  alla  brava  nomi  e  fatti,  commossa,  venne  poi  a  puntuar  meglio  il  discorso,  d'una  qualche  lacrima,  di reiterate  e  impeccabili  soffiate  di  naso.  Sospirava,  dopo  ogni  pausa,  dolorosamente,  come  quando  si  ricordano  le nobili  cose  del  passato  e  dei  compagni  dispariti.  Andava  cos¡  rappezzando  in  uno  strano  arazzo  quei  curiosi avvenimenti etimologici (o entomologici, se preferite) che avevano occupato i suoi anni belli, dopo l'urlo dei parti.
E li risognava davanti la testimonianza di Elsa, in una luce attenuata, di memoria. Pel tramite d'un sacro, indissolubile vincolo, quei fatti le avevano  comunicato non forse la passione dell'indagine, “de  vorè ravanà (10) de per t  tt”, ma almeno “el rispetto della Sciensa”, cos¡ assicurava.
“Come quel giorno.... ch'el m'è tornàa a cà consciàa, ma consciàa....” Levò le mani inguantate a nascondere il volto, e quasi  a  smorzare,  un  attimo,  la  fulgidità  del  ricordo.  “Madonna  Santa!....  pareva  che  fosse  caduto  in  un  lago  di palta!....” (11).
Era  caduto  infatti  in  una  specie  di  pantano,  fra  la  roggia  Brisighella  e  la  roggia  Scond  da,  ch'era  straripata, quest'ultima: in territorio di San Colombano al Lambro, in campagna, dov'erano andati “per San Péder”, a trovare certi parenti pieni di polli. Il dolce piano, quel pomeriggio, nel sole fulgidissimo, brusiva di amori e di voli.
S'era  cavata  la  giacca,  s'era  sporto  avido,  con il retino, per  una  preda  di  larve:  e  anche  ditischi  adulti,  magari:  cos¡
almeno riferirono i testimoni. Ma quei vigorosi nuotatori, subodorate le intenzioni del retino, (lo lumarono subito, dal sotto  in  su),  via!  s'erano  spiccati  come  altrettante  spole  dall'erbe  e  dagli  steli  subacquei,  dove  pareva  invece  che  ci dormicchiassero: e lui dietro! col suo retino, bravo! come ci fosse probabilità di raggiungerli! In maniche di camicia com'era, teso fino all'ultimo il braccio, Dio com'era peloso!, perché aveva rimboccato la manica. Attaccandosi con la sinistra a un ramo, s¡! finché il ramo si scerpò netto: e lui patap£nfete!: dentro come un salame fino al collo.
Una nuvola di fango lo aveva subito circondato.
Quelli  intanto  bucarono  via  l'acqua  come  siluretti  felici,  scampati  nei  roridi  e  verdi  regni,  fra  i  capegli  dell'erbe  e dell'alghe:  salvi  dal  loro  profilo  ellittico  o  parellittico,  che  offre,  credo,  un  minimum  di  resistenza,  che  segna  un optimum della forma natante. E devono aver raggiunto quest'ottimo nella pertinace evoluzione della discendenza, in un loro amore del meglio e poi del perfetto, educendo dalla grossolanità primigenia il garbo del capo, del corsaletto e dell'èlitre,  sforzandosi  di  tendere,  tendendo  all'elisse,  entro  paludi,  o  gore  morte  nelle  golene  de'  fiumi:  ogni  acqua ferma  un  bacino  da  esperimenti,  ogni  specchio  livido  un  mondo  da  perforare  col  pensiero:  traverso  generazioni  e millenni raggiungendo il loro laborioso integrale isoperimetrico (12).
Bruno ripassò, alto e calmo, sulla sua bicicletta. Anche il suo sangue, traverso i millenni, doveva aver comportato e risolto tutta una serie di problemi infinitesimali. Gli imponderabili atti e moti, le intime e quasi inavvertite volizioni, le oscure  e  tormentose  delibere,  le  profonde  elezioni  dell'istinto,  i  minimi  sopralivelli  della  scelta,  “les  petites perceptions” (13), s'erano lentamente stratificate negli evi, affiorando nella risorgiva di una persona. L'oscuro tendere, l'oscuro volere, l'oscura fermezza, l'oscura fede: l'oscura fatica della sopportazione, l'oscura negazione e ripudio delle cose abominevoli, la scelta degli atti vitali, il raggiunto essere, alfine, come di chi emunto alfine risorga: nel giorno!, dalla tomba infernale della miniera.
La  onorevole  discorsività  degli  atti finiti,  dei  bei  pensieri  distesi,  come  mutande  ad asciugare  al  sole, non  è  se non ordinaria  pratica,  non  è  creazione,  non  è  euresi,  ma  godimento,  ripetizione  e  profitto.  Perciò  l'abitudine,  la  cara abitudine,  “le  mie  care  abitudini”,  erano  il  bozzolo  prediletto  dove  s'imbozzolavano  tutti  della  famiglia,  lo  zio Agamennone, i nipoti, i cugini, il N. H. Giovan Maria, e la stessa donna Eleonora, per quanto sardonica e tira-sberle (14). Il nobile Gian Maria, poi, neanche parlarne: stretto e rappreso nelle sue abitudini come la nave del Duca fra le gelate  cataste  della  banchisa.  Perciò  quei  due  nasi  del  Gianfranco  e  del  Luciano,  poveri  nasoni  in  lotta  (presente  o prossima)  coi  verbi  deponenti,  avevan  l'aria  di  significare:  “ci  siamo  e  ci resteremo:  soprattutto  ci resteremo”.  Elsa pareva turbata, assorta.
A Bruno chi gli aveva disegnato la faccia? Quale sangue, nuovo o remoto, gli aveva messo il ciuffo? Quale vigore o disperazione? Di che gente o costume, di che travaglio o tempo, era venuta quella fronte? Da quale servitù ribelle il suo sguardo, e quella mano, quel braccio ch'ella aveva veduto recidere i tendini alla bestia distesa? Da quale macellaio o macelleria egli era stato licenziato ai buoni modi del vivere? Quando, e da quale mente era stato “progettato”? Era partecipe dell'equivoco delle labiali?

In dodici o quindici scatole di legno, pavimentate ognuna del suo soprafondo di sughero e questo, poi, coperto d'un foglio  bianco  a  coordinate rettilinee (15),  su infiniti  spilli, davanti  gli  occhi  sgranati  de'  due  bimbi,  il  povero Carlo aveva meticolosamente infilzato gli Scarabei e i Ditischi infiniti della natura, i Cebrioni, i Cureulioni, i Cerambric¡di, i Buprèssidi, gli Elatèridi: le fuggitive Cicindèle odorate di rosa e di muschio, lucide come Giovanna d'Arco nella loro corazza di acciaio chiuso, brunito; poi gli infaticati Ateuci e le Silfi, e tutta la gen¡a saluberrima dei beccamorti agresti e silvani. I pi£ piccini, i pidocchietti minimi della terra infinitamente materna, li consegnava invece (con un punto di un suo speciale mastice o balsamo) a un piccolo cataletto di midolla di sambuco: e infilava poi nel cataletto lo spillo pi£ esile, da lato, per non guastare il morto.

La  preparazione  e  il ritaglio  dei  cartellini  occupò talvolta,  nell'ultim'anno,  il  ragazzo  pi£  grande.  Intere  domeniche!
Coi ditini nelle forbiciacce, intento al lavoro, serio serio, ogni tanto si passava la puntina rossa della lingua sul labbro di sopra.
La grande ansia della famigliuola era che il pig¡dio - (con questo vocabolo si dimanda il didietro dei coleotteri, cioè l'ultimo  segmento  addominale)  -  potesse  vuotarsi,  come  talora  avvenne,  dopo  morte,  all'atto  dell'infilzamento.
Rimaneva allora moscio moscio, preda d'una mortificante tendenza all'ingiù.
“Ah! quel pig¡di, quel pig¡di!”, sospirò l'Adalgisa in dialetto. Elsa dovette ridere.
“Una volta abbiamo litigato per il veleno: perché bisogna mazzarli (16) alla svelta, soffocandoli nel vasetto, povere bestie. Bisogna metterci dentro un po' di bambagia, nel vasetto, imbevuta d'un qualche acido, soja m¡, un qualche cosa che li sofèghi subito, capisci? L'alcool non va, perché i e fa diventà smòrt.... s¡, insomma, gli porta via il suo colore naturale....  L'arsenico  neanche  tirare  a  mano.  Sicché  voleva  doperare  a tutti i  costi il  cianuro.... Cara te!....  con due ragazzi in casa! E allora, siccome ha visto che io volevo impormi, lui alza la voce ankamò pusé de mi.... che con la scienza  non  si  può  discutere,  quel  che  ghe  voeur  ghe  voeur....  Va  ben,  ma  mi  pensi  ai  mè  fioeu,  mi  me  fa  di  tò bordòkk!.... Dio Madonna!.... Pèna sent¡ bordòkk.... momenti el me lasa andà una sberla.... Poer fiolàsc!”
La soffiata di naso fu inevitabile.
“E poi, nelle scatole, ci metteva un vetro di orologio a rovescio, sul fondo, con una specie di olio giallo per preservarli dalle  càmole,  dai  vermi....  Oh!  Dio  mio!  non  mi  ricordo  pi£  come  si  chiamava....  pèta,  pèta....  un  nòmm  come vetriòlo....  cetriòlo....  benzonitrolo.... pèta....:  nitrobenzolo!....  adesso m'è  venuto in mente!  che  sentiva  di mandorle.
Oppure l'essenza di urbano.... cioè.... de.... mirbano, che ti fa venire un tal mal di testa!.... Insomma abbiamo proprio litigato”.
Le si velarono gli occhi.
“Quelle poche settimane di campagna, o al mare, non lo crederai, ma andava in giro tutta notte con la lanterna, pieno di pinze.... lo prendevano per matto.... Di giorno col retino.... con le sue scatole e la sua cartucciera. Ah! Signore!....
Ma almeno, poverino, può dire di essersi divertito, quei pochi anni, di aver goduto la vita....”; si soffiò il naso; “di aver fatto qualche cosa anche lui, a sto mondo, povero ragazzo!....”
L'Adalgisa era diventata un molino a vento. Il suo cervello formicolava e brusiva di ricordi, come un campo, a giugno, di insetti e di voli, di zampe e di èlitre.
Ricordò  la  famosa  cattura  dell'Ateuco,  lo  scarabeo  nero  “che  perfino  i  re  dell'Egitto,  ma  pensa  un  po'  che  epoca superstiziosa  in  confronto  alla  scienza  del  d¡  d'inkoèu,  lo  veneravano  come  un  animale  sacro,  come  un  pavone....”
Carlo aveva raccontato mille volte la storia, ai ragazzi divertiti, a tavola: “Per quanto.... al momento che si è dietro a mangiare.... cara te!.... tant petitosa l'è poeu minga....” (17).
Erano  al  mare,  verso  Viareggio,  l'anno  che  avevano  fatto  i  corni  a  Varazze  suscitando  le  proteste  del  nobile  Gian Maria  e  alcuni  tentennamenti  ironici  della  sarcastica  parrucca  di  donna  Eleonora:  “quel  Carlo!”  Dove  la  sabbia scottava sotto i piedi: e lui ci andava apposta: si appostava l¡ delle ore, in agguato.
Il  forte  e  nero  animale  gli  era  apparso  a  un  tratto,  sul  dorato  fulgore  dell'arena.  Avvedutosi  dell'uomo,  si  era  dato subito  a  fare  il  morto,  raccogliendo  le  zampe,  acquattandosi,  simulando  l'indifferenza  levigata  d'un  ciottolo....  d'un sassolino....  Una  grossa  e  rotonda  pallottola  gli  stava  davanti,  ossia  dietro:  Carlo  s'avvide,  riflettendoci,  che l'ipocritone aveva camminato a ritroso....
Vele erano nel mare, lontane.
Sul  fronte  del  nerissimo  insetto  il  ragioniere,  felice,  riconobbe  l'epistòma,  cioè  la  potente  pala  dentata,  quasi  uno spazzaneve  di  locomotiva.  Dopo  un  po',  vedendo  che  non  succedeva  nulla  di  nuovo,  quella  brutta  bestia  riprese  la fatica.  Puntava  sulle  zampe  anteriori  e  retrocedeva  in  una  sicurezza  perfetta,  come  se  ci  vedesse  dal  pig¡dio.  Ogni volta bisognasse afferrava la pallottola con le posteriori ed ecco, ecco la sospingeva all'ins£, terribilmente, valicando con la tenacia di Sisifo le piccole dune, le increspature dell'arena; a noi un nulla, bastioni enormi a lui. La pallottola, perfettamente  sferica  e  infarinata  come  una  polpetta,  era  venti  volte  pi£  grossa  dell'Ateuco,  ma  doveva  averlo inebriato col suo profumo, come l'odor solo della “borsa” inebria il pugile alla lotta.
E la sfera ascendeva, lenta: si sublimava sopra la repulsione di quella pazienza color pece, superava i tenebrosi divieti della gravità. Trasgredito il vertice, ripiombava rotolando nella gravità. L'Ateuco, infaticato, la sospingeva per monte e per valle fino alla dimora di sua donna: che attendeva, ansiosa, per il piccolo, per la imminente larva, quella balia provvidenziale.
Accorsero dei ragazzi di bronzo, ignudi. Carlo, tutto chino, con un batticuore, aveva già estratto le pinze. Con quelle afferrò l'Ateuco mentre si dibatteva furente, lo rinchiuse nel vasetto.... Un ragazzo prese invece la pallottola, eccitato a conquistar la sua parte di fortuna; che però la sent¡ molle e anzi gli si spiaccicò fra i diti: “Ma un vedi che la è cacca, ett£  bischero!....”,  strillarono  ridendo  i  compagni.  Quello  rimase  esterrefatto,  con  la  polpetta  stiacciata  fra  i  quattro diti: poi corse alla batt¡ma dicendo madonnabona madonnabona ziohàne.

“Era proprio l'Ateucus Sacer Linnaei!”, confermava poi la voce baritonale di Carlo ai soli adulti, a Milano, in sala de ricéf,  tra  la  diàspora  dei  cristalli  e  dei  sassi.  “I  Geotrùpidi  e  gli  Ateuci”,  seguitava,  mutando  l'accavallatura  delle gambe  ed  esibendo  a mezz'aria  una  lunga  scarpa  nera,  l'altra,  che  a  sua  volta  oscillava  col  polso, “una  volta  che  si sono assicurati la preda, ne traggono  delle grosse pallottole, maa.... confezionate  a regola, in ciascuna delle quali la femmina depone un uovo....” La preda era poi nient'altro se non la materia che i ragazzi avevano chiamato.... col suo nome.
Le voci come tràggono o rid£cono, propaross¡tone di passaggio a Milano, esaltavano la sua fierezza eloquente, piena di lampi neri degli occhioni e di una calda comunicativa. Si lisciò i baffi, anche quella volta, se li appunt¡ col gesto largo  dello  zuavo: “Cos¡,  appena  nato,....  il  principino  trova  il mangiare  bell'e  pronto....  tale e  quale  come  fosse  un figlio di papa....
“L'Ateucus Sacer è ben raro da noi (18): il mio, giusto, l'ho trovato vicino a Viareggio, ed è stato un caso, un puro caso, che posso ringraziar la fortuna.... Anche in Libia, del resto....”: crollò il capo. “Noi abbiamo l'Ateucus Pius”, e diceva  noi  con  un  certo  sussiego,  per  dire  noi  a  Milano.  “E  poi,  frequentissimo,  neanche  parlarne,  il  Geotr£pes Stercorarius....”
“Che cos'è mai la natura!”, dicevano gli ascoltatori ammirati.
“Ogni generazione spiana la via alla generazione seguente!”, concedette il buon ragioniere distendendo i sopraccigli, guardando lontan lontano, nel vuoto. Si lisciò ancora i baffi, nerissimi, affusolandoli tra pollice e indice, come doveva fare il maestro di caccia di Napoleone Terzo: “.... spiana la via ai venturi! gli prepara il nido....”
Cos¡ disse, pur intuendo che il nido in discorso non era un vero e proprio nido, nello stretto significato della parola: dato che era la pallottola.
“E'  il  sogno  di  poter  allevare  i  nostri  figli  nel  benessere....  nella  sicurezza  del  domani,....  di  vederli  crescere  forti, generosi,  con  l'orgoglio  di  sapersi  nostri  figli!....  E  questo  lo  cerchiamo,  lo  otteniamo  a  prezzo  di  qualunque sacrificio.... valendoci della fatica, dei risparmi sacrosanti di tutta una vita!”
“Propi insc¡! Ben detto!”, rincalzarono tutti. Scopersero poi, felicitandosi reciprocamente della scoperta con dei nuovi
“ben  detto!  vorevi  propi  dill  anka  m¡”,  che  i  risparmi,  per  l'appunto,  possono  essere  paragonati  al....  alla....  s¡, insomma, a quella polpetta.
Un'altra volta si trattò invece del Necrophorus, anzi di tutta una confraternita di Necrofori, al margine d'un sentiero, nei campi. Una puzza!
Era un topo marcio. E vi lavoravano intorno come dannati: a scavare, a tirare, da seppellirlo prima che facesse giorno, da metterlo in arca. L'humus, che è femmina, funzionava da Cassa di Risparmio. Carlo, con ali ai piedi lungo i sentieri della  notte,  aveva  seguitato  l'indizio  di  quell'odorino:  giunto  sull'epicentro  si  chinò,  mettendo  avanti  la  lanterna.  Il naso, che aveva trasmesso ai figli moltiplicato per due, gli era stato fedele in misura maggiore d'ogni previsione.
La stella di Espero dava luce di acetilene lontana al cantiere, la lampada lo rischiarò a giorno, improvvisa. Scoperti cos¡ a un tratto, quei brulicanti gli parvero maestri d'ascia e calafati in cantiere, come a Varazze; o come in bacino, a Genova, pel carenaggio d'un puttanone di quelli, “che navicar non ponno”. I topi marci lucrano indulgenza plenaria appo i Silfoidi, e, quel che pi£ conta, il funerale gratuito.
Una disciplina  e un “affiatamento”  inimitabili  animavano  quella  benemerita Compagnia  della  Misericordia:  a  cui il mirifico Padre Eterno, in premio della di lei buona volontà e insospettata perizia, e d'una encomiabile resistenza ai gas tossici, aveva conceduto in privilegio il succulento cadavere.
“Ne ho raccolti un cinque o sei.... Con le pinze, sig  ra!, per minga tocà el ratt con i man....
“Questi  necrofori,  una  volta  seppellita  la  sua  brava  carogna,  ci  banchettano  dentro,  felici....”  (Era  felice  anche  lui).
“Dénter  in  del  venter,  in  di  b  sèkk  del  ratt....”  Si  stirò  i  baffi.  “Poi  si  accoppiano”,  e  questa  brutta  parola  fu pronunziata da un Carlo straordinariamente serio; “indi vi depongono i uovi....”
Un'agape  sacrificale,  un  banchetto  totemico.  Poi  l'orgia,  a  pancia  piena,  nella  pancia  del  topo  morto.  Il  futuro assicurato: una prole felice.
Cos¡ tutto è fecondo, nella infinita fecondità di natura.

