Siamo qui da un’ora all’aeroporto senza colazione aspettando due amici di Antonio che arrivano adesso in ritardo da Parigi; si mangerà un pesce se si farà in tempo sul molo, in un bel posto degli anni scorsi che forse però quest’anno già non va più tanto bene; e non abbiamo ancora avuto un momento per parlare della nostra estate, che ormai è qui.
Appena arrivato a casa sua a Roma (ha questo appartamento nuovo in via Giulia foderato di finto legno «come una scatola di sigari!», e starò lì in una stanza dell’Elefante con tappezzeria tropicale tutta-uccelli), ho appena fatto in tempo a lasciar giù le mie robe. Una doccia svelta. A dormire: erano le quattro della mattina, lungo l’Aurelia m’ero fermato a far delle piogge nei pineti neri tra Viareggio e Pisa. Fratte, ginepri, mirti, giochi molto sportivi. E già quasi estivi, tutti; e così vanesii, così narcisi... «Tante coccole? molto aulenti? certe magari aulentissime?»... Macché, botte da urbi et orbi, e un gran buon odore di gocciole e sventole sulla pelle: un after-shave di caprifoglio appena fiorito, splendido.
Un’altra doccia e un coffee rapido; e subito, prima di mezzogiorno, ancora in strada per venire a prendere questi qui. In due macchine separate, poi, dato che tutt’e due le abbiamo a due posti; e siccome si va giù a Napoli direttamente senza ripassare per Roma, con le valigie pronte dietro sul rack.
Ma ho paura che anche questa estate finirà improvvisata e insensata, come già altre. Sempre all’ultimo istante saltano fuori degli imprevisti indimenticabili, suoi. L’anno scorso doveva essere tutto un bagno “moussant” fra Colonne d’Ercole e portaerei – Tangeri! abbiamo tutte le camicie giuste per Tangeri? – e siamo finiti non in una medina ma in Ellade per la Callas con un caldo, ma un caldo... E perché? Via dalla pazza massa, via da queste Olimpiadi a Roma! E dove? Ma naturalmente a Olimpia, a Olimpia deserta!... E poi ovviamente a Bisanzio, a Bisanzio!... Ma a Bisanzio naturalmente per mare: dunque salpando in un tramonto molto foscarino e vendramino dalla Giudecca, «dorato!» («e i mirti?», «divini!»), e però arrivando appena finita una rivoluzione militare, quindi non bene per la décadence e le flâneries.
Gita al vecchio Faro? Ma mi faccia il piacere! Si faranno venti, trenta gite a tutti i faretti che riescono a entrare in cinque o sei settimane sfrenate... Due anni fa, tutto un elaborato progetto di un grande ritorno stavolta facoltoso in Olanda – «Descartes in Amsterdam, baby!» – a veder per la terza o quarta volta di seguito se davvero i miracoli moderni continuano a ripetersi in quel Classico di bagni e di sogni ... «E dove sennò come i Romani alle Terme, Catullo mio?»... Ma poi se ne è andato negli Stati Uniti con una specie di borsina di studio: scomparso per mesi, fra vortici di cartoline da Cape Cod. E fin là non ci arrivo ancora, per adesso. I miei non hanno voluto, per colpa degli esami che dovevo dare. Quest’anno però senza troppe storie anche se la laurea si rimanda ancora di una sessione (ma praticamente gli esami li ho finiti tutti), la MG nuova me l’hanno presa lo stesso, celeste-pervinca come i miei begli occhi, deliziosissima. Come del resto è anche giusto: tanto, mio papà ha più di dieci milioni di franchi al Crédit Suisse, e in casa siamo pochissimi. Il boccon di pane non dovrebbe mancare mai.
Stavolta si era progettato un grand tour di Mitteleuropa; anzi – «wunderbare Wanderjahre!» – fra le capitali più tzigane, andando su da Vienna ma standoci poco e toccando Budapest, Praga, Varsavia, come viene viene secondo gli incontri e gli inconsci e lo stato delle tirannidi e i salvacondotti e il mood... prendendo magari dentro anche un po’ di infelici Breslavie e Cracovie; e Weimar, il celebrato albergo Elefant... E Dresda, la sempre rimandata, per colpa di tutta quella polizia con reticolati e torrette fra il povero Bellotto e noi... E finire a Berlino per ripassar bene le diverse forme d’Apprendistato nei vari settori, benché per le vocazioni teatrali sia una città piuttosto invernale. Anche (finché dura...) per i match dei boxeurini ur-proletari del quartiere di Moabit nel retro dei Bierbar, lì si picchiano ancora sul serio fra i nostri gin-and-tonic sui tavolini e infilandosi i nostri marchi o dollari nelle mutande come ai bei tempi di Auden-Isherwood e Brecht: solo che noi siamo più generosi!... Ma fa niente. Si correrà spogliati nei parchi con la luna d’agosto e i calzoncini infilati al collo, come fanno loro: tutta la loro villeggiatura...
E per tornare, quel solito avanti-e-indietro selvaggio sull’Autobahn, sull’occasione e sul caso, anche perché è così oppure niente che si vedono una volta Würzburg o Mannheim, o ci si trova alla biglietteria di Bayreuth con posti disponibili perché è appena morto qualche prenotato... E si scoprono nei musei vuoti gli animali di Franz Marc, e Macke, e Kirchner, e Otto Dix, di cui nessuno a scuola ci ha mai parlato, fra quei coglioni mai usciti da Utrillo e Rouault e Chagall come tops nell’arte del Novecento... E sempre più volentieri, on the road, la deviazione Varsavia-Amsterdam o viceversa passando per Copenhagen secondo gli autostoppisti e i soldi rimasti, mettendo in pratica «le droit des peuples à disposer d’eux-mêmes»... Olandesi volanti in sacco a pelo, o Figli del Reno in quella delicatissima fase della muta quando angiolini e angioloni si vanno trasformando in trichechi... O secondo il bel tempo previsto da Amburgo sull’isola di Sylt: anche perché è solo così o mai più che si vedranno i più bei dipinti di Nolde nella villa-museo bianca presso la frontiera danese, bocche di leone e anemoni rossi e gialli e viola molto tropicali in attesa di mettere la macchina sul treno-navetta verso le dune e i nudi. E poco dopo fra le eriche e il vento si sente correre la voce: «Zwei Italiener! Eleganten und interessanten!».
Ma vedo che sono complicati, questi Anni di Pellegrinaggio. I visti per spingersi con la macchinuccia oltre Potsdam già sono lunghi da fare. Si dirà post-stalinismo, o postalinismo, poi? E questo qui mi dà l’impressione che gli sia un po’ passato il désir per i programmi troppo vistati: un horror che del resto ho anch’io... Dopo, ecco che arriva la ragione vera per cui si finirà col lasciarlo perdere, il nostro giro sotto il tallone delle tirannidi, o ancora nella culla di tutte le libertà di pensierino. E si riparlerà un’altra volta di Tangeri e d’Ercole? I bermudas sono già qui pronti. Ma me la sento, me la sento... Questa storia del film...
«Ma che film è? Non avevi detto che quest’anno volevi aver finito tutto per giugno e d’altri impegni nuovi non ne prendevi più?».
«Cosa vuoi...» comincia a ribattere. «Lo si fa con degli amici simpatici, si va in giro, ci si diverte anche».
«Si va in giro dove?».
«In Italia, scusa: la nostra cara. E poi ci dànno abbastanza soldi...».
«E io?».
... E via! hop, hop! tutto un pattinare e saltare, da quando faceva l’assistente di storia diplomatica a Milano, sempre e solo in grisaille chiara e cravatte regimental, e ci si vedeva per gli scapestrati cinema di pomeriggio. Sparando in tutte le direzioni. Ma da quando fa il self-made o il free-lance, mi pare ogni volta che faccia un mestiere nuovo e abbia anche cambiato tutti i suoi amici, oltre che le tappezzerie in bagno.
Molto più sicuro di sé, era ora. Gli sembra un po’ venuta, finalmente, dopo anni, quella specie d’aggressività che voleva prendere da me; ma io non me ne accorgo, ero già così a pochi anni, beautiful and cattivo. Deciso, adesso lo parrebbe, e anche capace di affrontare sfacciato i rompi, non lasciarli parlare, mai stare a sentire, e mandare a quel paese. Vengono fuori sia il sorriso e sia le palle, due cose che prima di me non si vedevano.
A Roma ha quasi imparato a dir bene i loro «vaffa» locali, come prima formula spontanea appena i rompi incominciano a rompere. E se insistono (come fanno) col «ci teniamo tanto, ci tiene il dottore, ci tiene la sora, ecc.», allora un bel «cacciàtevelo in quel posto!», come seconda battuta mai finora usata al Nord, ma qui preziosa perché così un dialogo fra rozzi difficilmente va avanti. Di soldi, par chiaro che ne stanno arrivando abbastanza; se li spende anche addosso tutti. Ma cambiato in meglio, non direi tanto. Via del tutto quel sentimentàl smorfioso del tea for two e del cheek to cheek, e come vantaggio non sarà mai grande abbastanza. Però, altre smancerie nuove: non era snob, vuoi vedere che adesso me lo diventa, non comincerà a fare del birignao sulle differenze di cilindrata o di palagio?
Magari anch’io, al contrario, visti gl’infarti che mi fan venire la tuta dell’elettrauto o la branda sul camion, con la mia pressione alta.
Ma lui esagera, cosa diventerà a trent’anni?
Troppo social, troppo local, troppo alla romana. Tutta un’attenzione per l’abito romano giusto, il pranzetto romano giusto, le camicie strette e le calze che vanno bene solo a Roma, quei loro tagli di capelli da abbacchiotti. Ristoranti e sarti sempre più cari, come se avesse un senso, questo ridicolo. I cuscini, gli accendini, le luci calde e le luci fredde, e giù vétiver. Se va avanti così, e la finezza prevale, mi diventa Monsieur de Fontenelle, è un’età difficile. Se si assesta qui, è finita. Si rifiuta d’ammetterlo, s’arrabbia a dirglielo. Ma forse capisce. «È un momento di transizione e di transazione». Ride, si vergogna. «Aspetta ancora un po’, se hai presente donde si uscì... da’ tempo» mi fa.
La giornata è splendida, con un gran bel sole che abbronza già come in luglio. Tanti bei jets meravigliosi e magari vuoti, sulle piste e per aria: che voglia di andare finalmente a San Francisco, invece che a Capri. «La ninfa degli aliscafi, la Nike degli elicotteri, la Niobe del check-in» borbotta, come per annotare delle canzonette. «Antonio, guarda» gli faccio, invece, per tenerlo un po’ su. Lui lo sa che è sempre stata una mia fissazione fin da piccolo, quella del giovane papà americano possibilmente hillbilly d’una ventina d’anni, in divisa e in Germania, coi capelli corti e la pelle che sa di Old Spice. Quell’odore e sapore proprio della pelle che hanno solo gli americani e gli altri assolutamente mai, neanche cantando sotto la pioggia in cento pineti: ci vuole una vita di docce e deodorant sticks! Però questo che gli faccio vedere nell’atrio bollente è proprio favoloso: parte per Francoforte e non per niente ne ha intorno tre che non si muovono, di quelle americane vecchie magre orrendissime col cappellino a petali e gli occhiali a catenella. Hanno appena combinato un gran casino al Santo Spirito perché il cassiere del cambio non voleva prendere le monetine da cinque e dieci lire; e gli fanno un’infinità di domande sceme su dove va e dov’è già stato, curiose, invadenti, con la loro vociaccia nel naso, sempre lì agitate all’idea che all’estero senza controlli questi facciano giustamente gli sciocchini.
E lui, lì a rispondere a testa bassa, imbarazzato come uno scolaro dell’asilo, non come i nostri che avrebbero già tirato qualche madonna. Anche un po’ di paura (ma perché non gli dice «andate un po’ dal mio amico negro»?), con questo gran faccione aperto un po’ imbronciato e anni Trenta, e tanta distanza fra il labbro superiore e il naso, come devono essere per andar bene, the best: questi giovani papà un po’ scemi che si vergognano quando sono così belli, specialmente dietro, e non sanno mai come camminare perché si noti il meno possibile, devono (credo) aver paura che i compagni li prendano in giro per il bel didietro. Poca voce, pochissima, un filo, col raspino. E il nasino da cane tagliato in su, dritto, che è sempre un buon segno per tutto il resto. Due bambinoni per mano già grandi che avranno uno quattro e uno tre anni, ma bellissimi, robusti, molto prepotenti. Quello più piccolo, lui lo tiene con le briglie. E il bambino tira più che può, scalciando in tutte le direzioni, col suo nasino già tagliato molto in su anche lui, ma con un taglio addirittura da cartoon.
«Con questo si potrebbero fare dei giochi abbastanza exécrables» gli dico per consolarlo. «Mortificarlo nella stanza dell’elefante, con dei toys gonfiabili su un plaid di cuoio lasciandogli su gli stivaletti e il berretto, e i due bambini che saltano intorno e gridano perché vogliono ice-cream e patatine subito e tirano dei gran cuscini di Fortuny in testa al papà legato mentre lui soffre eccessivamente sotto la percossa e non vuole urlare davanti a noi e morsica tutte le mani dove arriva e bisogna mettergli in bocca qualcosa di gomma».
Lui ride parecchio, certo. Ritorna per un attimo uguale al vecchio Antonio che si sentiva vittima dello Zeitgeist e del Genius Loci, e voleva finir nel fiore e diventar santo nel bosco più nero dell’Aia, appeso a un albero gotico da una banda di rockers, e naturalmente deposto nella sauna sotto il juke-box che suonava sempre “I’m not a juvenile delinquent” fra i guardiani addormentati, lasciando a una qualche fondazione Cini o Feltrinelli la sua raccolta completa di dischi per l’estate a 45 giri che acquisterà prima o poi un gran valore. «Pala d’altare nel bosco di notte: bosco buio, pagano e fallico, un Altdorfer gonfio di linfe e pieno d’uccelli, un Pontormo di jeans di velluto a zampa d’elefante per mettere in valore tutto quello che abbiamo davanti e dietro, color ciliegia, pesca, albicocca, diverse prugne e mele acerbe e mature, e altri frutti che non sempre si frequentano, e quindi accrescono le chances del gusto picaresco anche al tatto...».
«E io?».
«Schifanoia o benzinaio: jeans bianchi stracciati sulle ginocchia, e via. Si è sempre a posto».
«E l’amato cenere? Muto?».
«Per la fatal pietra, segnare i suburbani avelli con una crocetta. Chi conta più urne, potrà scegliere un cippo fra il Cimitero Inglese di Roma e l’Englischer Garten di Monaco».
Gli arriverei con tutto il mio peso addosso, quasi, che è tanto. Non sa fare l’arcigno! Ma da un po’ di tempo ci si vede così poco, non si parla più apertamente di quasi niente... A Roma ingrassano. Tutti col faccione tondo e il colletto alto, dopo un po’. Badano alle lozioni e alle magliette. Si lasciano crescere questi capelli... Dopo un’ora di scirocco, riecco l’abbacchio. Con quelle scarpine, quei golfini tutti perfettini... E questo film... Mi sa che nasce già male.
VIA APPIA
Per ora, intanto, non pare che abbiano poi molto oltre a questo titolo depositato e registrato, L’Italia si chiama Amore: non si può più cambiare, se lo devono tenere, vi dovrete divertire. E la storia, bisogna che sia assolutamente estiva, molto sentimentale, una grande vacanza dolce-amara con tanti Vesuvi e tante gondole, e colori-colori-colori. Naturalmente, siccome dovrebbe andare in tutto il mondo con aspettative di incassi, occorrono i personaggi internazionali, almeno una canzone di successo, la scena-madre in trattoria, la simpatica cialtroneria italiana, e tutto. Magari anche il giochino di società da lanciare: se non addirittura il ballo dell’estate prossima. Perciò si sta qui ad aspettar quei due, in tourist class.
Jean-Claude, Antonio lo conosce da Parigi, quando studiava scienze politiche in rue St-Guillaume, e abitava in un alberghino sopra i giardini del Luxembourg, proprio nella stessa rue de Fleurus di Gertrude Stein, e mi ricordo come deperiva e soffriva tra la gente e le facce di St-Germain-des-Prés, con quei dentacci, quei mantellucci. E non sexy.
Questo Jean-Claude, lo stesso. Bastava – è sempre bastato – sentir le parole «Sartre» o «esistenzialismo» o «engagement» o «moda culturale» o «ruolo dell’intellettuale» o «militante»... per deprimerlo e affliggerlo: me lo spiega subito, come prima cosa, perché è lui che mi dànno da portare in macchina, senza praticamente mangiare, mentre Antonio va avanti con l’altro che pare meglio, tedesco, ma vissuto molto negli Stati Uniti per questi ultimi anni, quasi dieci – Let’s be buddies, I’m an Indian too!... E mi domando in che modo possano essere stati amici per tanto tempo, lui e questo Jean-Claude, e parlando di cosa, poi, su chissà quali tavolini stretti di bistrots fra musini e salsine “minables”, quando tutto pare dividerli, dalle idee politiche al modo di pigliare la vita al sex. Sarà stato abbastanza, portarlo per la prima volta al museo dimenticato di Gustave Moreau, o fargli vedere degli Odilon Redon quando la pittura simbolista era fuori moda, e Antonio ripeteva che non gli era ancora scattato il senso della vista, ed era vero?
Adesso, invece, qui a Roma, sembrano capaci tutti. Dall’altro autunno, tutto un movimento di Erodiadi e di Eliogabali, nelle loro casine. Cassetti anche di cucina pieni di crisopazi, chimoni, chimere. Comprano magari per pochissimo Sansebastiani e Sardanapali con Melisende e con Dalile, prima ancora dei tappetini da bagno e della napoletana per il caffè. Via tutti i Piranesi: sono da dentista. Via le bottiglie quadrate che «fanno Morandi»: durate poco, bianchicce, out. E dentro i romanzi neri con le rose mistiche e i garofani verdi, nei vasetti Gallé senza mercé. A Porta Portese fanno incetta di Salomè e Meduse e Sfingi, «mille lire l’una! duemila per tre!», strappandosi le Psichi e le Iridi, nugoli di tremendine industriose che si alzano prestissimo (non come noi!), già cariche prima delle undici di annegate e di ignote frementi e dolenti nelle Bretagne defunte e nelle Venezie sprofondanti, fra Botticelli e Carpaccio e Bisanzio e Tahiti e Re Artù e la Regina Taitù... La “sora” che viene a far pulizia una volta alla settimana, subito ribattezzata Hortensia o Praline... E pensare che fino a poco fa andando al mare la domenica si vedevano alle fermate dell’autobus queste nidiate di inferior decorators con le braccia cariche d’angiolotti dorati e bottiglie a testa di Garibaldi e opaline celesti della nonna, dicendo ovvìa...
Qui basta una colazione all’anno alla Trattoria Romana, per noi di fuori, e ci si mette al corrente di tutto, in un momento: arpe, Atlantide, Aulide, Aubrey Beardsley, anthurium... Ma anche questo, appena sceso dall’aereo, nemmeno bagnato il becco, neanche andato al cesso, e subito via con la Cosa Celtica evanescente e languente nei boschetti d’amor birichino ove danza il satiro meridiano: a me! E passando per Pomezia, poi!... Hop, hop, col suo mattutino benedettino dopo la mezzanotte satanica («ma non la gradirebbe mitraica, dottore?»), e tutte le emaciate ispirate con gli agapanti e gli acanti in processione crepuscolare dietro le beghine birbone sui canali viola delle città d’acque morte piene d’Ofelie e d’Isotte “en folie”, e le gondole fantasma delle Rosaure dei cioccolatini e degli amaretti sempre dietro alle Ondine e Titanie col loro Pierrot!
Però qui, sul rettilineo pontino, l’elefante si ribella: il povero clown triste, no! Il povero clown triste, non si può! Deve uscir solo sui piattini e i cuscini, e abat-jour, con lo spazzacamino dal cuore che sanguina mentre la mia cugina Pina impazza! Nella sua villona sopra Ascona tutta voluttà e crudeltà, molto lusso, calma niente, caveaux di Ciba-Geigy e Brown-Boveri, e sul Monte Verità sarabande, baiadere, messe nere in nomine Parsifal, con Santa Cecilia e Suor Messalina alle tastiere dell’hashish gregoriano... nel più profondo Canton Ticino... Magica Bellinzona!
Un po’ di paura, gliel’avrò messa, anche facendo finta di guidare all’italiana malissimo? Bene: alta scuola, la belva è qui per questo! Ma oltre tutto ne ho visti pochi, anche in collegio, quando la sera si fanno tutti gli scherzi, di lui a cui piacciono tanto le lei (non parla d’altro, e sgranando gli occhioni da faraona), che abbiano un’allure da damina del Settecento come questo noiosino di biscuit. Come certi Don Giovanni spiriti-non-forti che razzolando tra profumi e balocchi si arrendono al merletto e diventano quei cicisbei dei quali i mariti (chissà perché?) non erano mai gelosi, però mai che un libro di scuola ce l’abbia contata veramente giusta, e men che meno l’abate Parini... Anche tenendo conto del fatto che questo è francese, poveretto: colto, la sintassi a posto, il torace e le spalle e i capelli e la pelle un po’ meno, le scarpe e i denti lasciamo perdere... A modo suo anche intelligente, va bene, va bene: M. de Fontenelle, M. de Montgolfier.
Qualche anno fa, quando l’ha conosciuto Antonio e intrattenevano da Lipp le milanesi in visita, faceva il redattore di “Arts-Spectacles”, e poi di un paio di quotidiani che partivano con tanti soldi e un cocktail ma duravano poco. Adesso però gli ho parlato, e mi par di vedermele qui davanti le cosine “insolenti” che avrà scritto: leggerine, proustine, un gran garbo, e un po’ stolte. I “propos” che leggono le mie zie sulla “Gazette de Lausanne” per avere un’idea dell’“air de Paris” senza dover ricorrere alla loro amica Maria che va là dalla figlia sposata e torna con le novità... Piangiamo un pochino?... Intanto – scommetterei – qualche figlia brutta di duchessa un po’ povera da tirare in giro fra la petite noblesse. Anche una qualche vecchia importante e sola da stare a sentir gridare «cet imbécile!» e «détestable!» e «quelle horreur!» tutti i pomeriggi in casa e per i negozi, finché una volta al mese, il premio! Colazione da Maxim’s, nella sala giusta!, con ambasciatori e accademici, novant’anni per gamba, hanno conosciuto Puvis de Chavannes, Mounet-Sully, Pétain da piccolo, che disse «un mot remarquable!» a Paul Valéry.
Soldi certamente pochi, sua madre chissà che fatica, il capitaletto non si tocca e neanche la minuscola rendita! E lo ripeteva anche troppo che voleva fare un romanzo «bello e tradizionale», lo diceva a tutti, perfino a Venezia con trentacinque all’ombra: è stato descritto, in un frou-frou di piccioni, sbattendo le ciglia e dimenticando la bocca aperta coi denti storti (mai messo il costoso apparecchietto) e il cucchiaino del gelato per aria al Florian.
L’ha poi scritto e anche pubblicato, par proprio di capire. Ma io non chiedo: non dev’essere andato mica tanto bene, forse avrà rivisitato la Princesse de Clèves anche lui come tutti, d’estate a St-Tropez. Non ne parla volentieri. Il giornalismo insolente l’ha piantato lì quasi subito, dice: perché non gli piaceva più. Probabilmente, perché non riesce a dar delle unghiate nella realtà, e neanche dei graffi: si vede subito.
Non fa presa, non è capace di mordere. E poi è anche ignorante, non legge mai i giornali. Mai conosciuto uno che viva murato più di questo nella colombaia sospesa del castello in aria senza aprir gli occhi per vedere come girano le cose nelle sue diverse lande romanzesche, tipo il Garda e il Chianti, terre di enigmi e di chimere e non già di proprietà agricole in conflitto con giunte di sinistra che negano il permesso per la piscinetta dietro la cipressaia, dove si farà invece la fabbrichetta di laterizi con la sua polvere... Davvero, nemmeno Antonio proprio agli inizi, rapito da tutti i salmoni e le anguille affumicate del Nord (questi italiani sempre in ritardo di una mayonnaise o di un kren). Bloccato dalla trasognatezza. Tutto rinchiuso nei suoi corridoi segreti. Immobilizzato dentro un’irrealtà coi soffitti bassi. E pieno di difese; con tante inibizioni e altrettante aspirazioni, ma sempre piccoline, noccioline, peanuts, in direzioni disparate... gli archivi delle ville lucchesi, le fontane con bocche grottesche, le sete di San Leucio, magari l’antiquariato degli ex-voto... E neanche un fondamento stabile, neanche un gesto di slancio, appena si sale un po’. I Fasti Farnesiani? Sì, sì, però... per Stendhal, in fondo, Parma è «d’ailleurs ville assez plate». E provando a buttargli là Elisabetta Farnese?... «Ma questo è l’ovvio!».
Invece di darsi da fare, intanto, appena ha un po’ di soldi smette di lavorare. È il suo “sistema”, lo racconta lui. E si prende certe vacanze lunghissime, finché ce la fa. Va in qualche bel posto che gli piace. Ma sempre solo, evidentemente. E lì scrive... compone... Sempre in casa di qualcuno, o in un suo alberghino, che sa lui solo... Rilegge i classici... i romantici... O cosa mai farà... Sogna... Dorme... Trasale... Ricorda l’infanzia, l’adolescenza... certe strade di Parigi, certi appartamenti di cugini, certe colazioncine al bistrot, piccoli teatrini, piccoli alberghetti di stazione pieni di mistero, la magìa di certi negozietti d’ortopedico, librerie antiquarie con insegne bizzarrissime... Scampagnate lungo i boulevards meno noti, anche d’estate... Certi sguardi sotto una luce, e certi riflessi di capelli sotto una luce un po’ diversa, magari ancora a scuola... Mappe e diagrammi onirici tracciati sul retro del conto della brasserie, à la terrasse... dove tra gallerie abbandonate e labirinti di navi di pietra involontariamente viene sempre fuori, dopo una mattinata di combinazioni e coincidenze al Parc Monceau, la Città Proibita, o il Palazzo d’Estate... o il Messico...
E magari anche mesi e mesi in posti fuori stagione, posti dove non c’è ragione di fermarsi più di due giorni, anche posti italiani: Vérone, Crémone, Mantoue, Padoue, Lucques... nomi come talismani assaporati come caramelline da succhiare in una cappella, su un sarcofago, nella morte saison mediterranea, fra una passeggiatina attonita e un incontro estatico... la Diana di Fontanellato, la badessa Piacenza... Quando si era piccoli, ci davano da leggere Charles Morgan, Ritratto in uno specchio, Nel bosco d’amore: buongiorno Ilaria, come sta Guidarello?... Ah, la rue Mouffetard rammemorata in novembre a Ravenna... e viceversa... E un’intermittenza o anzi un tuffo di Buttes-Chaumont a San Vigilio, al Tempio Malatestiano, al Caffè Pedrocchi... con una pizzetta al posto della madeleine...
Non si riescono mai a capire, questi innamorati ostinati dell’Italia: con dei sensi probabilmente diversi dai nostri... Questo viene davvero continuamente, appena può, magari facendo dei viaggi tremendi in treno, e dorme in chissà quali pensioni fffetide. Negli ultimi tempi, evidentemente, non ha fatto altro e non ha avuto altro in mente: comprando anche vecchi libri di storia che poi non riesce a leggere perché non capisce la lingua. E della Francia è stufo, è deluso, non ne può più della vita a Parigi. Ma di questo non gli si può parlare. Se no, soffre. Comunque sta dipingendo, piuttosto.
Quadri vagamente surrealisti, adesso? Parrebbe di capire, così, chiacchierando, un po’ belgi: i mobili Secondo Impero passeggiano mascherati da cuochi sotto un lampione che fa buio e non chiaro, le sculture cicladiche mostrano la cistifellea alla stazione di Ostenda, le pendole da camino si fanno dispetti con spine e con zampe, in un crepuscolo tutto pulviscolo, su un tavolo da ping-pong grande come un campo da tennis, con una rete d’occhi pieghevoli «come nei presse-papiers a mille fleurs»... O-my-God, nooo, vuol farmi vedere le giraffe molli che attraversano le pietre dure, ha dietro le foto nella valigetta, in ordine, fra i pigiami, questo porta ancora i pigiami, ragazze, e se non la smette gli chiedo se è lui che ha ballato con Antonio una famosa valse chaloupée finita male ai bei tempi della Montagne Sainte-Geneviève, prima della nostra epoca...
Una valigetta di Mito Magìa & Mistero, appunto. Come se i nostri Paesi Bassi non li avessimo battuti per anni in tutte le piegoline, anche librerie antiquarie e rigattieri di ballerine in marmo e bronzo Art Déco, e cineseria da strapazzo per cucina, fino in fondo al budello della Cave du Roy sempre vuota dove il barista anacronista (identico a Fred Astaire) ripete «ils sont partis, mais ils vont revenir», e quando non arriva nessuno, «quelle chance pour moi»... «Un giovane elegante allievo dell’Académie de Droit International usciva in grisaille dall’Hôtel des Indes con una lettera di presentazione affidatagli dal tenebroso segretario ungherese della volubile duchessa madre Lo Presti-Wessex, collezionista di dubbie Artemisie e di Maddalene eccentriche, e recentemente scomparsa dalla sua piscina rotonda con sala da musica barocchetta a Bocchignano Romano, per un curator del Mauritshuis alla discreta caccia d’una copia scomparsa del “Yellow Book” con gli sconosciuti “disegni innominabili” di “A.B.” sui margini...». Oppure: «Intraprese lunghi viaggi anche oltremare a proprie spese per vedere o intravvedere le assenze, le non-presenze, le cancellazioni, i nullismi, al di là delle falsificazioni dell’inconscio, del camp, e del cheap...».
Comunque le duchesse e le viscontesse apparentemente fanno degli acquisti, e qualche bijoutier anche, alle sue mostrine recenti di sfingi e di gatti: il gatto Edipo, il gatto Pelléas, la gatta Giselle, la sfinge Tatjana, la Semiramide d’Angora, la micia Jackie, la soriana Medea...
Ah, ma poi vive per lo più anche tra uno château délabré e una gentilhommière appartenuta almeno a un nipote della Duchesse d’Abrantès o del Prince de Ligne, tra le reminiscenze di una festina d’infanzia forse soltanto fantasticata. Rimembranze di maschere fffavolose, di bambine-vecchiette un po’ fuligginose, nanetti nascosti in armadi polverosi... di sbrendoli spennacchiati... E tra una malattia e un disturbo spirituale prima o poi un prete col quale si poteva parlare di tutto perché era ebreo, libanese, e magari anche un po’ culo... Ma il mio mistero è chiuso in me, et que sera sera... anche in un mulino rimodernato e riscaldato... nei pressi natürlich di Montfort-l’Amaury...
... Con quell’aria incantata, conoscendo e nominando tantissima gente: come se questa che doveva sposare quello fosse familiare a chiunque... Tutte quelle cose detestabili da Tout Paris, la parlerie, i superlativi, i punti esclamativi, tutto ravissant, tutto délirant, anche formidable e admirable, e prodigieux, e furieux, e inouï, e su-per-be! e tutto sempre sullo stesso piano... Ogni settimana, perdere la testa tutti insieme per una novità che è una sciocchezza ma non si può rimandare e non si parla d’altro e non si può applaudire altro... Tutti lì: ravissant, admirable, su-per-be!... La settimana dopo, nuovi entusiasmi, tutti insieme, altra moda, di corsa!... Però delle vacanze lunghissime, poi, sempre. «Sono partito in vacanza, torno ora da una vacanza...». Passa dei mesi sulla Costa Azzurra o la Costa Brava, in ogni stagione, per stagioni intere, in casette d’amici, in casette di pescatori, in casine di giardinieri, in un piccoliiissimo faro senza gite...
GAETA
Ci fermiamo a Gaeta, perché s’era deciso almeno di bere dopo la metà strada. Non c’è più nessuna fretta d’arrivare in tempo per l’aliscafo verso le quattro, già dato per perso, quindi niente correre; e tanto vino bianco, invece. Klaus all’aeroporto ha trovato un messaggio con un bell’invito di un suo amico, e stasera dormiamo a Napoli. Domani anche se è domenica non si troverà poi tanta gente sull’isola, è ancora presto nella stagione. E in mattinata si fa in tempo a fare una corsa al museo delle porcellane: loro ci tengono tutti, molto, moltissimo. Anche tu ci tieni, Topolino? Uh, wow, quanto ci teniamo anche noi.
Il vino che vorrebbero darci è Falerno, sul fiasco c’è scritto «post fata resurgo», siamo appena passati attraverso il «complesso alberghiero Averno», con pizzeria western e condominii Bauhaus a sei piani, e il ristorante moresco ha una vetrinetta di bottiglie in forma di diavolo, con la testa come tappo, coi suoi cornini. Subito Antonio prima ancora di versar da bere incomincia a spiegare ai due come la vede, la chiave stilistica di questa Italia si chiama Amore, e come dovrebbe funzionare il romance.
Ma dove siamo? L’aria fuori è grigia, col cielo coperto; qui dentro sui muri ci sono solo affreschi di allegri montanari, hanno delle stelle alpine in un vasetto davanti all’acquario delle murene. È Gaeta o è Tirolo? Quando suona l’ora, la pendola del ristorante è a cucù, e i campanili fuori sembrano tutti a carillon tipo Olanda o Westminster, malgrado gli altoparlanti. Qui, casa zombies, mister?
Metto su il mio cashmere, par d’essere a millecinquecento metri. Esco un attimo, e lì davanti ecco un vero Satyricon di erettei e propilei frananti con cupole sfondate sopra odeon e trianon bombardati e grotte rosa-shocking per i marinai americani di notte, in un groviglio di terrazze borboniche e rampe di tufo cariche d’oleandri rossi e speriamo di peccato pagano in corpo puritano; anche viceversa. E là sopra, la rocca: adesso né priapeo né mitreo ma carcere militare cattivissimo, adorno di millecento e seicento con l’immagine di Padre Pio sul vetro – certe anche con lampadina votiva sul cruscotto – e quindi per forza devo commuovermi a immaginare quanti ce ne saranno là dentro, di marinai malati d’amòr. O di bersaglieri che troppe marchette han tracannato. Vado fuori all’aperto! Basta del resto pronunciare questo infernale nome di Gaeta, o sventurati, per spaventarli a morte quelle poche volte che vorrebbero provare a far qualche brutto scherzo...
Mai più saputo se è vero, poi, o se deliziosa fiaba, quando un paio d’anni fa proprio a Roma d’estate hanno arrestato un grosso giro di marinai pugliesi eccellenti e succulenti che si potevano lasciare in casa e non portavano via niente, neanche i dischi e l’occasionale orologio in bagno. Anzi portavano lì sempre amici nuovi a far la doccia col badedas e (l’Italia!) il cha-cha-cha con l’accappatoio e la sigaretta, e (cara Patria!) le polaroid su ogni minima terrazza col bottiglione di J&B fra le petunie e le ortensie. Poi s’è saputo che erano anche belli e cattivi, sfruttavano le puttane dei lungoteveri e le picchiavano davanti al Museo dell’Arma del Genio; e così è venuta fuori anche sui giornali vergognosi tutta questa storia italiana – sarà vera o sarà mito antropologico – però sostengono che davvero un giorno i superstiti non arrestati stanno facendo colazione in refettorio al canto di un disco di Mina. Saranno un millecinquecento.
Verso la frutta l’altoparlante dice: «Silenzio! L’ammiraglio ha da fare una comunicazione!». E subito dopo questo ammiraglio: «Siete delle brutte checche dalla prima all’ultima, né più né meno di quelli che vi dànno i soldi! E non crediate di non esserlo perché vi fate pagare! Buongiorno!».
Comunque è una vecchia solfa che tradotta in inglese il suo successo ce l’ha ogni volta, quando la si racconta a Londra. Naturalmente insieme a quella dei due marinai di Milano che si chiudono a far des choses nella stanza del Segreto Militare, dove si nasconde il Codice insieme alla sua amica, la Cifra. E arriva improvvidamente un sergente siciliano, dunque il più tradizionale Colti in Fallo! «E desso?». «Desso per un po’ ha guardato, indi – Salvatore di nome e di fatto – s’è fatto une chose anch’esso!». C’è un illustre vegliardo della Generazione del Trenta che se la fa ripetere da Antonio tutte le volte che lo si incontra al Covent Garden, una volta anche alle spalle di Luise Rainer in un entr’acte della Luisa Miller. E c’è poi anche un seguito con risvolto: il marinaio autista della mandata dopo, calabrese di successo, che ben altro al di là dei totem e tabù di routine pretende di farsi fare dai signorini, aggrappato agli alberi sopra Villa Madama, fra l’ammirazione dei compagni in libera uscita per i pantaloni regalati alla moda, commentati in piazza Mazzini e approvati nei diversi dialetti; e poi tutti invitati felici a mangiare la pizza in piazza Bainsizza. È questo che dà il telefono e dice «chiamatemi nelle ore d’ufficio, se risponde l’ammiraglio dite di passarvi Paolo, che son io». Chissà se c’è ancora, o se sarà qui.
Tornando dentro, piuttosto, gli chiedo se almeno ricorda o no che questa rocca di Gaeta è la medesima difesa contro cet affreux Garibaldi dalla Regina di Napoli, Marie-Sophie-Amélie duchesse en Bavière, della Branche ducale, ci-devant palatine de Deux-Ponts-Birkenfeld, sorella di Sissi e cugina di Ludwig. Infatti quando poi nella Prisonnière di Proust lei torna a prendere il ventaglio in casa Verdurin dopo quell’indimenticabile serata incresciosa, protegge il povero Charlus sbertulato dicendogli appunto che il suo braccio «autrefois à Gaète, a déjà tenu en respect la canaille», e che «il saura vous servir de rempart». E si era ben messo in chiaro: «cette femme héroïque qui, reine-soldat, avait fait elle-même le coup de feu sur les remparts de Gaète». Macché.
Lui e Jean-Claude insieme, solo a sentir nominare Proust si mettono a fare degli urli da iena. Antonio addirittura grida «anche tu! se cominci a usar Proust come i kleenex anche tu, è una situazione kafkiana!». E mi dice di andare a girare i remparts con le Vergini delle Rocce. «Ragazze in-com-pa-ra-bles! in-ou-bliabliablia-bles!»... Ma non le conosce nessuno! Ma chi le conosce? Ahò.
«Ma come! Massimilla prega. Violante si uccide coi profumi che le manda la Regina: Marie-Sophie-Amélie, lei, sempre lei! E Anatolia è quella che ci fa viiivere, è la nostra aaanima, è per noi tuuutto! Abitano un romanzo tutt’altro che da buttar via del povero Imaginifico, tutto un notturno legittimista che ha per pivot il fantasma appunto di Maria Sofia all’assedio di Gaeta e poi in esilio, di dove manda (se lo sapesse Charlus!) queste fiale di essenze estenuanti alla Casa delle Tre Ragazze – un topos? – che annasano, annasano, uh madre mia quanto tirano... E poi stanno malissimo!... Narici in fiamme!... Inestimables... Impayables...».
«Più di The Incomparable Max?».
«Care marmotte, è proprio nelle Vergini delle Rocce che si trova anche un famoso passaggio moderno, inzomma: “Era il tempo in cui più torbida ferveva l’operosità dei distruttori e dei costruttori sul suolo di Roma. Insieme con nuvoli di polvere si propagava una specie di follia del lucro, come un turbine maligno, afferrando non soltanto gli uomini servili, i familiari della calce e del mattone, ma ben anche i più schivi eredi dei maiorascati papali, che avevano fin allora guardato con dispregio gli intrusi dalle finestre dei palazzi di travertino incrollabili sotto la crosta dei secoli”...». Bevono l’Averno e il Falerno finti: come turisti «près des remparts de Séville, chez mon ami Lillas Pastia», altro che la reine de Naples sur les remparts de Gaète. E come insiste, lui, con questo film.
«Basta, non se ne può più,» dice prima di tutto «con la solita solfa le mille volte vista della Bella Straniera... musino giovane o retour d’âge fa poi lo stesso... Ma comunque arriva sempre a Venezia o a Roma con un po’ di pregiudizi e di batticuore: occhioni e borsettine fra voli di piccioni. Poi fa delle cose di trasognatezza e trepidazione e trasalimento, riconoscendo i monumenti lì uno dopo l’altro».
«Ha su i guantini, indicandoli col ditino?».
«Lì fra il Bernini e il Borromini incontra lo charme latino-mediterraneo in una delle due varianti invariabili: il ricciolo moro proletario oppure la tempia grigia signorile...».
«Mai una via di mezzo immaginabile fra l’abbacchio al cartoccio e il renard argenté?».
«Ma già in Henry Maria James e in Edward Maria Forster, taci tu!».
Averno, Falerno...
«Sono esigenze della produzione internazionale. Che grandi ore italiane illustrate d’incanto balneare e monumentale si trascorreranno per contratto fra verdure e fontane, prima che ripassi la cara vecchia mandolinata del primo incontro, ora più struggente e con coretto mesto in distanza... ancorché avvolto nelle luci sontuose e magiche dei nostri insuperabili artigiani di Cinecittà che tutto il mondo ci invidia...».
«Barocco-scirocco?».
«Ah, e poi ci devono essere delle cose generiche di saggezza accomodante, dette da vecchia ostessa o da vecchio vetturino fra pinzimonio e chitarre...».
«E non “I saw the portiere of the palazzo in the piazzetta”, detto da qualche pittoresco inglese che sta qui da moltissimi anni, magari in una torre franante o in Maremma?».
«Finiscila, elefante, chissà che dispiacere per la tua povera zia Tennessee, che tanti sacrifizi ha sempre fatto per te, ingrata bestia! Chissà chi vi credete, per aver sentito una volta il famoso viveur chiedere “do you like finocchiona?” alla graziosa turista in Trastevere... Ci saranno piuttosto altre cose genericissime di malizia un po’ cinica e Vecchio Mondo – senza Olivetti design né Alfa Romeo né Italian Style – da parte di vecchia contessa tinta con pezze al culo e due o tre cognomi inammissibili (minimo: Bimby de Benzy? Ma sono iiio...) su sfondi padronali-etruschi un po’ ragnatelosi e croulants...».
«Amica o nemica dell’anziano napoletano che ha perso tutto quel poco e distribuisce disincantata saggezza Vecchio Continente dalla finestra di fronte?».
«Per invitarci a diventare come lui?».
«Non facciamo confusion con l’ammiccante buon senso del senile oste romano alla trattoria “Antica Europa”, coi tavolini fuori tra i parapetti e le vespe spensierate che passano!... Qui intanto si tralascia il solito segretino o misteruccio sull’eredità dei quattro comodini, con zio Italo che si comportò malissimo fra rastrellamenti e deportazioni nell’alba livida. E le rivelazioni dopo un quarto di secolo».
«Ma non siete ancora stufi di fascisti stravacconi e di nazisti con gli stivali lucidi?».
«No, no, è antifascista metterceli. Se invece sei cattolico, devi buttarci dentro la tentazione della fica. Piena di peccato, rimorso, cupoloni, e flashbacks su un’infanzia da piangere in un paese di costumi rustici».
«Però, una volta tanto, si potrebbe ribaltarlo, l’Henry M. James. Arriva un piacente straniero. Un avvenente Daisy Z. Miller jr...».
«Solo e disponibile? O già avvinghiato? Magari con una moglie pazza a Honolulu, che parla con gli ananas? E tre o quattro bambini col cancro atomico al Johns Hopkins?».
«Con gli acquarelli della pazza e i disegnini dei bambini, è più facile combinare un’esposizione, con presentazione d’André Breton. Faranno molte macchie?».
«Molto stuprata da insaziabili giapponesi sulle spiagge di Iwojima, almeno lei?».
«Ma perché dici così? Non si usa!».
«Approfittate della guerra fredda, allora! Le atrocità coreane recenti: quelle horreur! ma freschissime! Sarebbero contenti in molti. Al bestseller, cittadini! Non c’è solo l’8 settembre, pensate a Seoul: nuovi eccidi, mercati nuovi». Ma non mi dànno retta. Saggezza buttata.
«Fra il travertino e il peperino, comunque, un suo piccolo Eros rialza la testolina maligna. Il giovane Daisy Z. Miller jr (Harvard, baseball, Wall Street, Brooks Brothers) incontra la Ragazza Locale. Ed essa gli sembra la Donna Ideale. Figurarsi la Paramount! Incanto. Vesuvio. Corolle... Complessi? Solo a plettro, a Villa d’Este. E lì intanto si fanno le loro cose, fior di scopate in carrozzella e in barca del viaggiatore straniero con la bella italiana alla faccia degli italiani camerieri e barcaioli e chitarristi, a Taormina e a Cortina, al Danieli e al De la Ville... Anche magari al Colosseo in una bella notte da commedia americana, col plenilunio dorato e le ombre tutte blu».
«E lei?».
«Ah, lei sinceramente urlando, sempre cotonatissima: finalmente! era ora! tu sssììì!... tu sssììì ’na cossa grandeee!... Altro che quel disgraziato di a’ Nandooo, e quell’imbranato di a’ Mauriziooo... che ce l’hanno pure piccolooo!... È una Italian lover, lei, come se ne conoscono. Secondo voi, piacerebbe, a Parigi e a New York?».
«E Via Veneto?».
«Italiani di contorno, visti come sono. Come sono stati sempre visti dai viaggiatori. Non capiscono mai cosa fanno, però fanno sempre di tutto. Mettendo insieme qualunque cosa: Medio Evo e Medio Oriente, Stati Uniti e Unione Sovietica... Però, una buona volta, let’s face it: sia ben chiaro e dunque mettere bene in chiaro che a Roma nella café society e nel demi-monde le donne sono molto più belle e più intelligenti e spiritose e anche più alte degli uomini corrispondenti. Anche per questo si finisce per star molto di più insieme a loro, perché dopo neanche cinque minuti con questi omotti romani ripieni che dicono “come stai? che ffai? te trovo bbene! quanto te trattieni?”, la palpebra frana e la natica si rifiuta e perfino la povera vecchia sodomia se interpellata risponde no no, e tira su la trapunta...
«Inzomma, quand’hanno poi fatto le loro robine bbbeeene... verso la metà del secondo tempo, là dove quasi sempre casca il film... Può farsi strada il solito dubbio romano che queste bellone tettone per poi far le porcellerie scelgano proprio dei conigliotti o fagotti impresentabili, tenuti nascosti, e non dei bononi abbronzati da night-club col Cristo in croce d’oro che gli balla tra i peli ricci...».
«E inzomma?».
«Inzomma, questo Daisy Z. Miller jr detto anche il Daily American (in omaggio al Tema Internazionale) ritorna dalla Alcoolizzata di Boston piantando la Bellezza Locale eventualmente incinta fra le braccia dell’abbacchio o del renard, che se la sposano in una fantasmagoria di cappellini e gerani e fotografi e senso della famiglia, a Santa Francesca Romana!».
Questo film, avevo già capito che si finisce a non farlo. È come il nostro viaggio in Polonia, ovvero le Tre Sorelle finalmente on the road al Faro “Virginia”, tant’è... Addio, cari semafori nel centro di Varsavia dove se appena ti fermi con la radio che cinguetta «cica-cica-bum» ti saltano subito dentro gli avieri e i marinai in divisa nella macchina aperta, con gran baci tenaci e nessun sospetto di astanti, perché evidentemente quando un atto è tabù non esiste il fatto... Come nell’Italia fascista dove mancava il Vocabolo, e dunque il Concetto, e a maggior ragione la Cosa: racconti che m’hanno sempre fatto perfino a Varese e a Como! La nostalgia del «non conosce la douceur de vivre chi non ha conosciuto i moschettieri del Duce»: in trattoria e in carrozza e in barca anche con dieci in divisa, e la gente non vedeva o pensava al massimo che erano i dieci figli del tuo giardiniere, maschi maschissimi indaffarati a parlar di virilità l’uno sull’altro, me l’hanno assicurato tutti i superstiti. Oggi, tutti furibondi: tutti leggono questi giornalini scapestrati! maledetti! si mettono in testa idee! puoi far colazione coi tuoi fratelli sposati e vestiti da commendatori, e pensano chissà che svergognatezze! Per i pettegoli di provincia, si sa, Verba e Res fan tutt’uno con le apparenze sbagliate.
Addio insomma cari boschi appena fuori città, sulle rive mi pare della Vistola, dove giuro che è l’ultima volta in vita mia, per ora, che m’è capitato di appendere gli abiti ai rami – e loro anche – per farmi rincorrere e naturalmente rincorrerli un po’ anch’io fra i tronchi delle betulle in un pomeriggio d’agosto, come dentro un Gauguin (o un Munch?) gustoso e pastoso alla Piero di Cosimo... E anche addio mia bella addio all’indimenticabile viale in periferia che porta diritto con un nome da vodka tipo Chernichewska o Chernjakowska alla caserma della guardia presidenziale, dunque i più alti e più benmessi, e durante il rientro serale basta una bottiglia di Wyborowa a gradazione alta per scatenarne sette o otto dentro i cespugli, e se si ritorna la sera dopo se ne trovano lì il doppio perché hanno sentito i racconti dei compagni, anche atleti di propaganda per i filmini dell’esercito e quindi con privilegi d’orario e d’alloggio (ho ancora a casa le foto con delle giubbe a bottoniere da cadetti, e dediche tipo Luciana Peverelli affettuosissime), e anche i più imponenti vogliono la vodka e il cespuglio – and you... Yup!
... Farewell, a long farewell anche a quella povera Praga affamata e fuligginosa e Crudelia, con le torrette nere nere e iettatorie da toccarsi le palle, e quel famoso prosciutto che non si trova mai perché è tutto esportato nelle salumerie di Milano, dicono loro... E nel solo posto di trame e brame aperto fino a tardi, un cupo Café Globus d’artisti per lo più Pierrot tristi da tovaglietta esistenzialista e salviettina negativa, il solo piatto disponibile era un’insalataccia di patatacce, e la mancia che loro dànno al cameriere espressionista è una cucchiaiata ingozzata al volo come in un numero di cabaret da vergognarsi: me l’ha assicurato anche un direttore di circhi di Stato che sogna la mensa Rai... dove l’hanno portato un paio di volte a Roma, e da allora la racconta come un mito ai suoi acrobati innamorati che m’hanno fatto anche dei gran bei numeri, però dentro la macchina (l’avevo chiusa), perché benché luglio stava diluviando fango su tutta la magica città...
E Hallo and Goodbye naturalmente all’imbarazzante Budapest, dove all’infuori di uno sconveniente bagno turco veramente turco d’occupazione (e si chiama, giuro, György Lukács: c’è anche sulle mappe) per far des choses assai superficiali sott’acqua, fra le melme dei vecchi – Stabat nuda Aestas, e stava malissimo! – la sola cosa capitata in un weekend dei più insulsi e inerti fu però molto strana: inseguito e quasi posseduto sull’Isola Margherita da un marinaio nano, o forse un nano travestito da marinaio. E quando mi sono lamentato perché dopo tutto è un paese senza mare come la Svizzera, mi è stato subito rinfacciato «e allora, l’ammiraglio Horthy?».
Comunque, per me, il posto non importa molto: anything goes, e magari make it another old-fashioned, please, come per Ethel Merman; glielo ripeto, a questo qui. Purché ci sia da far tanto, come nei nostri Paesi Bassi, a tutte le ore: via una spiaggia una sauna un cocktail-bar e i ristoranti che vanno bene e i bar per dopo e il giro dei night-clubs e la night-sauna fino a tardi e i parchi della crudeltà per quando si avvicina la bella Aurora. E soprattutto mai neanche il rischio di un’intima seratina, ma proprio neanche una, col suo candlelight a tavola, e poi, dopo l’Irish coffee e i violiiini, che cosa mai si fa, svegli come diavolini, con tutti i locali chiusi e la Piazza della Cattedrale deserta? A room with a view – and o-o-o-only you?
O il peggio del peggio: prigionieri di una bella barca in una bella caletta dove c’è poco da scendere, perché le rive sono interamente buie; e non rimane che giocare a carte, conversando della tirchieria d’altri italiani che si alzano all’alba come grilli parlanti e zelanti per fare la gita alla grotta e alla tomba licia; ma segnano le ore di partenza e arrivo per contestare i consumi di carburante; e non hanno mai fatto in tempo a comprare il mangiare, quando incontrano un’altra barca di non parsimoniosi.
Ah, no! Keep moving, e non esageriamo a fermarci in una città, quando è chiaro che non va bene. Tanto, questi tre, il loro produttore stoltamente li paga perché vadano su e giù per il Bel Paese d’estate a scegliere un po’ di luoghi d’incanto e a mettere insieme un po’ di luoghi comuni, no? Grand Tour! Big deal! Poi, Cracovia o Chioggia, si capisce che per me va bene lo stesso, una volta che si sta insieme e c’è un minimo di action. Sempre stato. Quello che detesto è andare a farmi i miei giri senza una persona vicino per scambiar le sensazioni subito a caldo. Anche il più avvenente marinaio preferisce andare in giro col suo “buddy”, e ciascuno aspetta che l’altro abbia finito con Betty o con Ann per tornare insieme e raccontarsi com’è andata on the town! Sennò, è persino capace di non scendere a terra.
E Antonio in questo va ancora bene, sta a sentire e racconta meglio d’una volta. La vitalità e gli entusiasmi di qualche anno fa li ha ancora tutti. Se mai, più frenetico di prima, più bambino; ingordissimo. (Scatta l’infanzia mai fatta o malfatta). Anche passata la fissazione dell’I get a kick out of you. Finalmente. Non mi guarda più come se fossi the cream on his coffee, male che vada mi mette le mani addosso in pubblico quando si guida o si è a tavola, così è chiaro che è tutto un vecchio familiar joke senza elegia né allergia. Come imbarazza e irrita, invece, uno di solito abbastanza sveglio e allegro, quando improvvisamente incomincia a far l’infelice abate Parini invano addosso al povero giovin signore come un cane Snoopy: «or dove, ahi dove senza me t’aggiri, lasso! da poi che in compagnia del sole, t’involasti pur dianzi agli occhi miei?»... Ma che si vada a fare un po’ di Broadway o di Sturm und Drang, per piacere! Qui, se non si diverte né l’uno né l’altro, bisogna insistere a buttarla sul ridicolo.
Non mi viene proprio, invece – anche se mi dico «cattivo! cattivo! devi fartela venire!» – una gran voglia d’andare a Capri. Tutta questa mania di Capri fra pochi habitués che hanno sempre loro... Che palle, in quei posti lì coi drinkini e i golfini tutti in ordine, e poi dover pagare il conto delle varie megere che vengono lì a rompere perché si vada a casa loro a finir la seratina, hanno preso in affitto Villa Arpia, del barone von Bagnini – bella roba, signora! E la notte, tutta una claustrofobia da isola-carcere dove quello che c’è, c’è. Però Antonio continua a insistere perché c’è sempre questo loro amico Marcello che è tanto legato a quei luoghi e adesso anzi si sta facendo fare una casa coi venti milioni dei diritti che prende per due film insieme; e uno si sta girando proprio lì. Così tutti i venerdì sera corre giù da Roma (però a Roma loro non riescono mai a vedersi con calma, sembra) a guardare i lavori della casa e del film.
Saranno quindici anni, dice Antonio, che questo Marcello non si sente felice se non quando fa il bagno da un certo scoglio ai Faraglioni – quindi, niente passeggiate per dar giù il peso – e poi mangiando certi pesci tipici, e facendo tardi la notte al caffè Vuotto, tenendo su tutti quelli che può a chiacchierare di Luchino e Zeffiro, di Giorgio e Romolo, e di Rossella. Però sempre parlandone benissimo, mai qualche storia da ridere. Una cosa spaventosa!