Il  guaio  fu  “quando  le  cose  precipitarono”.  Al  ricordo,  l'Adalgisa  levò  il  fazzoletto  della  borsetta,  la  cui  molla,  nel venir chiusa, fece un trac assai nitido. “Con due figli da tirar su, capirai!” Aveva dovuto “ridursi”: assolutamente. “Ma dove metterla, tutta quella roba?”
Il trasloco tragico fu una specie di cataclisma. La tromba marina della disdetta l'aveva aggirata e ravvolta via verso il buio, forzandola a smaltire sui due piedi un quattro quintali di sassi: per non dire dei ricci, dei conchiglioni, e alcune lunghe  stanghe  di  calcio (19),  pezzi  di  stalagmiti: come candele  smoccolate. “E  senza  alcun  profitto,  senza  poterne ricavare  un  centesimo!”  Anzi:  “quas  quasi  dovevo  pagargli  io  il  trasporto....  Ah!  Madonna,  che  momenti!....  Che momenti ho passato!.... Domà il Signore lo sa!....” E fortuna ancamò che il capomastro di casa Ingegnoli era buono come  il  pane.  Aveva  da  colmare  una  buca,  nella  fabbrica  nuova  l¡  a  due  passi,  pènna  foeura  di  via  Pisacane.  I
“minerali in se stessi” finirono l¡.
I facchini del trasloco, invece, “che sono come le bestie”, avevano perfezionato la disgrazia.
Anzitutto  nell'agguantare  le  prime  teche  venutegli  fra  le  mani,  le  avevano  “scorl¡te”  (20)  con  una  tal  mancanza  di riguardo,  da  disincagliare  issofatto  alcuni  Cureulioni  dei  meno  felicemente  infilzati,  o  forse  un  po'  troppo  secchi, ormai. E anche dei Bupressidi. I costoro cadaveri avevano preso a vagabondare nel sepolcreto inseguiti dal ciotolino del mirbano, il quale, essendo un vetro d'orologio, non solo era andato in briciole lui, ma aveva anche infranto il vetro della teca. Poi, come non bastasse, e nonostante una tremenda intemerata dell'Adalgisa, avevano deposto alcune delle quindici scatole, le pi£ preziose naturalmente, quella dei Geotr£pidi fra l'altre, davanti a una ruota del furgone: dove ci si  leggeva  sul  fianco,  a  lettere  cubitali,  Fratelli....  Fratelli....  che  so  io!:  e  subito  dopo  le  avevano  completamente dimenticate. (Lo sdegno, al solo ricordo, dové metterle in subbuglio il fegato).
Ne  consegu¡,  appena  mossi  i  cavalli,  un  appiattimento  definitivo  della  pi£  eletta  società  de'  Geotr£pidi  e  de'
Cureulioni,  oltreché  delle  Blatte.  La  Blaps  Mort¡saga,  alta  e  pretensiosa  sulle  zampe  e  dura  e  crocchiante  sotto  il calcagno, si ridusse ad essere niente pi£ che la proiezione ortogonale (21) della sua propria superbia.

Del disastro, l¡ per l¡, piangendo di stizza, l'Adalgisa avrebbe avuto una gran voglia di far colpa alla sbadataggine, alla solita incuria della portinaia. Ma una insolente guardata di colei bastò a dissuaderla, “povera signora”, dall'agganciare il  definitivo  litigio.  “Che  la  vaga  là,  sciora  Adalgisa”,  opinò  la  bolscevica  donna  con  un  suo  fare  incuorante, moralizzante, pieno di bonarietà e di perfidia: “che la vaga là, che l'è poeu minga sta gran disgrazia!.... ghe n'è pesg, di desgrazzi,  a  sto  mond!”  E  s'era  data  a  spazzare  il  marciapiede,  furiosamente:  come  se  la  paglia  e  tutti  i  fr£stoli  di quello sgombero l'avessero di troppo infettato. Aggiunse in fine con un'alzata di spalle, quasi parlando fra sé e sé: “de qui bordòkk l¡ se ne troeva de per t  tt”.

“Una vipera, ti dico, una vipera....” Aspirò sdegnata alcuni cucchiai d'aria, che le sibilava fra i denti. Pareva ansimare nell'obbrobrio  del  ricordo:  di  quel  dispregio  plebeo  cos¡  turpemente  manifestato  verso  la  “raccolta”:  “la  principale passione” del suo povero Carlo.
I  ragazzi  si  turbarono  del  turbamento  materno.  Parteciparono  angustiati  allo  sdegno  della  mamma  contro  “quella vipera”, che non rammentavano affatto. Con gli occhi limpidi dilatati da tristezza, con due nasi che richiamavano due volte quello del loro povero papà. Guardavano il davanti materno, ancor florido, palpitare sotto i merletti, sotto la seta marrone....
“Con una donna come quella, che ti spia giorno e notte, per il solo gusto di far la spia.... anche quando non c'è niente da spiare.... ma che cosa ci dev'essere mai da spiare?.... allora la vita diventa un tossico....”
Elsa era quasi per sorridere: voleva consolarla.
“E  vedova!  con  due  figli  da  tirar  su!  e  con  l'appetito  che  hanno!....  Oh,  Signore,  Signore!....”  I  ragazzi  parevano mortificati d'aver tanto appetito; è una brutta cosa, certo.... un vizio.... comune a quasi tutti i ragazzi. “No! il mondo non vale la pena di tutti i nostri sacrifici!.... di tutti i sforsi (22) che facciamo per poter andare in giro a testa alta!.... e per  cosa,  poi?.... No,  no.... credilo,  credilo....  Elsa!....  Divertiti,  dammi  retta.... divertiti!.... intanta  che te  set  a  temp ankamò....
“Domani sarai una vecchia.... piena di rughe.... come quella che è passata poco fa.... in della soa carozza.... di temp de Carlo  Còdega....”  (Era  donna  Eleonora,  col  Leopoldo  in  serpa  servitore-cocchiere,  trainati  dall'atassico  esemplare equino che ho tentato di descrivere).
“Più brutta ancora, se possibile, pi£ strega, pi£ invidiosa; pi£ stemègna.... (23). Con tutte le malattie dei dottori dentro lo stomaco, in di polmòn, ma sig  ra!, in di rognòn.... come la Mornati o la Pertegati, come la Termontel. Ti orinerai adosso, te lo dico io.... come la nonna di tuo marito....
“Andate a giocare! andate via! Cos'avete da tirarmi la sottana?.... Volete un altro paio di schiaffi?”, gridò esasperata ai ragazzi. Un malumore incontenibile l'agitava tutta, s'era fatta pallida, con degli occhi senza ragione.... Quelle parole, quei modi, non le  erano  abituali, ch'io sappia: almeno fino a  quegli anni.  I ragazzi chinarono il capo, si scostarono, ignari dei precedenti del mondo, ossequenti al decreto: di quella imbizzita divinità.
Elsa credette di doverla confortare, superò il ribrezzo dei presagi: ignorò l'inciviltà dei modi e dei termini, buttati fuori da  una  furia  cos¡  sorda  e  cos¡  repentina.  “Via....  non  pensare  a  certe  tristezze”, le  sugger¡  dolcemente, “tutti,  si  sa, dovremo diventar vecchi.... un po' per volta.... Basta accomodarci all'idea.... Tu hai i figlioli.... i tuoi figlioli....”: e li guardò  sorridendo,  poveri  nasoni:  e  chinò  il  capo  nell'ombra.  Tanto  che  l'Adalgisa  parve  davvero  chetarsi, rasserenarsi.  Gli  uomini  e  i  giovani,  passando,  le  rimiravano:  molti  si  rivolgevano:  sostando  poi  a  guardarle, profittando  dell'ora....  Le  donne,  le  ragazze  dedicavano  a  Elsa  interminabili  occhiate,  come  d'una  invidia  senza ritegno....
Disincagliato  dai  coleotteri,  dai  geotr£pidi,  -  acciaccata  inoltre  la  testa  della  vipera,  -  fu  allora  che  il  consumato romanzo della vedova  Biandronni guadagnò finalmente  il  suo  vento, e lo insaccò a piene vele. Dopo alcune battute d'apertura, il discorso lingueggiò rapido, simile a fiamma in pagliaio, dato, poi, che Elsa era la quarantesima volta che lo ascoltava: e i riferimenti base li aveva oramai a memoria.
Gli  occhi della  narratrice non mollavano un istante i due ragazzi, che s'erano finalmente distratti,  dietro l'omino dei palloni,  stavolta....  Era  la  storia  del  suo  primo  amore:  (locuzione  di  cui  si  estasiava:  e  ne  usava  con  parsimonia,  e sempre  e  comunque  a  palpebre  arrossate):  del  suo  unico  amore,  correggeva  poi  subito,  ogni  volta....  oh!  non  come tante, che dicono, dicono.... ma poi.... basta voltar via la testa mezzo minuto.... che tràcchete.... Questo qui era stato unico.... unico “propi de bon”....
L'Adalgisa aveva cominciato da stiratrice, anzi da “piscinina....” (24). Ma, data la voce, e la passione, gli zii avevano finito per accedere all'idea della signora Cova, di farle prendere, cioè, delle lezioni di canto. Ci vollero dei bei denari, poveri zii. Ma ne avevano, col negozio. Gli anni passarono, la maestra “si ritirò”, il maestro mor¡: ce ne furono altri due: gli zii l'aiutarono sempre: quelli del negozio, della drogheria sul cantone del Nerino.