Del resto, Marcello non sa neanche se sarà libero al momento bruto dello scrivere materiale, è sempre ingolfato in parecchi lavori di équipe contemporaneamente. E Klaus, che si deve occupare delle musiche, sarebbe magari pregato di dare confidenzialmente anche qualche idea in generale per l’estero... È la prima volta che lavora (si fa per dire) col cinema, anche lui. Finora si era sempre rifiutato. Fa molto il serio, molto professional. Televisione, mai. Dice che al massimo era arrivato a qualche musical di Broadway, in collaborazione; e sono poi quelli che gli hanno reso di più, in notorietà e anche in dischi.
Ma sembra che gli interessino poco e comunque non ne parla volentieri (troppi compromessi commerciali, troppe concessioni agli esperti dei gusti del pubblico, ecc.), anche se l’ultimo, quest’inverno, un melodramma di British Raj e Cenerentole nell’India dell’Ottocento, sembra che sia andato benissimo, con un premio al coreografo ex-allievo di Jerome Robbins. «Un senso perfetto del ritmo, dei tempi: ma voci così terribilmente convenzionali! Senza la mente!»... E insomma anche lui qui s’abbandona fra le trappole solite: stare con degli amici... in Italia... Roma, Napoli... magari Firenze... si chiama Amore... Lui la ama molto... Fare intanto degli altri lavori, ma come in vacanza... Comincia l’estate... tanti incontri, tanto amore... tanti moti del cuore... l’occhione bruno, con tante ciglia, che non perdona... Si aspettano tutti un po’ troppo, mi sa, da questo paese.
«E certo, che pretendono tutti un po’ troppo, con queste storie tipo Un’estate in Italia» mi fa piano Antonio, quasi arrabbiato. «E tutti poi vengono giustamente puniti; ma peggio per loro!... In principio, si capisce, sempre ottengono tutto quello che si aspettavano dall’Italia, è un paese fatto così, è una tagliola. O meglio, credono loro, di ottenere tutto, questi vaghi delle culture difficili, che ricercano come specialità del luogo tanta spontaneità, tanta sincerità, quanto istinto, ah l’eleganza dell’indolenza animale elastica... E non piuttosto la scaltrezza cogliona e la volubilità dell’incoscienza, la fintaggine, il sotterfugio magari fine a se stesso, l’imbroglio, l’opportunismo, il parassitismo alle spalle di chiunque, il trasformismo sistematico, nonché una certa ferocia pubblica e privata che nella vita italiana s’incontra sempre... Però poi se ne accorgono: alla fine viene ritolto e sperperato non solo quello che si è ricevuto, ma qualche cosa di più... Tante volte, molto di più...».
... E sarò magari fanfarone come continuano a rinfacciarmi loro, ma io a Napoli vorrei starci sempre il meno possibile, non avendo l’estetismo di merda che se ne fotte delle sofferenze dei miseri: divini occhioni, gerani, limoni, zucchini, ma troppo sgorga lo spurgo sotto il pittoresco franante (e sarà per caso colpa dell’invadente forestiero?)... E certamente, se non arriva l’ambulanza nel traffico, non va a scuola il piccino perché deve fare il ladruncolo, casca a pezzi il nosocomio baronale benché più costoso del Kantonspital di Zurigo, crepa la vecchietta dopo un sorso dal rubinetto o una cozza al liquame, e viene massacrata la famigliuola davanti al telegiornale, uffa uffa (maledetto Nord colpevole di tutto!) quanti dettagli négligeables e inutilmente polemici rispetto alla delizia degli odori e colori e sapori, dalla triglia all’aglio, alle mozzarelle e sfogliatelle che galleggiano fragranti sul mare della merda – divine! – e soprattutto quelle belle ragazze e signore così seducenti nella loro larghezza, quando urlano tutte insieme in sottana su strada o dalla finestra scolando quella loro mitica leggendaria favolosa pasta che fra i capelli sciolti e il peperoncino e il basilico evoca e convoca come minimo Virgilio e Lamartine e le sirene e le cernie e i castrati e gli angioini e gli aragonesi e Piccinni e Pulcinella e Jommelli e le porcellane della Real Fabbrica e le gouaches, accendendo più di qualunque Marilyn Monroe o Rita Hayworth i sensi e l’intelletto del turista appassionato che bramerebbe sposarle tutte, subito, e magari aver tante cognate, cugine, zie, sorelle, tutte in casa, che parlano e parlano in napoletano, scolano la pasta, ingrassare insieme, e non lasciarle mai più...
«Gli americani hanno fatto Vita con papà, non vi ricordate che successo? Perché non fate Vita con Peppino? Guadagnereste miliardi! O con un pappone?». Macché.
Mai combinato niente, e sempre litigato con tutti, dove non si fa che chiedere, avendo da offrire pochissimo. Ma fra tutti gli innamorati del Sud, quanti poi narrano una vera trama d’amore o almeno passione per una bella e interessante duchessa, baronessa, barista, donna di casa, o di strada, tabaccaia, studentessa, professoressa, impiegata del Comune di Napoli, commessa di calzoleria, protagonista dei De Filippo, vera signora, mignotta “au grand cœur”, interprete di canzonette tipiche? Eros e romance e magari adulterio o ménage à trois fra un poeta o diplomatico francese e una affascinante intellettuale o sarta partenopea, da cui poi trarre un soggetto per film? Leggiadre giovinette brune focose o languide sciamanti con edere e pampini in pose di ninfe e nereidi fra scogli e pergole e citazioni poetiche?
E quanti appassionati di Partenope vagheggiano piuttosto qualche bell’uccellone scuro e rozzo alla Caravaggio-Masaniello senza éducation sentimentale e a basso prezzo quale mai riuscirono a beccare, essendo poco piacenti e assai spilorci, nelle loro patrie francesi e tedesche dove non si fa la fame, né si tende la mano all’obolo, e dunque i più dotati connazionali volentieri mandano a quel paese?... Altro che facoltosi decadenti con gondola a Venezia o barca a Ischia per mezza pizza ai piccoli indigeni, oggidì: piuttosto, si direbbe, «Ciabattina e Berrettina – sono uscite stamattina – con la loro borsettina – per trovare Mutandina»... Ma è mai possibile arrivar sempre giù attratti proprio dalla fame sottoproletaria, dalla miseria neanche pittoresca che piace tanto perché è secolare e orrida, mentre la prosperità civile viene deplorata in quanto perversamente illuministica? dunque poco umanistica, e per niente turistica?
La depressione mediterranea... L’horror nelle strade, l’avvilimento della gente fra le rovine, la mancanza d’ogni felicità nel folklore, la compassione o l’indignazione civica ad ogni svolta: quindi gran stoltezza e only myself to blame se mi lascio trascinare un’altra volta, giacché non m’interessano quadretti e pollution, e non so cosa farmene delle drittate stradali fra una cozza e una pizza. Commedia dell’Arte, per me, no grazie (devo mettere un piccolo sticker sulla macchina?), mi fa eruttare sul golfo sfasciato: se si ricorda che era la Copacabana dei neoclassici e dei romantici... E dalla Magna Graecia in poi non sono i suoi stessi governi a ripeterle mentre si sfascia che non è ancora matura per?...
E tutti lì ad aspettare che vengano Elargite Provvidenze, per il solo fatto che loro se le stanno aspettando... Tanto vero che mentre gli altri ricostruiscono Amburgo e Monaco e Hiroshima, qui non sembra che abbiano ancora incominciato a portar via le immondizie del Dugento... D’altra parte, senza mare, senza barocco, senza aranci e limoni e miniere, e fino a poco fa così poveri che dovevano fare i mercenari all’estero, quale rendita di posizione le avrà mai elargite, agli svizzeri così derisi da tutti questi drittissimi, le industrie alimentari coi prodotti dei frutteti e del mare, e le banche, e le assicurazioni, e i ristoranti dove non dànno da mangiare la merda al turista di passaggio?
«Solita Colpa dei Borboni?»... «Ma a Parigi e Madrid non si borbonizzava in tutt’altri modi?»... «E a Parma, dove dai Borboni si passa ai Bormioli e Barilla»... «E il famoso malgoverno spagnolo, quando mai ha ridotto Milano o Cremona o Como a vecchi cessi, con le scaltrezze tra i fetori e gli scarichi?»... «E se tutte le volte che mi esaltano il babà o l’Estetica incominciassi a celebrare il Toblerone e il Rolex? E magari i quadri di Klee?».
Qui passa subito il gusto della vacanza sofferente e dolente alla Elsa Morante, torna una gran voglia di gambe lunghe fatte senza economia, gente alta che parla con calma, capelli lavati, pelle sgrassata, pustole sistemate, unghie di tanto in tanto pulite, vestiti senza troppi odori di mangiare... E occhioni chiari diversamente diviiini, piedi con scarpe e stivali su strade senza merde, birre danesi, formaggi olandesi, imprese efficienti anche a beneficio dei miseri che laggiù attendono seduti le Provvidenze, esigono le Provvidenze, protestano senza le Provvidenze...
E parlamenti seri, civiltà magari parvenues ma prive di zozzoneria, ristoranti al primo piano con tappeti spessi per terra – magari il buffet d’una stazione ottocentesca ancora con dei breakfast da grand hôtel – legno o cuoio alle pareti, il suo soffitto scuro, il suo camino acceso, magari la neve fuori, il burro lì subito freschissimo, coi toast caldi, vini franconi gelidi, lini finissimi sulla tavola oltre che in bagno e a letto, nessun pezzo che non sia d’argento vecchio, camerieri abilissimi in frac, piatti molto elaborati e competenti, brodi alcoolici con panna e curry, anatra all’arancia preparata giusta, salmone fresco e non la povera pezzogna che si dava ai gatti. Capriolo, cervo, terrine, crêpes, filetti rosa, cavialetti al tuorlo d’uovo, tante salse e chiunque le capisce, non rimangono lì sbalorditi se si chiede la béarnaise che è la più semplice e sia chiaro che non è di Berna, e poi tutti che parlano piano e non fanno gli isterici e non si sentono. Neanche le macchine sotto le finestre.
Una nostalgia pazzesca di giubbotti di cuoio e di paesaggi industriali che non siano Bagnoli, fra i boschi neri e terribili ai margini dell’Autobahn... però, privi del rapinatore per di più brutto e smunto che viene a bussare al finestrino mentre si è lì in conversazione con giù le mutande, e subito dopo arriva a battere e toccare con un gran numero d’orrende manine l’atroce sfilza dei mostruosi piccini gementi in fila per portar via il cash eventualmente sfuggito alla ruberia, mostrando al finestrino roba da toccarsi le palle per tutta la vita come le immagini delle Sante delle Lotterie, i fiori marci rubati nei cimiteri, le fotografie pietose dei parenti mai miracolati dai Santi nei lazzaretti del più profondo Ottocento... Nooo... Questo è positivismo e non idealismo, non la famosa Estetica!
... Parchi cespugliosi immensi, invece, senza rapinatori né mendicanti né infanti, nel cuore delle città notturne in quei crepuscoli lunghissimi quando alle dieci di sera c’è ancora chiaro. E si può leggere un giornale fino alla mezzanotte, almeno i titoli, anche in mezzo agli alberi, perché la nebbietta madreperla in cielo si illumina dei riflessi delle luci e del neon in città. E alle otto si è già finito di mangiare: un grosso mixed grill, non l’insalata di mare ove s’appiatta il mollusco sospetto.
Nessuno ha lagnosamente offerto un cosino penoso, una congiunta pelosa, uno sfortunato imbroglione che vorrebbe appiccicarsi fino al Brennero, con una cacata di buoni sentimenti dolosi analoghi alla buona letteratura pietosa per le gentili signore in bilico fra Poesia e non Poesia. E difficilmente i finestrini della macchina sono stati sfondati per portar via la radio o il pacchetto di sigarini Davidoff. Poi un rametto rotto di qua, degli arbusti pesantemente smossi di là, foglie secche calpestate dagli stivali coi ferri.
Grandi ombre nere, grandi entusiasti; molto abbondanti; ingordissimi, giustamente selvatici; e alla fine il suo battito secco di tacchi e catene, magari il suo inchino di testa automatico e anche démodé, però col suo pugno d’amicizia militare e via. E neanche il rimorso ideologico che si sarebbe provato a Berlino negli anni Trenta di Mr Norris, o dei bestsellers di spie. Gran senso di liberazione giovanile, per chi arriva da certi interdetti atavici in vestaglia e tabù che vorrebbero “mediare” fra il vecchio Marx e il povero Gesù per far crescere i piccoli borghesi nel bisogno, dunque conformismo e sottomissione... E però, come esplodono in escandescenze e cattiverie, i vecchi tabù del sacrificio, se per uniformarsi ai più virtuosi pregiudizi della Chiesa e del Comunismo contro i materialismi capitalistici, mai si porgono merci o cash quando “rompono” con le richieste, ma si offrono solo valori spirituali, preghiere, dibattito, dialettica, fiducia nella Storia, meditazioni sull’Aldilà...
Lo so, lo so, ormai, purtroppo, che si fa uno sbaglio ogni volta che scendiamo a sud del lago di Como... Ancora, ci sono cascato, mentre per Klaus è tutto il contrario: capace di tornare in Italia quasi ogni estate, addirittura, senza mai più rimettere piede in Germania da quando se ne è andato... per amor dell’occhio fenicio e dell’affettuosità appiccicosa, della gamba corta e storta tirrenica o ionica...
«Antonio...». Macché. «Sentite» fa. «Utilizziamo a ogni costo il gran tema del Viaggio in Italia? Riallacciamo ufficialmente i rapporti? Facciamo i conti una buona volta con questo imbarazzante paese? A un patto, si capisce: questa vacanza casual come trama narrativa portante, però in una forma che non si saprebbe davvero immaginare più dissimile dal tradizionale itinerario del Grand Tour, sempre così bene ordinato e organizzato, geograficamente e sentimentalmente. Non facciamoci passare per stupidini, non è più permesso.
«Dunque, allo schema del viaggio geografico, cioè gli Anni di Pellegrinaggio nella Culla della Classicità, sovrapponiamo subito il tema della Formazione, il calco degli Anni d’Apprendistato: cioè appunto Bildungsroman come Grand Tour... Quell’esperienza irripetibile che si può compiere una sola volta nella vita... nell’età formativa, decisiva... quella stagione in cui ti è capitato di tutto... e hai capito finalmente tante cose... E se non possono essere anni, si ridurranno a Mesi di Viaggio, a Settimane di Esperienza... sfrenate, frenetiche... come sarebbe anche giusto, col poco tempo che c’è oggi per tutto... Ah, se solo Wilhelm Meister avesse frequentato un pochino il Satyricon...».
«Ma non vi guardate un po’ intorno?». Qualcuno deve pur dirglielo. «Con tutta la dolorosità full time e la lamentosità de rigueur nel Bel Paese, i belli e sfacciati di questi tempi e in questi posti non praevalebunt».
«Ma perché solo una letteratura di disgrazie e compianti, anche quando la realtà è così liberatoria? Pochi mesi di boom, e già il rimpianto per quando mancava il boccon di pane e si stava chiusi in casa a vegliare le salme?...».
Che tasto.
«E certo, nella letteratura-come-vita si sa che chi fa una vita di duolo vuole per lo più una letteratura di duolo, così come sembra dimostrato che chi fa una vita di mmm... esige una letteratura di mmm... Si offendono, se sospettano un po’ d’ironia per tirarli un po’ su dall’orrore della loro condizione. La volgarità va bene, perché la mmm... è anche comica, quindi è consolante e fa ridere. E la sofferenza, tutto grasso che cola, come dicono le persone fini. Ma il sense of humour? Mai! La leggerezza? Guai! Il consumatore pretende il maltrattamento dei poveretti, paga per le sventure, e si arrabbia molto se qualcuno tenta di divertirsi con la letteratura: la sente come una cosa contro di lui, perché la letteratura deve suscitar dispiacere, così come la lista dei bestsellers deve indicare non i ristoranti dove si mangia bene, ma quelli che servono più pasti. Se offri un soufflé, non è di serie né di massa: dunque non va, anche perché non tien conto delle calamità e delle sciagure. La letteratura come vita di mmm... di massa prescrive e gradisce la narrativa del vi racconto tutte le mie batoste e le persecuzioni e i crucci, e siccome siete così buoni d’animo vi rievoco anche tutti i disturbi d’infanzia, e i malanni della povera zia. Così chi narra più accidenti viene premiato come fata pietosa, non come iettatore da toccarsi all’italiana laggiù...».
«Altro che Adorno, sora mia».
«Invece qui si preferirebbe parlare di letteratura come letteratura per piacere e non solo dovere; e magari di cinema come cinema per diletto, per gusto: dunque destinato solo a pochissimi d’animo cattivissimo...».
«Rileggerò qualche Evelyn Waugh al mare, se ci sarà tempo? Leggerò finalmente Henry Green, visto che li hai tutti in casa? Si dovrà arrivare fino ad Anthony Powell? Ditemi voi quando basta».
«Si leveranno i ditini di tanti piccoli Sartre, nelle gelaterie e nelle pizzerie, se badi ancora alla qualità delle opere, e magari ti diverti sulle pagine. Invece di ricercare chi racconta squallori e descrive disgrazie, da buona scimmietta della borghesia sartrina che apre cento dibattiti e non caccia neanche una lira...».
«Bisognerà promuovere attacchi impegnati a Matisse e a Ravel, gingilli inani del capitalismo colonialista forse anche ebraico: mai una natura morta sugli affamati, mai una sonata per le eroiche vittime... Almeno si riderà».
«E l’abominevole Morandi? Non una sola bottiglia di latte per i piccini delle carestie! Vergogna! E l’inqualificabile Fontana? “Lassù in Cielo” o “in fondo a sinistra”, conteranno di più tutti i suoi tagli, per il Terzo Mondo, o l’opera di una sola rammendatrice?».
«E il pericoloso Bacon? Fingendo di produrre arte degenerata, non starà portando avanti l’infame discorso nazista del nefasto Wagner?».
«E l’insidioso Walt Disney? E gli ambigui cubisti? E l’elitario Stockhausen? E l’incontrollabile Mies van der Rohe?».
«La pittura impegnata per i poveri ammalati africani non potrà che essere monocroma! Le sonate per i martiri delle repressioni, solo per flauto solo!».
«Si produce molta ideologia, a Roma?» chiede Jean-Claude.
«Molta, moltissima, e standard. Ma non è amusing perché si basa tutta su questioni di posti e sovvenzioni e stipendiucci, nelle gerarchie e negli impieghi, e anche ricattini fra uscieri, con tanti pettegolezzi di portineria. Se vedeste quegli appartamenti, quelle mogli... Ma dietro ci sono le minacce dei mostri: la Russia, il partito, la Rai... con intimidazioni da professore-carogna che ti fa le domande-trappola per bocciarti all’esame, e appena potendo ti condannerebbe a chissà che orrore... e però è alle dipendenze di capi politici e commerciali che lo sgridano perché non fa abbastanza censura a certi prodotti di qua, e abbastanza pubblicità ad altri articoli di là... Avendo un minimo potere di polizia, i più fini sfogherebbero i risentimenti cacciandoti in orridi carceri, quelle cose tremende che racconta Koestler?... Ci fosse l’appiglio d’una tua povertà, certamente ti ridurrebbero a uno straccetto del consenso, come tanti subalterni che si sentono gemere, sotto il giogo di quei capisquadra che magari tu mandi illuministicamente a quel paese... Quanta irritazione per la fine della secolare fame italiana, che assicurava i bassi servizi gratis... e dipendenti senza speranza di uscire dal loro umile stato... Come la senti, anche tra i capiscuola della sinistra!».
«Va bene, va bene, secondo voi sarà il Caso beffardo, però qui dove siamo adesso il genius loci più rappresentativo non è ancora un artista chiamato appunto V. Gemito?».
«Klaus!» sta dicendo Jean-Claude. Ha appena preso uno di questi giornali che sporcano le dita; e s’accorgono improvvisamente tutti insieme che c’è al San Carlo una matinée proprio oggi della Beatrice di Tenda con la Sutherland alle sei, e lo sono quasi. Ma tanto comincerà alle sette. Così, tutta un’agitazione di calcoli e telefonate urgenti a questo amico di Klaus, Federico; e siccome la telefonata non arriva si fa un telegramma urgente che non arriverà neanche quello, ovviamente. E poi, via di corsa: molto più smaniosi e stravolti che se si fosse trattato dell’aliscafo delle quattro.
SOGNI SENZA PERSONE
Ancora con Jean-Claude, tutto il resto della strada. Mi sembra che parli più volentieri dopo il vino bianco, questo notturnino di Debussy. Anche se ci restano pochi minuti e devo pur correre; comincia a raccontarmi un sacco di cose sue. Un altro! Ma con me è sempre stato così, veramente. A scuola, in collegio, le confidenze di tutti, intime e imbarazzanti, a prima vista, e senza che io faccia niente per scavarli. Sarà perché ho le spalle larghe? «Caro elefante, tu che le capisci queste cose...». E non ho aperto bocca, neanche per dire «ed ecco a voi, gentili ascoltatori, Alice Toklas!». E addosso. E avanti. E senza preoccuparsi perché ho una memoria da elefante, e in un domani non si sa mai... E non mi interessano neanche molto, poi: a meno, si capisce, che non abbiano delle storie proprio straordinarie di fasti che non ci sono più: i live shows di Cuba, Panama, Suez, cosa si facevano nella Legione Straniera.
Lui sostanzialmente ha un’enorme voglia d’innamorarsi, in Italia, e lo viene a raccontare proprio a me.
È lì pronto, non ne può più. A Parigi adesso dice che non ha più amici né niente. La città sì, la ama sempre ma in astratto, da lontano, come idea, come mito del Venticinque o del Trentacinque, non di più. È convinto che non abbia niente da dargli in questo momento. Se mai, soffocarlo, drogarlo, farlo soffrire per niente. Le cose che gli piacciono, le vede trascurate e buttate via, e varrà la pena di conservarle, mode abbandonate che pesano come bagagli Vuitton – dove sono più i facchini? – quando chi sa se ritorneranno mai più... Se non si ha spazio, e i musei non le vogliono, come sistemare le collezioni di memorie?...
Dice molto volentieri: harnaché, gaspillé, bariolé, étincelant, chancelant, démâté. E anche tige, gage, stèle, taupe, jouvence, falaise, pagure, colibri, réséda, forclos, hélianthe, Hyacinthe, percée, explosante fixe, verveine...
«Avrei voluto nascere a vent’anni per compiere subito il gesto surrealista fondamentale, attraversare di corsa lo specchio, risolvere il dilemma-chiave della misologia fra il non-parlare e non-tacere, che fa trentasette vittime all’ora ogni notte...». Succhia e risucchia questo suo bonbon, e canticchia: «... Ma non c’è che la noia che non conduca a Tombouctou e a Malibu!». E anche, abbastanza contento: «La noia è l’uomo! Il riso è il niente!». Ma niente è eterno come la mortalità, su, su, bisognerà dirglielo coi fiori? quando minora premunt, si dovrà parlare soprattutto delle cose che non si sanno ancora?...
Tutta, tutta intera l’aria che tira in Francia da qualche anno, insomma, lo lascia piuttosto deluso, amaro. E magari ha ragione. Non possiede una Renault, né una Peugeot, né una Citroën, né un appartamento; non dispone di una viscontessa tutta sua, neanche un po’ stracciacula. E l’etnologia avventurosa a Tahiti o Taos la fanno ormai tutti perché costituisce titolo burocratico nei concorsi per cattedre, mentre con chi mai si potrebbe tentare qualche terrorismo gratuito e très très chic nei night-clubs pieni di yé-yé e nelle gallerie d’arte Rive Gauche che tirano dietro Op Art e Vasarely...
Così, prova certe operazioni di tutto abbandono che possono riuscir rischiose proprio per una innocenza disarmata. «Longtemps, alle soglie della coscienza, le immagini del profondo magico mi correvano incontro velocissime... già formalizzate stilisticamente...
«... Concetti gotici e giudizi Art Déco si presentavano insieme, tutti molto colorati, abbaglianti... ma sfuggivano ai lati della percezione come deformandosi, senza arrestarsi né caricarsi di parole... Anzi, le parole fornite dal linguaggio dell’esperienza non riuscivano mai tempestive né simultanee... Forse erano più parlabili certi suoni, delle formazioni violente come profumi aggressivi... che svaniscono subito: come equivalenti vocali della pittura espressionista: dipinti che urlano in movimento!... Certe figure eccessivamente colorate e cangianti che mi sento sempre così sicuro di poter sintetizzare con altri mezzi al risveglio... per la prima volta!...
«... O se riuscissi a far funzionare un magnetofono vicino a me durante l’impatto furiosissimo dell’affabulazione che mi scuote... attraversando la soglia mentre sento di possederla... Non si svelerebbero forse delle presenze che mi assediano perché dia loro vita?... magari attraverso... figure?... O non mi assale un’assenza, ostinata, invadente, in uno scenario arrogante e sontuoso privo di persone?...».
Ancora ottanta chilometri?... Vuoi provare questi sigarini svizzeri leggeri, buonissimi?
«... C’è una via romana che m’insegue come l’Appia Antica nelle incisioni di Piranesi e le facciate di Petra su “Connaissance des Arts”... È sempre molto larga e familiare, fra due colline di palazzi ampi e bassi, non rinascimentali. Più antichi; e dentro, chiostri come Santa Maria della Pace o San Carlino alle Quattro Fontane, che si aprono ancora su cortili cinquecenteschi a due o tre ordini, sovrapposti (e qualche volta uno è circolare) su altri cortili abbastanza pompeiani dove si è già stati altre volte e sarebbe anche gradevole abitare... Si intuiscono appartamenti vasti, profondi, anche se un po’ oscuri... Dietro si accumulano edicole e timpani come scenari fra le quinte, facciate composite come Santa Maria in Campitelli e Sant’Andrea della Valle, con tutte le colonne ripiegate... Ma non ci sono cartelli di affittasi e non passa nessuno. Non c’è mai nessuno, solo assenze...».
«E dove sarebbe?».
«Le prime volte, doveva trovarsi sotto la Cassia, a sinistra, presso la Braccianese o la Tomba di Nerone, dove ai paesaggisti nordici dell’Ottocento appariva arrivando San Pietro in fondo alla campagna vuota... Ma come se oggi tornando in città si deviasse per attraversare una vallata improvvisamente urbana e antica. E lì, la parte sinistra era sempre più alta, e direi quasi cinquecentesca benché in penombra. Poi si è spostata, come girando dietro il Vaticano, e per ora sembra localizzata (ma devo andare a controllare al più presto, se l’ho già vista) sotto Villa Pamphilj... Forse presso via delle Fornaci, ma non la ricordo da tanto tempo: mi pare per sbaglio, una volta, ci devo esser passato perché il taxi aveva preso un’altra strada tornando dall’aeroporto. Comunque il sole batte sempre sul lato destro, ed è quasi sempre il tramonto. Segna giusto il tuo contachilometri?».
«Ma come li fai parlare poi i personaggi, scusa? Guarda che lì non ti viene nessuno!». Mettere da parte addirittura Proust, sta dicendo questo? Proprio adesso, rinunciando a tutti gli aiuti della collaborazione internazionale?... E quindi voltando le spalle, se una cosa tira l’altra, magari a Balzac che andrebbe giù per primo? E Vautrin, allora, che mi somiglia, me lo dicono tutti? E Lucien de Rubempré?... No way?
Vero è che adesso, a parte Saint-Simon, frequento solo la Principessa Palatina – Elisabeth-Charlotte von der Pfalz, duchessa d’Orléans, moglie di Monsieur e cognata di Luigi XIV – con tutte le situazioni storiche vere molto meglio di qualunque fiction, invenzione, romance da strapazzo... Il Re Sole che mentre muore la saluta bene, come quando andavano a caccia da giovani prima delle orrende cabale e dei dissapori delle peppie di Versailles, ma per niente contento dei pianti e lamenti delle varie principesse che gli rovinano il tono di questa morte a cui tiene moltissimo. E quando chiede che si comportino un po’ meglio, a lei fa: «Je ne vous dis pas cela à vous, car je sais que vous n’avez pas besoin qu’on vous le recommande, je le dis aux autres princesses»... Mi pare più interessante che ritrovare continuamente le solite piccinerie delle donnette romane d’invenzione, tipo Moravia, uguali a duecentocinquantamila altre madri e figlie sempre con gli stessi problemini di cucina o di fica all’interno 14 della scala D... Ma io non abito né alla scala A, né alla B, né alla C, né alla E, quindi gli sturbi e spurghi delle vicine non m’importano... A Roma non ci devo stare, quindi niente portiere e uscieri, preferisco andare nei bei posti.
... O quando a Versailles lei trova che sarebbe meglio mangiar pane e ciliegie in montagna alle cinque del mattino; e dopo gli incendi a Francoforte si stupisce perché non usano le pompe come in Olanda per salvar persone e cicogne. E s’impazientisce con la Berenice di Racine perché perde troppo tempo a piagnucolarsi addosso invece di sposare l’altro quando Tito se ne va... E spiega alla sorellastra Elisabeth-Amélie d’Assia-Darmstadt che è verissimo tutto quello che ha sentito sul conto di re Guglielmo III, «ma tutti gli eroi erano così: Ercole, Teseo, Alessandro, Cesare, tutti avevano i loro favoriti; lo nascondono per non ferire gli animi volgari, ma fra persone di qualità se ne discorre apertamente, è un segno di gentillesse»...
Però «grandes vapeurs», lo scrive molto poeticamente alla Maintenon, quando morto il marito apre le cassette con le lettere dei mignons e le trova «toutes parfumées des plus violentes senteurs»: tipiche cule francesi smorfiose che non cambiano mai... Ma sono le cose che leggevo già in ginnasio, non leggevo che storia, quando poi uscivo in calzoncini e bicicletta a far diventar matti i bruti e i satiri lungo la ferrovia: ingolositi dai ventitré centimetri, atterriti dai tredici anni, come si spaventavano, quando glielo facevo vedere.
... E però giù le mani dalle Illusions perdues con Vautrin che piomba di notte in campagna sui Narcisi disperati erranti e li trasforma in dandies favoriti, con un passaggio in carrozza e una scatola di grossissimi sigari da mettere in bocca sì o no, subito oppure dopo... Che precursore del nostro autostoppismo passionale!... E quegli approdi imbranati a Parigi... Come si è imparato presto che il giovanotto di provincia si abbiglia subito alla moda di periferia perché non riesce a kapieren cos’è il classico e dov’è il centro, mentre a una dama racée basta “un niente” anche démodé di Angoulême, perché l’allure è tutto... grazie a Balzac.
No, no, loro no, dice. (Ma come si permette?)... Forse piuttosto ripigliare con un zinzino – ma chi se l’aspettava? – di mescalina («il faut savoir doser...»), insomma... ancora Stendhal! E neanche la vecchia Certosa, no no. Quindi niente mémoires d’arte e cultura e costume e cucina e giardini e politica feudale? e odor di cioccolata e cappuccini e rose, rose e violette aristocratiche e popolari? neoclassicismo romantico in saloni bui con arredi intatti, cani e canti notturni fra muri altissimi forse ancora di suore?... No? E Rossini, di tanti palpiti, alle più care immagini?...
No no: proprio le Cronache Italiane. Già, si chiama Amore: ma al parmigiano e panna? in salsa d’alici? non con aglio olio e peperoncino?
No? Questa occasione del film, così spiega, l’afferra con gioia per star qui tutta l’estate un’altra volta e andare in giro ad accelerare con una certa largesse l’affettazione del Tono Naturale e quel Desiderio che è la sensibilità ardente dell’adolescenza libresca protratta, e oggi potrebbe coincidere con i gusti del pubblico del cinema europeo d’autore. Come se in ogni città medioevale ci fosse lì pronta col suo portamento fra torri e battisteri una Bella rinascimentale – gli amori dei miei amici sono i miei amori, giacché amano i miei amici per farsi (e farli?) desiderare da me – un’Accoramboni o una Campireali che non sono andate al mare per aspettare proprio lui!
... Il Désir fou tra ville palladiane e giardini all’italiana che si aprono ai nuovi scrittori, ai nuovi registi, alle nuove dive: grotte, fontane, labirinti, cose pensili!... E tutta la sua vita – naturalmente, Dio è così invidioso della mortalità degli uomini... - cambierà, ricomincerà, sarà diversa...
(Ma secondo me, non ha dietro i vestiti adatti).
«Sei mai passato dietro una serie di cortili in salita, come un Palazzo Taverna cadente su un Monte Giordano a chiazze pastello tipo certi ospizi di veterani a Copenhagen?...».
«Coi vecchi fuori in divisa da marinaio che chiedono la mezza corona per la birra? Barbetta a due punte e fisarmonica ottagonale?».
«Sono sempre casette basse abbastanza rococò povero, a Roma però non romane, semplici, quasi campestri o portuali... Ma dove si trovano?... Nelle notti più recenti paiono dipinte soprattutto a piccoli “pans” celesti e gialli e verdini. Manca il rosa-Procida e il bianco delle Cicladi. Si gira dietro: un ingresso di basso profilo. Nel primo cortile a destra, al pianterreno, c’è ancora una vecchia ex-regina...».
«Europea? Morganatica?».
«No, proprio una vecchietta. Qualche volta è aperto, e riceve, mentre si va da altri. Ma chi abita di sopra?».
Con lui da solo, senza pubblico, non posso sciupare una mia arma segreta – chi era la princesse de Guermantes?... E poi bisogna trovarsi in una casa dove hanno il Proust della Pléiade e almeno qualche Gotha, per fargli fare la corsa agli indici. Ma quanti avranno le biblioteche estive? Qui?
E lì, mistero o distrazione di quel Grande, sempre così preciso nelle genealogie, perché la dà come «sorella del duca di Baviera». Ma allora dovrebbe essere anche sorella della solita Regina di Napoli, testé lasciata a Gaeta, e della duchessa d’Alençon, che vanno in giro per la Recherche senza riconoscerla come parente.
Non si sfugge, con quegli almanacchi: in Baviera abbiamo i re (Maison de Wittelsbach), e allora lì si entra nei Ludwig. Niente sorelle: zie e prozie regine di Sassonia o di Prussia. Oppure si ricade nella Branche ducale, già del Palatinato e Zweibrücken-Birkenfeld, duchi in (e non di) Baviera, e lì riecco appunto Maria Sofia di Napoli con l’imperatrice Sissi e tre altre sorelle, maritate Thurn und Taxis e Alençon e Trani, delle Due Sicilie, siamo qui. (In Proust, che di solito è attentissimo, c’è una «Trania», principessa: refuso francese per avventura ci cova?).
Si possono fare sciarade e quiz colti, d’inverno, perché se il pranzo Guermantes è verso il 1886, addentrandosi fra le zie e cugine e nipoti e facendole passare tutte si possono trovare chicche come la badessa di Würzburg e la duchessa di Genova, ma neanche una Guermantes probabile. Domanda da un milione di dollari: se Charlus è dato come «fils d’une duchesse de Bavière», e insistendo che dunque è cugino della reine de Naples, «zia di Elisabetta che avrebbe sposato di lì a poco il principe Alberto del Belgio», perché tacerci la cuginanza più lontana ma ghiotta con Ludwig II?... Ed è mai possibile che re Ludwig spendesse tanto per i famosi castelli, e poi li affittasse a prezzi stracciati, dal momento che Swann propone a Odette «de louer un des jolis châteaux du roi de Bavière pour nous deux», e non ci vanno solo perché lei non ha voglia di sentir Wagner a Bayreuth? Non sarà un po’ fanfarone, Swann, come quei romani che vendevano il Colosseo ai turisti? (Però, con questa creatura, non comincio neanche).
Come fantasia, la sua, pare veramente piena di pericoli, altro che infinis gouffres, peggio per lui. Gli può capitare qualunque sbandata, ormai, spalancato come si descrive tra passi perduti e campi magnetici, disponibilissimo per qualunque morgana, qualunque kikimora, anche confondendo continuamente Piccolomini con Montecuccoli... o Montespertoli...
«Rastremato», ecco (glielo dirò: diamoci una rastremata), ma sempre sul sensitivo, sul trepido... Senza niente, ma proprio un bel niente, di tutto il vitalismo facinoroso che abita (agita?) i tipi rinascimentali nelle storie di Stendhal che lo agiscono... Era una Cybo-Malaspina che mandava al marito la testa della sua amante in un cestino di primizie?... Quante disponevano di un sottopassaggio segreto da un palazzo a un altro sotto il Tevere? e un padre governatore di Castel Sant’Angelo che nascondeva un cospiratore ventenne vestito da donna? Ed era una Leontina o una Vannozza, o una Cenci, la diciottenne schiaffeggiata dalla mamma rientrando da un ballo alle due, non perché fosse tardi ma al contrario perché con un Pucci o Galitzine così costoso avrebbe dovuto restare almeno fino all’alba?... Ma in quel suo retrogustino al marc de champagne dove tutto è beneducato e addomesticato, che cosa potrebbe incontrare oggi un intuitivo così indifeso, nella pratica onirica?... Uno dei miei vecchini terminali, sul lungolago d’Ascona, ordinava con un filino di voce: une fine à l’eau! E non aveva fatto del Quai Voltaire con delle dame ben pettinate in cerca di “vie littéraire”, ma Aden nei momenti strabilianti!
Come emozioni, però, quest’anno io tenderei piuttosto verso il tedesco-militaresco-rococò: Federico II... Ma mi sento poi tirare indietro come sempre a Vendôme... Tutte le intensità e i trasporti a molte piste fra il condottiero-avventuriero-fofolle e i suoi soldati pronti a seguirlo fino all’inferno... con le bandiere e le canzoni... in mezzo a dei Brandeburghi fantasiosi da guerra di successione interminabile, non si capisce mai a che cosa o a chi: comunque giubbe di colori primari sotto un cielo di zinco in una Natura all’inglese... con dei Gustavi Adolfi sullo sfondo che bruciano tutto e si sporcano i calzoni bianchi... Ma intanto marce barocche con tante trombe, aquile e busti di marmo, e i letti di pelliccia nella tenda, fra i cavalli... e il Turco a due passi sempre pronto, col palo... O Cinq-Mars, magari: «grand maître de la garde-robe, grand écuyer de France, favori de Louis XIII, décapité», ma lì bisognerebbe approfondire sulle biografie, dai librai antiquari. Come con Henri III; non ci sono ancora arrivato, sarà per questo autunno?
Ma come faranno, questi, a non capire che anche l’indice dei nomi nel Saint-Simon della Pléiade è una lettura molto più attraente di qualunque romanzo finto dei loro amici simpatici, con le figurette che fantasticarono, vagheggiarono, supposero, presunsero... però intanto parlano sempre come nei film o sceneggiati dove non si riesce a ricordare una sola battuta – una! – mentre quelle di Greta o Marlene o Mae West gli allegri americani ce le ripetono ancora oggi, come classici paragonabili a «Un bel dì vedremo» o «La donna è mobile»... «Let’s misbehave» o «The party is over now»... E io naturalmente tiro sempre fuori con tutti Saint-Simon quando l’Alberoni non ancora cardinale pulisce il dietro con la lingua a Vendôme gridando «o culo d’angelo!», e così fa più carriera del vescovo di Parma che aveva fatto il difficile davanti alla chaise percée...
Non lo sanno, questi qui, non lo sanno che Saint-Simon può dare il suo meglio quando spettegola sui loro Savoia: ma glielo devo spiegare io?... Eugenio doveva essere molto brutto: grossa testa, gambette corte, musino lungo sempre col broncio, parrucca da vecchio come nella Manon o la Lecouvreur, non mette una gran voglia di stargli dietro. Ma già la mamma e la zia sono le Sorelle Mancini! nipoti di Mazzarino! e famose per la scostumatezza alla Corte di Luigi XIV! sovente scacciate per i loro intrighi dalle capitali minori, e anche da località di provincia!... Ci vorrebbe un film di Max Ophüls!
Il nonno Tommaso di Carignano «a fait tant de bruit et de mouvements en France et en Savoie» per il suo matrimonio d’interesse con l’ultima Soissons. E il padre, che nei ritratti è un gagà Carpano o Cinzano con baffetti anni Trenta, «attiré en France par les biens de sa mère», scompare presto mentre la moglie Olimpia Mancini «fut fort accusée d’avoir fait empoisonner son mari à l’armée»...
La zia Luisa «eut part à la disgrâce de la princesse de Carignan sa mère, et fut remerciée...». (Molto più divertente di qualunque “Paris-Match” sui Savoia d’oggi a Montecarlo). Il fratello maggiore «c’était un homme de peu de génie, fort adonné à ses plaisirs, panier percé qui empruntait volontiers et ne rendoit guère». Maritato a una signorina «belle comme le plus beau jour» ma «si bien bâtarde» che viene rinnegata dal padre scudiero di Monsieur le Prince sul letto di morte. E lui, rifiutato ovunque offriva i servigi, finché «ne sachant plus où donner de la tête» entra al servizio dell’Imperatore; e lì si fa subito accoppare nella guerra di successione spagnola mentre lei, scacciata da Torino e respinta da Fontainebleau, muore «povera, disgraziata, errante», ed Eugenio cognato deve sobbarcarsi i piccini... E le sorelle Carignano? Il re e l’elettore di Baviera le fanno arrestare in carrozza e chiudere in convento a Parigi e a Bruxelles, perché «leur conduite étoit depuis longtemps tellement indécente, et leur débauche si prostituée, que M. de Savoie ne put plus supporter ce qu’il en apprenoit»...
Dunque molto più funny, senza essere volgare, dei vari personaggini che mi tocca sentir discussi qui a Roma, sempre in alienazione e in crisi con la moglie o il partito o la mamma o la Rai; e facendo una vita noiosissima, tra famiglie squallidissime, ambienti e discorsi che sono “La meschinità”, mai in qualche bel posto... Mai in viaggio, mai all’estero, mai lontani dalla pausa per il caffè col goccino di latte e chi cià ’na sigaretta... Mai paragonabili per temi adulti e leggeri, e non terra-terra e tetri, agli inglesi di Evelyn Waugh che han già fatto e provato tutto fin da Oxford, e oltretutto come sanno parlare... E neanche avvicinabili a «ce fameux muet» di cui racconta così volentieri Saint-Simon, altro che le vostre madame e madamine: Emanuele Filiberto di Carignano, zio di Eugenio e nato sordomuto, caso più che disperato, dunque affidato da Casa Savoia, dopo averle tentate tutte, a un domatore d’animali «qui promit de le faire parler et entendre pourvu qu’il en fût tellement le maître, et plusieurs années, qu’on ignoreroit même tout ce qu’il feroit de lui»...
E Jean-Claude, come tutti: «E cosa gli ha fatto?».
«La faim, la bastonnade, la privation de lumière, les récompenses à proportion...». Ce l’ho dietro, l’ho qui.
«E poi?».
«Success story! “Le succès en fut tel” che dopo le “cruelles leçons qu’il avait reçues” Emanuele Filiberto capisce tutto, legge, scrive, sa esprimersi, e si rivela pieno di spirito, di volontà, di penetrazione e applicazione, impara parecchie lingue, parecchie scienze, la storia benissimo, diventa un politico molto consultato, in una Torino evidentemente di imbecilli, tiene una sua piccola corte, sposa una figlia di Borso d’Este...».
«E i figli?».
«Un disastro: uno di quei parossismi sublimi di Saint-Simon quando si scatena contro gli imbrogli dei Savoia. Il figlio Vittorio Amedeo sposa una bastarda di Vittorio Amedeo II e della sua amante Verrua, ma devono scappare brouillés da Torino, arrivano a Parigi “come in terra di conquista per qualunque forestiero”... E lì, “si son visti fare di tutto: corteggiare bassamente chiunque potesse riuscire utile durante la giovinezza di Luigi XV, portar via roba a tutti, combinare ogni sorta di affari indegni, lei complice della moglie del guardasigilli, lui impresario dell’Opéra, e con milioni di rapine, il marito nell’oscurità della bassa débauche, la moglie con intrighi di tutti i tipi sotto una facciata della più alta devozione, adulando tutti, infilandosi dappertutto, infischiandosi dei creditori, vivendo come zingari, il marito morto nella crapule, il figlio tolto a loro dal re di Sardegna”...».
«Qui però siamo nelle Due Sicilie» mi fa lui. «Se incontriamo una certa dama di Capri che passa gli inverni a Parigi coi suoi cagnolini, vedrai che ti fa subito una protesta per l’oro dei Borboni rapinato dai Savoia».
«Dunque alla solita Regina di Napoli di Proust! Ma quanto sarà stato? Più di quanto butta il governo italiano nel Mezzogiorno in un anno? o in un mese? o in un giorno?».
«Non so, una volta a Montecarlo un arabo ha tirato fuori il libretto d’assegni dicendo che glielo risarciva tutto lui subito, a un pranzo, purché cambiasse una buona volta discorso, ma la cifra esatta non è venuta fuori».
Però anche la vecchia Italia, poveretta, benché senza un suo Saint-Simon né la Palatina, può ancora fare la sua figura... cari miei!
La mia fissazione dell’anno scorso era proprio l’estremo oltraggio al vescovo di Fano... un vescovo di ventiquattro anni, di bellezza quasi intollerabile! Ma ostinatissimo, con un signor di Piediluco e un conte di Pitigliano che lo devono tener lì fermo per Pier Luigi Farnese «palpando e stazzonando coi più disonesti atti che con femmine far si possano»: lo dice il Varchi, me lo facevano vedere i miei vecchini del Politecnico di Zurigo. E poi lo legano con su il roccetto, che è un paramento con le maniche strette. E così quand’è legato il roccetto non viene via, bisogna stracciarlo, altro che Stendhal. Il roccetto... son cose!
«Non solo gli tennero i pugnali ignudi alla gola, minacciandolo continuamente, se si muoveva, di scannarlo, ma anco gli diedero parte colle punte e parte coi pomi, di maniera che vi rimasero i segni; e gli cacciarono per forza in bocca e giù per la gola alcuni cenci, i quali poco mancò che noll’affogassero». È già una sceneggiatura. E questi che fanno le riunioni con gli appunti. Chissà i dialoghi.
«Le protestazioni, che fece a Dio e a tutti i Santi il vescovo così miserabilissimamente ed infamissimamente trattato... tra la forza che egli ricevette nel corpo, ma molto più per lo sdegno ed incomparabil dolore che concepette nell’animo, fra lo spazio di quaranta giorni, ne’ quali mai non si rallegrò, con ineffabile sdegno cattolicamente si morì».
Queste son cose italiane serie, altro che la crisi dell’impiegato ex-comunista circa il corsivo del funzionario o una battuta del capufficio Rai...
E naturalmente ci vuole anche Astorre Manfredi, in un film a episodi sull’Italia estiva, con dei bei costumi, brache strettissime, in Romagna, colori stupendi, anche una gamba rosa e una giallo-blu; e delle belle musiche ruffiane, yes-sir.
Signore di Faenza a sedici anni, dove a sedici anni sono già pronti!... E il più bello del Rinascimento, lo dice anche il Gregorovius... Ma virtuosissimo, santo fanciullo, una cosa insopportabile. Quindi gran vassallate di Cesare Borgia, stavolta, e magari del suo papà, pare. (Buone) cose di pessimo gusto? Infatti morto quasi subito, e per di più a Castel Sant’Angelo, come la Tosca.
Ritratti, già visti: di Pier Luigi a Parma e a Caprarola, abbastanza sul malizioso, ma non interessantissimo; e del resto lo dice anche l’Encyclopaedia Britannica, «an able captain but ruthless and dissolute and an insatiable egotist» – pazienza, mio cuore, Stendhal! Di Astorre invece al museo di Faenza, mentre fa la prima comunione con Bernardino da Feltre: sono riuscito a trovarlo in una vecchia foto Alinari perché Gadda l’ha indicata a Antonio. Con un mento pesante da contadino e tantissimo spazio fra i labbroni gonfi e il naso. E se non Henri Beyle, non poteva occuparsene, fra un Canto e un altro sui Malatesta di Rimini, magari Ezra Pound?
Ma poi basta guardare Jean-Claude qui, che canticchia, e gli effetti di tanti anni di crudités a colazione, certo che vengono fuori, nel musino e nel fisico... Piccolino com’è, coi suoi occhioni verdi da nottolone, che sbattono. Pelle liscia da dopobarba, il primo grigio sulle tempie, prima del tempo. Un po’ di scoliosi o d’artrosi non curata, come del resto il dentino che rientra; mai un po’ d’esercizio (e la cervicale?), il suo bel cache-col... Hermès! ancora! ma come si fa... Musset, Musset, qui, altro che Stendhal... Sentiamo la radio, c’è da scegliere fra la partita e il papa.
NAPOLI
Avvicinandosi alla città il cielo si oscura e l’aria si fa soffocante. Le fiamme delle raffinerie tingono di rosso e di giallo il polverone dei cementifici, a nuvoloni foschi: ma lo si è sempre saputo fin da Virgilio che questi paraggi sono le porte degli inferi, la sede dell’orrore. «Il fuoco del cielo e il fiele del cuoco!» fa improvvisamente questo; e soggiunge: «Come direbbe in italiano Jacques Vaché!». Corriamo come pazzi per arrivare al San Carlo almeno prima delle sei e mezza, tappandoci naso e orecchi col cashmere per non sentire i miasmi delle immondizie e le maledizioni delle sibille cumane.
Le macchine, le lasciamo buttate in piazza Plebiscito come va va, «così le credono della camorra e le rispettano»: son quasi le sette perché c’è voluta mezz’ora solo per via Caracciolo («via tutti i metallucci, fuori le robine di plastica!»), e ci infiliamo nella folla grassa e molle sotto il portico del teatro. Tutti col loro lutto al braccio, e gli occhiali da sole, e il cappello. Federico è lì con una gran testa nervosa e i biglietti in mano, agitatissimo. Ha insieme due o tre neri neri di capelli e con la faccia lucida e la giacca lucida, nera o blu-nera, stretta in vita e con spacchi fin sotto le ascelle, con corniole e cammei come gemelli da polso. «È tardi, è tardissimo» si lamenta. «Il teatro era tutto pieno, non siamo tutti insieme, hanno fatto quello che si poteva, saremo uno qui e uno là...». E senza neanche poterci lavare la faccia ci trascinano dentro, ci troviamo divisi, cacciati in fondo a palchi già bui, col sipario che s’alza e un odor di sudore che non si può reggere.
M’è capitato insieme Klaus, e indica col mento quelli seduti davanti. «Più di metà qui non stanno usando quei prodotti venuti fuori dopo la guerra...» mi fa, in tedesco, durante il primo applauso; e poi ritira su il mento, di scatto, con un fremito da cavallo. Siamo in piedi, in fondo a questo palco in quart’ordine; e davanti a noi abbiamo due file di persone: quattro vecchi appoggiati al parapetto in occhiali neri, che sembrano ciechi, e uno anche con basco nero che non toglie mai, avrà freddo. Tre donne anziane molto obese subito dietro, con una giovane molto gonfia senza mento e senza collo che fa tutte le smorfie da timida; e due esploratrici inglesi da deserto, col casco, molto vecchie, di sbieco, in piedi, offrendo il loro vecchio binocolino a tutti.
Appena incomincia l’atto, ecco le caramelle: tutti attaccano a chiacchierare e non tacciono più. Si vede un chiostro gotico a colonne frananti. Subito i vecchi dicono che è uguale a Palazzo Pitti, e si voltano a domandare alle donne se hanno mai visto la reggia di Caserta. Loro no; e la ragazza gonfia sostiene che è sempre cucita a mammà, ma adesso vuol proprio imparare a guidare l’auto. «Vero, mammà?» chiede, facendo la bambina, ha tre gole molli e molti foruncoli. Ma la mammà fa una cupissima smorfia, e non dice niente.
I vecchi sostengono che Villa d’Este invece non è bella perché è stretta, ma uno intende Villa d’Este a Tivoli, l’altro capiva invece quella sul lago di Como, ha visto le fotografie, e così vanno avanti un pezzo prima di passare a discutere la Ca’ d’Oro e le Due Torri di Bologna. «Eh, le bellezze d’Italia...» ripetono a ogni cambiamento di quadro. «Non ce n’è da nessun’altra parte!». Mangiano i loro tramezzini e i loro cioccolatini con molte cortesie sui fazzoletti, e inopinatamente sostengono che nel fascismo c’è stato anche del buono.
Con questo caldo e questo fetore io non posso e non voglio resistere; ma sta entrando colossale questo vascello fantasma, la Sutherland, in celestino ghiaccio contro una tappezzeria di foglie gialle vaghissime, e un gran frullo davanti di frugole e tòpole come rimorchiatori che la tirano, color gelatine e fondant, tutto molto squillante e gelido. «Indigo, turquoise, groseille, verveine» balbetta Jean-Claude che ci è arrivato dietro in punta di piedi stringendoci ancora di più, perché dal suo posto non vedeva niente. Klaus dice d’aspettare almeno il primo intervallo, per sentire Antonio e magari andar via tutti, adesso chissà dov’è.
«Non perdiamoci questa meraviglia!». Come un ritratto di Bacon – «vermillon, myrtille...» – con tutti i lineamenti molli che continuamente si spostano: le prime esposizioni dei regali in plexiglas a Varese, la prima faccia siliconata nel Mendrisiotto, con le bolle rosse e i pomfi che andavano su e giù per le guance parlando, e tutte le mie cugine lì davanti a guardare il movimento. «Avete notato che si rifà le ciglia con la stagnola dei cioccolatini?».
«Che miracoloso virtuosismo, che fioriture paradisiache!... E che dominio della respirazione, che controllo sovrano delle riserve di fiato!... Ah, come spicca il volo dal registro di mezzo!...». Nel ridotto loro stanno parlando con Guttuso e un suo gruppetto, poi salutano Patroni Griffi e un suo gruppetto, e vanno con un grosso gruppo animatissimo verso il bar affollato. «... Però quei portamenti sono spesso deliqui... i legati, collassi da una nota all’altra... Da quando “legato” significa respirare il meno possibile?»... «Quel vibrato serré sminuisce un pochettino il suo dono di candore naïf, mai poitriné»... L’agitazione sembra al climax, al vortex. «Qualità superbissima! Arabeschi mirabili di pura tecnica! Ma l’emissione di note corrette, adesso fa stile?... Dov’è l’emozione espressiva sublime dei lamenti stridenti di Maria?».
Antonio scappa facendo un giro e torna dopo un attimo vicino a me per liberarsi di un soprano, una madama non giovane che vorrebbe organizzare cose per dopo in un circolo... «Una Santuzza che vuol fare Susanna!... Una Susanna che vorrebbe fare Elsa e Fanciulla!...». Veniamo assaliti dagli amici del Wolfgang («Ma chi è il Wolfgang?». «Non lo si vede più»), due agitatissimi che corrono scalmanati e indignati contro una loro nemica: «Una Crisotemi che si permette di far Lucia col pretesto che possiede il contro-mi bemolle! Una Vitellia che si è messa in testa di far la Regina della Notte, e qualcuno le dà retta forse anche a Aix-en-Provence!». Ma chi sono? Di chi parlano? «È una Despina!». «Uno dev’essere un rentier, lo vedo a tutti i festival, so solo che è di Bergamo». E il canuto? «Credo che si occupi di formaggini, però non so. Era ufficiale di cavalleria, e appena vede qualche ufficiale in scena anche spagnolo o russo critica molto perché trova sempre che portando gli stivali e la sciabola in quel modo, a Pinerolo non sarebbero durati un giorno». Uno ha sentito il primo atto fra le quinte, l’altro è passato dal palco reale al loggione e adesso devono scambiarsi i posti. Ma prima che finisca l’intervallo devono ripassare nei camerini. «Lei dovrebbe farsi ritoccare il bavero dietro». «Lui dovrebbe muovere meno la sinistra, potrebbero almeno informarsi, domandare, chiedere»... «Un esuberante generoso! lì lì quasi al verismo!». «Monsieur Spalanzani n’aime pas la musique!». «I biglietti che non si trovavano, comunque, glieli ho fatti avere io tramite il Biffo».