Era  allora  una  bella  e  vivace  ragazza  del  nostro  popolo,  se  lo  dico  potete  credermi,  per  quanto  certi  sussurroni  mi accusino  di  incompetenza....  La  conoscevo  di  vista,  la  incontravo  per  via....  Non  alta,  ma  di  buone  proporzioni....
Ardita,  provocatrice:  d'occhi,  e  di....  Un  po'  troppo  soda,  forse,  come  certe  tedesche  quando  fanno  la  ginnastica svedese: e davanti,  poi, e sulla periferia.... un po'.... un po' troppo.... non saprei come  dire.... Era già il tempo che i gusti, anche da noi, principiavano a ingentilirsi.... Alcuni della nostra combriccola, ch'erano ammiratori e recitatori del poeta, e avevano però pi£ in promptu i suoi tipi, i suoi modi, e io stesso che lo amavo e lo amo, prendemmo - non ricordo bene chi fosse il primo a cominciare - cominciammo a chiamarla portianamente la Tettòn, nel parlar fra noi, beninteso: o anche, talvolta, pi£ sgangherati, la Tètascia. Era una sgangheratura affettuosa, sinceramente ammirativa, e  direi  fraterna....  cioè,  un  po'  pi£  che  fraterna....  una  cosa  tutta  diversa,  anzi:  tipica,  comunque,  del  nostro  tono trivialone ed allegro e delle nostre sane risate, in quegli anni.
Aveva poi degli occhi limpidissimi, d'un azzurro infantile, con l'iride d'un color castano-nero, dorato, d'oro nero.... che occhi, Dio mio!.... per quanto a volte vi trascorresse come un lampo di gioconda e spregiudicata malizia: o addirittura di furberia. E si posavano talora sopra di noi, stupendi, quetandosi, e quetandoci, come in una gioia vivificatrice. Il caldo ardore del vivere pareva consegnato alle cose, alle torri: si placava nei gelati.
Fu,  “per  breve  stagione”,  una  Violetta  e  una  Gilda  di  quinto  ordine:  eppur  cara  a  noi  tutti  che  l'applaudimmo freneticamente  tutta  una  stagione  di  prima  estate,  al  Fossati,  e  una  stagione  di  autunno,  al  Carcano,  poco  avanti l'epopea. L'epopea di allora, si capisce.
Nessuno di noi pat¡ né sudò mai tanto in guerra, salvo che il sangue s'intende, come sudammo al Fossati nel mese e nella stagione d'amore per batter le mani alla Tettòn dopo l'ultima biscroma del Parigi o cara: per dirle e gridarle che eravamo presenti, che eravamo felici: felici di lei, del suo trionfo: della sua “ascensione”, della sua “apoteosi”. Un po', a dire il vero, ci montavamo e volevamo montarci la testa. Più di me, che poco intendevo e meno intendo di canto, eran  loro  che  s'estasiavano  dei  trilli,  dei  barbagli,  delle  volate,  dei  profumi,  dei  pompieri  d'oro,  del  friggere  e  del sibilare de' carboni, con l'“Ah, se ciò è ver, fuggitemi! - pura amistade io v'offro” scondinzolante infine nello sgranarsi di  un  delizioso  picchiettato:  tutto  trilli,  gorgheggi,  come  strascico  e  fuga  di  creatura  singhiozzevole  e  ricolma  che s'involi a passettini rapidi rapidi, sgomenti e pure concitati e capricciosi, dispettosi, con quegli stivaletti! reggendo le gonne, Dio, Dio, da far impazzire la terza regione platonica dell'inseguitore.... degli astanti....
Gli spasimi isteroròidi dell'“Amami Alfredo”, conoscendo la buona polpa lombarda che c'era sotto, già allora, a vero dire, mi avrebbero lasciato un po' incredulo: ma non c'è come “voler” credere, perché anche i convinti del contrario vengano guadagnati alla causa. E il teatro vaporava come un calderone di sedani, dove a bollire, viceversa, ci fossero stati buttati degli “impiegati civili”, delle pasticche di altea (25), delle ascelle in libertà. E noi altri stipati all'impiedi fra la lingèra e la claque, sul piancito fetente del retrologgione, nell'ebullizione generale dei senza giacca, con davanti delle  bretelle malvage  che  parevano  aver  la rogna  nell'elastico,  con  qualche  corbello  di  stecche  di  balena,  qua e  là, portatore di melanzane fradice sotto garze celesti, con quel suffumigio sottocchio, del palcoscenico: con le finestre di dietro  inchiodate,  perché  giù  in  istrada  tutta  l'altra  lingèra  a  tasche  asciutte  non  avesse  udire  a  gratis  l'Alfredo.
Vocalizzi, disperati gorgheggi, nelle zone sopracute della tessitura, mettevano a vana prova l'estensione della gamma vocale dell'Adalgisa, come di altre cantanti, del resto. Ma eravamo credenti.
E  allora  tutto,  e  ogni  cosa,  ogni  ingrediente  di  quel  fasto  e  di  quel  frastuono  impennacchiati  di  struzzo,  di  quei precipitati  starnutamenti  dell'orchestra,  i  piatti,  poi!,  e  i  tendaggi,  e  le  scene,  i  modiglioni,  i  pilastrini  a  cui  ci aggrappavamo, le panche stesse,  le aranciate clandestinamente vagabonde nel buio, alle  nostre spalle, e tutte  le luci verdi  e  vermiglie  che  trafiggevano  il  barattolone  fumoso,  tenebroso,  tutte  le  cose  e  gli  oggetti  e  i  mezzi  della montatura sudante parevano daddovero i nuclei di un ardore vitale, di un “entusiasmo per l'arte”, che non badassero a traspirazione:  con  quelle  creature,  con  quel  popolo  in  fase  di  vapore,  di  cui  lei,  lei!....,  dopo  un  po',  nel  sorriso fascinoso,  inchinandosi  irraggiata  dai  riflettori,  doveva  raccogliere  l'acclamazione  plaudente,  l'urlo,  l'urlo encomiastico....
Le finestre barrate di tavole, chiodate. Eppure, nelle sere di Rigoletto, il mibemolle sopracuto nella ripresa interna del
“Caro nome....” scatenava applausi ben percepibili da via degli Angeli, dal Foro Bonaparte.... Come Violetta, però, mi piaceva di pi£ che come Gilda: una paccioccona un po' troppo credula alle promesse, e alla fatalità e innocuità dello spadino  del  duca....  allora  almeno  mi  sembrava....  e  la  prega  Iddio  tutte  le  feste,  al  tempio....  che  noi  altri  cattolici romani li chiamiamo chiese, viceversa, e non tempio.... Un tempio un po' astratto, e lei con un occhio al giovanotto, però....  Insomma,  “come  mentalità”,  il  contrario  giusto  dell'Adalgisa,  che  non  s'era  mai  lasciata  metter  nel  sacco....
(26). Oh! l'Adalgisa!.... Avrei voluto vederla....
Il “sempre libera degg'io - folleggiar di gioia in gioia” le permetteva di esagitare sul piancito la vivezza, la snellezza del suo giovane corpo: quella pianta cos¡ gagliarda, quel cestello del corsetto, ricolmo: se pur di angosce senza nome: con  due  sbuffi,  come  d'una  eterea lattuga: flabellato  a  ogni  passo  dall'onda  lenta  di un  ventaglione  di  struzzo;  quel garbo dei fianchi.... e del resto, cos¡ nobilmente costretto nel lucore delle sue sete, quel pathos e quella gonna inseguiti da uno strascico serpigno, demoniaco, da inciamparci i cavalli....
Nel  morir  tisica,  poi,  era  inarrivabile.  Fosse  che  qualche  volta  eravamo  magari  mezzo  storditi,  bevuti  non  direi, poveracci, non ricordo bene,.... ora,.... certo è che il mal sottile, tra la nuvolaglia de' veli, sottintendeva in lei un seno, un  davanti....  già....  di  povera  creatura  consumata  dalla  cloròsi....  oh!  quest'è  certo....  ma  una  cloròsi  da  secondo impero, date retta...., che ne avanzava pur sempre qualche cosa di potabile.... ve lo garantisco io....
Il tragico estinguersi di quella vita era a momenti pi£ vero e immediato del nostro ardore. “Oh Dio! compermèss che me ven fastidi”, sospirava Remigio come svenendo: e tutti gli facevano largo dassenno, qualcuno zittiva, furibondo: e, allora un bieco muggire di proteste a catena, di minacce. Che poi ci lasciò la pelle per davvero, sul Podgora.
Tutti tenevano il fiato, a udirla tossire, cantare, nel suo gran letto di cartapesta, con doppieri, sui tavolini, a illividirne l'ora pallida fra la serica lucentezza e le lattughe bianche della camicia da notte.... tenevano il fiato tutti, in loggione, respiravano nel naso come tanti porcelli....
Andavamo ogni tre o quattro volte, un paio di volte per settimana: ma saremmo andati ogni sera, credo, ove miglior cornucopia  ci  sovvenisse.  Dopo  le  solite  indigestioni  di  mineralogia  o  dopo  esserci  cavati  gli  occhi  per  interi pomeriggi  nell'“aula  di  macchine”:  (che i maggiorenti del  Politecnico,  e  forse la  paterna  sollecitudine  degli  erari  di allora, avevano voluta senza finestre, simile a discreta cantina).
Dopo cena andavamo da lei, voglio dire al Fossati, ad estasiarci di lei, della sua voce, della sua “passione”, della sua tubercolosi.
Com'era simpatica!
Davanti a lei,  pigiati fra i garzonacci del Garibaldi, dimenticavamo perfino  l'ingegner Bagatto. E  dire che in quegli anni,  presso  la  gran  parte  dei  frequentatori  de'  loggioni,  non era  pur  anco invalso  l'uso  un  po'  snob,  oggi  pressoché generalizzato,  di  lavarsi  di  quando  in  quando  anche  i  piedi:  almeno  in  occasione  del  Corpus  Domini.  Tutto dimenticavamo in quegli anni! E di lei finivamo per sognare.
Remigio anzi, una notte, stanco della proiettiva, su quei gomitoli di fili infiniti ci si addormentò, povero ragazzo! A letto,  con  la  luce  accesa,  con  ancora  tutte  le  dispense  spampanate  sui  lenzuoli.  Poi  mi  raccontò  il  sogno.  Sognò  di essere penetrato furtivamente, contravvenendo ad oscuri divieti, in una specie di clinica piena di donne tubercolotiche.
Oh, ne sarebbe stato capace anche sveglio!
Un orgasmo, ignorato dalla prosa ottimistica dei nostri educatori, lo guidava in quel luogo: le ammalate, (e degenti), forse perché attendevano la consueta visita del sanitario, erano alquanto scoperte.
Il padrone della clinica doveva essere, o gli parve, lo zio droghiere, quello del cantone del Nerino, che lui conosceva perfettamente per avergli grattato qualche manciata di caramelle dai vasi di bottega: con quella sua lestezza, con una destrezza furba, pi£ furba d'ogni attento silenzio: da prestidigitatore di mestiere: distrattolo dal banco col comandargli una qualche quisquillia che sapeva accantonata nel retro. E il brav'uomo ci andava, con le sue ciabatte....
“E  difatti,  adesso,  mi  stava  guardando  piuttosto  brutto....”,  raccontò:  “proprio  di  traverso,  anzi,  stava  lumando:  sto turco della malòrsega. E lei invece sorrideva, e mi diceva: s'accomodi, signorino Remigio, s'accomodi perché morirò tisica”.  E  lui  le  disse  qualche  cosa  in  un  orecchio,  non  ricordava  che  cosa:  e  lei  allora  gli  singhiozzava  addosso piangendo:  “no,  no,  no....  devo  morire....  il  dottore  non  vuole....  devo  morire  oggi  stesso....  anzi,  in  questo  preciso momento....” Ma intanto! Intanto rimase viva un'altra mezz'oretta, o fors'anche dieci minuti, o solo cinque, o magari due o tre secondi soltanto.... Nel sogno, lo sapete bene anche voi, non s'ha mai la nozione esatta.... del tempo....

Aveva  ammiratori  infiniti,  ma  aveva  il  senso,  come  dire?  il  desiderio,  la  mania  della  famiglia:  delle  nozze  e  del consorte legittimi, delle buone regole. “Voglio veder tutto a posto!” diceva già allora, imperiosa, stringendo le labbra: negli anni che già la sua vivacità costituzionale cominciava ad evolversi in prepotenza, come la crisalide in un liberata regina.
Fu  poco  prima  della  guerra  che  incontrò  appunto  un  uomo,  che  divenne  anche  lui  un  suo  ammiratore:  ma  non l'ammirava  al  Fossati,  con  gli  altri  frenetici,  e  nemmeno  l'aspettava  dietro  scena,  coi  guantoni  bianchi,  come  un pappagallo vestito, col suo bravo mazzo di rose bianche: da stare attenti a non pungersi i diti.... o sul portoncino del Foro  Bonaparte....  No.  Questo  qui  lo  incontrò  “in  famiglia”,  “sotto  Natale”:  e  aveva  dei  baffi  neri,  stupendi!  degli occhi di fuoco. Agile, forte: solo il naso, magari....
Per quanto avesse i modi d'un signore, accettò di giocare a tombola “cont i fasoèu”, e perfino al gioco dell'oca.... oh!
che risate!....
Gli zii glie lo presentarono: era il ragionier Biandronni: era il povero Carlo.... “L'è stàa official in Libia”, soggiunsero con  una  certa  angoscia  nel  viso  implorante,  e  strinsero  l'una  nell'altra  le  mani,  di  conserva:  ed  egli,  con  signorile modestia,  con  giovenile  spigliatezza,  si  andava  affusellando  i  baffi,  le  punte  di  quei  suoi  baffi!  nerissimi....  Il ragioniere, da qualche mese teneva la contabilità del negozio. E la tenne poi sempre, da galantuomo: e incaricato poi del cum quibus, del palpiruolo vero e proprio, versamenti, pagamenti, tasse, stipendi al commesso, eccetera eccetera, ebbe  a  render  sempre  ragione  d'ogni  cosa,  e  di  tutto,  fino  all'ultimo  centesimo,  con  quella  sua  precisione  franca  e brava. “E gli assegnò sette e cinque per diece”, soleva conclamare di sé, con un vocione compiaciuto: estasiando quel pelabrocchi (27) d'uno zio.
L'Adalgisa cantava già, e viveva da sola: orfana, si era “emancipata”, come dicevano e credo dicano ancora le buone zie, a Milano, quando parlano con una certa libertà, e non senza un certo rimorso, di fatti o di ragioni un po' ardite, un po' fuori della norma. Aveva montato un appartamentino in via San Girolamo, oggi Carducci, al quart pian: dopo quel moncone di torre ch'era a guardia della pusterla rossa, di rosso mattone. Lumava con le finestre un po' dappertutto: e lo aveva  tutto tappezzato de' suoi  propri ritratti, vista  un  po' da tutte le parti: (ma il monumento era  sempre quello, sotto il vitino (28), sopra il vitino): con certi occhi prepotenti, vividissimi: che volevano viceversa parer languidi, e ci riuscivano a stento. Con dei gran mazzi di rose bianche tra mano, ma reclinati, abbandonati sospirosamente all'ingi£, a significare  un  momentaneo  e  floreale  abbandono  dell'alma,  un  “manibus,  o,  date  lilia  plenis”  tra  il  romantico  e  il mefistofelico impostole là per là dal fotografo: che sapeva d'Aleardi e di Boito: e sosteneva d'essere stato garibaldino.
“Che la me  faga  minga  qui oecc  l¡!....”,  le  diceva  furente  il fotografo  entrato  sotto  il  taffetà  nero,  con  la  voce  d'un semisepolto: “.... che la me par on capel¢n.... La donna, l'artista, la ga de vèkk uno sguardo dolce.... un po' languido....
La me dà a trà s¡ o no?.... specialmente ona donna come lée.... sfiorata oremai de la gloria.... e de la gloria pi£ pura....
Uno sguardo, un occhio, on oecc... savar¡a no come di.... come la Frine.... hée!.... la Frine del nost Pelegatta.... L'ha minga vista a la Permanént?.... (29). Ona meraveja, ghe disi” Fuoruscito dal taffetà, seguitava ancora a perorare: “....
O tutt'al pi£”, girava certa vitarella, “tutt'al pi£ un aspetto materno.... come la gavèss el fioeu im bràsc... Che la pensa domà on moment a la Madonna de la Seggiola.... il capolavoro dell'immortale Raffaello!.... Ecco: che la se gira on poo in s   la vida, per piesè....”: (rientrò nel tunnel): “....on poo p  sée.... ecco: insc¡: ankamò on poo.... ecco, dess basta....
l'occhio dolce, affabile, me recomandi, un po' malinconico magari.... hée!.... La malinconia, ghe par? la sarà semper p  sée poetica d'on capp stazion.... Tiri un sospiro, cioska!.... s'el ghe riès.... Un sospiro: se l'è, dopo t  tt? Come s'el so moròs  el  ghe  fasèss  magara  ou  quai  cornett....  Più  affabile  quell'occhio!....  Ancora  pi£  affabile!....  Ecco....  brava....
insc¡.... Insc¡ ghe semm!.... ecco, ecco.... ferma.... ferma un momento!.... un momento solo.... ecco fatto!”
Il  tentativo  di  tramutarsi  in  Frine-Madonna  della  Seggiola  occasionava  -  unitamente  allo  sforzo  di  rigirarsi  a cavaturaccioli per meglio valorizzare il vitino, e lo strascico, con quel volto leggermente proteso e quella dolcezza e quel languore di 22 secondi - occasionava la strana, e come rigonfia espressione di grossa tenca galleggiante, asfittica, o  addirittura  senza  pi£  pensieri,  che  fu  la  peculiarità  inconfondibile  di  alcuni  ritratti  dell'Adalgisa  eseguiti  in  quel torno, e da quella sorta di fotografo-garibaldino.

Il povero Carlo l'amava già molto: l'amò subito, e sempre.
Ma quando “successe la disgrazia”, “a poco a poco, successe”, “per farla soffrire ankamò de p  ”, nel tempo cioè che la voce la cominciò ad attenuarsi, “a perdere un po' di volume, se vogliamo”, “ma era pur sempre una gran voce!....
l'èva una gola d'usignolo come raramente se ne incontrano.... oggigiorno, poi!”: e quando si smarr¡ poi del tutto e non ci furono che dei meravigliosi occhi arrossati dal rimpianto, e asciugati da un fazzolettino di marchesa, allora, lui, il Carlo, non vide quale difficoltà sussistesse, “oremai”, per le nozze. Per un matrimonio in piena regola. La scomparsa della voce sembrò, in lui, aver centuplicato l'amore.

Ella era donna di popolo: sana e buona e con la lingua spiccia, e piuttosto prepotentella, come s'è avuto occasione di appuntare: e in “vestaglia” casalinga avrebbe fatto la gioia, dato il colore un po' stinto di quell'addobbo, d'alcuno de'
nostri pi£  esperimentati contenutisti. In quanto poi avrebbe mollato una sberla (30) al primo rompiscatole.... questo non so, purtroppo,.... se anche questo sia un titolo valido.... in Contenutismo. Oh! quando “soppressava” (31) gonne e copribusti!.... e le sottovesti, le “sottane d'amido”! in vista del “Parigi o cara” del Fossati o del Càrcano! Quarantadue centimetri  di  merletti,  di  pizzi.  Dei  bandoni  di  pizzi  incartonati,  che  la  sottana  si  tramutava  in  una  campana.  Ma bisogna  riconoscerlo:  né  i  mazzi  di  rose,  né  le  corbeilles,  né  i  cioccolattini,  né  i  brindisi,  né  i  cenini,  né  gli  inviti, proposte (voglio dire) di cenini e d'inviti e di brindisi, nulla di tutto ciò la sedusse. “Grazie tante”, diceva, “ma go de ndà ankamò in de la zia....” E infilava i guanti, trafiggeva di due o tre spilloni (32) il cappello, abbassava la veletta,
“Ecco!”, prendeva su l'ombrellino. Dopo le prove, alle sei.
A  un  certo  punto,  di  fiori  e  di  cene  non  ne  volle  pi£  sentir  nemmeno  parlare.  Forse  il  curculione  ottimo  massimo, nerissimo, le stava già ronzando all'intorno, con elitre vibranti già, la vigilia, il turgore del trionfo.
Tutta la sua “mentalitàa”, come dicevano allora a Milano, cioè la sua “psicologia” (come sosteneva Remigio, ridendo, imbrogliando i suoni) di donna di popolo, di cantante, e di stiratrice in proprio, fu rivolta invece - con una coerenza d'atti e di contegno ammirevole, con una tenacia e una razionalità che ebbero, secondo me, del sublime - a evolversi, a trasfondersi in una borghese perfetta, in una “signora” al cento per cento. Con due domestiche, cuoca e cameriera, con un marito in piena regola, con  un ottavino di palco alla Scala (33), a sentir cantare gli  altri, no a cantar lei: con un
“breloque” “tempestato di diamanti” sull'avvallamento centrale del seno: che era un seno piuttosto ragionativo.
Oh! adesso scherzo, per farmi passare la tristezza delle cose lontane: ricordi e sogni: ed anni mutatisi in cenere. Ma l'avvallamento,  credetemi,  credetemi!  era  una  cosa  deliziosa  eterea!:  da  disimparare  a  ragionare.  Ossia:  metteva  il povero Carlo, e noi tutti quanti, in condizioni tali che ragionava solo lei, contro noi: bella e decisa in ogni atto, in ogni occasione: anzi, certe volte, meravigliosamente prepotente. (A monte i ritratti, che quelli, sappiamo, son vanità delle donne:  oltreché  dei  divi  o  gigioni,  scaligeri  o  fossatiani).  Riusc¡,  roba  da  nemmen  crederci,  a  “realizzare  delle economie”:  gli  zii  l'aiutavano,  con  larghezza  di  vedute:  si  rivoltava  le  toilettes:  andava  in  campagna  a  Inverigo,  al Crott di Castègn (34).
Con noi della combriccola - alcuni erano “vecchi” amici del povero Carlo, sebbene molto minori di età - con noi fu sempre  generosa  di  sorbetti,  di  limonate,  (dette  oggi  spremute  di  limone),  di  petits-fours,  di  cocomero  in  ghiaccio, tutte  le  volte  che  ci  convitò  “al  me  quart  pian,  se  vor¡  vegn¡  s    a  mangià  l'ing  ria”.  Era  questa  la  formula  rituale dell'invito. “A pacià e bˆf e lavà la facia”, aggiungeva ridendo, secondo un'antica e divertentissima spiritosaggine di mia  gente:  (la  trovata  è  dovuta,  stando  ai  pi£  recenti  studi,  a  un  giovane  stalliere,  chi  dice  anzi  cocchiere,  chi addirittura coppiere, del vescovo Cuneberto o Culberto o Golberto, 1040 circa).
Lassù, in mezzo ai ritratti e alle dolciere, che calda luce! Nelle contrade, la nostra gente viveva. Rideva allegra, felice, la signorina Adalgisa, mi porgeva la coppa delle caramelle: “com'è incantato lei!”, lasciandomi il tempo di prenderne quante volevo, incoraggiandomi anzi nella pesca: “quale vuole?.... aspetti, glie la trovo io.... e la menta? e il ratafià?
non le  piace il ratafià.... e questa?....” (leggeva) “....noisette: non le va la noisette?” Un tremito  di gratitudine era in me,  tanta  gentilezza  mi  affascinava.  Ero  davvero  incantato,  non  osavo  guardarla  troppo  a  lungo.  Perché  avevo  gli occhi di fuori, alla sera: sui tegoli e sui colmigni della mia svergolata Milano; tra i camini e i fili e i pali sbirolenti dei tetti  arrossati  dal  tramonto  caldo  del  luglio,  o,  poi,  del  settembre  (35):  o  nell'ombre,  gi£,  tra  le  viventi,  cicalanti immagini di alcuni “terrazzini” pi£ prossimi, o lungo le ringhiere dei terrazzi sui tetti: vicini, lontani, fino al lontano tramonto.  Vecchie  marmitte  bleu,  rugginose,  di  ferro  smaltato,  fiorivano  ivi  di  basilico  la  bontà  perenne  dei  coppi: ch'è il ruvido, lo scuro mantello del nostro essere, del nostro vivere antico. O li ingemmavano del rifiorire d'una rosa: bianca;  o  rossa,  pi£  rossa  d'ogni  fastigio  sforzesco.  Dimesse  per  acciacchi  e  ruggine,  dopo  anni,  dal  loro  ufficio minestrante. Il gran pavese delle mutande, con bindelli, e delle camiciole ad asciugare magnificava la sera, gioioso nel vento;  ch'era  uno  spirare  di  Maestro.  Galliche  lame  delle  nubi,  già  cenere,  nel  tumultuato  occidente:  cirri  d'oro:  di fuoco. Lontani monti parevano carovane azzurrine, chiudevano il paese della vita. Guardavo ancora, dall'altro lato, ai vecchi coppi d'un tempo, al campanile delle Ore: e, a fianco, ultimo, il sogno alabastrino della mole farsi madreperla ed ombra, sorgere e spiccarsi dall'ombra, come fiamme, le rosse aguglie coi Santi: pretestati dell'ultima porpora.
Rideva,  rideva,  mi  porgeva  quell'altro  piatto,  dei  fondants,  parlando  con  cinque  o  sei  alla  volta:  c'erano  la  signora Binda,  la  signora  Carugati,  la  ragazza  Dumenil,  e  un  altro  paio  di  ragazze:  dette  allora,  da  noi,  “signorine”.  Mi porgeva  un  bicchierone  di  limonata  in  ghiaccio,  rimestandolo  con  un  cucchiarino  lungo,  dal  gambo  anzi  infinito, adeguato alla profondità di quel pozzo: togliendone all'ultimo un mezzo seme, verdolino, con gran cura, come fosse per  un  malato  di  stomaco:  o  certe  granite!  e  poi  di  nuovo  le  caramelle,  i  petits  fours,  i  cioccolatini,  e  l'alzata  dei sandwichs per quanto già mezzo vuota e sguernita dopo il saccheggio, di quegli altri masnadieri.