«Sono comunque amici anche del Wilhelm, un altro che tu non conosci perché viene before your time» fa Antonio; e Klaus, un po’ misteriosamente: «Zerbinette che si credono Semiramidi»... Ma ci arriva addosso un vecchio ambasciatore fascista in marrone a grosse righe e domanda se lo si sa già: s’è ammazzato il ragazzo della Sanquirico. «Il figlio?» domanda Antonio. «No, l’amico del figlio; che del resto ha la stessa età». «Ma dove? A Napoli?». «Macché, si è buttato da una finestra a Amsterdam, e sì che sono tutte così basse, tre giorni fa». «E lei, ha sofferto?». «Ma allora amico mio non avete capito niente! Chiusa in casa, sconvolta, le stanno dando anche molti prodotti». «E il marito?». «Non ancora tornato, sta a Parigi con un’amica della figlia, però che coppia tragica stanno diventando quei due, si direbbe che facciano di tutto per trasformarsi in quei tremendi vecchi delle pièces noires di Anouilh che perdono i ragazzi innocenti con regìa di Barrault».
Beviamo le nostre cattive aranciate. «Era bello lui?». Il vecchio fa uno o due ghigni mondani, e si asciuga. «L’avremo visto in tutto un paio di volte, mai a casa, e per non più di cinque minuti perché non era possibile stare insieme, si capiva già tutto, come sarebbe andata a finire, e io sarò forse vieux jeu ma non trovo proprio divertente. Con Francesca non si poteva più uscire, nei ristoranti sempre il pranzo funestato, la rissa coi camerieri, la tovaglia tirata per terra con tutti i piatti, la gente ai tavoli vicini che scappava via... Insomma... l’espressionismo!». Il vecchio fa altri due o tre ghigni mondani, borbotta «insomma, è impressionante», mi pare aggiunga che a Napoli si mangia molto meglio nelle case, si allontana con due o tre in gessato che devono essere della televisione o degli Esteri, uno col giornale in tasca.
«Io me ne vado, tu se vuoi sta’ qui» gli faccio. «Ma è quasi finita!». «Non ne posso più, preferisco farmi uno champagne o una pipppa, m’annoio sempre meno che qui». «Saremo all’Excelsior subito alla fine di questa meraviglia, fa’ tutto lì e magari un bagno» mi dice. «Poi si procede da Federico tutti insieme».
Il caldo cresce, improvvisamente. Sono le otto, è orribile: non meno di un’ora per fare due o trecento metri sempre in prima e senza poter fermare né scendere, tra facce spaventose. Dentro ogni macchina c’è uno stronzo che suona il claxon! All’Excelsior facciamo tutti questo bagno più tardi, rapidissimo e inutilmente: perché poi dobbiamo aspettare già vestiti Klaus che vuol farsi fare un massaggio; bevendo delle vodke con tantissimo tonic, forse gonfiandoci scioccamente. Lì al bar con due amici di Antonio veneziani e sfrenatamente mondani, di quelli sempre entusiasti, che trovano tutto divino a voce molto alta. E nel caso della Sutherland (sono venuti apposta, la vedranno certamente dopo), le dieci o venti “i” di «diviiina» suonano una più perentoria dell’altra.
«Lanfranco...». «Divino!». «Se fosse qui stasera, Lanfranco direbbe che ha una divina coloratura drammatica d’agilità con un divino after taste di contraltino rossiniano, no?». «Divino, Lanfranco! Ma il tenore non vi è parso un pochino rustre?». «... Ah, ma voi dovete sentire com’è divina Maggie Smith quando semplicemente dice “rustic!” in The Way of the World! Si entra solo in quell’atto per risentirla! Siete stati a Salzburg a Pasqua?». «I Quattro Rusteghi di Wolf-Ferrari si chiamano in tedesco Die Vier Grobiane» arriva Klaus. Ma ci invitano tutti da loro per la regata storica, hanno questo palazzo storico sul Canal Grande con balconata lunghissima e jardin d’hiver, rimesso a posto benissimo coi soldi della mamma di lei che fa gli elicotteri. Divina! da un suo divino sarto di Bologna pretende di provare gli abiti seduta, per prima cosa si fa portare una sedia. Uscendo, ancora più caldo.
Su per una salitaccia, tra i fischi dei vigili e i neon delle lavanderie. Ventate di polvere, transenne abbattute, cataste di detriti, cancellate divelte, dentro un quartiere che fa paura. Quasi senza luci: il malgoverno spagnolo e i piemontesi tra Savoia e Fiat si saranno portati via pure le lampadine? Ma tant’è: sapendo l’horror fuori, passiamola pure in casa di questo Federico, la seratina: sarà certamente preparata benissimo. Un cenacolo d’artisti?
Dopo zone deserte e luride con tante buche arriviamo in una piazzetta piena di verdura marcia e di gente che strilla, tantissima gente, e l’ascensore non si può prendere. La campana dei pompieri, la sirena della croce rossa, tutto. Otto piani almeno, a piedi; e strilli. È un casone ducal-popolare immenso, franante, tutto archi e ringhiere, con un portale imponente e un’ala forse bombardata mancante; e tante porte spalancate di rimesse di tassì.
Sulla terrazza invasa da una folla agitatissima, e strilli sempre più acuti, viene incontro Federico molto cool e spiega “matter of fact” che c’è stato un incendio nel palazzo di fronte. Però un piccolo incendio, in un magazzino; e quasi finito ormai. Si vede solo un filino di fumo, infatti, in fondo al crepaccio nero del vicolo, tra la biancheria e le finestre accese. Ma finché dura non vuole andar via nessuno. Lui è stato costretto a lasciar salire tutta la gente della casa, perdevano le bave dalla curiosità, e non hanno ancora finito di sfogarsi.
Ma il cameriere li sta spingendo fuori tutti, due vecchie in nero già preparano la nostra tavola in un angolo della terrazza: gran tavola con piano di cristallo e gambe d’acciaio scuro, così possiamo vederci le scarpe e le calze mentre si mangia.
Sembra gustosa, la casa: con questa gran terrazza meravigliosa a dislivelli, tutta gerani penduli e maioliche, alta giusto sopra la Nunziatella, a picco sul portone. Ma sarà la Nunziatella davvero, o dicono così per farmi piacere?
Dal lato opposto all’incendio, effettivamente, si vedono un po’ di berrettini e divise entrare e uscire in fondo al canyon, però niente finestre di dormitori come su quelle rampe di Gaeta, niente vergini delle rocce e meno che meno delle docce. E il solito arco del Golfo, dall’alto, adesso che il cielo blu-blu diventa blu-nero e poi nero-nero come i nastri dell’Olivetti, e si vedono solo le luci e non l’edilizia, non i laterizi, pare finalmente piuttosto buono come spettacolo. Lo si ha davanti ininterrotto di qui, in tutte le direzioni, finto come un planetario. Poliziotti che vanno a dormire in mutande, in qualcuna di queste finestre? No, no, dove credi d’essere, bisognerebbe attraversare tutta la città.
Così non si esce, e mi pare una sera a casa mia sopra Bellinzona per mangiare una fondue bourguignonne autunnale uscendo dalla sauna. «Dov’è Alfonso?». «Sta a Palermo per Le rovine di Palmira, dovrebbe tornare domani o dopo». «E cosa fa Detlef-Manfred?». «Fa televisione a “Baden-Baden live”». «Si è calmato?». «No. Ormai è “Keine Konzessionen!”, per gli amici».
Klaus interroga Federico. Si è placato, le famose vivande saranno pronte fra poco, il vino bianco è perfetto, le vecchie sono tornate in cucina.
Abbastanza musico anche lui: però barone terriero, désabusé, dilettante coltissimo, forse tuttora abbiente, un pochino dodecafonico, ma intimo di Salisburgo e Karajan; storico e pianista credo più che compositore, non si è mai sentito che abbia fatto cose per il pubblico. Forse anche dipinge. Forse queste miniaturine piccole piccole che ci sono dappertutto in casa? Tante mini-rovine artificiali tipo Eugène Berman, dipinte sulle pietre paesine; o forse fa costumi per operine ex-di corte, qualche Finta Astuta?
Cortesissimo; ansioso; lievemente torvo, molto preoccupato, smorto. E anche questo progetto Rai che spiega proprio scolasticamente a Klaus, una grande cantata sulle vecchie melodie popolari del Golfo, con tanto coro alla Carmina Burana e un gran contralto da ode saffica tipo Kathleen Ferrier, e sirenette morte, e saraceni morti, e pulcinella defunti, e la tomba di Norman Douglas, e possibilmente rubati e brividi da colonna sonora di Prokofiev, da qualche smorfia che fanno mi pare che non si colga ancora tanto come trovata senza tutto un mestiere. E tanto meno, da parte di uno che discorre con intelligenza critica così disinvolta dei limiti dell’Eemsiva di Nielsen e dell’Impegnativa di Sibelius.
Ma non si esce, dopo? No, non si esce. «Dove volete andare? Fuori non c’è niente». Si starà qui a chiacchierare. E il pasticcio di maccheroni? Ci sarà anche un sartù: come si mangia soltanto nelle case! Ai tempi dei monzù! E dei gattò! Con avanzi per settimane intere! Per tutto il quartiere! E serviti su un capitello del Quattrocento, proveniente da un chiostro aragonese bombardato.
Giriamo intanto per la casa con Antonio, tutta a salette piccole con tanti mobiletti e tanti quadrini, anche piena di piccoli objets, a modo suo anche ricca: soprattutto di ritratti e cornici e argenti sulle tovaglie di broccato rosa-antico fra tappezzerie di damasco pistacchio. Rilegature in una boiserie; porcellane e ventagli in una vitrine, con le custodie dei ventagli e degli occhiali; l’angoliera del medaglione, che io venderei subito per prendermi una scultura. Tutte le nicchie foderate di damasco giallo o vinaccia. «Non vedo gouaches di eruzioni» fa Antonio, piano. Ma uno degli adepti ha sentito, tre salottini più in là. «Vesuvi e Posillipi, nelle chambres des bonnes».
Usciamo ancora a bere, basilico e gelsomino profumano, fuori nei ristoranti (tanto) si sa che si mangia la merda. Loro chiacchierano dei costumi per un Ballo delle Ingrate. E il Valzer delle Sfrontate? Tango o czarda o sarabanda delle Sventate, Sbandate, Sfasate, Sguaiate, Smodate, Spiantate, Sfocate, Strapazzate, Spudorate, Sgangherate, Svergognate, o Stempiate?
Non sono niente stanco. Ma non ho voglia di smuovermi, niente. Neanche per fare delle sciocchezze. So anche troppo come va a finire in questi posti. Mi saltano dentro da tutte le parti nella macchina aperta. Ma talmente pieni di pretese sproporzionate, poi, con quel poco pochissimo che hanno da offrire, e come lo offrono male, con tutte le repressioni ataviche e le sventure familiari e i lamenti, e le richieste per le malattie e i disturbi e i debiti... Bell’affare, la mamma e la nonna all’ospedale, per stimolare l’Eros dello scapestrato viaggiatore al Sudd!... Il funerale che c’è stato appena oggi? Questo sarà Thanatos sopra l’Eros traviato, come il cacio sui maccheroni? E in quanto alla peritonite della zia, neanche Apuleio e Bataille arrivarono mai a trovarla così stimulating: come per le cambiali in scadenza con sfratto sul lastrico, solo un viennese particolarmente perverso potrebbe sostenere che è più kinky la cocaina... no?
Chissà cosa avranno fatto per trovarsi così contenti, in queste terre di interdizioni e inibizioni, tutti quegli inglesi e tedeschi dell’estetismo dall’Ottocento fino al fascio, sempre così incantati dal barcaiolo e dal pizzaiolo fra Sorrento e Mergellina? Pâmoisons mentali e visionarie, molto statuarie? Avances da vecchi preti peccatori e tirchi a scugnizzi piccolissimi di V. Gemito? tipo i francesi vergognosi col tormentone gidiano in Tunisia o a Pigalle tra frugolini e nanetti?
Secondo gli esperti e i vissuti: vedere specialmente le testimonianze dei presidi e reverendi tardo-vittoriani, famosi oltretutto per la loro parsimonia, e molto lodati quando «prendevano a benvolere» uno che «si affezionava». Provare oggi! «Bisognerebbe controllare certi pittori come Sargent, che avevano anche una produzione di murales allegorici con nudi eroici. Se ne facevano mandare a Londra e in America parecchi, a posare. Barcaioli, bersaglieri, muratori, zappatori, vetturali, gelatai. E senza bisogno di andare a Capri: ci si affezionava parecchio in tutt’Italia, pare. E più i signori prendevano a benvolere, più venivano elogiati come benefattori. C’è chiaramente più densità e prospettive in “è stato preso a benvolere da un bravo signore” che in tutta “la sventurata rispose”...».
«E più happy end».
«Per happy few?».
«Ma del resto anche nelle nostre vecchie famiglie d’ufficiali di carriera, c’era spesso qualche edificante storia tramandata di attendenti perfetti in tutto e talmente fedeli che non volevano ammogliarsi per star lì sempre col loro capitano...».
«Carson McCullers a Treviso, a Piacenza... Riflessi in un occhio d’oro a Casale Monferrato...».
Ma non si sta poi male, bevendo così in alto, con un filo di brezza fresca e senza veder niente giù: immaginiamo il porto di Baia, o di Bahia, magari. È grandissima questa terrazza, occupa tutto il tetto della casa, con tanti camini, tante scalette di un bugnato un po’ formaggioso. Tanti fiori disordinati giusti svolanti da tutte le parti, sbuffi quasi tutti bianchi fra le statue che l’eccentrico profano troverebbe abbastanza venete. Ma dev’esserci qualche dama fine che ha proclamato la mania dei fiori bianchi, quest’anno, altrimenti non si spiega questa corsa al giardino bianco tutti insieme, anche delle mezze-calze che vanno enumerando loro... E lo studio a vetrate aperte e tendoni stesi: tanti libri del Settecento; spartiti; il suo piano da concerto; e un disperato Rachmaninov suonato da Richter. Arrivano rimessi sempre da capo gli attacchi languidi e maneschi e struggenti e violenti da un apparecchio perfettissimo a quattro musi monumentali come di Mercedes. Vengono a dirci che il pranzo è pronto. È anche colossale.
Sulla tavola sono accese due candeline dentro due globi immensi. Fiori e frutta, altissimi. Tutto un «ti vedo e non ti vedo» e un «ti ho visto, cosa credi» fra le ceramiche: Compagnia delle Indie, complete di jardinière e rinfrescatori e salsiere, ah ma che bene, tutto a posto, proprio una casa dove tutto è in ordine e non manca niente. I Capodimonte sono ben chiusi nelle vetrine. E proviamo il pasticcio. E avanti il sartù. E domani, mezzo chilo di fianchi in più.
CONTRO PARIGI
Ma niente, non sono poi niente, le varie lune “angry” di stasera, davanti ai bronci di Jean-Claude per la sua cara patria... La sua “position”... Subito, sempre, questo pomposo e smorfioso termine deve uscir fuori, coi piedi nel piatto e mille «il faut faire attention!», ogni volta che si chiede a un francese «how do you do».
«Pare semplice come il dentro e il fuori, da spiegare... ma così difficile viverci adesso tra la memoria e l’oblio...» va dicendo lui a Antonio. «Se guardo a freddo l’unico vero libro che ho fatto, Les petites bandes modèles, mi accorgo bene di come appaia leggerino, anacronistico, in epoche di pesantezza... Non credere che non me ne rendessi già conto... Proprio hors-jeu.
«D’altra parte, un primo libro si fa una volta sola, e almeno lì non si vorrebbe tricher con se stessi, forse non si potrebbe neanche volendo... Vorresti forse affidare la tua immagine di esordiente a una raccolta di articoli?... Senza contare che da noi come forse anche da voi chiunque faccia un’opera abbastanza singolare viene considerato un eccentrico, ai margini: come Balthus in pittura... mentre in ogni epoca la Voie Royale della letteratura viene occupata dalla petite bande che canta in coro la stessa canzone...
«Eppure in quel primo libro non c’è niente di tutto quanto ci metterei dentro oggi, se si dovesse ristampare... E l’altro, poi, L’incendie du Bazar de la Charité, quello è solo un pamphlet, pensato a lungo ma scritto in fretta per una scadenza, su diverse specie di miti a confronto... Radiguet, Péret, Crevel, Drieu, Camus... i figli del sole e del caso e del mare e del giuoco e della notte e dell’attesa... del Merveilleux appiattato sotto la superficie quotidiana... del neoclassicismo mediterraneo negato e represso: bagnanti di Cézanne e Picasso che attraversano una spiaggia di Claude Lorrain come un lampeggiamento meridiano, diagonale... Bussano a un paesaggio di Poussin, e questo si spegne, diventa nero... finché i ciclopici depositi di carburante a Sète non rialzano la mostruosa testa metafisica sotto il cimiterino marino del triste Paul Valéry...
«Durante la guerra siamo sempre stati in campagna. E naturalmente, c’è poco da ridere, tu, ma sono sempre andato a dormire molto, ma molto presto... Leggevo soltanto dei classici... quelli scritti meglio... Per tutto il ’43, non sono uscito quasi mai dal Grand Siècle... Poi, l’estate della Liberazione è stata così eccitante a Parigi... Ma non me ne sono accorto subito. Solo quando era già finita... Casa nostra era a Auteuil, e la mia famiglia non mi permetteva di uscire la sera. I Champs-Élysées mezzi bui, con gli americani ubriachi in giro, li avrò intravisti una volta o due, probabilmente, tornando con qualcuno di casa da una matinée alla Comédie-Française...
«Ma in realtà vivevo come un sonnambulo in quegli anni. In quelle stagioni, nella città morta di P***... No, non credo di aver mai visto e sentito niente di rinato, o di vivo. Avevo degli esami, non avevo degli amici. Non leggevo i giornali: mi parevano di una volgarità irrimediabile... Al Flore, dove pare che capitassero proprio tutti, non ricordo di essere mai entrato, se non per telefonare. La Parigi d’allora l’ho ricostruita dopo, in biblioteca, leggendo le annate delle riviste dell’occupazione e del dopoguerra, per fare delle rievocazioni... Ed era una città ormai diversa...
«Ero diverso anch’io. Ero stato poco bene. Quasi un anno e mezzo in Svizzera, a parlare con gli scoiattoli... perché non c’era nessun altro: macché Montagne Incantate con monologhi capaci di andare avanti per pagine e pagine senza un solo punto a capo... Hantzi... si chiamano tutti Hantzi o Hansi, chissà come si scrive, gli scoiattoli... Vengono lì a mangiare, ti guardano un po’, salutano, s’arrampicano sulle spalle, come i piccioni a Venezia... davanti a un piccolo lago... Sai, quelle espressioni un po’ sciocche, da Bibliothèque Rose... come dire: un piccolo castello, un piccolo chalet... ti riceverò per il tè nel mio piccolo giardino... ho fatto la Comunione in una piccola chiesetta... e la Confessione in una piccolissima cappelletta... con l’io nella chaumière di Maria Antonietta...
«Eppure, provate a inventarla, per favore, un’espressione efficace e forte come Bibliothèque Rose, oggi: soprattutto in quei caffè di donne violente che fanno le guerre per non riuscire a ottenere tutto quello che le belle hanno sempre ricevuto senza chiedere... E invece: un piccolo grazioso pavillon in fondo al parco, dove per mesi e mesi ho letto tutti i romantici e i surrealisti, un testo al giorno, ai piedi di un Giacometti di buonissima annata... Poi, tornando indietro, l’impressione di dover ricominciare tutto, in un paese che non conoscevo».
«Cosa volete... Mia madre esce a pranzo con dei grandi medici, delle pianiste... Vengono dei deputati in casa... Vanno alla Salle Pleyel, leggono i libri che hanno vinto i premi, poi ne discutono, fanno vibrare i loro vecchi décolletés... Ma è tutto un mondo bien parisien alla Paul Bourget o Paul Reboux, dove non si vede cambiare mai niente: siamo sempre alle canzoni di Lucienne Boyer, come genere, capito? Lì fermi. E non scontenti, sapete, non scontenti. Quando si è nipoti della Verdurin, quali scoperte credete di fare in Proust? L’hai sempre visto leggere come un memorialista che colma i vuoti della memoria d’una qualche tua zia: era Alfred, o Armand, o Agénor, o Arnaud, il marito di Léontine, sorella di Esclarmonde o di Odette?... Come si leggeva una volta Madame du Deffand, del resto.
«... E il mio confessore, invece, sosteneva che i fatti sociali sono prima di tutto dei fatti morali, che la ricostruzione delle società distrutte dalla democrazia si farà con la riconquista degli spiriti alienati a Dio, e mai, proprio mai e poi mai, istituendo delle strutture politiche nuove...».
«Era quello che condannava Maurras perché troppo a sinistra?». (Antonio deve averle già sentite più volte, queste storie. Quando si è gentiluomo ospitale...).
«Certo: come un positivista giuridico ancora più persicoloso di Comte!... “Le spirituel d’abord!”... E anche nei problemi sociali, si capisce...
«L’unico professore di liceo a cui si poteva parlare era un residuo appena appena aggiornato dell’Ordre Nouveau che ci faceva leggere in classe Daniel-Rops come maestro di stile. E come maestro spirituale m’ha suggerito con una gran circospezione Gabriel Marcel, ricordo che m’ha dato appuntamento in un bar per non dirmelo dentro la scuola. Sapete cosa rispondeva, a chiedergli “Professore, dove si va a finire?”. In Canada. E perché? Perché la nostra civiltà fout le camp. Se si rimane qui, saremo travolti dalla débâcle. E perciò: o si fonda una piccola colonia nel Québec, portandoci dietro un pugno di terra patria... E magari, per i più spregiudicati, un Mounier tascabile... Oppure “si deve tentare qualcosa” per salvare la civiltà europea... Cioè, romanica...».
«Tentare cosa?».
«Mah, così».
«Però, tu lo conosci, Marcel. Non Marcel Proust. Andavamo a trovarlo insieme in rue de Tournon».
«Quand’era tornato lui dal Québec, che non gli piaceva per niente, perché diceva che è grande quattro volte la Francia, e tutto in mano a un clero asservito e a una televisione soporifica e soffocante! Ma queste sono storie recenti, io stavo andando indietro nel tempo».
«A me ha raccontato che una sera a Montréal è apparso in un breve programmino, e il giorno dopo lo chiamavano tutti “signor Ambasciatore” perché avevano capito che fosse l’ambasciatore di Francia. La cugina, invece...».
«Quella che ha una figlia fotografa e una diaconessa?».
«Mi ha confidato che, nata in agosto, ella è una Solare: ama le pianure un po’ vallonnées della Francia, il fléchissement del crepuscolo sopra i ponti della Senna, la frutta, le patate bollite, le rose rosse, Proust, Bach, Fauré, e il Quattrocento».
«È sempre in scialle a frange, dice “non cesso di raccontarmi delle storie”. Sai la trama del suo romanzo più premiato? Il giovane lupo Jean-Loup ha avuto il privilegio di vivere la sua adolescenza con una madre gaia, comprensiva, e artista».
«Diventa culo?».
«Bien sûr. In questa intimità egli introdurrà un suo compagno di classe, tipo di bell’arcangelo fatale e sofferente per le volgari stravaganze di una madre risposata che passa da un’avventura all’altra».
«Speriamo a St-Tropez».
«Come tutti. Ma dopo la morte della madre di Jean-Loup, dopo la fuga della madre di Serge che induce Serge a rifugiarsi presso l’amico, i due adolescenti restano soli, e si abbandonano all’attrazione reciproca».
«Avviene l’irreparabile?».
«Figuriamoci se la signora te lo dice. Devi comprare il libro, è una furbona. Ma basterà una malattia misteriosa di Jean-Loup perché Serge lo lasci per non sentirsi più prigioniero nell’appartamento di Madeleine, e vada a morire in un banale accidente d’aeroplano».
«E noi, tutti in fila, tutti eleganti, in avenue de Wagram, con Gabriel Marcel, Raymond Aron, Jacques Rueff de l’Institut, Jacques de Bourbon-Busset, e i Reverendi Padri Daniélou e Dubarle, ad ascoltare un dibattito sulla morte delle ideologie in una galleria piena d’armature e moretti veneziani, e cappellini di primavera, dove però Martin Buber non è mai arrivato benché annunciato, e Hans Urs von Balthazar neanche».
«... E Aron ha commentato che per fissare i concetti di potenziale-e-caduta delle ideologie bisogna rivedere tutto lo schema “età militare - età borghese - età dei tecnici” alla luce delle scoperte termonucleari...».
«Il momento migliore è stato quando i due reverendi hanno detto che anche per la donna russa l’ideale è Elizabeth Arden».
«La condanna del nazionalismo nei profumi non verrà col Concilio Vaticano II?».
«Ma nello stesso frangente chi avrebbe abbassato un Guerlain al livello della baba russa?».
Ho capito. Un numeretto di cabaret letterario per i gentili ospiti napoletani. Si arriverà al finto dissapore, per movimentare la seratina e renderla a suo modo “inoubliable”?...
«E Jouhandeau, lo vedi ancora spesso? Mauriac mi diceva: lui tremendo, lei orrenda; tutt’e due, una pessima rappresentazione di circo equestre».
«A lui scriveva addirittura, in pubblico: “Crocifiggete la vostra carne! La ricerca della voluttà non termina che con la morte!”. E Jouhandeau: “Perché dovrei ricorrere a mezzi così sanguinosi, quando sto benissimo così? E che esperienze di voluttà avrebbe poi Mauriac?”... Ma con me, lui sosteneva che l’insigne frase non gli appartiene. Sarebbe di Paul Bourget che vicino a morire la disse a Henry Bordeaux, che poi la propalò in giro. Ma c’era una ragione: Bourget ottantenne o più, agonizzante in un letto d’ospedale, con le poche forze che gli restavano faceva le avances a un’infermiera...».
«Ma Jouhandeau sostiene che Mauriac non capisce niente anche in politica, no?».
«Certo, perché appoggia Mendès-France quando invece bisognerebbe rifare l’Impero. Dice: avete visto in Algeria, quante storie, oggi? E domani sarà la Bretagna, dopodomani la Provenza... Ecco la necessità degli Imperi, se si vuole la pace: l’Impero, unito, è l’unico rimedio, altrimenti, vedrete se non è vero, qui si va verso la guerra dei campanili, e Chaminadour dichiara la guerra a Limoges e a Poitiers».
«Ma come riuscivate a farvi ricevere da tutti?» chiede uno degli amici di Federico. E qui è pronto un altro numeretto: «I mostri sacri sono stati solitari fino a poco fa» dice come al solito Antonio. «Non c’era la caccia al mostro sacro tipo Céline o Eliot, perché non ci si rendeva conto che sono gli ultimi, non è vero che ogni generazione ha i suoi Auden e Adorno, Compton-Burnett o Cocteau. Ormai siamo alla fine; e basta far parte di una Commissione per il Controllo della Qualità: se si dà il punteggio di cinque stelle come “categoria extra” a Gadda e Longhi e Praz, già ti trovi in difficoltà a darne quattro e mezza a Cesare Brandi e a Gianfranco Contini, malgrado tutta l’ammirazione e l’amicizia...». «Ma allora, con tutta la generazione Moravia, come si fa, volendo essere almeno seri come la Guida Michelin?...». «E con i direttori d’orchestra? Se incominci a dare le cinque stelle a troppi, è come promuovere venti o trenta alberghi a Ritz!». «E dopo? Si inventa una nuova categoria a sei stelle? e poi a sette?». «Nello sport, i tifosi non sopporterebbero». «Comunque, i grandi mostri sacri che andavo a trovare non scrivevano su tutti i giornali come gli italiani, non dicevano continuamente le loro opinioni su tutto, alla radio e alla televisione non comparivano mai, i loro giudizi sulla cultura non si conoscevano... Quasi sempre, ero il primo italiano che vedevano da tanto tempo...».
«E nessuno ti ha mai mandato a quel paese?».
«Solo Montherlant, ma poi l’ha pagata. Attraversava spesso i giardini delle Tuileries la sera tardi, rientrando a piedi sul Quai Voltaire, col suo musino altero tirato su. Ma aveva il torto di voler scuriosare dietro certi cespugli dove c’era movimento. Allora, con una petite bande di eleganti teppisti, ci si abbandonava a sberleffi di tipo goliardico. Gaie strida di “Madame de Montherlant, affaire faite, rentre chez elle!”. Si arrabbiava moltissimo».
Si sbraca già? Ma Jean-Claude ha fretta di chiudere una parentesi per riaprirne un’altra, nel Romanzo-Conversazione di Formazione dell’Artista.
«Cosa volete... Mi attraeva, adolescente, quel dandysmo insolente alla base della concezione della felicità in Stendhal... Pensare che era stato possibile fino a pochi anni prima vedere le mitragliatrici nelle vie di Monaco, le camicie nere ai balli nei palazzi romani, Hemingway a Pamplona, Orwell a Barcellona, farsi abbordare dalle prostitute di Grosz sul Kurfürstendamm, e applaudire Noël Coward con Bea Lillie a Mayfair; e sedersi a un caffè di Montpellier con un rivoluzionario egiziano che ti dice “immaginiamo che questo vermut sia il sangue di un bambino inglese!”. E lo beve d’un colpo. E gli si grida “bravo!”. E si parte per le corride. E ci si ferma per un bagno a Cadaqués. E dappertutto trovi un American Express pieno di cartoline eccitanti che t’arrivano da amici avventurosi in tante parti del mondo non ancora sfasciate dai turisti in pullman, l’Hotel Raffles, Papeete, Jaipur... Forse perché io mi sentivo invece così compresso, represso, fuori gioco... tra vecchi signori quarantenni, grandi e grossi, sposati, severissimi, che la sera tuonavano nei caffè letterari su trasgressioni e prescrizioni e cerimoniali, con scomuniche terribili e divieti da madre superiora... ma di giorno camminavano in giacca e cravatta lungo i fiumi a cercar sassi di forma bizzarra come presse-papiers... Percorrevano ogni marché aux puces tutti fieri se trovavano un cavatappi fallico tra i ferri da stiro della nonna e le maschere africane false riportate nei bagagli dei vecchi sottufficiali coloniali... Lo sapevate che la prima sala da pranzo Maori l’ha commissionata Sarah Bernhardt quando André Breton non era ancora nato?... E questi passavano ore e ore con forbicine e colla da ufficio postale sopra i giornalini dei bambini e i bollettini parrocchiali per fare i gesti provocatori... E intanto il vero surrealismo (sogno più romanzo) veniva fatto da Kafka senza dirglielo...».
Antonio, forse un po’ sgarbatamente, gli chiede se sono quelli i miti per cui lascia da parte Proust. «In Italia da qualche tempo anche noi ne parliamo molto meno. Ma lo sai bene che è per ragioni nostre meschine: l’hanno scoperto gli attori, lo citano full time i parrucchieri, le sarte della televisione, le madame che fanno gli arredamenti in Sardegna... Appena senti “Marcel”, ti scatta automaticamente una madeleine per cui rivivi seratine di quiz proustiani in casa dei registi, fra il telegiornale e Studio Uno, con nidiate tipo commessi di via Frattina che suggeriscono “Verdurin! Guermantes!” come se fossero degli shampoo... Li vedi lì idealmente sempre con un calzante o un föhn in mano... e se qualcuno arriva in ritardo alla Rai, stai sicuro che c’è stata una situazione kafkiana, mentre se ti càpita un qualcosa di pirandelliano o soltanto machiavellico, nessuno ti saluta più, sei out dai clan...
«Allora, con questi, si fa apposta a pronunciare per dispetto “Prou!”, come chou, hibou e pou... Ma l’aggettivo, non si direbbe mai, fra persone beneducate. Not in front of the servants, cioè al contadino non far sapere. Però non credere che il dialogo a tu per tu col testo sia rimandato. Semplicemente, si evita di parlarne a tavola. Non si grida di adorarlo mentre stiamo provando una giacca dal sarto, col metro intorno alla vita. Ma forse ci vorrebbe un editto, come nell’Antigone. La pena di morte per chiunque si permetta di dire, dopo una squinziata mai vista: è stata una matinée Guermantes».
«Ma scusate,» mi permetto «quando mai Proust ha detto “ma che stronza”, davanti a una vera stronza? Stava lì in punta di sedia, e gli andavano bene tutte. Voi resistereste quanto, a far lo stesso? Vi direbbero, bene che vada: questo è un buon incassatore».
«In Francia non è mai stato completamente popolare, sai?» osserva Jean-Claude. «Guarda per esempio come non se ne vedono influssi negli scrittori appena più giovani di lui. Montherlant probabilmente non l’ha mai letto. Malraux forse lo compatisce perché non è mai stato né in Messico né in Arabia come i due Lawrence. E sicuramente Mauriac in cuor suo lo giudica inferiore a Barrès e chissà a chi altro.
«Fra le mani della nostra infelice generazione, poi, fammi il piacere di guardare cos’è diventato: un affare di balli di carità in costume, d’autografi rari come il francobollo delle Mauritius, alibi per dîners de têtes... Tutto un trionfo del pastiche stilistico, e del romanzetto à clef: ah, ma allora il Tale è il Tale!... Proprio come quegli spettatori che in tutto un film colgono una cosa sola, quell’inquadratura dove si riconosce Venezia, o Volterra».
«È l’atroce vendetta di Sainte-Beuve! Tu componi un pamphlet importantissimo contro un metodo che si serve della biografia e dei bibelots per capire i tuoi testi, e finisce che tutta la tua opera viene usata come introduzione e strumento per scuriosare nelle minuzie della tua vita... Raccontata, poi, da biografi che non sanno neanche come e con chi scopa la loro signora, e da parte loro sfoggiano cravatte e giacchette da “esperti” tutt’al più in Pratolini o Pavese... Però descrivono i dettagli degli amori e degli abiti degli artisti e delle duchesse, riferiti dalla cugina della portinaia...».
«Ma Proust non la conta giusta! Non rivela mai che va tanto in giro per i pranzi e i salotti soprattutto per scrivere un grande romanzo! Vorrebbe farci credere che ci va per mera mondanità!».
«E allora, perché le varie principesse lo invitano e lo riveriscono, se non è bello, non è ricco, non è aristocratico, non è cattolico né protestante, non è l’autore della Recherche, non ricambia i pranzi, non è sano, non è un amuseur spregiudicato e irriverente, non è tombeur di dame, e non si potrebbe neanche fargli sposare una parente povera? Che principesse smandrappate possono essere?».
«Si sa benissimo, e a Parigi trovi decine di vegliardi che te lo spiegano: frequentava soprattutto un demi-monde d’alta borghesia e di nobili che avevano sposato i soldi per ridorare il blasone. E l’ha descritto come se fosse il Faubourg Saint-Germain. Ma la vera aristocrazia francese è tirchissima e xenofoba, non si sposa in Baviera e non dà ricevimenti se non per i parenti, che sono molti e malvestiti, e proprio quando si sposa una figlia...».
«Sarebbe carino il contrario: descrivere una high society come se fossero mezze-calze...».
«E il termine balzachiano?» vorrei sapere.
«L’ultimo a usarlo a Roma è stato Saragat,» taglia corto Antonio «per scagionare certi ceffi che salutava all’ambasciata francese. Me l’ha raccontato Sandro De Feo: “questo è un giornalista balzachiano, questo è un banchiere balzachiano” pare che dicesse, ma forse per discolpare se stesso dopo aver intrattenuto figuri con melanomi nelle occhiaie, capelli tinti male, gessati impresentabili...».
«Non parlo per caso di un certo stendhalismo» dice un po’ a tutti Jean-Claude, addolorato e intenso. «Una certa ironia... Un certo cinismo... Una certa frivolezza, più o meno affettata, ma più impaziente di qualunque understatement inglese sui condemned playgrounds... E automobili, sport, duchesse, liquori, teatri, romanzi, Parigi... Parigi vista come se fossi un turista inglese entre-deux-guerres, quando non è ancora suonata l’ora di chiusura dei Giardini d’Occidente, e si può sempre sperare in un’ultima improbabile tournée di Balletti Russi...
«Prendere per il weekend una stanza nella stessa città in cui si vive con la tappezzeria scarlatta e i paraventini di chintz intorno al bidet in un vecchio albergo di rue de l’Université... in esilio come Rancé che desiderava celebrare il Natale in un convento del suo ordine, e l’avrebbe anche officiato ma vi rinunciò quando seppe da un vecchio monaco che a tavola non si faceva alcuna pia lettura, e che dopo mangiato i fratelli giocavano a carte... in un profumo di caffè e croissants nei corridoi felpati per le piccole colazioni alle due del pomeriggio, dalla strada il suono attutito dei claxon festivi, magari una gallina che prende il sole côté jardin davanti a un tempietto dorico della bambola – e tutto intorno, Parigi!... E scoprire come per caso Corps et biens e Les pieds dans le plat e La grande beuverie fra Glenway Wescott e Denton Welch e l’“Herald Tribune”, sul letto a due piazze con la trapunta a rose inglesi... e sarà il tuo corpo non la tua mente che sperimenta Angst e spleen domenicale mentre tu stai aspettando al telefono la voce del portiere che ti conosce e annuncia “il y a quelqu’un en bas pour vous Monsieur, voulez-vous que je lui dise de monter?”... Però non saprai mai chi sta salendo per bussare alla tua porta?... un Brancusi velato che esploderà dall’interno per rivelarti il girasole della mezzanotte... un’eclisse di Venere coleottera, coprofaga, commestibile?... un’Arianna che sarà assolutamente allucinatoria, nel labirinto metafisico, o non sarà?... Gambe di fiamme, testa a Sagrada Familia frenetica, petto di nuvole in moto, Caspar David Friedrich... Diana o Nadja o Donna Anna ancora in abito di scena, sbattuta e fremente per l’avventura inaudita in camera, e poi nel camerino, e ora l’irruzione qui, nella foresta-enigma degli usignoli insanguinati... nelle ore domenicali deserte e propizie alla preparazione degli attentati e delle bombe in stanze discrete foderate delle œuvres complètes di Chateaubriand... e di Lautréamont e Nerval, naturalmente... E tutta la vita di Parigi lì intorno!...
«... perché si sa che non esiste un confine di alienazione visionaria tra il surrealismo anarchico e la clarté romantica automatica e il grande umanesimo delle parole che non fanno ombra nella volupté fin-de-race... Balzac, Flaubert, Rimbaud, Moreau, Redon, Camus, no?... o tra la violenza di Breton e la violenza di Proust, allora...
«Fuggire la compiacenza segreta dell’eccesso di surenchère esausta... Fuggire a Bandol, al Lavandou, a Ramatuelle... Atque illi Misenum in litore sicco – ut venere, vident indigna morte peremptum... – and that’s ME!... Palinuro sepolto sulla spiaggia di Sanary-sur-mer sotto un rogo di “romans parisiens” del Jazz Age neanche perché fosse un mio dovere civico scambiare battute da “Racine Club de France” come “Peux-tu me dire ce qu’est la situation politique a Barcelone? Je ne sais rien... Tu ne la connais pas! Elle me demandait de lui planter des épingles dans la peau!... Pourquoi des épingles?... Elle voulait s’entraîner... Je criai: à quoi?... Michel rit de plus belle: à endurer la torture... Good night, Brett, I said: I’m sorry you feel rotten...”. Ma perché... perché sono percées minimali da cui un egotista edonista non si libera nemmeno sotto tutte le zanzariere del Fiume Giallo o della Cochinchine...
«Una letteratura dégagée? Ma sicuramente!... Però in un senso tutto diverso dalle prescrizioni della vecchia cara dabbene Trahison des clercs... Ci arrivavo passando per Larbaud, Giraudoux, Morand, Matisse... è chiaro, no? e forse attraverso qualche galleria e piscina in più... Ma anche Malraux, non stupirti... Forse l’ammiravo come si vagheggiano i due Lawrence... Anzi, i quattro Lawrence, comprendendo beninteso oltre a D.H. e a T.E. anche quel mirabile ritrattista di Lady Hamilton e di Pio VII e di Satana, Sir Thomas Lawrence... e la sublime Gertie Lawrence che ha lanciato “A cup of coffee, a sandwich, and you-ou!”... ed è scomparsa nel fiore di Broadway mentre faceva The King and I, con Yul Brynner!...
«... proiettandoli nei nostri paesaggi immaginari che sono già un Max Ernst composito di Messico, Arabia, Siam, Ossian, e Tonkino... chiavi perdute di Nerval... e tutte le ostriche e aragoste e ananas e scoiattoli e i Lautréamont o Chateaubriand che potremmo essere stati nelle esistenze anteriori... perché come esploratori vertiginosi di un intérieur visionario, abbiamo tutte le autorizzazioni per un inconscio ristrutturato come la lingua di un formichiere...».
E noi, teppisti: «Ma non volevi farti trappista?». «Era una bella parola di moda. Molto di moda. Suonava bene, ma non è durata molto».
«... Nella nostra cara attualità, invece,» osserva ancora «non essendo né un doganiere né una portinaia né tanto meno un marito geloso, non ho mai intercettato né decifrato “messaggi”... ma a differenza di Amleto non credo nemmeno che la coscienza ci renda vigliacchi... né sono mai riuscito a separare la gioia della conoscenza dalla scoperta dei valori tragici della vita... Avrò dato forse troppo retta alla moda insolente e struggente della démilitantisation, quando i giovani spavaldi della “Table Ronde” predicavano che nella Quarta Repubblica non esisteva nessun valore, nessuna idea, nessun partito, nessuna dottrina che non fosse volente o no complice di enormi errori, menzogne, ingiustizie...».
«Ce lo ripeteva anche Mauriac» ricorda Antonio. E cita, a memoria: «Destra significa tante cose diverse, c’è una congerie di principii rispettabili e necessari, io rispetto De Maistre, quella è una saggezza, e poi è giusto che si difenda la concezione della nazionalità... Ma costoro non hanno principii, hanno solo interessi!... Questo cinismo nello sfruttare le risorse nazionali a beneficio dei pochi!... Ma perché De Gaulle ha perso allora l’occasione che gli si offriva di giuocar tutto sulla sinistra senza appoggiarsi ai conservatori? E perché Malraux non l’ha guidato? Era l’uomo più qualificato a dargli dei consigli giusti... Ecco un incontro che sarebbe potuto riuscire miracoloso per la Francia... E come mai non ne sia uscito niente di buono, è davvero uno dei misteri della nostra epoca... senza contare che qui risorge il fascismo, e ne siamo preoccupati tutti. E risorge soprattutto nell’ambiente intellettuale dominato finora da Sartre, che d’altronde non vale più dei fascisti...».
«Non mi parevano affatto versioni aggiornate delle vecchie solfe nazionaliste contro la stoltezza dei parlamenti e la vanità delle lotte di partito, vista la pochezza degli individui» dice Jean-Claude. «Il mio slancio ottativo non presupponeva né la norma né l’infrazione... Però sarò un outsider, non un ci-devant, e il mio confessore è riuscito soltanto ad annoiarmi, non già a convincermi. Gli ripetevo che credevo tutto, volentieri credevo a qualunque cosa, ai pani, ai pesci, al cammello, alla cruna, ai talenti, ai centauri, agli ippogrifi, al Ratto d’Europa, al Bateau Ivre, a Moby Dick, basta dirmi le cose con calma e cortesia... purché mi si lasciasse tranquillo con Olympia e Sylvie e la Regina di Biancaneve: esempio di vero chic, mai un gioiello, in un paese di nani che pensano solo a scavare diamanti, peggio dei Nibelunghi... fra parrocchie in gara a chi ricopre la propria Madonna della peggiore bijouterie...».
«Era con lui che sostenevi le Scritture contro l’infame Galileo?».
«Ma si capisce, la terra in certe case è piatta, o si è beneducati o non lo si è. Solo un bifolco parlerebbe male di Stalin con Aragon a un pranzo dai Noailles, o bene della Pompadour col medesimo Aragon in una redazione comunista. Allora confessavo la mia fede sconfinata e riposante nel sistema tolemaico, e anche negli asini che volano... Sono cose che piacciono! Domandavo prove su prove per escludere che gli asini volino, come in un soffitto di Chagall... con Amleto e Polonio che volano in groppa ad asini teologici: allez-hop! allez-hop!... dirigendosi beninteso al Bœuf-sur-le-Toit... e lì ricostruire finalmente il Presepio come quei sipari di Picasso con la Gran Madre Mediterranea... e l’unicorno in seno o chissà dove a una Vergine di grande famiglia, come negli arazzi...
«Insomma, di chi sarà la colpa se a me interessavano molto i Sette Nani e i Sette Re di Roma, e i Dodici Apostoli invece no? Se vi ordinano, scusate: dovete farvi venire un’erezione davanti a Elvire Popesco per guadagnare un premio, come fate? Sono cose troppo difficili, a comando: psicosomatiche... E se la vodka mi tiene sveglio, mentre lo champagne mi fa dormire, di chi sarà la colpa?
«Poor robin, eppure in quegli outsiderismi beneducati le riconferme venivano proprio da Raymond Aron che tu conoscevi bene: quanti avanti-e-indietro fra Sciences-Po e la Sorbona per i giardini del Luxembourg, negli anni dell’Opium des intellectuels e del regime Sartre-Beauvoir...».
Ma qui, ahimè, si fa pecoreccio local: «Belle creature!... Che bocconcini, dottore!... Peccato non esserci stati anche noi!... Anni d’oro buttati invece tra playboys da stracazzo!».
«Com’erano precisini, allora, tutti i ruoli: i loro, i nostri...» fa Jean-Claude. «Pensare che la mia famiglia voleva fare di me un alto funzionario dell’Amministrazione... Lo ammiravo molto, Aron: un uomo che può mettere a tacere gli stalinisti con le loro stesse armi dogmatiche... quando fa a pezzi gli odiati mots sacrés: Sinistra, Intelligencija, Rivoluzione, Proletariato... cioè i miti buoni per servire come alibi in tutti i compromessi delle dittature... il Fronte Popolare e il Trentanove, il Cinquantuno e il Cinquantasei, la copertina su “Time” e il viaggio a Mosca, il Premio Lenin e quello Goncourt, per lo stesso libro che spera tramite il film di concorrere all’Oscar... La Mercedes con l’autista dietro il palco del comizio operaio per arrivare in tempo (e già in cravatta nera) al pranzo della Comtesse o della Vicomtesse... E lì, fra gli antiquari e le sarte, “sì sì, che abbiano tutti fino all’ultimo la Renault e il frigorifero, ci si batte anche per questo!”, e la volta dopo, fra gli attori e gli artisti, “no no, che non l’abbia nessuno, perché è proprio così che il proletariato della Renault si degrada in piccola borghesia!”...».
Sembra angosciato, non si può più scherzare. «Mi capite, no?... Fra ideologie di sinistra dichiarate e dimostrate assurde nella pratica... giacché a me interessa la libertà di leggere e scrivere e comunicare, e non già gli sviluppi di industrie pesanti o di partiti da cui derivano tutti i nostri mali... E gruppi di destra condannati nella loro forma attuale alla violenza legale o all’impotenza... O se no, dopo le bombe e gli attentati e i complotti, le nuove forme d’una vecchia dittatura... o le forme vecchie d’una dittatura nuova...
«... Non sono mai stato uno di quelli che ripetono “preferiamo veder la gioventù francese al caffè o in casino piuttosto che dentro un partito politico”... Ma sono stato costretto a chiedermi se sarà più giusto per un intellettuale in buona fede contribuire col proprio ingegno a mascherare le tare del sistema... o dell’antisistema... Che cos’è in fondo l’engagement da caffè, sennò?... Inaugurare una Voie Royale di ripetitori davanti al gaullismo capitalistico-progressivo... Mariage à la mode fra la povera Giovanna d’Arco e il compagno Iosif nella cattedrale naturalmente di Brocéliande, engloutie, con faire-part in corsivo inglese per gli amici americani e tedeschi dei formaggi o dell’acciaio...
«Oppure, non sarà neanche un gesto, solo un calco in gesso, rifiutare di sacrificare la propria integrità, e quel tanto o poco che si possiede di talento, alle menzogne inerenti alla lotta politica nella cultura, per pie menzogne che siano, opportunistiche... giacché alla fine è poi la letteratura che conta, e rimane, e rallegra le domeniche della vita, mentre l’industria pesante e la burocrazia di partito opprimono le giornate feriali e corrompono ogni qualità dell’esistenza...
«Ah, se la sinistra avesse saputo proporci delle ideologie appena accettabili per la nostra cultura... per il patrimonio intellettuale dell’Occidente... invece di costringerci a questo intollerabile giuoco della torre dove continuamente devi buttar giù Mejerchold oppure gli altiforni... come se fosse dimostrata questa incompatibilità connaturata fra la poesia e la ghisa...».
«C’è, c’è» interrompe rapidamente Federico. «Hanno ragione i funzionari: come si può avere nello stesso tempo Majakovskij e la catena di montaggio, strumento-principe dell’iniquità del principe? Farei lo stesso anch’io, al loro posto: come del resto si è sempre fatto in casa nostra ai bei tempi». Ma Jean-Claude non vuol proprio sentire le impiccagioni storiche di qui, dei giacobini napoletani o del latifondo non gli importa niente.
«La prima volta che ho avuto l’età di votare, mi sono sentito avvelenato. Provavo come un senso che la mia goccia d’acqua non importasse nulla nel gouffre. Il giorno prima delle elezioni sono stato molto male.
«Il solito disturbo psicosomatico?... Facile: comunque, non ho potuto lasciare il letto. Per me, c’è sempre una circostanza obiettiva che mi impedisce di agire... E tanto più, mi sono spesso trovato paralizzato dalle situazioni esterne... Il jeu de massacre che mi vedevo continuamente davanti, ove portano tutti – giuocatori e figurine – gli stessi képi stellati, le stesse spade accademiche, gli stessi bicorni da sottoprefetto... con l’estate 1940 e l’estate 1944 che paiono costantemente confondersi... come l’ombra e la luce, in Monet...
«Vichy, la Resistenza, il collaborazionismo, consegnati alla Storia, ma sempre lì fra i piedi... intriganti e cangianti... e sul medesimo piano... Come la vittoria e la sconfitta, la lealtà e il tradimento, la felicità o la disperazione... di colori sempre delicatissimi... e con le medesime facce... in un equilibrio spaventoso che non sai mai se accettare o respingere... in blocco... come la fedeltà a vecchie bandiere cariche di onori o di vergogne che non mi dicono più niente... remote dietro le spalle più dell’Affaire Dreyfus o della verginità di una mia biszia... come le marce militari al suono delle quali si decorano alti funzionari e giornalisti celebri, fierissimi di scrivere l’opposto di ciò che pensano e di fare il contrario di ciò che sostengono...».
«Ho cercato, proprio perché ne sentivo per istinto l’attrazione, di non accettare mai le ideologie che proclamano l’assurdità feriale dell’esistenza, la nausea sistematica, la disperazione longeva, l’Angst professionale. Non sono riuscito a niente. Nei giornali, i titoli della guerra d’Algeria li ho evitati per anni; ed è stato facile, come quando ero ragazzo e non toccavo uno sporco quotidiano, riaprivo il Télémaque interrotto quando m’avevano chiamato per andare a tavola.
«Non ho mai trattato quei tipi di engagés cretini che si pretendono élite e coscienza di una classe operaia che non hanno mai visto, sono engagés che viaggiano molto fra le masse esotiche da cartolina e fra quelle francesi non li vedi mai, e meno che meno d’estate, quando esaltano Cuba per i drinks al rhum... Però nella stagione giusta, quando sono aperte le scuole, entrano ogni sera come miliziani nei caffè di St-Germain-des-Prés con le facce aggrottate, e sventolano i titoli dei giornali gridando “ça alors!” perché c’è ogni sera una loro protesta da riempire o indignazione da firmare con questa supponenza astratta che dovrebbe sostituire... non so, che cosa? il dinamismo rivoluzionario? qualche azione pratica e concreta? o anche quell’appeal popolare magari un pochino estetico... magnetico... di immagine... si può dire ancora “carisma”?... senza il quale tutte le varie masse e scolaresche alle manifestazioni possono giustamente mandare a quel paese... e fanno bene...
«... Questi che dopo aver passato tutto il giorno in cattedra, e tutta la notte a preparare una licence e una maîtrise e una agrégation dopo l’altra, e aver concorso a tutte le borse possibili, si trasferiscono al caffè per reclamare abolizione di tutte le istituzioni, a cominciare da tribunali e ospedali e giornali e naturalmente tutte le scuole... avidi e ingordi egualmente di esaltazioni e di rifiuti, purché pubblicitari e momentanei...
«... Del resto non ci si riesce, non si resiste, non ce la si fa... a tener dietro a quei dogmatismi basati sull’assurdismo... che ti impone valori e doveri sempre fra i più assoluti, però diversi in ogni stagione culturale, e poi certezze tutte d’un pezzo, però basate su una filosofia del dubbio sistematico...
«Non si possono, davvero, seguire tutte le revisioni critiche e le giravolte di pensiero dei vari precettori e predicatori!... Se ti distrai un momento, se vai via qualche giorno, rischi di stare ancora credendo in buona fede ai dogmi totali che erano de rigueur fino all’inizio delle vacanze, ma adesso non si portano as-so-lu-ta-men-te più! Sono stati rimessi radicalmente in causa dai medesimi che te li proclamavano terroristicamente addosso fino a tutto luglio... e allora se torni a metà settembre invece che a fine agosto sconti le tue vacanze protratte, perché ti trovi scomunicato, sclassificato, fuori epoca!...
«... E io purtroppo arrivo sempre con un po’ di ritardo ai dogmi doverosi e agli appuntamenti decisivi... Ho la cattiva abitudine di riflettere un po’, prima di buttarmi nell’adesione alle vie maestre del pensiero di moda... O forse, ho soltanto dei tempi interiori un po’ più lenti, nel gestire le mie quote, nell’imprenditoria del pensiero negativo.
«E così ho l’handicap di incominciare magari a credere quando gli altri hanno già ridiscusso e rinnegato, fatte e finite le autocritiche feroci per averci mai creduto, redistribuito gli utili e le cariche sociali dei moulins-à-paroles... E forse, bisognerebbe veramente saltare due o tre stagioni ogni tanto, riagganciarsi ai più nuovi e protervi dopo essersi presi un po’ di riposo... al largo da questa smania ideologica che fa tanto anni Cinquanta e dunque già così démodée...». («Ah, Céline, Céline...» in un soffio, Antonio).
«Insomma, la gente è furibonda, io sono più furibondo di loro, l’Algeria non si risolve, questi governi sono incapaci e decrepiti e lo vede chiunque, non c’è davvero bisogno di diagnosi brillanti... Scoppiano le bombe al plastico ogni sera in diversi punti di Parigi ma le nostre care amiche escono continuamente a pranzo cariche di diamanti e se un’esplosione scuote la loro demi-tasse al Grand Véfour dicono “ancora il surrealismo!”, e si sentono ringiovanite... Eros e Thanatos al Grand Marnier, e dove potremmo trovare il Signor Dio? ma naturalmente al bordello, giù per la scala e nei gabinetti, ancora un po’ di abiezione, madame la baronne?... Mentre i tuoi migliori amici stanno aspettando questo lugubre De Gaulle che col suo paltò lungo e il suo nasaccio da tapiro somiglia poi anche troppo a quei figuri da cui ognuno di noi è stato dubbiosamente accostato da piccolino in una pissotière... Soltanto, lui sta facendo la stessa cosa con la Francia, allargando questo orrendo paltò a doppio petto per fare intravvedere una doppia erezione di Lorena... Così adesso ti tocca litigare con i tuoi amici per una ragione, e anche troppo presto dovrai rilitigare per la ragione opposta...