“Caramelle in ghiaccio!”, urlava Remigio con le sue labbra rosse bagnate di sugo di cocomero, con un'ombra appena sui labbri e con due enormi baffi color cocomero traverso le gote fino agli occhi. Andava attorno fra le ragazze e le seggiole  col residuo  emisfero  di  quel pallone  verde  cupo:  dandone,  con le  nocche, un rimbombo  sciocco, di  zucca: pareva fosse interessato nell'azienda, voleva a tutti i costi ne prendessimo, non c'era verso: urlava allegro, rovesciava la testa all'indietro ridendo a crepapancia, non si sapeva mai di chi o di che cosa, sbavava come un bimbo, riempiva di baccano la sala; metteva all'asta le fette tricolori di cui nessuno pi£ aveva voglia, sventolando una quarta o quinta fetta (36) sopra le teste, seminando semini neri per tutto, imbrodolandoci tutti: “Io sono l'imperatore!”, urlava: “e l'ing  ria l'è  mia!”  E  rideva,  rideva,  povero  ragazzo,  come  rise  poi  sempre,  anche  in  faccia  ai  tognini  e  alla  Margniffa  (37), quando lo beccò sul Podgora, sta troja!
L'Adalgisa, come ho detto, mi porgeva la limonata: con dentro quella interminabile festuca del cucchiarino speciale, che  pareva lo  stelo  d'un  garofano:  con il  piattino  sotto: “stia  attento, mi  raccomando  il mio  bicchiere....,  perché  lei, certe volte, mi pare un po' un salame....”: e non mollava né bicchierone né piattino finché non fosse ben certa che li avevo presi a mia volta, con tutt'e due le mani. Potete ben capire che cos'era, da lei, una limonata.... dico una vera e propria “spremuta di limone”! Altro che sorbetti! avevo altro in testa, arrossendo, con l'animo ai tegoli (in apparenza) e ai suoni di fuori, dietro al saettare nero dei voli, allo stridio gioioso delle rondini.
Io non ero ragioniere: lo capivo: mai, mai, lo intuivo, mai avrei avuto in pugno la via Brisa! E sentivo una strana fitta, a  sinistra,  vicino  al  cuore,  come  se  tutto,  già  allora,  fosse  tutto  perduto.  Nessuna  “famiglia  di  signori”  mi  avrebbe incaricato di amministrar case: i droghieri zii non mi salutavano neanche. Provavo allora un dolore, una tristezza.... le cose mi sgomentavano.... un senso di umiliazione incredibile.... Avrei voluto avere i baffi del povero Carlo, avrei dato, per quei baffi, per il nastrino della Libia, tutto il pacco de' miei riccioluti integrali.
Altro che sorbetti avevamo in testa, davanti a lei! Ripensandoci ora, a distanza di anni, io credo che con quei sorbetti l'Adalgisa abbia voluto umiliarci, con quei cioccolatini, trattandoci da ragazzi, da ridicole crisalidi, perché al paragone venisse fuori pi£ bello, pi£ imponente, il suo Carlo - “el me Carlo”, diceva - come un farfallone adulto, completo, che salpa e sventola verso la rosa pi£ rossa: come un bandierone spiegato: il “suo” Carlo, l'unico Carlo, in tutto il creato universo, ch'ella riconoscesse degno di portare questo nome.
Ma  no,  poverina:  povera  creatura  anche  lei!  No,  no.  Forse  voleva  solo  dimostrarci,  a  furia  di  sandwichs  e  d'acqua dolce, che era una signora come tutte le altre anche lei, una vera signora, come le nostre mamme e sorelle.... che anche lei “sapeva ricevere”, cos¡, come niente fosse.
Ebbe,  insomma,  un'adolescenza  e  una  giovinezza  illibata:  fino  al  povero  Carlo.  “Seppe  capire”  il  Carlo.  Lo
“apprezzò”, lo “intu¡”, lo “studiò”: e lo “cap¡” cos¡ a fondo, che certe volte, se glie lo avessero dimandato là per là, sui due piedi, tra il ferro caldo e la salda d'amido, non avrebbe saputo dire nemmen lei che cos'era: se un ragioniere o un mineralogista, o piuttosto anzi un filatelico, un entomologo (ma questo fu assai pi£ tardi): o un valoroso, un reduce dalla Libia. O un minchione. “On bel mincionòn d'ora, con d   oècc, cont on par de barb¡s....” (38).
Seppe amare il Carlo anche prima del sindaco: ma solo per facilitare il sindaco. I sindaci dell'epoca demo-liberale, è noto, certe volte erano un po' duri d'orecchio: avevano bisogno anche loro d'un qualche incoraggiamento, poveri asini, per  decidersi  a  inalberare  la  sciarpa,  se  non  proprio  ad  offrire  la  penna  (39).  Cos¡,  non  sempre,  ma  di  quando  in quando,  accadeva  pure  che le  spose  dopo  un  cinque  mesi  dall'asperges  ti  sfornavano  magari  un  settimino:  che tutti però, l¡ per l¡, lo avrebbero detto di nove. “Quattro chili e mezzo!” significava la bilancia, senza pronunziar parole. E
come settimino di cinque mesi, date retta, poteva anche passare.
Per lei ci fu un anno, il 1913, se ben ricordo, o forse il '14 - se ben connetto i millesimi in aristoteloide unità - ci fu un'estate bruciata che il nostro sindaco aveva proprio l'aria di voler ciurlare nel manico, da quell'insigne menatorrone che era: e anche “la stansa de Liss¢n” (40), già comandata, sembrava languire in fabbrica: o addirittura languirne il modello nel magazzino delle Idee, come una pura Idea-Stanza.
Ma  lei,  l'Adalgisa,  “seppe  perseverare  nel  suo  affetto”.  Impavida.  Quando  le  lingue  dei  casigliani  del  San  Giròlom (oggi Carducci) erano già tutte in moto da un pezzo: e brusivano pi£ che vespe su favo. Lei?.... Perché mai avrebbe dovuto badare alla perfidia?.... di certe vipere?.... di certe streghe pettegole?.... Lei continuò ad amare il suo Carlo: e basta. S'impicciassero  dei fatti  loro....  Lei  aveva  il  diritto  di  voler  bene  a  chi  voleva....  senza domandar  permesso  a nessuno.... e chi voleva era il Carlo, il suo Carlo. Lo amò ininterrottamente. Lo amò decisamente ed a fondo, senza esitazioni prive di costrutto: con dei gran “dèss basta, che doman te ghe de fa i c  nt de via Brisa!”
Unica limitazione, giusto, questa qui di via Brisa: oltre che lo educò al massimo riguardo per i lenzuoli di lino, che lavava in un mastelletto (appositamente comperato) “cont el savon de Marsiglia”, e stirava poi lei stessa, infaticabile, impiegandoci  degli  interi  pomeriggi.  “El  pusée  che  me  premm  l'è  la  ziffra”  (41),  diceva,  avvicinando  il  ferro  alla guancia, “....che a dàghela in man a certa gent....”, e avanti tu-t£, tu-t£, col ferro e col ferro, animosa, “.... se r¡s-cia viceversa de vedè tornà a casa on carpògn.... brusatàa s   in d'ona quai manéra....” A certa gente, cioè alle lavandaie e alle stiratrici di mestiere.
Era davvero un magnifico A (Adalgisa), tutto intrecciato e avviticchiato a un magnifico B (Borella), con propaggini e subordinative  gestite  in  comune,  di  cirri,  di  pàmpani,  di  svoli,  di  fili;  da  non  averne  un'idea.  Le  ho  vedute  anch'io, qualche  volta,  le  due  lettere:  mi  facevano  pensare  alle  iniziali  di  “Medoro”  e  “Angelica”  intortigliate.....  intagliate dagli amanti nelle cortecce silvane.... oh! come i corpi e le anime, i nomi: perché quel B stava per diventare un C: (Carlo; su nuovi lenzuoli).
Ne rivedo ancora, dopo tanti anni, la felice, la indissolubile simbiosi.
Viveva d'amore. “Però, con la testa in di c  nt!.... Fina in lett!....”, protestava sommessamente l'amato.
In quella stagione d'amore la sua voce era ancora voce: per quanto già singolarmente velata: come se la pellicola d'una mandorla, o la tenue buccia d'un fagioletto, o qualche cosa di simile, le fosse andata a star di casa nella glottide.
“Quela vòs!” le aveva urlato, una sera di residui vocalizzi, il povero Carlo: una sera ardente di fine agosto, stanca ed aurata, ch'egli s'era  messo a rigovernare certi  conti di Corso Vercelli al tavolino d'anticamera, in mutande. “Cont el carimàa che gh'è  nanca dent  d'inciòster!”,  lamentò poi  subito, cadendo in un accoramento piagnoso.... Reiterato  già focosamente, alla bersagliera, non ostante il foco del giorno, l'amore gli aveva regalato una testa.... un cervello dolce e vuoto; la macchina calcolatrice che ci stava a pigione per solito s'era disciolta  in uno  smemorato giulebbe: sicché i conti del C¢rs Vercèll, tutt'a un tratto, erano diventati una nebbia: e gli mettevano una rabbia, da stiacciar la penna sotto  i  calcagni,  ci  avesse  avuto  le  scarpe  ai  piedi,  in  quel  punto,  anziché  le  ciabatte,  come  aveva.  Il  rotolare  e  lo scampanellare  dei  tram, dalla  via, il  grido mesto  del  cocomeraio.  Veniva fino in  San  Girolamo,  dalla  campagna, la calda vampa dell'estate che dispera di sé: il sibilo d'un treno fuggente sulla Varesina: e ancora e sempre le immagini e i ricordi proibiti del granoturco.... lustro.... benevolente, propizio.... ma fuori, però, fuori.... due ore di gamba foeura del  Sempi¢n....:  fatto  apposta  per  far  ombra....  a  quei  quattro  pasticci....  ma  fuori!....  ankamò  dopo  la  Cassina Mornaga.... in capo al mondo.... passato anche la Cassina Brisighella....
E lei era apparsa, in vestaglia, sbattendo la porta, decisa, senza dir parola, senza guardarlo: aveva preso di sul tavolo il calamaio vuoto, con sicurezza lombarda: e da buona massaia lombarda glie lo aveva colmato seduta stante, in cucina, d'un  certo  inciòster  di  sua  fabbrica:  usatissimo,  d'altronde,  presso  la  quasi  generalità  delle  nostre  pi£  casalinghe gentildonne.
“Ma ques chi l'è l'inciòster del r  binett!”, aveva osato protestare il povero Carlo col calamaio in mano, guardandoci dentro, mortificatissimo. Quei modi di lei erano un affronto al suo diploma “de ragionàtt”. “D¡ minga s   di stori!”, lo aveva  rimbeccato  lei,  terribile,  con  una  improvvisa  ruga  verticale  nella  fronte,  impallidendo.  Nell'ombra dell'anticamera gli occhi erano di fuoco: d'un fuoco nero: “E poeu del rest, se anca el f  dèss.... gh'è giò tanto de quel fond.... che te pòdet tirànn foeura ona brenta.... del tò inciòster!.... R  ga (42), o salàmm!.... Te stet l¡ con la facia per aria, come on bambàn?....”
Stava per andarsene, ma si ripent¡. “E poeu ten bée a ment che chi sèmm in cà mia, e minga in cà toa!.... E in cà mia gh'è l'inciòster che me fa còmod a m¡.... cara el me bel ragionàtt!” “Ti.... se te voeuret fa i c  nt de la Vercelina col tò inciòster, va foeura de cà mia.... va a cà toa!.... che tant e tant i to c  nt....”, alzò le spalle, “.... per quel che me renden a mi....”
Poi, dal sarcasmo al furore: “E on'altra volta tira minga a man de mètess in lett ai quatr'or de sira.... col sòfegh che fa.... Perché te fo c¢r a sciavatàt giò per i scàal....” (43).
Si fermò di botto. Sardonica, girata di tre quarti: davanti l'uscio: le mani sui fianchi.  Ebbe un ghigno: atteggiando i labbri, il volto, a un incontenibile dispregio. “....Bei c  nt!.... Ha!.... E per quel che me renden!....”
Aveva  spifferato tutta quella requisitoria di cà mia e vaca tòa  con la secca, inaudita velocità d'una mitragliatrice, in quella parlata vertiginosa e crepitante che non dà tempo alle repliche, come la gragnuola non dà modo ai ripari. In un tono irruente, latrante, sporgendo la faccia nel galoppo dei buccinatorii e  dei labbri: o,  per attimi, attenuato  e  cupo, quasi a lasciar presagire un pi£ spaventoso gastigo. Quel tono che fa cos¡ stupende e temibili le Erinni di buona razza in Verziere: o ne' ballatoi e “terrazzini” de' pi£ popolari casamenti: della “metropoli lombarda”.
Interdetto, con un tal nulla in cervello, egli pat¡ come un senso d'annientamento. La lingua, in bocca, gli pareva quella d'un altro, che gli fosse capitata in bocca per caso. Un rospo morto. Sent¡, dentro l'animo, sprofondare la Libia. Quel
“va a cà toa!” gli aveva messo un brivido nella spina dorsale: avrebbe voluto prenderla a schiaffi, insegnarle come si fa a parlare: ma le mutande, agiate, e prive anche d'un bottone, gli pericolavano: se appena avesse lasciato la cadrèga (44). Cos¡ mi raccontò lui stesso, non senza umore, qualche anno pi£ tardi. Lo incontrai durante una licenza di guerra.
“A  cà  toa?”,  pensò  esterrefatto:  mentre,  vuoto  d'idee,  aveva  l'ugola  al  giambone  e  al  mellone,  che  sarebbero  venuti dopo i conti. Il mellone, anzi, era già in fresco da un paio d'ore, e cioè “fin de primma”. Sotto al rubinetto di cucina.

Aveva un appetito, ma un appetito! Da non ricordar pi£ le caselle della moltiplica. E s¡ che il caldo dicono tutti che fa andar  via la fame!  Anche le  mutande  gli  davano  fastidio.  Gli riprincipiava  a  bollir la  testa,  adesso.  Il  sette  per otto cinquantasei  gli  ronzava  in  testa  come  un  calabrone  inebetito  in  un  bicchiere  capovolto,  si  spappolava  cammin facendo,  filtrato  dalle  meningi,  in  un  sette  per  otto  o  cinque  che  sei!  Come  un  ritornello  insensato  al  montar  della febbre. I quaderni.... le carte....
Gli  risovvenne  a  un  tratto,  di  squarcio,  che  cos'era  per  lui  quella  creatura  inviperita,  quel  corpo  stupendo,  caldo.
Povera Adalgisa! “tutto quello che aveva fatto per lui”.
Ed egli?
Pensò di chiederle scusa, di andare a metter la testa sotto il rubinetto, invece del popone: d'infilar subito i pantaloni: d'inginocchiarsi  davanti  a  lei,  se  voleva,  purché  gli  perdonasse.  E  si  avvide  allora,  come  ridesto  da  una  lunga  e straordinaria assenza, che la cà soa non poteva essere se non la casa d'entrambi.
Fecero la pace. “Marmognòn (45), d'on marmògna!” lo bland¡ la donna, accostando il suo nasino un po' alla francese a quello ultranerviano  di Carlo, sfiorettandolo  in una specie di  scherma dei nasi, e strusciandoglielo  su, sulle guance, come  si  fa  col  gatto  quando  siamo  in  vena  di  tenenezze:  (e  lui  non  graffia).  Ebbe,  poi,  un  suo  tono  carnale,  una vividezza recondita, quella che è eterna alla donna, quella che soleva svelarsi all'amato, fulgurativamente, e soltanto all'amato: un suo modo, insomma (che trascendeva la banalità fenomenica) per significare “passata è la tempesta”. Era allora  proprio  che  il  povero  Carlo  gli  si  scompaginava  al  tutto  l'architettura  dell'io,  quel  rubesto  edificio  o,  per  pi£
specificare,  casotto  daziario,  di  inibizioni  meneghine,  umbertine,  inostricate  su  Santa  Marta  (46),  “s  i  scarp  de montagna”, sull'Università Popolare, sui francobolli della Martinica, sui solini smontabili dell'Unione Cooperativa, sui rifugi  nuovi  del  Club Alpino  Italiano: il tutto rilegato  a  fil  doppio  da  un “volere e potere”  che  avrebbe  rincorso  un cappero in cima al Sempione. Se i capperi fossero centesimi, da far tornare una partita di bilancio.
Fecero la pace. E ancora una volta l'odore estivo di lei lacerò, come un lampo certo, la nubilosa concatenazione delle moltipliche. Difatti, due mesi dopo, mi arrivarono i confetti.

Rimaneva, per lei, la “sua arte”: la questione della voce. Ma in que' due mesi l'arte, cioè la voce, le andò a posto del tutto.  Diventò  una  voce  normale,  pi£  che  normale:  da  dar  degli  ordini  alla  cameriera,  alla  cuoca,  come  le  signore, come  una  vera  signora.  Faceva  dei  gargarismi.  Usava  dei  colluttori  efficacissimi,  con  disciolte  dentro  due  o  tre sostanze alla volta.
E pure certe volte reluttava stizzita all'idea che il “suo” Carlo, “cos¡ sensibile in tutto”, non fosse mai arrivato a intuire
“quanto  male  le  aveva  fatto”  ridendo,  certe  volte,  dell'arte:  e  di  lei:  o  almeno  trascurando,  o  sottovalutando,  di  lei, proprio “la cosa pi£ preziosa che Dio le aveva dato”. (E con questo intendeva appunto la voce). Ma poco a poco si calmò: si rasserenò.
Guardava, come trasognata, verso rive remote. Un palpito repentino, dal nodo fondo  e vivente dei visceri, come un oscuro sorgere, come di chi postulasse lontanamente la vita, la carezza materna. “Non era la voce”, si disse, “non era trascuranza!.... Ma nanca per sògn!” E dava in un'alzatina di spalle, sorridendo, gli occhi puntati all'infinito, foeura di veder, da sembrare una sposina di Novello (47).
“Era  la  gelosia!....”:  ecco  cos'era.  La  gelosia  per  tutti  quei  bellimbusti....  “coi  so  màzz  del  fiòr....”  “Poer  fioeu!”, sorrise: e guardava ancora lontano, sognando, lontan lontano: “Dopo t  tt, l'è on òmn anca l  , cont i so barbis....” Un uomo. Oh! di questo era certa. E in quell'idea della gelosia si chetò: e forse in quell'altra, e contigua, ch'egli era un uomo:  questa,  anzi,  pi£  profonda  e  valida:  se  pure  meno  decorosamente  esprimibile.  Si  chetò,  si  salvò.  Fu  sempre vivace  e  lucida,  prepotente  (alle  casseruole,  con  le  serve)  e  docile  (ai  ritmi).  Sana  e  calda  era  già  per  suo  conto.
Ragionò sempre. “Il breloque” arrivò (48).
In fondo, era già arrivato da un pezzo.

“Se non fossero state quelle cagne, che anni felici!” sospirava, “e anche non ostante tutti i disastri, e il fallimento del poer  Vanni!”  Le  cagne,  chi  non  lo  immagini  già  da  sé,  erano  le  parenti  acquisite  nella  nuova  parentela:  cognate, suocera, donna Eleonora Vigoni, eccetera.
Soprattutto quest'ultima che divenne per lei un incubo, e ch'ella battezzò di “suocera universale”, in quanto realmente s'era investita di adeguate funzioni ispettive nei confronti di tutte le giovani spose della “famiglia”. E anche di quelle fuori  famiglia,  che  pur  le  venisse  fatto  di  accalappiare  nel  cerchio  ipnotico  della  sua  sperimentata  saggezza,  di mammana d'alto bordo. Nel dar consigli alle spose smorzava la voce in un susurro pieno di comprensione, da jettatrice condiscendente, e tuttavia resistente: un fare tutto speciale, - a vederla seduta in quella mormorazione, - tra la levatrice e la maga e la druidessa. Questa gentildonna, che aveva amici garibaldini, e una sarta nipote di Cavallotti, era molto intelligente  e  colta:  e,  come  tutte  le  gentildonne  della  nostra  città  ch'erano  maturate  prima  del  telefono,  disponeva d'inchiostri e di cartoncini finissimi per la sua corrispondenza particolare; aveva una calligrafia magnifica, quantunque un po' minuta, nonché beninteso una grammatica e uno stile perfetti, che molti dei 50000 scrittori italiani di oggi, me compreso, potrebbero sinceramente invidiarle. Questi cartoncini venivano quotidianamente spacciati nelle pi£ diverse direzioni in città, ed anche oltre la cerchia de' Navigli, recando i di lei  squisiti autografi alle  persone ragguardevoli ch'ella onorò de' suoi indirizzi. Un vecchio servo con le basette, leggermente cisposo del sinistro, ma estremamente old England - (forse il cocchiere stesso che abbiamo ammirato al Parco) - li recava personalmente a destino: con un ombrello verde nei giorni di pioggia. Ma poi il servo mor¡ e il telefono, quello ancora con la manovella, prese a tinnire negli  orecchi  delle  signore  e  delle  gentildonne  milanesi,  che  a  poco  a  poco  disimpararono  a  scrivere,  in  buona  o cattiva calligrafia, dato anche l'incalzare dei tempi.
Molto intelligente e colta, con degli interi “poems” e “ballads” di Longfellow, Tennyson e Coleridge nella memoria -
(di quando in quando affioravano in lunghe e sbalorditive citazioni, da nessuno comprese) - osò gustare perfino dello Swinburne, del quale pure citava alcuni versi, pochi pochi però, dall'ode a Mazzini: e rabbrividiva pel rimanente (elle frissonnait): all'idea cioè delle Lesbie, Faustine, Dolores, Erodiadi, Bersabee e Marie Stuarde varie, di cui non finiva pi£, viceversa, d'ingolosirsi la magistrale spasmofil¡a o algolagn¡a del poeta. Alta, nobilissima nel portamento, ironica e  sardonica,  e  diademata  d'una  parrucca  regale,  non  lasciò  all'Adalgisa  un  solo  minuto  di  requie.  Le  sue  battute,  le mezze  frasi  lasciate  cadere  a  mezzo  il  discorso  con  una  noncuranza  distratta,  facevano  poi  il  giro  della  città:  e  in ventiquattr'ore  erano  bell'e  che  pervenute  alla  vittima,  come  delle  serpi  spedite  a  domicilio  in  un  paniere  di  fichi.
Ispettrice  “ad  cubiculum”  e  suprema  ammonitrice  “ad  aures”  per  tutte  le  spose  della  piramidale  dinastia,  padrona inoltre di un cavallo, di una carrozza, di un cocchiere, di una marsina del cocchiere, e di un cilindro del cocchiere con coccarda; circondata, ne' suoi salotti, da un cosmo inimmaginabile di porcellane, di cristalli, di bibelots, di pantere di maiolica,  di  vasi  cinesi,  e  di  Sèvres,  e  di  cioccolattiere incrostate  di rubini finti con corone regali  del  Portogallo, il volto  e  il  naso  aristocratico  di  lei  si  installarono  come  un  brutto  sogno,  brutto  e  interminabile,  nella  disperazione popolana dell'Adalgisa, che sapeva ahi, ahi, di via Vétere e di quarto collegio (49).
Secondo l'Adalgisa, il suo salone era “la fabbrica della maldicenza, e nient'alter....” Non c'era perfidia che fosse aliena al canapè di donna Eleonora. “La cantante?.... ah! la cantante!”, esclamavano di lei, distratte, in un tono un po' nasale, e di estrema indulgenza. Trovavano che vestiva come una “parvenue”.
“Se andasse dalla Teruzzi....”
“Eh! s¡.... e come cantante....”
“Del  Fossati....”,  sibilava  annoiata la  papessa. (Gli occhi  delle  belle  si  incrociavano,  in  un  sottinteso di  pudore e  di carità).  Possedeva,  come  nessun'altra  gentildonna  da  noi,  l'arte  di  sedersi  nel  centro  de'  suoi  mercredis:  pareva  il ragno, al centro de' suoi radiati pentagoni. “Del Fossati!....”: e la  carità  si spegneva in una bassa e fremente nota di violoncello, quasi un brivido, sulle rosse labbra di tutte quante le amiche e le nuore: sia le nuore effettive che quelle di complemento. Alcuna, veramente stupenda.