«Ma intanto, qualunque cosa tu scriva, subito viene osservato che è scrittura falsa, letteratura bugiarda, “fine a se stessa!” (il peggio del peggio!), e insomma a che cosa servono questi tuoi libri?... Non saranno per caso... giuochi?... O peggio ancora, questi tuoi giuochi faranno il giuoco di chissà chi?... Come se ci fossero una letteratura o una pittura o una musica vera da contrapporre a queste false... E allora, Don Giovanni e Don Chisciotte e Medea, dove li collochiamo, di qui o di là?... Sono veri, sono finti, e poi a che cosa servono? A cosa serve l’artificioso Seurat?».
«Da noi» interrompe subito Antonio «si fanno con serietà le graduatorie fra libri alla portata di tutti, che vanno lodati, e quelli biasimevoli perché di élite. Gente che mai oserebbe vantare la propria millecento contro una Jaguar o una Mercedes, elogia Moravia in quanto bestseller per la gente comune, rispetto a Gadda o Beckett che hanno la colpa d’essere troppo difficili e dunque d’avere pochi clienti».
Klaus si informa. «Ma non usano, nelle vostre scuole, quelle distinzioni così comode fra Highbrow, Middlebrow, Lowbrow, che non fanno torto a nessuno?».
Federico si affretta, in un soffio. «Non è ancora arrivata, Virginia Woolf, vedremo se la troveranno di destra o di sinistra, qua. Ho una paura, per Bloomsbury...».
«Come se il giuoco o il loisir o il relax fossero attività umane così riprovevoli socially,» ripiglia ostinato Jean-Claude «e l’arte dovesse avere per forza un fine ostile al tempo libero, un contenuto di pratica lavorativa approvata dal Segretario, dal Precettore, dal Ripetitore...». E lì: «Un contenente e un contenuto? Un contenuto e la sua forma? Sempre lì fermi alla vecchia nozione di culo e camicia?».
«O un contenuto formale scapigliato e sans-culotte?». (Non si incomincerà a perdere qualche colpo?). Ma Jean-Claude non si lascia égarer.
«Intanto, niente di più sinistro di quei cani da guardia della cultura che ti stanno addosso attentissimi perché tu non sperperi le tue energie corporee e intellettuali: far l’amore se non è sabato è peccato perché diminuisce il tuo rendimento sul lavoro subordinato, così come scrivere versi non ideologici o governativi sarà antisociale. Oppure la rêverie è dissipation e gaspillage, e il tempo libero va dedicato non all’edonismo ma alle buone opere non fine a se stesse... proprio come i sorveglianti alla catena di montaggio non permettono d’accendere una sigaretta o di andare a far pipì, giacché sono appunto gli schiavi a produrre altri schiavi, e sono loro che ti devono, devono a ogni costo impedire il piacere corporeo e l’eccitazione culturale, lo spleen e il giuoco, perfino l’occasionale cafard... giacché la catena di montaggio per loro è come l’Angelo Custode, dovunque tu vada non ti abbandonerà per controllare se le tue manine hanno sticky fingers...».
«Ma il “tonico” politico e culturale di cui la Francia avrebbe bisogno... e qui, oltre a quei tuoi cari amici con cui litighi su De Gaulle, ce l’annuncia la parte apertamente spaventosa del nostro paese... L’orrore che mi fa... difficile da rendere... L’ordine di essere prosperi e moderni a ogni costo... produttivi e felici per te e per gli altri... euforici e funzionali e longevi e snelli tra camembert di plastica e verdure sintetiche e weekends di bricolage ecologico nella gentilhommière quadrifamiliare... Il giro di vite moderno che disintossica e ridà la salute a voi e ai vostri cari piccini che stanno nascendo già in costumino a fuseaux per gli sports d’hiver... D’altra parte...».
(Va aiutato? Non so...).
«Ah, sì, sempre contro tutti gli interdetti, contro ogni dittatura, e anche naturalmente in materia d’arte! D’accordo! Sì!... Ma poi, a cosa la vediamo servire, la completa libertà di espressione e trasgressione che è pur sempre il fine ultimo della nostra vecchia civiltà?... I letterati alla moda, i nuovi saccenti, li vediamo pure, no?... Quei terroristi del narcisismo protetto, coi loro poemettini in prosa Pierre Cardin, a che pipes arrivano... Come quelle signore che dicono: stasera mi vesto al meglio, stasera cucino al massimo... e con questo segnano il proprio limite, ma di solito le signore sono più accorte... Dicono: mi metto una cosetta, vi servo quello che c’è in casa...
«... Quando “il massimo” equivale a copiare quella bottiglia di aperitivo che ha sull’etichetta una bottiglia più piccola, e che a sua volta contiene un’altra bottiglia... Queste albe presuntuose di un autunno del discorso... misticismo appiccicoso della parola-talismano assaporata come una sucette fra le gengive di vecchi bambini... con risonanze pretenziose imposte come chissà quali evocazioni portentose e arcane, ogni volta che si nomina il mare o il vento, l’isola o la penisola, la finestra o il parco quali generatori automatici d’una poesia da tagliarsi col coltello... E dietro magari un’infanzia qualunque in una scuola qualunque, che si sente; e dei patatì-patatà libreschi con una Jeanine di serie in una stanza qualunque con vista neanche sul Mediterraneo ma sull’ufficio postale di rue de l’Épéron...».
«E quella riduzione dei fenomeni più complessi a semplici coppiette?» tenta di taquiner Antonio. «Il caldo e il freddo, l’asciutto e il bagnato, il duro e il molle...». Ma non lo sta a sentire. E lui insiste: «Come se conoscessimo solo coppie di sorelle dove ci sono la grassa e la magra, o la alta e la bassa... E non invece magari la tranquilla e la stupida, la generosa e la distratta, la volgare e la viaggiatrice e in più la volage...». Ma quello è partito...
«... Però non crediate che non mi sia abituato a drizzare l’orecchio e a diffidare, quando poi sento porre i nostri problemi in termini di Civiltà e non di politica... La Civiltà... la riforma delle strutture economiche... l’aménagement du territoire... la riconquista morale della società... per la rinascita dello spirito politico basata sul costume, negli ambienti divenuti indifferenti alla cosa pubblica... sulle rovine dei concetti tradizionali di Destra e Sinistra... mentre però la Repubblica si trasforma ogni giorno e sempre in peggio, e noi litighiamo, litighiamo... e mio nonno e l’autore dei Chemins de la liberté ripetono vispi e vivaci “Élections, piège à cons!”, ma non si capisce mai se lo stanno dicendo insieme, o in situazioni sfalsate... Ecco, pressapoco, che cosa mi sto lasciando indietro a casa mia in questi giorni... Del resto, lo sapete bene».
«La sento, la sento,» geme Federico «questa Grandeur che vi sta arrivando... Però, scusatemi, io non sono iscritto all’albo d’oro dei blousons noirs, mi sono fermato a Chanel, a Cartier, e a Pierre Boulez». E si affanna a servire chartreuse, porto, peppermint con ghiaccio pilé.
«Sapete» dice trasognato Klaus. «Nel 1873 Renan va a un congresso di filosofi, e nota che la delegazione francese è messa nel loggione. Riflette, e osserva: è perché la nostra artiglieria sparava male a Sedan».
«La sapevo, sai» sorride freddamente Jean-Claude, senza badare a Antonio che non ne può più e interrompe con bêtises tipo «e fu allora che Orfeo Negro si infilò le scarpette rosse per danzare con l’Angelo Azzurro nei verdi pascoli». «... E quella storia la ripeterei io per primo a certi asini che parlano tanto della Francia eterna, ma poi non la conoscono affatto. A partire da Maurras, col suo pays réel... Ma dove siamo? Durante la guerra, un nostro contadino adorava Pétain come un santo. Quando ha visto l’intestazione “État Francais” sui manifesti e sui soldi, però, è scoppiato a piangere. “Ci hanno preso la nostra repubblica” diceva. Avrei voluto vederli proprio lì, quelli del pays réel...».
Gli chiedo dell’iniquo Malraux. Fanfara per fanfara...
«Quando ero molto più giovane, ho cercato molto di parlargli» mi fa lui. «Ma non ci sono mai riuscito. Era sempre malato o in viaggio. Ho messo in mezzo perfino un collega del mio professore, quello che voleva stabilirsi in Canada... Un gran brav’uomo, gentile... surrealista mal riuscito, per timidezza... sempre stato l’ombra discreta di Malraux... Anzi, in un paese tutto di anciens-élèves, l’unico compagno di scuola che gli si conosca. Trent’anni fa andava in giro da un libraio all’altro, con una gran borsa piena, a piedi, a offrire in deposito l’edizione illustrata dei Conquérants... Ma che titoli, usavano, allora...
«... E adesso naturalmente è un grand commis... molto molto grand... al Ministero degli Affari Culturali... suonano la Marche des bonnets à poils quando arriva lui al Palais Royal... Ma tutto quello che ho ottenuto è stato di farmi dire dal grand’uomo, naturalmente per interposta persona, di rileggere la postface proprio dei Conquérants, pubblicata però solo nelle edizioni dopo il 1948, così pochissimi la conoscono. Là si sarebbero trovate tutte le risposte. Ma in tutto l’oracolo ho trovato soprattutto una frase, che è a proposito dei comunisti, ma a quanta altra gente si applicherebbe benissimo: “Ah! que d’espoirs trahis, que d’insultes et de morts, pour n’avoir fini que par changer de Bibliothèque Rose!”.
«Mauriac invece mi faceva delle tirate così deliranti pro De Gaulle da lasciarmi interdetto, più che sdegnato. E si capisce. Mio nonno, suo “fedele”, ma un po’ come il nonno diffidente della Recherche, dietro la Terza Repubblica non poteva non vedere Ollivier, dietro Vichy naturalmente Reynaud, e voleva vedere a ogni costo Caillaux dietro Mendès-France. Però io in Mendès-France avevo creduto. Sia pure soltanto “da buon francese” e non per simpatia umana; ma sinceramente. Speravo che riuscisse. E quando ho visto finire nelle repressioni di Lacoste, socialista, in Algeria, il governo incominciato con Mendès radicale e Mollet socialista alla testa, ho avuto subito la sensazione che l’abiezione stesse arrivando. E naturalmente era vero.
«De Gaulle... invece, lo vedevo ancora attraverso Malraux, tutto nella trasfigurazione retorica: un francese del Grand Siècle, senza niente di Racine... spostato piuttosto verso Corneille e Retz, con una punta di panache spagnolesco 1630... Hai in mente quel disco che ho a casa di mia madre a Fontainebleau? Le Batteries de tambour des Mousquetaires d’Espagne di Philidor l’Aîné da un lato, e le Fanfares et timbales pour les Entrées et Sorties du Roy di Lully dall’altro?... Ecco, appunto!... Non lo immaginavo ancora salvatore della patria a parole, a puntate, à la Mauriac, à la Marie Bell...
«E non prevedevo certo che dopo averlo creduto in buona fede per qualche mese un salvatore possibile... anche se un po’ ridicolo... come un vecchio diavolo di Gounod all’Opera di Tolosa... col suo mephisto di peluche in testa e una calzamaglia un po’ larga, la sua bombetta puzzolente in mano... anch’io, oggi, debba trovarmi bene solo quando sono lontano da una patria che adoro, da una città che mi è necessaria per respirare...».
«Ci siamo cascati tutti, sai» fa Antonio. «Tornavo da Parigi nel ’57, dopo quel primo 14 luglio di scatenamento con i paras della grande sfilata intimidatoria che occupavano tutti i crocicchi e tutti i balli, Vieux-Colombier, rue de Lappe, piace d’Aligre, Cave d’Arbois, Ramuntcho, caserma dei pompieri di rue Bianche dove una enorme vecchia portinaia splendida suonava il saxofono e diceva in buona fede al microfono che “Monsieur Igor Stravinskij est demandé au téléphone”, e poi il film Patrouille de choc... E lì “on fonce à la bagarre” coi baschi rossi o azzurri o verdi, maniche sempre rimboccate, stivaletti con decine di fori per le stringhe, mitraillette à crosse coulissante, pugnale, granate, e il famoso cappellano di Dien-Bien-Phou autore di Soutane noire, béret rouge... E in tutti i giardinetti louches o anche no, nella notte trasparente e senza un soffio, “on va baiser la vieille”, dando le estreme gioie alla generazione (lì pronta nei cespugli) che ha fatto le sue prime notti militari nei magici oscuramenti della Grande Guerra, e non avrebbe più sperato di rivivere la stessa Parigi del Temps retrouvé, quarant’anni dopo, fra quei medesimi cespugli verso gli Invalides... sotto quegli stessi immensi cieli orientali turchese scuro...
«Ma non s’immagina con quante persone perbene ho quasi dovuto litigare anch’io, tornando a Roma, per esempio al “Mondo”, proprio dovendo sostenere che De Gaulle era ormai l’unico in grado di rimediare agli errori di tipo centro-sinistra in Algeria, con quei socialisti... e pochi anni dopo dovendo civilmente sostenere all’incirca il contrario... Se ricordate poi che secondo Mauriac l’unico rimedio alla decomposizione della democrazia era il potere presidenziale forte, dunque in Italia Gronchi... E non è una mia memoria fantasiosa perché conservo due sue lettere, e del resto lo ricorda lui stesso nel Bloc-notes dell’“Express” poi pubblicato in volume da Flammarion... E mi ricordo addirittura che quando gli rispondevo ti facevo vedere le lettere, e tu osservavi che era volgarissimo scrivere “la DC” all’italiana, bisognava scrivere “la Démocratie Chrétienne” tutt’intero...».
«Ma in fondo si può spiegare bene» si riprende Jean-Claude «questo fascino singolare del Generale sugli intellettuali: come condiziona interi gruppi, pro o contro...».
«... pro domo sua, pro bono pacis, pro memoria, pro forma, pro loco...» interrompe sventatamente Federico.
«... e in tutte le loro attività, né più né meno come aveva fatto Sartre prima di lui, e in genere chi ti soddisfa la vanità del posto in prima fila... E contiamo pure altri fattori come il prestigio delle decorazioni, i vari premi, la precedenza nei cortei, il posto privilegiato nei banchetti ufficiali: non soltanto il Potere, quindi, sempre, ma proprio anche la Bourrée en Fanfare... E poi, è un grande scrittore manqué, come Sartre, col potere però di agire concretamente sulla realtà... dotato di una psicologia interessantissima perché incomprensibile... fuori del Tempo e della Storia, dunque modernissimo... e per di più Generale...».
«... E in grado di dar stipendi che permettano di smettere di scrivere...» suggerisco io; e non aggiungo «stracciaculi!» né «corrupted crooks!».
«Lo so io chi ne avrebbe bisogno, per smettere... e rinchiudersi finalmente nel Mistero... e diventare Miti come E.M. Forster e Greta Garbo... quindi senza neanche bisogno di morir male come Cesare Pavese o James Dean...» dice Antonio scherzando, adagio ma pronto. Klaus però protesta. «Sono scherzi che mi fanno soffrire, davvero». «Non franiamo nel pecoreccio, su» dice anche Federico, adesso. «E comunque, dal nome Malraux, non è mai stato cavato un aggettivo tipo proustiano o kafkiano, o callasiano».
«Si dovrebbe fare come la sinistra cinica, piuttosto» osserva ancora Jean-Claude. «Quella che giuoca su due tavole, all’americana. Rende certo più che ogni destra frivola. Da una parte, per mangiare e pagar l’affitto, il lavoro più spregevole possibile. E chiaramente disprezzato: la presse du cœur, gli uffici-stampa degli enti, il cinema di reggipetti fatto anonimamente e sputandoci sopra... E soprattutto, niente giornali borghesi-illuministi, tipo “L’Express” o “France-Observateur”. Niente vie di mezzo, nessuna ambiguità progressista! Neanche quella pornografia per le dame truccata da fenomenologia delle fesses...
«Dall’altra parte, continue pubbliche dichiarazioni di principii che non costano niente e pretendono di salvar l’anima insieme alla faccia!... Sgridate al Caudillo, severissime, da pari a pari, e aspettandosi che rimanga malissimo!... e qualche saggio molto raro e molto engagé, rigorosissimo, intransigentissimo, ma di quelli proprio terroristici, su qualche rivista molto preziosa e molto Molotov!... Un Saint-Just per le dame, spirito fortissimo contro le anime deboli che tentennano quando i carri armati sovietici entrano a Budapest!... dicendo delle cose terribili, da brivido, alle signore compagne militanti di élite, come faceva Breton ai tavolini del Café Cyrano! con tanto disprezzo! molto freddo! agitare molto e servire ghiacciato!
«E soprattutto! Presentarsi come protagonisti di un’epoca solo se si è partecipato come testimoni a movimenti molto collettivi! Se si sono vissute esperienze “individualiste”, no! Non val niente, un atto di creazione poetica individuale che si possa rivolgere singolarmente a qualcuno, magari non subito... Contano soltanto quelle operazioni che si riesce a utilizzare quale materia di insegnamento scolastico generale e noioso... Oppure, sfruttabili nel pettegolezzo giornalistico sulle vicende di personaggi famosi da quando le recensioni di favore ci hanno esentato per sempre dal bisogno di doverne leggere l’opera...».
«No, no. Vorrei non scrivere più niente, in realtà. Esprimermi con la pittura, che tutti capiscono, in tutto il mondo, senza bisogno di traduzioni o di adattamenti. Oppure tacere, fare in modo che anche quei pochi mi dimentichino... Dormire, amare, vorrei... prendere del sole... Mi sono portato dietro solo tre autori: Nerval, Blake, e Rilke... È un ambiente orribile quello dei clan, delle parole d’ordine... Con i “fedeli” che scambiano per verità perentorie le mezze ipotesi buttate là dai “pontefici”... Se non piaci a una certa moglie o a una certa vedova, sei finito... Diramano una disposizione, e nessuno ti recensirà... E di lontano, forse, il livello potrebbe anche apparire dagli Husserl e Heidegger in su... Controversie elevate, eleganti; livelli eccelsi di riflessione e ricerca... Ma in realtà si vive tra le offese, poi... Si mangiano bassi insulti a colazione e a pranzo, e per strada... ogni giorno... La tua tazza di merda lì pronta, scusate, ogni mattina appena ti svegli, per prima cosa... magari da parte di quelli che riescono ancora a passar per sinistra impegnata dopo decenni di dîners en ville e milioni guadagnati col traffico di bibelots africani in cucina per non pagare tasse... e pretendono di dettare la morale ideologica, tornando carichi di caviale per dirigenti da Mosca, e mettendo a tacere gli altri con l’espediente della coscienza inquieta...
«... E sono poi snob tremendi che avrebbero tutto da perdere da un arrivo di Cosacchi alla Concorde... perché sono pieni di Miró e di Braque e non hanno mai pagato un franco al fisco... o perché fanno dell’individualismo decadente incompatibile con le direttive del Comitato degli Scrittori... amano il genere piccolo-arredatore-felino-che-danza-al-Fiacre, e in Russia li manderebbero nelle terre vergini o li farebbero suicidare... E comunque i grandi scomunicatori sono sempre i primi che al minimo disordine prendono il treno per Coblenza... e vengono sostituiti dai vendicativi, dai falliti, e quando va bene perché non finisci come un poeta russo, allora sei alle prese con burocrati che hanno una loro Morale e una loro Estetica... e tutti i mezzi per importele... perché le tovagliette e i centrini dei burocrati sono sempre più forti delle mitragliatrici dell’Ideologia...».
«Pensa un po’ se si fosse poveri e bisognosi» inorridisce rapidamente e a bassa voce Antonio. «E ci fosse il fascio o il Pci, si dipendesse da uno stipendiuccio revocabile senza pensione, da una collaborazione in nero con un ente feudale, si avesse una moglie maestra che ti possono trasferire chissà dove...». Ma Jean-Claude prosegue.
«... E poi, io vorrei fare un bel romanzo, piuttosto!». Ma Antonio non demorde: «Anche a Roma ci sono le Regine dei Salotti! Quando entrano in un salotto, tutti scappano e vanno a dormire. Ed esse rimangono regine, padrone, sovrane». Però Jean-Claude continua.
«... E invece mi sembra impossibile perché il nostro bel romanzo è così malfrequentato che non esiste più... “Ce l’hanno preso!” come direbbe quel nostro contadino... O come direbbe Thomas Mann al Lido... Oggi, dove lo si vede un altro “genere” così sciupato, così degradato, così infrequentabile, eh, sentiamo... Per noi corrisponde appunto alla spiaggia di St-Tropez, ormai: ieri, e oggi... Ma li vedete pure, quelli che escono a Parigi tutti i giorni, cinquanta al giorno: altro che Middlebrow... così disinvolti, centocinquanta pagine e via, per le vacanze... Si fa tutto in vista delle vacanze, da noi, anche i colpi di stato...».
«Da noi» si agita Antonio «in questo momento sono denunciati o sotto processo Testori, Pasolini, Visconti, Antonioni, mi pare anche Fellini, e parecchi altri che non ricordo, fra i quali parecchi astuti che fanno in fretta un romanzo con un titolo equivoco e un po’ di porcate nelle prime pagine, le sole che il magistrato di solito legge: così vengono prontamente perseguitati, e si fanno pubblicità perché ormai sono nella stessa “classe” dell’Arialda e dei Ragazzi di vita. E rischi magari di trovarti nella stessa compagnia come debuttante anche tu! E provate a far passare alla radio una canzone con solo una parola allusiva alla chiesa o alle fesses...». Ma non viene ascoltato. Per Jean-Claude, sembra naturalissimo: è l’Italia, no?
«... Tutti ben scritti, brillantini, tutti uguali... perfettamente traducibili, coi falsi problemi moderni d’una coppia molto moderna in vacanza tra l’autoroute e la Riviera, in mezzo a ragazzine tutte uguali alle attricette... vanno sempre bene... grandi puttanate... E se si vuol fare una ricerca seria, sperimentale, profonda, bisogna uscire del tutto dal romanzo... Pare obbligatorio entrare in una caverna spettrale... il “laboratorio” delle “ipotesi per”... tra facce di iniziati orribili... e niente personaggi, niente maiuscole, niente a capo... Solo esercizi, collages di parole in pagine come pezze di tweed... o come quelle fotografie di macchie di umidità sui muri: sono belle, sono brutte, sono fine a se stesse, sono di sinistra, le macchie?... Si recensiscono, si appendono, si premiano, le macchie?... E mai un’opera compiuta, mai Le Livre! come se un pittore o un musicista producessero solo schizzi e abbozzi e “appunti per...” e “materiali per...”. E con che cosa si fa la mostra, o si fa il concerto?... Mai, mai l’œuvre... un piccolo organismo dove si addensi o condensi un piccolo universo spirituale... E ti cambi un pochino (come certi incontri) la vita... Magari parlandoti – si fa per dire – all’anima... E mai nessuno che si renda conto di quest’orrore della propria condizione?... e della miseria di quella preposizione per...».
«Prendi un Cointreau on the rocks» gli fa con premura Federico. «Anzi, no: meglio Cointreau, cognac, succo d’arancia e limone in parti uguali» dice Antonio. «Me l’ha insegnato la mia amica Luisa che vorrebbe molto esser qui anche lei a raccontarci un’altra volta la sua infanzia in un mercato persiano. In Italia succede tutto il contrario: è la destra che è cinica, e la sinistra invece frivola. Allora, la complicazione è che chi sostiene di avere il cuore a sinistra, invece di collaborare con le proprie idee ai giornali di sinistra o di mezza-sinistra, e magari confermarle nelle proprie opere e nelle interviste di centro-destra, fa giusto il contrario. Prende gli stipendi dai giornali reazionari per fare degli elzeviri apolitici, si tiene stretto il suo “Corriere della Sera”, e pretende di salvare la faccia e l’Arcadia con qualche genericata filoproletaria e filorussa nelle grandi occasioni culturali quando si sa, si è tutti da una stessa parte, che coincide (e ça va sans dire) con la civiltà e col buon senso, dunque solo i matti o i fascisti non possono trovarsi d’accordo.
«Così non si capisce mai chi sta sul serio all’opposizione, e chi fa il giuoco dei conservatori. Anche perché questa storia di fare il giuoco, è complicatissima. Se tu sei di sinistra e scrivi su un grosso giornale di centro o destra con l’alibi che lo stai usando come un canale per raggiungere un gran numero di destinatari, questo canale risulta davvero neutrale come le ferrovie e le poste?
«O invece ti strumentalizza, ti annette, e dunque tu fai il suo giuoco? O piuttosto sei tu che fai il tuo giuoco servendoti di lui, connotandolo, occupandone spazi, viaggiandovi dentro, sedendoti sopra?
«Se poi il tema di un tuo romanzo o un tuo film fosse come sempre la Fine di un Mondo? o di una Società, o di una Civiltà, di una Cultura?... Dopo tutto, è il maggior tema della letteratura del nostro secolo, e infatti Musil e Proust fanno eminentemente della Storia Contemporanea... Ma allora, c’è qualche differenza di Sehnsucht per i generali coi piegabaffi e i presidi in gilet, fra Visconti e Togliatti e tutti quei nostalgici di Decadenze e Cadute?... Il segno e il senso del tuo lavoro, si riconoscono dal tuo lavoro stesso? o non piuttosto dalla tua tessera o dalle tue simpatie di partito, dalle tue dichiarazioni recenti, dall’andazzo stagionale del dibattito ideologico?...
«O dal tuo modo di vita?... In questo caso, se lavori tutto il giorno in casa da solo e quindi ti piace pranzare ogni sera fuori possibilmente bene?... con degli amici non brutti e noiosi, ma belli e simpatici e magari fine a se stessi?... La convivialità come la puntualità o l’avarizia, come la gelosia sessuale oppure il sense of humour e naturalmente il senso della proprietà e dei cassetti in ordine, saranno connotati riferibili a una certa classe sociale in un determinato periodo storico? oppure costanti caratteriali, antropologiche, dipendenti dalla Natura Umana, o magari dal tuo segno zodiacale?... Decadentismo neocapitalistico con asilo fiscale sul Lago Lemano e un po’ di US Steel e Texaco e Ibm e Rca su un conticino numerato, oppure Vergine Folle con ascendente Pesci Rossi e Punt-e-Mes, però mangiando gli stessi broccoletti a tavole attigue (l’Est e l’Ovest!) nella medesima trattoria?...».
E Federico, inascoltato: «Ma quel vostro Moravia coi piedi in tutte le scarpe e tutte le sere possibili dal “Corriere della Sera” a “Paese Sera”, secondo voi è un Talleyrand o un Depretis?». E il coretto degli altri: «Ch’aggiaffà peccampà!».
Subito Jean-Claude (ma non stava per piangere?) rimette il suo coltelluccio nella piaga. «Dovreste farli qui oggi in Italia, i romanzi... succedono tante cose, no?».
CENA LETTERARIA
«Il Romanzo, all’osteria!... A cercar padron miglior!» fa uno. E tutti, sfrenandosi: «Romanzo di conversazioni immaginarie... a tavola!... nella locanda!... Conversation piece di forestieri e viandanti che si incontrano naturalmente per caso e si narrano tutto... la vita intera... ovviamente a pranzo!... Romanzi-saggi sul romanzo-viaggio di formazione, di avventure, di idee... Passaggio dall’innocenza alla conoscenza, scoprendo le meraviglie della realtà sotto chissà quali esperienze?... E se le apparenze sono belle, non basta così? Ma se i narranti fossero brutti?... Qui si rasenta il famoso Künstlerroman, il rarissimo Romanzo dell’Artista!»... Solo Federico, in un soffio: «Dialoghi dei Morti... Notti... Confessioni... Ultimi Saggi...».
Certi argomenti, meglio evitarli finché si può, sostiene ancora Antonio, quando ci si vede avviati a capofitto. Ma se si affrontano, Pandora àpriti, e giù fino in fondo ai dettagli della crudeltà.