“Credimi, Elsa!....”: ritornava ora, fuor di sé, alle conclusioni di prima. “Da' retta a me!....”
“Cantante,  cantante!  Loro  che  cosa  sono?  Son  forse  gocciolate  giù  dal  candelotto  di  Pasqua?....  E  quella dell'architetto?.... Non era la sua signorina di studio? E la Recalcati?.... non era la sua serva, forse?....”
“La governante.... s¡....”, mitigò Elsa, con una gran dolcezza. “E la milionaria di via Pisacane?.... che poi si è scoperto che non aveva neanche le mutande?.... E quel mort de famm d'on marchés, cont el so stemma, cont el so castèl, cont i so fondi, cont el so Garbagnàa?.... I miei fondi, i miei fondi di Garbagnate.... Bei fondi! Che ghe renden s¡ e no de pagà i tass e i dèbet di so paisàn desoravia ancamò.... Una bicòcca d'on castèl pien de ratt.... che se sforàgen per tutt i sorée  di  e  nott  de  cercà  on quaicòss  de  roda....  (50)  e troeven  on  bel  nagòtt.... te le  disi m¡.... Di rataponi  de  mezz méter, long a sta manéra”, e indicò la lunghezza d'una quarantina di centimetri, “che hin lor che ghe màngen i gatt del fatòr....”
Tacque  un  attimo,  poi  riprese:  “E  anche  il  tuo  Gian  Maria....”,  ed  ebbe  un  lampo  di  crudele  sincerità,  negli  occhi, ancor  vividi:  “....  scusa  se  ti  parlo  chiaro....  va  bene....  capisco.... è  un  gran  brav'uomo....  un  signore,  con  la  cam¡sa d'àmid.... S¡, s¡, capisco.... e poeu i ciocolatitt hin p  ranca bon de sciscià....” Una impertinente villan¡a le ribolliva per tutte  le  vene,  e  sul  viso  accalorato.  I  colletti  e i  polsini d'amido  e  la fabbrica  di  cioccolatto del  vecchio  gentiluomo cocciuto rivissero un istante, come farfalla in lume, nella rapidità di quella icastica popolaresca. Ma era assolutamente necessario vincere; vincere la battaglia della certezza, e piegare e frustare a scudisciate nel culo il destino, che l'aveva inzaccherata di quell'epiteto di cantante. E fin¡ vittoriosa.
Fin¡  col  povero  Carlo,  e  a  suo  modo  s'intener¡:  vagabonda,  -  con  quella  borsetta  chiusa,  stretta  a  due  mani,  -
vagabonda  nei  pascoli  sconfinati  della  vedovanza.  La  sua  povera  memoria  andava  andava:  verso  il  tempo,  e  le immagini  che  non  ritornano.  Vi  ritrovava,  disperatamente,  la  ragione  e  il  senso  del  suo  sopravvivere.  Ogni  anima tende a motivare il suo essere: quando il motivo è nell'irrepetibile tempo, ogni anima vive nella memoria.
Vedova! Nel 1921.
Aveva allora, al collo, una collana di palle nere di diametro modulatamente crescente verso il profondo, le tre centrali e pi£ grosse parevano addirittura delle albicocche, colte nei regni di morte. Un velo nero fino ai calcagni. Ingrassava.
Di tanto in tanto aveva gli occhi rossi. Qualche volta riusciva anche a piangere: non che il suo dolore fosse men vero, o la sua reumiliata solitudine: ma sentiva come il pudore di quella  “debolezza”; non  voleva “dar  soddisfazione alle vipere”.
Adalgisa Borella vedova Biandronni.
Era  riuscita,  dopo  un  funerale  con  centoventitre  corone  e  dopo  una  disperata  battaglia,  a  seppellire  il  suo  Carlo  al Monumentale: mentre oscure trame e il compassionevole suggerimento di donna Eleonora tendevano a dilontanarne il feretro verso Musocco, adducendo le ragioni della “spesa”, e che dopo morti “tant'e tant” ....(quelle donne e signore cattolicissime  non  s'avvisavano  della  contraddizione)....  e  che  il  pi£  importante  era  di  pensare  ai  figli,  eccetera eccetera.
“Ai miei figli ci penso già io, e molto pi£ di voi, potete star sicuri!.... Non ho bisogno dei vostri consigli!....” Le urla erano  pervenute  ai  coinquilini:  l'attacco  era  finito  con  delle  pezzuole  d'acqua  e  aceto  sulla  fronte,  con  dell'acqua antisterica di Santa Maria di Leuca....
Del funerale ricordava con orgoglio i vigili municipali mobilitati in soprannumero a sbarrare e a ristabilire il circolo delle vetture e dei tram, e delle carra: (oggi denominato traffico). Rivedeva quegli elmetti di panno, vittoriosi e neri sopra il coàgulo della circolazione metropolitana, i cittadini reverenti, a capo scoperto, le biciclette paralizzate, tutta Milano  costernata,  nel  leggere  le  grandi  scritte  d'oro  dei  nastri  delle  corone:  “Al  rag.  Carlo  Biandronni  -  i  cugini Gnecchi”, “Al rag. Carlo Biandronni - la Società Pro Patria”: e via via, in centoventitre varianti.
“E'  bisognato  tener  indietro  la  gente  cont  i  capelloni....  perché  tutti....  tutti!....  gli  volevano  puranche  bene,  povero figliolo....”, disse, con voce rotta da modesti singhiozzi, asciugandosi gli occhi. Ricordò poi la compagnia d'onore del
“sesantasètt  fanteria,  el  so  regiment  de  la  Libia....”,  i  bravi  soldati  “che  piangevano  anche  loro,  a  momenti,  poveri ragazzi!” (51), (ma questa era un iperbole del suo allucinato cordoglio), il presentat'àrm! infine, il celere baleno della sciabola, l'estremo saluto dei soldati al soldato.
Fu  in  quell'epoca,  o  poco  dopo,  che  i  ritratti  del  povero  Carlo  invasero  i  salotti  dei  Cavigioli,  dei  Caviggioni,  dei Biandronni,  dei  Perego,  dei  Lattuada,  dei  Maldifassi,  dei  Vigoni,  dei  Gnocchi,  dei  Gnecchi;  e,  d'altra  parte,  dei Borella,  dei  Ghiringhelli,  dei  Pessina,  dei  Trabattoni,  dei  Recalcati,  eccetera  eccetera  eccetera  eccetera.  Nemmeno donna Eleonora Vigoni poté rifiutare una temporanea ospitalità, fra una pantera e un Sèvres, a quel ritratto tutt'occhi, tutto naso, tutto baffi, a quel “Guigoni & Bossi” (52) cos¡ vivo, cos¡ balzante, cos¡ “lui”. “Ah l'è l  , l'è propi l  ! l'è l  , ch'el par vif!”, badavano ad esclamare i marsinoni della famiglia, con vociacce di baritoni in preda a commozione, a persuasione.  E  siccome  -  dato  che  in  quei  mesi  era  proprio  l'epoca  che  due  o  tre  figliole  della  quinta  generazione venivano a tiro anche loro - siccome stavano per entrare in scena anche i Consonni, i Carugati, i Gadda, i Roncoroni e i  Brambilla,  cos¡  per  ogni  nuovo  nucleo  familiare  c'era  già  in  riserva  il  suo  bravo  “ritràtt”:  le  quattro  fidanzate potevano star tranquille: c'era un “povero Carlo” anche per ognuna di loro, pronto.
Lei, l'Adalgisa, non era mai stata grafomane: aveva una scrittura un po' da oca, come capita, qualche volta, anche in via delle Oche (53): e quei pochi biglietti che soleva spedire in particolari occorrenze o circostanze a speciali “persone care” si listarono a lutto: da tutt'e due le parti; dopo una tremenda lite nella cartoleria Cazzaniga. Anche la busta era listata di nero, da tutte e due le parti: perfino l'inchiostro, stavolta, era nero. I francobolli, purtroppo, non poté averli col lutto: per quanto è un'idea, questa, che coltivata a Milano, potrebbe rendere fior di soldi al Ministro Segretario di Stato per le Finanze e il Tesoro.
Passò  interi  pomeriggi  al  Monumentale  in  una  disdegnosa  solitudine:  parendole  cos¡  di  avvicinare  l'amato,  il  suo sposo, il suo uomo, il padre delle sue creature. Ci andava qualche volta coi ragazzi: per lo pi£, sola.
E una volta l¡, davanti la tomba, non faceva che lavorare, pulire, disporre i fiori, rigovernare i vasi, toglierne li steli risecchi,  mondar  le  foglie,  rimetter  l'acqua,  lucidar  bronzi  ed  ottoni  col  Sidol  (54).  Ed  ecco,  improvvisamente,  fa tremare, la suppellettile funebre, oltre il velo screziato delle lacrime, “.... Insc¡ me par de fà on quaicòss anka per t¡,....
pòer el me fioeu....” Grossi lacrimoni le gocciavano sul marmo. Gli steli spinosi e i candidi petali delle rose che stava per deporvi le si impigliavano, talora, dentro la collana di palle nere: pendula, all'atto del chinarsi, dal collo.
Fu una pura combinazione, ma la tomba del povero Carlo era nel medesimo campo, e reparto, di quella dei Carugati di via  Brisa, papà  e mamma,  suoi  ex-amministrati.  Il  figlio  maggiore  era morto  in  America:  e  le  tre  superstiti  sorelle, poverine,  stentavano  ormai a  far  le  scale,  oltreché  a  sbarcare il lunario,  da  quelle  grandi  azioniste,  che  erano,  della
“Tessile Tremolada e Bertagnoni” di gloriosa memoria. “Se recomandom a lée!....”, avevano implorato stringendole disperatamente  le  mani  con  le  loro  mani,  -  ossi  venati  di  azzurro,  -  con  una  sola  voce  tremolante,  e  con  tre  teste tentennanti, che parevano dire no, no, no.
“Lée che la pò andkàk t  tt i d¡!... N  m in tanta disarémm el rosàri per t  cc quànt.... per i nost pòer mort e poèu anca per el pòer scior Carlo.... per el nòs' pòer ragionàtt....”
L'Adalgisa le aveva rassicurate con una alzatina di spalle, come a dire che la cosa andava da sé, beninteso. “Non sono mai  stata  abituata  (bit  vàda)  a  dormire  in  piedi!....”,  diceva.  “Non  posso  stare  senza  far  niente,  neanche  al Monumentale....”
Le tre sorelle Carugati le avevano descritto “el mon  ment” in ogni dettaglio, con dei gran “poèu anka”, e recitando l'intero  epitafio,  senza  dimenticare  neppure  un  “vasètt”.  Tantoché  l'Adalgisa  poté  riconoscerlo,  fra  le  molte  e impagabili sculture che popolavano il campo, anche prima di leggere “Ai loro amati genitori....”
Saturno,  con  la  clepsidra  e  la  falce,  e  una  lanternetta  modello  Diogene,  vegliava  la  tomba  deserta  dei  due  vecchi, riuscitissima opera dello scultore Cavedoni. Disteso sul duro, come un disoccupato in un “terreno da vendere” (55), sembra che sia uno dei pi£ indovinati Saturni del nostro famoso cimitero, il quale ne è stracolmo.
L'Adalgisa,  non  appena  fu  sicura  d'averlo  identificato,  gli  si  mise  subito  attorno,  con  una  certa  sua  risolutezza impaziente:  quasi  a  un  lattante  cui  urgessero  delle  cure  improrogabili:  con  la  mobilità  e  la  sicurezza  di  movimenti d'una “nurse” diplomata. Anzitutto lo guardò molto severamente; come un ghibellino guarderebbe un dissenterico di parte guelfa. Ma subito dopo si sent¡ buona, e pi£ che mai energica, e disposta al fare, e piena di tutto il suo slancio lombardo.
Il vecchio fannullone, di prospetto, per quanto avesse l'aria un po' rimminchionita, era però perfettamente in regola: gli  erano  cresciute  due  serpentesche  basette,  come  ad  un  garibaldino  ottantottenne,  e  molto  simili  difatti  a  quelle dell'on.  Giuseppe  Marcora  di  venerata  memoria:  ma  assai  pi£  lunghe,  anzi  addirittura  interminabili,  come  certe anguille sott'acqua, che non si sa dove diavolo gli vada a finire la coda, o la testa.
Le regioni boschive della di lui persona erano drappeggiate di un lenzuolo, o coperta, in marmo massiccio e, ad ogni buon conto, anche dalle due code arrotolate di quelle due millenarie basette. Né c'era da credere al vento, che potesse levar via le difese del panno, o del pelo. (Sotto carovane di nuvole il vento d'autunno turbinava la polvere, le stanche foglie. Scaruffò i bossi, tagliati alla Umberto (56); ai cipressi degli aspettanti viali gli dipanava la fronda, ne sdoppiava le cime aborrite).
Il vecchio non batté ciglio; nessun appunto gli si poteva muovere, almeno quanto al davanti. Ma siccome l'Adalgisa gli girò subito intorno una quindicina di volte, instancabile, salendo perfino con le sue scarpette nere sopra la tomba e osservando minutamente ogni cosa, ogni dettaglio, anche frammezzo ai diti dei piedi e nei due buchi degli orecchi, e anche  di  fianco  e  di  dietro, cos¡ trovò  che  la  falce  era  a  posto,  non  meno  della  clepsidra  e  del lanternino:  ma  certi licheni verdastri, o nerastri, insistevano invece a incrostargli quell'altra falce, tra le due natiche, d'una scandalosa flora criptogamica. Le  natiche in parola erano “rivolte a settentrione”, come le mura di Porta Nuova nei Promessi Sposi.
Donde quelle muffe.
Il  vecchio  necessitava  inderogabilmente  d'una  operazioncella  alquanto  banale,  che  l'Adalgisa  rimandò  tuttavia  al giorno dopo. Il tempo la fer¡ negli occhi, con una ventata di polvere.
Fu, comunque, non cessava poi dal raccontarlo, una operazione pi£ difficile del preventivato. Dove intervennero, oltre ai muscoli  e  al temperamento “fattivo”  della  donna,  anche  un raschino  incurvo  da  meccanico,  e  pi£  di un foglio  di carta; carta vetrata, s'intende. Di borotalco non ci fu bisogno, come per il Gianfranco e per il Luciano quand'erano in fasce, ma certo le venne in mente anche questo.
Grattò e raschiò per mezz'ora, per un'ora, forse: e le dita le si fecero tutte verdi, come d'una tritura di prezzemolo. A opera finita, quando si sent¡ esausta, le venne la rabbia. Se la prese con le sorelle Carugati: “Vorar¡a che vegnèssen on po' k¡ ànka lor, de tant in tant, a vede cose gh'è de noeuf.... qui tr¡ carampànn de via Brisa.... cont el so rosari.... e la soa testa che donda....”
Due  inservienti  dinoccolati  la  guardavano  a  bocca  aperta;  uno  reggeva  da  una  mano  un  inaffiatoio  vuoto,  s'era scordato  di  posarlo;  l'altro  si  era  ficcato  un  dito  nel  naso;  e  ci  stava  lavorando.  “E  lor  cos'hin  k¡  a  fa,  t  tt  l'ann?”, gridò, rilevatasi, tutta rossa nel volto. Ma quelli, dopo un breve battibecco, le diedero della matta. “Se sèmm k¡ a fa!....
perché ne moeur domà v  n al més, a Milan”. Si allontanarono protestando. L'Adalgisa non pervenne a capire che cosa borbottassero “intra de lor”. Ma è quasi certo che la mandarono al diavolo.

NOTE.

N. 1. “Viscor” (dial. mil.): vivace, vispo. Leggi tra i righi.

N. 2. Cattà (pron. catà), è cogliere: (lat. "captare"). Cattà foeura = scegliere; prendere. “Apri gli occhi a cercarlo”.
N.  3.  Secondo  il  Maestro,  la  causa  può  essere:  formale:  materiale:  efficiente:  finale.  La  “causa  nel  senso  primo  e principale della parola” è la efficiente.
N. 4. “Portorico”; caffè dell'isola di Porto Rico nelle Grandi Antille. Misture varie di sedicente Portorico e sedicente Moka,  in  realtà  di  caffè  brasiliani  e  raramente  arabi  o  africani,  costituivano  le  altrettante  “specialità”  de'  diversi droghieri e caffettieri.
N. 5. “Sperlusciato” (dial. mil.): coi capegli arruffati ossia scarmigliati.
N. 6. “Domà a godere”: soltanto a godere: in un italiano raggiunto partendo dal dialetto: gòt si tramuta in gòdere. Cos¡
talvolta il romano ha sédere per sedére; da sède. “Si metta a sedere - basta cos¡”.
N.  7.  “Ritratti  dei  paesaggi  della  Libia”.  Ritratto  per  “fotografia”:  in  un  italiano  massinellico.  Altrettanto  “dei paesaggi”, che è ridevole oltreché pleonastico.
N. 8. Il “povero Carlo” ha radici e sviluppo nell'epoca “positivistica”.
Università  Popolare.  Biblioteche  circolanti:  bibliotechine.  Circolo  degli  Impiegati  Civili:  (con  le  maiuscole,  in Galleria  V.  E.:  analogo  ai  Circoli  degli  Ufficiali).  Unione  Cooperativa:  (emporio  generale,  ripartito  per  argomenti ossia voci di vendita, sul tipo dei Grands Magasins francesi): notevole nella Milano 1895-1905. Fondata già da Luigi B£ffoli;  azioni  da  lire  10  perché  anche  l'impiegatuccio  (gergale  piemontese  “travèt”)  e  l'operaio  e  in  genere  il consumatore-acquirente  potessero  costituirsene  azionisti  e  in  certo  modo  “controllare”  l'azienda.  L'idea  motrice  (a sfondo  giustizia  sociale)  era  anzi  quella  che  il  soprappi£  di  lucro  accantonato  dall'emporio  nella  felice  esuberanza della  sua  propria  auto-gestione,  ritornasse  a  mano  al  consumatore-acquirente-azionista:  sotto  forma  tangibile  di dividendo (detto allora “frutto” o “interesse”), cioè ripartizione utili. Banca Popolare Cooperativa Anonima di Milano, fondata (1865) dall'allora giovanissimo Luigi Luzzatti poco dopo quella di Lodi (1865: prima in Italia) e coeva pure a quelle  di  Cremona  e  Bologna  (1865).  Mutue  Cooperative  Incendi:  (cioè  di  auto-assicurazione  de'  soci  contro  gli).
“L'idea  cooperativa”  e  “il  movimento  (=  prassi)  cooperativo”  “si  sviluppano”  in  tutta  Europa  dal  1840  circa,
“apostoli” in Germania Schulze-Delitzsch (casse rurali) e Raffeisen: (banche cooperative). In Italia Francesco Viganò e  l'infaticabile  Luigi  Luzzatti  (Venezia,  1  marzo  1841;  Roma,  29  marzo  1927;  economista,  sociologo,  filantropo, docente  universitario,  ministro  del  Regno,  senatore  del  detto,  ornato  di  pappafico)  legano  i  lor  nomi  al  movimento cooperativo e delle “banche popolari” e “casse rurali”: da 4 banche di tipo cooperativo nel 1865 si perviene a 140 nel 1880, a  694 nel  1890,  a 736 nel 1908. (Acme  dello sviluppo fra il 1880 e il  1890). Azioni  da lire  5 a lire 50, negli intenti suddetti. Il dispositivo di legge del 1882, “regolamentando la materia”, stabilisce l'obbligo (già consuetudine) della nominatività delle azioni. Dispositivi statuari limitarono a un massimo (non superabile) le azioni da possedersi
"pro  capite":  per  esempio  tante  fino  alla  concorrenza  massima  di  lire  5000  a  persona.  Donde  la  comune  pratica  di intestarne  alla  moglie  e  ai  neonati:  sono  gli  anni  dei  pargoli  cooperatori,  o  cooperativi:  o  addirittura  cooperativi-incendi.
Altre note: bigliardi, e bigliardo a domicilio, (sala da bigliardo in casa), birre austriache e però boeme, e tedesche, e chiare e scure, coi relativi zelatori: vini e liquori francesi: prime birre italiane (e dispute connesse): pallacorda: prima piscina da nuoto, a Milano (Bagno di Diana): ciclismo (pesante, arrancante) e berrettini da ciclista con visiera, oggi desueti:  calzoni  “knickerbocker”,  cioè  con  cinturino  sotto  il  ginocchio:  calzettoni.  Scherma  e  ritrovi  schermistici.
Società di ritrovo (Clubs) come la Società Patriottica, la Società del Giardino, il Club dell'Unione, e molt'altre: dalle pi£ “aristocratiche” o grasso-borghesi alle popolari e popolarissime. Salotti, in quelle, sale di lettura, salone da ballo, (ivi, poi, conferenze: e proiezioni luminose accompagnatorie con la “lanterna magica”), divani di velluto rosso, sale da gioco (dòmino, scacchi), ristorante, gabinetti con le prime maioliche. In queste il gioco delle bocce, lo spaccio delle bibite: pergola eventuale. Rarissimi gli occhiali da sole (alpinisti su nevaio o ghiacciaio), oggi (1943) comuni e direi indispensabili  al gagà e alla dàttilo per attraversare il  sagrato; diffuso (alla totalità della popolazione) il pitale, oggi onninamente inibito dagli architetti e arredatori igienisti e quadrangolari: (ma il Nostro obdura, pervicace nell'eresia).
Non ancora asfaltate le grandi strade di comunicazione e però polverone indescrivibile; non ancora gli ski, né i traumi (fratture,  distorsioni)  che  vi  conseguono;  molto  alpinismo  e  alpinismo  popolare:  e  però  stelle  alpine,  scarpe  alpine: (ditte  specializzate,  come  l'Anghileri  a  Lecco  e  a  Milano):  inaugurazioni  di  rifugi  alpini,  costruiti  a  spese  di volonterosi oblatori, con Messa celebrata da sacerdote-alpinista: talora dedicati al nome di Garibaldi (Giuseppe) o al Duca degli Abruzzi: (Luigi Amedeo di Savoja-Aosta, duca degli). Il Club Alpino Italiano fondato (1863) da Quintino Sella ingegnere minerario, biellese: (C.A.I. è “calli” nei dial. lomb.). Colui che il Carducci dileggia quale adescatore politico, “il lungi operoso tessitor di Biella s'impiglia, - ragno attirante in vano, dentro le reti sue”, fu, oltreché statista di gran dignità e pareggiatore di bilancio, alpinista e cristallografo eminente: primo scalatore italiano del Monviso. Il suo  nome  è  ricordato  ad  onore  dalla  sella¡te,  raro  (Savoja)  fluoruro  magnesio  (Mg  Fl2)  e  identico  alla  belonesite (Vesuvio):  cos¡  come  il  nome  di  Tancredi  de  Gratet  de  Dolomieu  è  ricordato  dalla  dolomite:  carbonato  doppio  di calcio e magnesio Ca, Mg (CO3)2. I nomi de' minerali derivano spesso dai nomi degli scopritori, o classificatori.

Presenza ed efficienza di carrozze e cavalli,  e corriere  a cavalli con  tettuccio (dette  “giardiniere”), nelle vie di  città minori e, pi£, nelle strade di campagna: indi polpette cavalline e pip¡ cavallino a ogni piè sospinto, per via. Tafani e stalle  in  città.  Fanaliere  a  petrolio.  Lumi  a  gas,  accesi  al  crepuscolo dal  gasista, mediante  pertica  piròfora.  Calcio  e automobilismo  ai  primi  vagiti.  Nessun  “camion”:  carrozzone  dei  ladri  e  “furgoni”  postali  a  cavalli:  qualche  auto pubblica  o  padronale  (1906)  di  carattere  difficile  e  gargarizzativo,  o  esplodente  e  pedente:  autista  con  pelliccia  da orango, occhialoni, berrettone a visiera. Atletica leggiera. A Milano la “Pro Patria” e la “Forza e coraggio”: (rivali).
Fumo  ferroviario:  relitti  del  detto  in  conche  auricolari,  nei  capegli,  sopraccigli,  nelle  narici.  Frequente  il  “carbone nell'occhio”: cocca del fazzoletto adibita al estràrnelo. Trombette ferroviarie di ottone, assai pese, avvinte da cordone verde. Iterati pè-pè alla partenza. Rari i gabinetti a tenuta idraulica. Reticella o retino per chiappare le farfalle durante le  gite:  (sàcculo  di  rete  con  imboccatura  a  cerchio:  e  astato  quest'ultimo).  Merende  bonarie  sull'erba,  con  tono  da caccia all'elefante, capitolo “bivacco”.
Cautele contro le macchie di verde-erba sugli abiti: (cocò, gonne, ginocchia).
Tralascio gli articoli gastronomici e beverativi, come il latte e pangiallo da San Giorgio (24 aprile) in poi.
Donne  e  uomini  in  abiti  pesi:  e  le  donne  accollati  (collo  inguainato  nel  “collo”  dell'abito  sostenuto  da  “ossi  di balena”).  Gambe  delle  donne  rigorosamente  e  sempre  nascoste:  (salvo  le  ballerine  sul  palcoscenico:  sole  gambe visibili). Stivaletti femminili insino al polpaccio, con allacciatura di stringhe interminabili. Ardite (“scollacciate”, sic) vignette  di  “scandalosi”  libelli,  o  giornali  d'umore,  scoprivano  la  caviglia  (inguainata  dallo  stivaletto)  dell'eroina (notoriamente  affetta  dal  titolo  di  “svergognata”),  destando  l'allarme  delle  autorità.  Gesto  estremo  della  “danseuse”
quello del rialzare la gonna in sul davanti, palesando stivaletto-caviglia. Lirica dei “piedini”. Psicopatici (due o tre in Europa) innamorati di stivaletto usato, ossia borzacchino usato (il "brodequin" di Beaudelaire): che funge da feticcio erotico un po' per tutti.
Cappelloni da signora, e spilloni per amarrarli ai capegli: questi accomodati nel “chignon” (malloppo) in sull'occipite e in un tettuccio (spagn. "tejadillo") con frangetta, sulla fronte. Parasole estivo: usato anche da uomini: in tal caso di seta verde-scura o marrone. Preti con parasole nero, lungo le strade di campagna.
Busti (per le donne) con “stecche di balena”: donde: “mettersi il busto, slacciare il busto”, eccetera: moda femminile del “vitino” ossia vita stretta, torturante pi£ che cilicio: donde “vitino adorabile, il di lei estetico (= grazioso) vitino”.
Sottane di lana e di seta fino a terra; e terminate nello “spazzolino” ( = fettuccia a spazzola, cimòsa a spazzola) tutto il giro;  spazzolino  che  veniva a  spazzare  il marciapiede.  Doviziosa infangatura invernale.  Le  gonne  da  passeggio  con strascico (2 a 4 palmi secondo eleganza): continua manovra del detto a evitare le sudicerie e i relitti stradali: canini, cavallini,  e  d'altri  mammiferi  ancora.  Attimi  di  ritardo  nella  richiusura  degli  usci  e  de'  battenti,  a  lasciar  prima strisciare  tutto  lo  strascico  (detto  “coda”),  quasi  di  una  serpe  che  si  rimbuchi.  Nei  balli,  speciali  attenzioni  agli strascichi  delle  dame.  “Quadriglia”  e  “Lancieri”  Cappelli  maschili  di  varie  fogge:  anche  a  bombetta:  (milan.
cardanello): che era copricapo elegante: usato ancora il cilindro ("haut-de-forme"), di altissima distinzione. Pregiato il panama  (costosissimo)  e  comune  l'estiva  paglietta  (milan.  magiostrina,  con  etimo  probabile  da  màg  =  maggio,  e magiostra  =  fragola).  Uomini  con  pantaloni  rimboccati:  (contro  il  fango,  la  polvere):  pratica  usuale  nell'inverno.
Mutande delle donne fino a metà polpaccio e anche pi£ giù, talora campaniformi cioè a imbuto rovescio: con giri di merletti e di svoli a insalata, in numero crescente secondo il rango, dalla sartina alla regina Vittoria. Pantaloni degli uomini senza la piega. Non anco il rossetto né la tinteggiatura femminile del viso e degli occhi: non anco il "crayon".
Baffose e baritonali scenate da parte di mariti e padri, tonitruanti per un po' di cipria della figliola o mogliera.
Uomini  baffuti  come  Vercingetorige,  specie  gli  “ingegneri  civili”.  Predilezione  per  le  stoffe  a  quadretti,  specie pantaloni  estivi  e  panciotto.  Grossa  catena  d'orologio  (oro  o  argento)  sull'emisfero  addominale,  sul  panciotto: (succeduto al medioevale giustacuore). Grosso e cipollone orologio in un taschino del detto. All'attacco della catena, breloque:  cioè  pendaglio:  con  ritratto  (all'ipoclorito  sodico)  di  persona  amata,  e  assai  capelluta  quando  non integralmente  calva:  pieno  di  bruscoli  di  tabacco,  il  breloque,  e  da  rompersi  le  unghie  ad  aprirlo.  I  denti  guasti, (riconsegnati  dal  cavadenti-estrattore  al  proprietario-paziente),  religiosamente  serbati  lungo  i  decenni  in  uno scampoletto di velluto scarlatto.
Ai  bagni  di  mare,  le  donne  (signore)  in  costume  da  bagno  nero  o  bleu-scuro,  accollato:  giubbetto  e  sottana  e mutandone nere o bleu-scure, con ornamenti multipli di svoli, e di “spighetta” rossa: scarpaccini di corda: spesso, le calze, anche all'entrare in acqua: in difetto, caviglie pallide, color mozzarella: cappelloni  di paglia  contro l'estate: il sole paventatissimo.
Conferenze pubbliche su tutti un po' gli argomenti dello “scibile umano”: e talora a pagamento: e tuttavia frequentate.
Conferenzieri  specialisti:  (Antonio  Fradeletto,  Innocenzo  Cappa).  Tra  i  piedi  dei  lari  il  “positivismo”  sparpagliò apparati e apparecchi “scientifici” d'ogni maniera, e macchine da tavola e da cucina: pinze speciali per gli asparagi, spremilimoni di vetro a corona dentata, ferri a uncino e a cucchiaino raspante per estrarre la medulla dall'osso-buco, casseruole lunghe da bollirvi la trota, pere di gomma d'ogni calibro, schiaccianoci e cavaturaccioli di non pi£ veduto modello.  Appese  al  muro  (della  camera  da  letto  maggiore,  o  del  guardaroba)  l'apparato  per  l'enteroclisma,  allora usatissimo, con ricco metraggio di cannula in gomma, da raggiungere ogni pi£ remoto (e scaravoltato) cocò. Appese termometri in  ogni  dove,  da  dentro  e da fuori  finestra, barometri,  sia  torricelliani  che  aneroidi  ed  altri, igrometri:  e talora  i  tre  insieme.  Frate  o  ballerina  con  la  tunica  o  la  sottanella  che  trascolora  cangiando  di  rosa  in  azzurro,  da
“bello” o “secco” a “tempesta”.
Per tutta casa dovizia di fermacarte: (fetta di stalagmite, dipintavi erubescenza vesuviana o approssimata cupolaglia di San  Marco):  conchiglie  marine  in  funzione  di,  talora  fastosissime:  ammassi  di  cristalli  grezzi  idem  idem:  pirite, ematite, pirolusite, solfo in cristalli. Cannocchiale d'ottone con treppiede, sfoderabili a volontà l'uno e l'altro per veder la  luna  dal  terrazzo:  vetro  affumato  per  le  eclissi  di  sole.  Cannocchiali  da  montagna.  Scatoloni  di  macchine fotografiche,  allora  parallelepipedi:  e  irremovibilmente  tali.  Atlanti.  Carte  topografiche,  connesse  con  le  gite  e  col C.A.I.:  frequenze  geologòfile  e  cristallòfile.  Orologi  a  cucùlo  (col  cucùlo  che  non  funziona);  libri  “scientifici”;  le prime  e  rare  maioliche  in  qualche  orinatoio  di  lusso;  altri  in  marmo  carrarese.  Candelieri  e  candele  e  lampade  a petrolio. Raccolte di insetti, specie farfalle. Soldati col kepp¡ d'incerato, e la nappina, e la visiera: coi pantaloni lunghi e le ghette. I primi impianti d'acqua potabile ne' borghi di riviera e di campagna, da vincere le epidemie ricorrenti del tifo. Polemiche relative.
Stuzzicadenti  di  penna  d'oca  temperata,  reggi-penna  d'argento.  Cannoni  grandinifughi.  Cioè  batterie  di  tromboni rivolti  al  cielo,  da  sparare  contro  le  nubi  “sature  di  grandine”  e  i  nembi,  per  farle  a  brani:  avanti  ancora  le grandinassero. Lo scrivente ne vide  una (1905?) in Brianza. Piazzate  un po' come batterie antiaeree, se  non che sui poggi in campagna. Capanno del custode-bombardiere (sagrestano del villaggio), con le necessità della manovra e le artificerie, cioè gli scartocci della polvere pirica.
A ogni epoca la sua saggezza.
N. 9. “Modi della divina Sostanza”: Benedetto Spinoza, "Etica", libro primo, def. 5: “Per modum intelligo substantiae affectiones, sive id, quod in alio est, per quod etiam concipitur”. I modi sono determinazioni (limitazioni, negazioni parziali,  e  però  momenti  individui,  e  probabilmente  “esseri”  particolari  e  fenomeni  singoli)  degli  attributi  (due: estensione, pensiero) della unica sostanza: (Dio: ens absolute infinitum: ragione suprema e universa, occludente in sé la totalità de' suoi modi).
N. 10. “Ravanà”: con etimo probabile da rava = rapa. Accudire a tirar le rape, nell'orto: essere chinati in faccende: e però rimovere laboriosamente alcunché: e dunque indagare lo scibile e l'empiria: darsi pena a scartabellare ne' libri e a rimettere in sesto il mondo.
N. 11. “Lago di palta”: lago di fango: (dial. mil.). Rio de la Palta è scherzosamente il Rio de la Plata, per gli immigrati lombardi: in quanto limoso.
N. 12. “Laborioso integrale isoperimetrico”. Problemi isoperimetrici: una ragguardevole classe di questioni di minimo (o massimo) trattate nel cosiddetto “calcolo delle variazioni”, arduo e periglioso capitolo dell'analisi. Isoperimetro è detto  il  problema,  da  molti  invece  la  risoluzione  (algebrica)  del  problema:  indipendentemente  dal  contenuto  dello stesso: (geometrico, meccanico,  o  altro). Un  siffatto  nome deriva  per  estensione (antonomàsia  e  sinèddoche)  da  ciò che il “problema della brachistocrona” o “problema di minima discesa” cioè discesa in un tempo minimo, (proposto da Giovanni Bernouilli in "Acta Eruditorum", giugno 1696: risoluto dal detto e, altrimenti, dal di lui fratello Giacomo, in Id. Id., maggio 1697), è affine ai problemi di dato perimetro e massima area, di eguale ossia pari perimetro, di “isoperimetro”, già considerati dai Greci.
Analiticamente  il  problema  generale  del  calcolo  delle  variazioni  da  luogo  alla  ricerca  di  un  algoritmo  ossia  forma algebrica  "y",  funzione  incognita  (in  partenza)  della  variabile  "x",  tale  che  renda  massimo  (o  minimo)  l'integrale definito, fra limiti assegnati, di una funzione nota "F" contenente la "y", le sue derivate, e la "x".
Un isoperimetro classico, al quale il Nostro aveva forse il pensiero, è il problema di Newton ("Principia mathematica"
eccetera, Londra 1686, libro 2, sezione 7, propos. 34, scolio): formulabile in questi termini: “Cercare la curva passante per due punti dati, rotante intorno a un asse dato, generante il solido che incontra la minima resistenza alla immersione in un liquido, nella direzione dell'asse”.
Cioè qual sagoma deve avere un proietto, per esempio un siluro, per incontrare a prora la minima resistenza da parte del mezzo liquido attraversato. (Ipotesi quadratiche  del Newton sulla resistenza  del liquido in rapporto alla velocità del proietto). E' questo il primo (1686) problema di variazioni.
I ditischi non li hai a ritenere e' siano solidi di rotazione, come accade essere al pezzo tornito di Isacco Newton; ma insomma le curvature principali, (il “garbo” delle costruzioni navali), come quelle di un po' tutti i natanti, e i volanti, tendono in essi a risolvere per evoluzione (costruzione biologica della specie) problemi di minima resistenza.
Altro problema naturale di minimo,  da  noi umani solubile per procedimento  derivatorio, (calcolo  differenziale), è il problema  di  “superficie  minima”  della  chiusura  di  fondo  nelle  cellette  a  prisma  esagonale  dell'arnia.  Vi  accenna Maurizio maeterlink nel  suo  libro "La vie  des  abeilles". La chiusura di fondo d'ogni celletta prismatico-esagonale  è costituita da tre facce rombiche inclinate rispetto all'asse della cella. L'inclinazione dei tre rombi è tale da resultarne minima  la  totale  superficie  e  però  minimo  l'impiego  di  cera,  a  parità  di  volume  racchiuso  =  capienza  della  cella.
L'operaia-ape  ha  risolto  il  problema  biologicamente  e  d'istinto,  se  pur  d'istinto  si  tratti,  o  non  invece  di  ragione.  Il fisico  ed  entomòlogo  Réaumur  (Renato  Antonio  Ferchault  de,  1683-1757)  propose  la  questione  al  matematico Koenig: il quale, col sussidio del calcolo, reper¡ che l'angolo acuto dei rombi doveva resultare di gradi 70 e minuti 34, affinché la superficie di ogni cella risultasse minima. (Gli angoli de' rombi dipendono dalla inclinazione di essi loro sull'asse). Colin Mac Laurin calcolò 70 e 32, Cramer 70 e 31. Le api avevano adottato e ritengo seguano ad usare 70 e 32,  maclaurizzando  ne'  secoli.  Il  riscontro  sulle  celle  dell'arnia,  voglio  dire  del  favo,  mediante  misura  fisica  di precisione, è dovuto a Maraldi: (Giacomo Enrico, 1665-1729, astronomo: nipote di Cassini).
I  problemi  isoperimetrici,  radunati  poi  e  sistemati  nel  calcolo  delle  variazioni,  occuparono  via  via  l'assiduita indagatrice  degli  analisti,  e  degli  eminenti  fra  essi:  da  Newton  e  dai  Bernouilli,  cioè  dall'origine  dell'analisi infinitesimale, ai d¡ nostri: Mac Laurin, Eulero, Legendre, L'H“pital, Borda, Jacobi, Gauss, Delaunay, Ostrogradski, Weierstrass, eccetera; autore principe sommo Lagrange (Giuseppe Luigi, Torino 1736 - Parigi 1813), nel 1766 e per vent'anni a Berlino, presidente di quell'Accademia dopo Eulero: da ultimo senatore napoleonico.
N. 13. “Les petites perceptions”, nella psicologia di Leibniz, ("Nou-veaux Essais sur l'Entendement Humain"), sono incrementi  infinitesimi  nella  vita  dell'essere  individuo,  causali  inavvertite  della  scelta:  come  “la  [fonction]
différencielle”  è  l'incremento  infinitesimo  della  funzione  algebrica.  Talora  questa  designazione  quantitativa  e meccanistica  (“petites  perceptions”),  e  apparentemente  banale,  sembra  alludere  ai  motivi  e  agli  impulsi  della  zona inconscia dell'io. In tale impiego noi dobbiamo accettarla come un simbolo idiomatico inadeguato (sei-settecentesco), dalla esplicita e divulgativa dialessi di un mondo razionaleggiante adibito a voler rappresentare fenomeni e fatti che soltanto  una  dialessi  futura,  se  non  un'esperienza  e  una  coscienza  future,  (Dostoiewski,  Proust,  Freud),  sarebbe  un giorno  pervenuta  a  descrivere,  a  catalogare.  E'  da  supporre  che  il  meccanismo  profondo  della  evoluzione  biologica (Goethe,  Darwin:  antesignani  ed  epigoni)  e  il  suo  segreto  gioco  si  avvalgano,  al  loro  progredire,  di  una  misteriosa dinamica dell'inconscio o almeno dell'inavvertito, (anche nella costruzione delle zone logiche superiori), prima che dei termini  ufficiali  della  conoscenza,  per  esempio  degli  enunciati  di  un'etica  di  superficie  e  comunque  esterna  alle medulle  e  alle  trippe.  Sono  i  fatti  minimi,  i  richiami  infinitesimi  della  necessità,  le  sottili  elezioni  dell'“istinto”,  le esperienze interne e talora incerte ed oscure, i battiti pazienti del coraggio senza parola, gli impulsi non confessati ad uomo, circonfluiti dalla verità buia dell'essere; non già e non sempre i fatti magni e memorandi de' magnanimi Atridi, di che Clio pascola, e ci razzola Erato. Sono quelli veduti da Dio, e da Dio solo, per cui la tremante persona respinge il suggerimento della bassezza, affronta il cammino del Golgota: anche se nessuno vede, quando nessuno vede. “Le jour de la gloire” arriva cos¡, per la carne e per l'anima, al di là e al di fuori delle trombe.
L'io  inconscio  si  sottrae  benanco,  talora,  al  canone  e  agli  schemi  educativi  o  corruttivi  del  luogo  e  del  tempo,  cioè dell'ambiente (franc. "milieu"), alle retoriche varie, per esempio scolastiche o familiari, o sociali, quando esse tendono ad  avvilupparlo  della  loro  frode  verbosa  o  a  sorreggerlo  del  loro  viatico  inutile,  per  fini  e  con  mezzi  che  non riguardano  le  urgenze  della vita.  Si  incontrano  dunque,  talora,  individui  ben  nati,  e  relativamente  ben  vissuti,  negli ambienti  pedagogicamente  pi£  tristi:  dacché  resistenze  insapute  vigono  e  valgono  in  loro  per  una  sorta  di  eredità (ignorata  dall'erede)  contro  l'istanza  sovvertitrice  degli  esempi.  Si  vedono  tal'altra  volta,  per  contro,  riuscir  a  male ragazzi  “amorosamente”  cioè  pignolosamente  educati,  quando  il  crostone  della  retorica  moralistica  di  superficie,  il caramello etico rovesciato a parole sulla loro fralezza cremosa, non è valso a ricomporre, in un'anima che va in pezzi, lo  spirito  e  le  ragioni  della  vita:  cioè  la  brama  di  conquista  biologica,  di  ascensione,  di  profittevole  scelta,  di accumulo. Dopo rotto il déclic della molla organica interna, non c'è diti di Vescovo né virt£ ed unzione di Sacramento che valga a rimontarne il tic-tac. Il gioco multiplo e avaro degli infinitesimi, delle minime elezioni accumulatrici, della dura disciplina selettrice, s'è scombinato in un blando desiderio di requie, s'è rilassato in un abbandono (alla lubido), o ne' pisoli della vanità soddisfatta, s'è sdraiato in una eutanasia: l'essere è, da dentro, un morente: per cui la tromba la può sonare a perdifiato, ma suona invano.
N. 14. “Tira-sberle” (dial. mil.): tira schiaffi.
N. 15. “A coordinate rettilinee”. Il fondo delle bacheche, o scatole a vetri, per collezioni di insetti, è pavimentato di sughero  (per  infilarvi  gli  spilli):  e  sòpravi  una  carta  millimetrata  giallo-rosa,  di  quella  usata  dagli  ingegneri  e  dai macchinisti: talché rimirando l'animalucolo ponnosi valutarne le dimensioni contro il reticolo millimetrale del fondo.
N. 16. “Mazzarli”: ammazzarli; “bombagia” = ovatta di cotone: “soja m¡” = che ne so, che so io; “soféghi” = soffochi;
“diventa  smort”  =  impallidire:  scolorare;  “doperare”  =  adoperare;  “ankamò  pusée”  =  ancor  pi£;  “bordòkk”  =
scarafaggi; “péna” = appena. Vocabolario dell'Adalgisa.
N. 17. “Tanto appetitosa non è”: (la storia dell'Ateuco).
N.  18.  Nel  mirabile  "Fiore  della  Mirabilis"  di  Riccardo  Bacchelli,  è  pure  descritta  la  ostinata  retrogressione, l'indaffarato  zampettare  dell'Ateuco:  capitolo  quarto,  pagine  209,  210,  213  dell'edizione  Garzanti  1942.  La  spoglia d'un  Ateuco,  detersa  dall'onda,  è  raccolta  dal  Brederus  sulla  spiaggia  del  Battifredo  di  Ugliancalda  (  =  Forte  dei Marmi),  non  lungi  da  Viareggio.  Alcune  osservazioni  dell'Autore  circa  la  struttura  degli  insetti  (pagina  210)  e l'infinito  rigoglio  della  vita  (pag.  213)  possono  (ovviamente)  accompagnarsi  ad  alcuna  delle  mie,  o  del  mio personaggio.
Ma il dramma è altro, e ben pi£ complesso, e Ruben Brederus è persona d'altra nascita e levatura e formazione che il Carlo.  I  fatti  e  gli  aspetti  di  natura  sono  patiti  dal  protagonista  come  occasioni  e  direi  simboli  necessari  del  suo trasgredire nel nulla. L'analisi di un cotale parallelismo, a cui si fa parallela altres¡ la concezione giansenistica della grazia  imperscrutabilmente  da  Dio  datane  o  tolta,  sfocia  a  pagine  meravigliose,  d'una  incredibile  validità.  (Mia personale esperienza).
Desidero notare che "Il Fiore della Mirabilis" è uscito a puntate in sei numeri della "Nuova Antologia" dal 1 ottobre al 16 dicembre 1942 - Anno 77. Le glorie dello scarabeo vi son celebrate col numero del 16 dicembre 1942, fascicolo 1696, pagine 98, 99, 100. Il mio Ateuco, imbalsamato nel 1934, vide la luce dell'eternità ne "Il Tesoretto", almanacco dello  "Specchio",  1941,  Mondadori,  stampato  in  sulla  fine  del  1940.  Leggivi  a  pagine  463-66.  In  quel  "Tesoretto"
pagine 449-478, buona parte del racconto dell'Adalgisa e del povero Carlo.
N. 19. “Lunghe stanghe di calcio”: in realtà di carbonato di calcio Ca CO3: stalattiti e stalagmiti.
N. 20. “Scorlite” (dial. mil.): squassate, scosse.
N. 21. “Proiezione ortogonale” (geometria proiettiva, disegno) è la trasposizione su foglio dei punti di una figura od oggetto secondo direttrici (linee di proiezione) parallele fra loro e ortogonali ossia perpendicolari al piano del foglio. Il contorno della immagine e quello di ogni sua parte resultano per ciò avere forma e dimensioni identiche alla forma e alle dimensioni dell'oggetto o della figura rappresentata, contrariamente a quanto avviene con la proiezione centrale.
(Linee di proiezione emananti da un centro a distanza finita).
N. 22. “Storsi”: sforzi: (Adalgisa Borella vedova Biandronni).
N. 23. “Stemègna” (dial. mil.): avaro, sordido. E' sostantivo, e indeclinabile.
N.  24.  “Piscinina”,  (Milano,  1870-1920),  è  piccina,  piccolina.  Bimba  o  giovinetta  (da  8  a  16  anni)  che  impara  il mestiere di sarta o modista o camiciaia o stiratrice: e reca le compere o gli indumenti stirati alle clienti, in una tipica cesta a fondo piatto rivestita talora d'incerato, o di tela. Vedi pittura milanese dell'epoca, per esempio gli Induno.
N.  25.  “Pasticche  di  altea” (  =  althaea officinalis),  bianche,  gommose,  zuccherate,  in  forma  di rombo  cioè losanga: erano  di  moda  e  direi  di  prammatica  da  masticarle  e  impastarsene  i  denti  a  teatro.  Nel  manicotto  di  pelo  (talora caudato)  delle  “signore”  incedenti  o  trasferite  in  carrozza  verso  lo  spettacolo,  c'era  sempre  un  sàcculo  (di  carta  da droghiere) con 20 a 25 pasticche romboidi di altea, bianche.
La borsetta o borsa o borsona, oggi (1943) organo del sesso per le categorie eleganti, o paraeleganti, allora non usava.
Ma nella stagione frigida il manicotto di velluto o di pelliccia teneva le veci della borsa: talché non avevi a stupire ne fuoruscissero l'una  dopo  l'altra  quelle medesime  cianfrusaglie  e moccichini  assortiti  che  oggi  sono  domiciliati  nella detta. Non però il crayon, né gli annessi tintorii, non il bocchino d'ambra, né le sigherette. “E venir dallo specchio - la donna sua, sanza il viso dipinti” te tu vedevi a quegli anni, se pur non vedevi Bellincion Bartesaghi “andar cinto di cuoio  e  d'osso”.  Un  po'  di  cipria  sul  naso  era  motivo  di  boati  di  tuono  da  parte  del  "vir"  (spagnolo  "varon")  ossia
"paterfamilias", “tutore della morale” nei confronti della incipriata femmina, moglie o figlia o domestica.
I pantaloni degli uomini non avevano la piega: apparsa verso il 1905-1908 per le cure dei vari lords Brummel di via Mansoni: ( = Manzoni Alessandro). Per referenze circa la non-piega dei pantaloni, rivolgersi al monumento eneo di Verdi (Giuseppe) a Piazzale Buonarroti (Michele Angelo). I pantaloni di bronzo del simulacro genovese d'altro e non meno venerato Giuseppe, e cioè Mazzini, al giardino Di Negro, sono essi pure destituiti di piega: e danno luogo a tutta una  ghirlanda  di  considerazioni  estetiche,  e  direi  di  sospetti  o  di  dubbi  coprostatici  per  natura  loro  ineffabili  alle persone  pulite;  se  anche  la  penna  d'un  alunno  di  Rabelais  (Francesco)  è  arrivata  a  inchiostrarne  la  evidente consistenza: (in copia minuta).
N. 26. “Metter nel sacco”. La Gilda, è noto, finisce realmente in un sacco.
N. 27. “Pelabrocchi” (gergale mil.): tosatore di cavalli: e però uomo di scarse eleganze.
N. 28. “Vitino”. Suprema ambizione  delle donne e perentorio  dettame delle mode: 1895-1905. Costringeva il sacco addominale (delle creature del bel sesso) a straziante incerchiatura da parte di formidando “busto”. Ardua manovra, talotta, l'allacciatura del detto.
N. 29. “Esposizione Permanente”, in via Principe Umberto, era ed è un edificio destinato a mostre e raduni vari.
N. 30. “Sberla” (dial. mil.): schiaffo; manrovescio.
N. 31. “Soppressava” (dial. mil.): stirava.
N. 32. “Spilloni”. In acciaio di elevate qualità meccaniche, lunghi fino a 24 e 28 centimetri, terminanti in una gemma di vetro: per amarrare il largo cappello (di feltro o di paglia) al dolce e sodo viluppo delle chiome. Queste venivano estrutte e intorcigliate in forma d'un sontuoso pasticcio: con tettuccio, o frangia, o entrambi, sulla fronte: e un grosso
“chignon” sul dietro.
N. 33. “Ottavino di palco alla Scala”, cioè un ottavo dell'abbonamento intero. L'abbonamento era divisibile fra 2, 3, 4, 8 coabbonati, che si alternavano all'utenza del palco.
N. 34. “Crott” (dial. comasco): crotto, grotta: osteria di monte o collina con  cantina in grotta,  cioè cavata nel  sasso vivo: e, per estensione, alberguccio paesano. Qui “Crotto dei Castagni” o “delle Castagne”: (omòfoni).
N.  35.  “Tramonto....  del  luglio....  del  settembre”.  Gli  studenti  del  Politecnico  erano  spesso  a  Milano  in  quei  mesi: (esami; preparazione agli).
N. 36. “Quarta o quinta fetta” a persona, s'intende: cioè 5 X il numero delle persone presenti.
N. 37. “Margniffa”: quella signora che si desidera incontrare il pi£ tardi possibile. “Tognini” (tognitt): gergale mil. per austriaci: da Togn = Antonio.
N. 38. “Con due occhi, con un paio di baffi....”
N.  39.  “Poveri  asini”  (poer  asen),  non  è  spregiativo:  bonariamente  commisera.  “La  penna  d'oro”  veniva  offerta dall'ufficiale  di  stato  civile  (sic:  per  solito  un  assessore  del  comune,  talora  il  sindaco)  agli  sposi  che  fossero  suoi conoscenti e avessero titoli a riceverla: con la quale apponevano le loro firme in sul registro.
N. 40. Il mobilio della camera da letto, ordinato e costruito a Lissone.
N.  41.  “Ziffra”:  cifra.  “Carpògn”  -  groppo  o  nodo  in  un  rammendo  male  eseguito.  “Br  satàa  s  ”  =  bruciacchiato: (dial. mil.).
N. 42. “R  ga”: rimesta: (con la penna, nel fondo del calamaio).
N. 43. “Non propormi di andare a letto” (per lo scopo ineffabile) “alle quattro pomeridiane.... con quest'afa.... Perché te tu vedresti.... ti farei correre a colpi di ciabatta giù per le scale....”: (dial. mil.). Le ciabattine (spagnolo "zapatillas") femminili, con tacchi alti e rubesti, ponno venir adibite a bisogne gastigative.
N. 44. “Cadrèga” è seggiola (dial. mil.): dal greco kathédra, per metàtesi e corruzione.
N. 45. “Marmognòn”: brontolone: (dial. mil.).
N. 46. In via Santa Marta affacciavasi, a quegli anni, il Regio Istituto Tecnico “Carlo Cattaneo”: oggi trasferito in pi£
agiata sede, a piazza della Vetra.
N.  47.  Giuseppe  Novello,  pittore:  ed  esimio  caricaturista  di  “interni”  (familiari,  borghesi).  Conosciuto  dal  N.  alla tavolata di Bagutta. Nato a Codogno. Capitano degli alpini.
N. 48.  La "breloque" (fran. sost. femm.) è ciondolo: per estensione pendaglio: e anche “tempestato di diamanti”.  In sede meneghina muta di genere: “el breloque”.
N. 49. “Di via Vetere e di quarto collegio”: la città era divisa in collegi elettorali. Nel quarto prevaleva il voto plebeo.
Via Vetere, trasversale di corso Ticinese, non è delle pi£ "chic" di Milano.
N. 50. “Ratt” è ratto: “rodà”: rosicchiare (dial. mil.): anche “mangiare a ufo; lucrare”: (gergale). “Nagòtt” (ne guttam quidem) = nulla.
N.  51.  Per  apprezzare  la  battuta,  tieni  presente:  i  soldati  che  rendono  gli  onori  funebri  al  Carlo  non  sono  quei medesimi  gregari  ch'egli  ha  avuto  a'  suoi  ordini in  Libia. A  distanza di anni,  altre leve  hanno riempito i ranghi  del
“sesantasètt fanteria”. Per questi qua il Carlo Biandronni non è che un nome, salva sempre la reverenza al defunto. Il cervello della commossa Adalgisa opera sintesi d'un tipo non infrequente nella società massinellica.
N.  52.  “Guigoni  &  Bossi”:  un  rinomato  “studio  (  =  laboratorio)  fotografico”  dell'epoca:  (1900-1915).  I  capolavori dell'arte uscivan di “studio” (sic) firmati in elegante corsivo: impresso a lettere d'oro sul margine inferiore del “passe-partout”, cioè cartone-tavola  che  reggeva e  incorniciava la fotografia, detta ritratto. La scritta metteva capo, col filo dell'"i" finale, a una svolta: e a uno svolo al di sotto e all'indietro; come appunto le firme; ed era inclinata di 20 gradi in ascesa (lo svolo di 25 in discesa) rispetto al lato del "passe-partout" o cartone. Talché sotto il “ritratto di famiglia”
dei  cugini  Borella,  (nidiata  impagabile:  e  tutti  in  pose  varie  e  sempre  aggraziate),  di  che  si  felicitava  il  salotto  dei Cavenaghi, tu non vi leggevi “Borella”, “Ecco i Borella”: checché!: te tu sillabavi stupefatto, ascendendo a 200: “Guigo-ni e Bos-si”.
N. 53. “Via delle Oche”: Via di Okk: in oggi scomparsa: vecchia contrada mil. e patetico ricordo.
N. 54. “Sidol”: nome commerciale d'uno specifico impasto per lucidare gli ottoni, il bronzo, e altri metalli.
N. 55. “Terreno da vendere”, “Area fabbricabile”: scritte ben frequenti su palizzate e steccati, nella periferia di Milano 1890-1930.  Pratacci  spelacchiati  fra  una  casa  e  l'altra:  negli  anni  del  pi£  intenso  “incremento  demografico”  (=
inurbamento): e della pi£ “vertiginosa” corsa al rialzo di aree fabbricabili. Nei “terreni da vendere”, incidenze diverse: monelli col pallone, mutande abbandonate da Didone, brani neri d'ombrelli, vagabondi (argentino: "atorrantes"; mil.
gergale: barboni) che, toltasi la giacca o una maglia, o peggio, vi passano in rassegna i pidocchi.

N. 56. Capelli “tagliati alla Umberto”, o “a spazzola”, è designazione dei parrucchieri da uomo. I bossi, “arboscelli di perpetua  verdura”,  (Rigutini  e  Fanfani)  e,  altrove,  i  lecci,  e'  vengono  tagliati  e  direi  tosati  ne'  giardini  della  Italia secondo  forme  geometriche  o  superfici  di  gradevole  ornato:  (giardino  di  Bòboli,  giardini  liguri,  toscani, padovani,romani.