«Sono decenni che se ne abusa, povero defunto» va dicendo a Jean-Claude. «E non solo in Francia chi rifà oggi il romanzo convenzionale si mette con le proprie mani fuori dalla storia del gusto come un pittore pompier. Bell’affare, raccontare oggi degli eventi e dei sentimenti in terza persona e al passato remoto! dopo che ci sono arrivati tutti quei manualetti per insegnarti a rifare in casa e a scuola e in serie quei congegni che si fabbricavano un tempo col solo istinto del genio! Fossimo compositori, continueremmo a ripetere
i poncifs di Giordano e Cilea solo perché si è sicuri col pubblico tutte le volte che si aggiorna lo Chénier o la Lecouvreur?». (Ci si prepara, come per un viaggio. Fuori i plaids).
«Nei nostri vecchi tinelli... Da una parte, romanzetti piccolo-borghesi d’occasione, evasione, rievocazione, commozione, signora mia. E dall’altra, fuga da ogni realtà contemporanea nell’esercizio di stile al piccolissimo punto. Appena si vede crescere l’ombra del dittatore, guardare la realtà senza affetto può diventare pericoloso. E i più svelti fanno in fretta a capire: l’America l’è amara finché vige il Fascio, la diventa buonissima solo quand’è arrivato il generale Clark e si sono perse anche le mutande grazie al Duce. Poi però Togliatti fa paura, e allora si ricomincia: l’è amara, non l’è amara, e se non la sarà amara, chissà mai cosa sarà».
«Ma avevate i film dei telefoni bianchi: eleganten und interessanten anche loro, no?».
«Sceneggiati da pregevoli antifascisti, futuri neorealisti delle miserie e dell’impegno... Ma nella narrativa, l’alternativa all’adulterio pomeridiano mondano, quasi mai consumato per colpa dei dialoghi, non sarà poi spesso altrettanto casalinga e sentimentale?».
«Non lasciateci in codesto suspense, dottò!».
«Quando mai un amore adulto, un sentimento sviluppato, un problema spirituale che riguardi il Novecento?... Niente! Il mondo dei bambini. Gli affetti primari... Abbondanza di infanzie rurali al pane fresco e all’acqua sorgiva: toscane! e napoletane, e piemontesi, e venete! seguite da adolescenze “favolose” tra la cucina della nonna e il cortile della zia, e nel vicolo col pallone e la bicicletta e il babbo; e noi si dovrebbe star lì, come dei cucù. Molto viaggio intorno al proprio fascismo, e in fondo a bozzetti impiegatizi e di uscieri: tanta poetica sedentaria degli oggetti umili tra le ragnatele e la forfora... quanti danni hanno fatto quelle lucerne di Morandi! e mai qualche bagnante di Cézanne... E che ricamini per signorine che suonano il piano, tra la favola neoclassica in ghette bianche e la leggenda rinascimentale in camicia nera...».
«D’altra parte, il pubblico dei libri è il solo che cerca unicamente i prodotti più venduti alla massa, non come quello dei ristoranti e delle boutiques che esige articoli di chic e di élite. E dunque le cabale degli editori e dei premi devono pur tenerlo in vita, il povero morto: sotto gli ombrelloni, le lettrici di massa aspettano il romanzo più venduto alle folle,
non certo un costume da bagno uguale alle altre! E hanno già buttato via la produzione dell’anno scorso!
«Cambieranno solo gli espedienti? In Francia, si sa, i premi sfruttano la smania del pubblico per le scoperte stagionali, le novità di moda disinvolta, il debutto dell’avvenente fotogenico. In Italia, invece, preferiscono coronare le carriere più lunghe: onorare una canizie fa sentire migliori, una figura anziana pare automaticamente pregevole, e una persona che è in giro da tanti anni col suo ritegno e riserbo schivo ha già fatto da sé quasi tutto il lavoro delle pubbliche relazioni. Però l’industria del Midcult non è davvero un fenomeno nuovo, questi romanzetti per la spiaggia circolavano già tali e quali anche negli anni Trenta, soltanto non si pretendevano Alta Cultura presentandosi con tanto sussiego sofferente e Kitsch! Ci si è già passati parecchie volte, nei cicli e ricicli fra produzione e consumo che vendono e comprano come esperienze spirituali privilegiate l’avviamento commerciale d’una formula: il falso problema, la falsa audacia, la falsa poesia, il falso chic...».
«Terribili audacie e tormenti, sotto il tallone del Duce? Nelle scuole all’estero volevano farci studiare una letteratura italiana eroica piena di lotte! con le battaglie e i morti al posto del successo e dell’eros!».
«E l’evasività, l’estenuazione, il fatto stilistico, il fatto privato, il fiato corto, però nel registro sublime... La manicure per la bella paginetta così ben scritta, così “tersa”, col suo nitore... Il richiamo ai classici più agnostici che si riesce a trovare... Poeti presi come prosatori... Il Leopardi dei frammenti, reso apolitico di prepotenza... Mallarmé ridotto a nonnino di ermetismi per le antologie... Anche obbligandoci a ripetere “nel senso peggiore!” ogni volta che si parla di Retorica... Problemi? per carità!... Maggiorenni? meglio di no... Viaggiare? vi mancherà la ribollita... E la Signora Accademia, finalmente, come premio!... La sua pensione, per il signor letterato!... E una grande soddisfazione: il signor letterato ha finalmente una cameriera, e questa potrà rispondere al telefono: Sua Eccellenza è in tinello».
Qui c’è come un’intermittenza: «Feluca & Ciabatte, la si canta adesso, o più in là?».
«Mi fa venire il sospetto di star viaggiando nella vita in terza classe col biglietto di prima» borbotta sventatamente Federico a Klaus. «Speriamo che sia il contrario?» ribatte quello. Federico: «Don Carlos si è fermato a Eboli». Ma Antonio va avanti, va avanti.
«Da loro, in Francia, uno giovane, se è sveglio, forse farebbe meglio a tentare una via di mezzo molto “critica” fra il romanzo di tradizione illustre e i materiali su... avendo alle spalle Balzac e Proust che a noi mancano...» dicono un po’ tutti. «Ma a noi mancano anche Picasso e Ginger Rogers»... «E Debussy?»... «Anche però il racconto-saggio alla Musil: riflettendo con un minimo di auto-ironia sulle impossibilità di una narrativa d’invenzione ormai in frantumi, o ripetitiva di modelli d’auto-indulgenza... dopo tanti istitutori di creatività che hanno distribuito le ricette dei Fornitori della Real Casa a tutti i praticoni...».
Jean-Claude è lì pronto. «La mortificazione che può prendere, quando tutte le possibilità sono state razionalizzate, regolarizzate, sistemate, senza più sorprese né misteri... Il catasto di tutti i personaggi possibili, con l’indirizzario e le parentele... L’inventario completo delle situazioni riusabili, dei classici appena citabili...».
«O buttarsi addirittura nel teatro?» chiede Antonio. «Entrare nel nepotismo brechtiano che incomincia solo adesso? Isolare da ogni contesto antico e contemporaneo i particolari epici, cioè buttar via tutto il resto, stilizzare i moventi economici, non dimenticarsi che soprattutto nel sesso quando una cosa piace, si compra e si paga... su un background didattico e beige... Avete cento canali più che da noi... Cantine e soffitte che non costano niente, battage sfrenato che impone gli obblighi da non perdere, un pubblico che compra i biglietti perché si diverte con gli attori, e non per un dovere intellettuale o civico inescamotabile perché poi si è obbligati a parlarne coi colleghi d’ufficio vestiti da milanesi engagés...
«C’è una differenza!... Appena scatta la città-grancassa, a Parigi non si muovono solo i soliti quindici disgraziati come da noi... Si agitano ministri e modiste, tutti i vecchi vogliono dire la loro, arrivano in barella alla générale... All’Università qualcuno se ne occupa... Se si rielenca tutto quello che c’era a Vienna in fatto di cultura... Mahler, Klimt, Freud, Wittgenstein, Musil, Schönberg, Schiele, Webern, Hofmannsthal, Broch, Berg... Ma per i nostri vegliardi dai quaranta in su, ancora adesso Parigi fa la figura del pavone Art Nouveau e Déco nelle arti del Novecento...».
«Guarda però che tutti questi, a Vienna, si sentivano molto ostacolati e infelici» interrompe Klaus. «Tutte le lettere e le testimonianze sono concordi: il famoso rapporto di
odio-amore col valzer era fatto quasi soltanto di odio per un ambiente molto meschino e molto sordo. Anche notevolmente sbadato, e per di più capace di vendette postume: basta vedere i giornali viennesi ancora oggi, in nessuna città al mondo sono altrettanto pieni di colonnini coi veleni personali perfidi. Si sa bene che i viennesi si sono sempre rifiutati di riconoscere la grandezza di chiunque abbiano visto da piccolo! E le Scuole di Vienna sono rispettate dappertutto tranne che a Vienna, Schönberg e Webern non li trovi neanche oggi nei programmi dei concerti. Stai lì qualche giorno, e tutti verranno a raccontarti in segreto che questo ha tradito gli amici, quello ha denunciato i parenti, gli altri hanno fatto orrori sorridendosi...».
«Il loro vero mistero mi sembra quella dolorosità ostinata e inconsolabile quando muore l’Imperatore e finisce l’Impero» osserva Antonio. «Si stava bene immobili e riparati nelle loro nicchiette neurotiche, lo si è capito anche troppo. Ma intanto, di solito, riparati e disperati ci si annoia anche un po’, magari. Le psicosi saranno bellissime, ma è possibile che non venga mai voglia di cambiar musica e voltar pagina, anche solo scappare in qualche Maiorca o Marocco, dopo anni e anni di Ring e Sacher e Burgtheater e mezza montagna fra gente con quelle facce e quelle panze?... Quel Graben, quel Loos: vuole un po’ di suicidio? E poi, che stravaganza, da parte di artisti rivoluzionari sul serio anche senza volerlo, questo spavento del nuovo che piange come la fine di tutto la morte di un sovrano già molto vecchio, il ridimensionamento d’uno Stato poco “liberal”, il sabordage d’una società da loro stessi deplorata perché tutta filistea e tutta Kitsch...
«Quando si è decadenti davvero, cos’è tutta questa nostalgia per il mondo delle sicurezze amministrative? Non so, perde tutto anche la Germania, però viene fuori subito l’espressionismo, e tutti allez-hop a Berlino! Muore Queen Victoria, si lascia l’India, frana l’Impero, e poi via Suez, via la flotta, ma nessuno perde il sorriso o si accascia: viene fuori semmai Noël Coward. Non so, mi parrebbe più giustificata una pena per la morte di Nietzsche, di Rimbaud, di Van Gogh, di Majakovskij...».
«E diciamo pure Max Reinhardt, da cui vengono fuori tutti! diciamo naturalmente Diaghilev! e diciamola pure tutta, la vassallata massima: Giuseppe Verdiii!» si fa vivo nuovamente Federico, alzando una flûte e mettendo un ananas in testa a un adepto.
«Pianga pure l’Austria infelix finché vuole, benché quell’epidemia di spagnola nel ’19 che ha portato via Schiele e Klimt e Otto Wagner e tanti altri dev’essere stata come la peste nera a Siena...» fa Klaus, bevendo «alla salute!». «Io sono disposto a versare una mia lacrima solo se cambieranno le produzioni di Wieland a Bayreuth. Ma Salzburg, la terrei tale e quale! Non cambi arredi e non aggiungi ninnoli, quando un salotto è perfetto!».
«Le sole istituzioni sulla cui morte ho mai pianto, oltre ai Ballets Russes, rimangono la sophisticated comedy dei Thirties a Hollywood, e l’edizione nazionale di D’Annunzio su una carta come pelle d’angelo che non tornerà mai più!» insiste Federico. Alticcio?
«Da voi intanto il romanzo va bene...» soffia Jean-Claude sulla schiuma dello champagne a Antonio, che lo sta sgasando col gambo di un fiore. «Sssììì! Via col Vento! Domani è un altro giorno!» gli fa lui, con degli urli feroci.
«Bei romanzi, eh» fa Klaus; e s’infila in bocca un grosso sigaro che non fa tanto businessman o giovane ministro, fa piuttosto vieqquà a quattro zampe... «Bei romanzi brucknero-wagneriani, con tutte le piene risorse della tonalità romantica... C’è ancora posto, c’è ancora posto...».
«Domani è un altro giorno!». (Glielo devo far notare). «Ma non ci pensate mai che dopo l’incendio di Atlanta, a Atlanta si fonda la Coca-Cola, mentre qui con tutta la frutta che ci cresce intorno se voglio una marmellata d’arance domani mattina mi portano quella di Oxford! E con tutto il mare qui sotto, se volete un pesce fresco la vecchia simpatica ostessa ve lo dà surgelato che arriva da Vevey e Montreux dove il mare non c’è mai stato? Sarà colpa dei Borboni anche questa? o degli Angioini?». (Cielo! sarà precoce senilità o sarà buon senso svizzero, se all’ombra dell’Italsider rimpiango il Satyricon, dovendo spendere del mio?).
«Il lato bizzarro» fa invece Antonio a Jean-Claude «sarà piuttosto che adesso, da noi, gli esperimenti più singolari si stanno facendo proprio nell’ambito d’una forma narrativa che potrebbe sembrare convenzionale, su piano internazionale, e magari sputtanata dall’affrontare i problemi, in quanto scattava l’elogio automatico per averli comunque affrontati... mettendoci dentro i braccianti meridionali o gli operai settentrionali e qualche povera Anna Magnani disperata...
«E invece è sfruttata pochissimo la “society” italiana vecchia
o nuova, coi suoi linguaggi e personaggi anche molto divertenti che nelle diverse città sono sempre stati vivacissimi, come in Roma Napoli e Firenze e nelle altre città di Stendhal. Ma secondo i nostri film e romanzi sembra più misteriosa e impenetrabile dei sepolcri indiani. Eppure ai pranzi in Toscana e in Veneto non si parla davvero come nei telegiornali e nei doppiaggi!... Qualche laboratorio sperimentale si potrebbe installare dove c’è uno spessore di storia e vicende e conversazione e temi adulti come nella “society” inglese e francese corrispondente, invece di limitarsi al lessico elementare dei bisogni primari... che peraltro ha il vantaggio della facile traducibilità per le confezioni da aeroporto sulla povera Italia arretrata e pittoresca...
«Del resto, l’Italia è sempre un paese fra i più loquaci della Terra, pieno di interessantissime chiacchiere spregiudicate e tutt’altro che benpensanti e banali e in serie, per niente represse come nella piccola borghesia che scrive come legge secondo i precetti degli insegnanti di neorealismo... E spesso si conversa in belle case e ville che in questo paese abbondano, però nella fiction medio-bassa mai appaiono: come se non appartenessero alla Realtà...».
«Ma forse le conseguenze teoriche potrebbero diventare paradossali: una narrativa d’avanguardia internazionale, nata direttamente sui Classici della Modernità, rischia di venir confusa con quel tipo di successo middlebrow che commercializza i grandi testi tradotti o i grandi film europei doppiati riducendoli a prodotti di imitazione e sfruttamento, pochi mesi dopo...».
«E la differenza fra chi si esprime in clichés telegiornalesi o doppiaggesi perché ne sta facendo una parodia, e chi non possiede altro idioma, si percepisce subito?».
«Sarà comodo e privilegiato, essere in ritardo su tutto, dove non si è ancora visto mai niente: come quando Vittorini e i neorealisti rifacevano gli americani in provincia, e la provincia era tutta incantata, perché convinta di aver lì the real thing!... Come nel cinema o a teatro, dove puoi fare tutto quello che vuoi, ed è sempre novità: Arlecchini e Danton di Max Reinhardt, scenografie in bianco e nero, colonne sonore con Bruckner o Mahler o Bach, stoffe e arredi tipo Aubrey Beardsley o William Morris, calendari con Klimt, fodere uso Burberrys, Verdi e Donizetti uso Hayez, e tutto pare originalissimo, non ci aveva pensato nessuno, come per la prima brasserie Toulouse-Lautrec o il primo bar tipo Last Chance Saloon... E qualunque libro si scopra, Lolita o
Salinger, è facile essere i primi, per qualche mese, perché gli altri non ci erano arrivati col plotoncino...».
«Però, che ambiguità, quando certe forme anacronistiche, per il solo fatto di essere state così poco usate, possono perfino venir scambiate per sperimentali... Si instaura addirittura un dubbio: non sarà il bestseller di sfruttamento che si traveste da letteratura di qualità?...».
Una protesta. «Ma allora, l’orecchio a cosa serve?».
«Sono gli equivoci possibili nelle operazioni più oneste: ti senti pronto per abbandonare il frammentismo delle paginette d’appunti aperti, e inserire invece l’esperimento in una struttura formale forte che gli conferisca un senso... E allora, stai aprendo nuove strade a una neo-avanguardia spalancata? Teorizzi un omaggio alle “incompiute” di Musil e Gadda e Proust? O involontariamente ma degnamente concludi una grande tradizione, anche perché nel frattempo si perde la pratica degli strumenti più impegnativi, cambia il clima nelle mode culturali, non si è più sensibili ai livelli della qualità? E (perso il “gusto”), si lasciano perdere le convenzioni e i riguardi?».
«Ma qui non siamo anomali, scusa?» si stupisce con un musino angelico Federico. «Dappertutto continuiamo a leggere che in Italia si vendono tanti, cioè pochi, libri e giornali come ai primi del secolo con una popolazione molto più piccola. Però ci ripetono tutti contenti che da noi i giornali di qualità si vendono molto più che negli altri paesi, e parrebbero inconcepibili qui dei “France-Soir” o dei “Daily Mirror” che tirano dieci volte più del “Monde” e del “Times”. Quindi, che bravi! E anche i nostri romanzi da successo e da premio non sono quasi mai delle vassallate sfacciatamente commerciali come in tanti paesi: il bestseller italiano mi pare molto perbene e molto a posto».
«Sì, sì: pretenzioso ma alla portata della “scioretta”, pensoso, affliggente, edificante, come quando Dwight Macdonald descrive il Midcult nel Vecchio e il mare e nella Piccola città. Contenuti centrali e universali, elementari e portentosi, grandiosi e vuoti. Tecnicamente, abbastanza evoluti per fare una buona impressione al lettore di massa senza affaticarlo né turbarlo. Il regista con la pipa che parla della semplice eternità in fondo a ogni essere umano... I solenni dialoghi biblici su Baseball e Democrazia, tipo “abbi fede nel grande Di Maggio, figliuolo”... L’Agony dell’Uomo Contemporaneo fra grandi metafore attaccate a tutti i pesci...».
«Anche all’orrenda pezzogna o al fragolino che ci toccherà da domani sull’isola?».
«Abbi fede nel grande Premio Pezzogna, figliuolo: il bestseller sul fragolino si presenterà al corrente con la buona cultura e coi buoni sentimenti, con la squisitezza sotto il naso e tutte le sue robine in ordine... Sarà condito con qualche salsina d’avanguardia che non si trovava nella Saga dei Forsyte e neanche in Thomas Mann, per istruire i parvenus con figli all’Università, e consolare la scioretta che domanda al romanziere “Dottore, ma come andrà a finire?”...».
«Ma che libri “de chevet” si troverebbero, volendo fare un’inchiesta, sopra i comodini italiani?» domanda Klaus.
«Come sotto gli ombrelloni. I più comuni, i più correnti. Da noi, la buona società o la classe dirigente sono schifiltosissime e pretenziosissime nel mangiare e negli abiti e nei mobili e nei soprammobili e nelle automobili. Vacanze solo “esclusive”, mai una barca uguale a quella del commendator Brambilla. Certamente non ti dànno carne in scatola ai pranzi, né indossano ai balli un completino Upim. Per tutto quanto riguarda libri o spettacoli, invece, come un Ferragosto a Ostia mangiando lasagne e bevendo gasose, insieme a tutti gli altri del dopolavoro. Nelle magioni eccelse, su quei tavolini così fini, sotto i Canaletto e i Bellotto, vedi volumi analoghi a pacchetti di patatine, merendine per bambini, detersivi popolari...».
«Manca il gusto della scoperta?».
«Absolutely. Anche della scelta. Manca ogni forma di snobismo. Un calciatore o un tennista “che si distingue”, va bene. Ma uno scrittore “che vuol fare l’originale”, lo si dice in senso molto peggiorativo. Deve essere “come tutti noi”. Puoi dimenticare qualunque confronto con le élites del Novecento europeo che scoprivano i pittori, lanciavano i musicisti, ed erano anche capaci di tirarsi dietro tutto un pubblico. Nella lettura, i giudizi definitivi sono imposti da mezze-calze ben vive fra noi anche se da tanto tempo non si nominano: la sartina, la crestaia, la midinette. E sono queste che esigono cose e persone “alla nostra portata”».
«Conosco... Conosco... Capaci di discutere molto sul serio se si mangia meglio sull’Alitalia o sull’Air France: convinte d’essere delle gourmettes, col vassoio davanti».
«Ma certo. Un bel libro non alla vostra portata si intende solo “per addetti ai lavori”. Però sarà per addetti ai lavori anche una bella fica non alla portata di tutti?».
«Eppure, magari... potrebbe anche apparir “stimolante”...
si fa per dire... un “genere” così anacronistico e middlebrow: il Romanzo!... se e quando lo si può jazz up criticamente... montandolo con una certa perversità di Kitsch professionale, di “camp” programmato... fino a sembrare quell’oggetto sempre così aggiornato e vecchiotto che è il Bestseller... cioè il manufatto “exclusive” di massa...».
«L’incubo di Adorno!... Signore mie, stasera siete tutte eccezionali come al solito!».
«E così, ci sarà addirittura bisogno di riflessioni teoriche, prima di rendersi conto che fare oggi un romanzo tradizionale e contemporaneo ha lo stesso senso che conquistare oggi l’Eritrea e fondare oggi la Fiat!».
«Ma nella storia civile delle nazioni, certi passaggi saranno pure necessari...» osserva Federico. «Avere colonizzato le Indie, poi esserne venuti via, aver fondato l’industria tessile, e poi il Cotton Club, avere scritto i romanzi di Trollope e poi di Hardy e poi di Lawrence...».
«E se non si sono fatte le Bugatti e i vasi Gallé al loro tempo giusto?» chiede un po’ seccato Klaus. «Cosa deve fare per esempio il Ghana, o il Togo? Ripetere tutte le esperienze una dopo l’altra, rapidamente da Josquin Desprès a Stockhausen, o da Giotto a Pollock? Scoprire prima il gotico e poi il neogotico, o viceversa? Sotto forma di revival di qualcosa che lì non c’è mai stato? Impastando il cubismo o il marxismo con le culture locali? Liberazione dal colonialismo con le “Demoiselles d’Avignon”, o col Placido Don?».
«E saltare tutte le tappe, allora? Subito i grattacieli, senza le fondamenta? Subito i dodecafonici? Il decadentismo, appena nati?».
«Ma se non fai oggi un libro di cinquant’anni fa, ti biasimeranno tutti perché non è alla portata di tutti. Come ai tempi di Debussy e Van Gogh. Quanti artisti sono riusciti a farla franca col mercato e a comprarsi la bistecchina nel secolo fra Meissonier e Bernard Buffet?».
«Ma se lo fai alla portata di tutti, incominciano a romperti le palle col “come andrà a finire, dottore? me lo potrebbe riassumere in due parole non tanto difficili?”... E non intendono un tuo libro, che non hanno mai aperto né intendono aprire... ma IL MONDO!».
«Sempre di mezza età, spesso non le conosci neanche, vengono a interrompere le conversazioni, chiedono “che c’è, che c’è di nuovo?”... Tu rispondi che per loro c’è solo il vecchio, cioè dici la verità, e allora domandano “come andrà
a finire?”, e si arrabbiano moltissimo a dirgli che andranno a finire malissimo».
«Ma perché tutti questi così bramosi di romanzi solo nuovissimi e ultimissimi non fanno lo stesso anche con la musica contemporanea?».
«Sono problemi molto locali. Non avendo avuto dei bei romanzi alla Forster cinquant’anni fa, cosa deve fare la letteratura italiana, oggi? dei bei romanzi alla Forster, come nuovi? anche per riempire doverosamente un gap?... Il clou delle polemiche su Lampedusa e Bassani e l’imperfetto, in fondo, è proprio che la Narrativa faccia o non faccia saltus».
«Essa entrò; e mostrò il culo».
«No. Essa entrò; e mostrò un cruccio».
«Fa differenza? Culo o cruccio, esso è una metafora. Una grande metafora della piccola e media borghesia romana».
«Aperta a significative esperienze spirituali d’avanguardia, o sora mia sapesse che sturbo sul ballatoio?... Magari gnente gnente entre-deux-guerres?...».
«Un microcosmo è un microcosmo, bestie. Così come buco è buco, avendo fatto il militare a Cuneo». Dopo questa diviiina mousse au chocolat («ma di dove viene una mousse così diviiina?»), prima ancora che portino il caffè alla napoletana sul “beauvoir” con la vista più diviiina di tutte, il padrone di casa è di nuovo dentro che soffre con Klaus. Arrivano, tardi, anche dei dolci molto tipici, da un posto che dev’essere molto famoso, e divino, qua sotto.
Ancora, lo sgrida. Veramente Federico non avrebbe voglia di argomentare, appena pranzato: si vede. Si è anche bevuto parecchio. Ma Klaus, ha insistito, subito al pianoforte. E lì, rappels à l’ordre tedeschi, severi e acuti, in quella voce da Heldentenor di stomaco e fegato come nelle birrerie quando si tratta di scacciare gli ultimi dal banco e dai cessi.
«Schiavi del materiale! Giocattoli ben torniti! Pretesa metafisica! Sincretismo impotente! Easy listening! Fabula docet! Non hanno pareti! Si strappano le maschere! Lusus conclusus! Non si capisce se è una canzone partigiana o un blues!».
Pare il mio dentista quando ripete «carico occlusale!». E avanti, una quantità di esempi musicali buttati là perentori
e aggressivi: il Webern di Robert Craft, e subito dopo dei Mahler di Klemperer, di Bernstein, di Mitropulos, alternati a pezzetti gridando «il vuoto e il pieno! la forma e la pesantezza! la profondità e la grazia! Adorno e Dioniso!». Ma questa sala da musica mi ricorda quel disquaire all’Aia, attiguo al libraio dei Gotha. Siamo entrati con Antonio a chiedere dei Mengelberg rari: appunto Mahler. «Qui teniamo soltanto i contemporanei e la Renaissance» risponde lui, secco. «Niente musica romantica!». Poi aggiunge, orgoglioso: «E nel romanticismo, sia ben chiaro che includo tutto il Settecento!».
Facciamo un po’ di Setteciuento, subito, qui? Klaus rientra e ci trova a coppie in piedi sulle sedie che si tengono le quattro mani per le punte delle dita? o l’uno mette leggermente la mano sulla spalla dell’altro che si inginocchia su una gambina sola e con la testolina eretta, mentre qualcuno potrebbe far la servetta, con le manine sui fianchi oppure alzando con scherzosa minaccia il ditino? Camminiamo solo saltellando, come nei Mozart guitti?... Ci saranno certamente dei vecchi vestiti da Così fan tutte, qui in casa!
«Ha già fatto includere una composizione di Frédéric nei programmi di almeno un paio d’orchestre americane importanti, per quest’inverno» dice dubitoso Jean-Claude. «Metti Cleveland e Minneapolis, nei concerti che dirige lui tornando là... Ma mi pare che questo non lavori... no?».
Sembra una vecchia polemica, abitudinaria, fra i due. Con un’infinità di rinfacci quasi coniugali sull’alzarsi tardi la mattina e andare al mare e non ricordare di farsi vivi con le persone giuste. Però Antonio che si alza tardissimo e ha lasciato Milano anche per evitare i grilli parlanti mattutini ma poi lavora in tutte le ore più morte e dalle persone giuste secondo me si fa vedere anche troppo, meno della metà basterebbe, diventa amaro e riparla a bassa voce con Jean-Claude delle sue vecchie afflizioni, che adesso si rinnovano e non passano: come non ne ha mai parlato con me. Con me, di qualunque argomento che non sia gaio e spensierato, non è capace di stare a sentire. Al punto di tacere di colpo, o cambiando bruscamente discorso. Come quando mi prendeva in giro perché gli unici libri non fuorilegge che mi vedeva in macchina erano praticamente gli storici del Grand Siècle per vedere come e con chi si coricavano questi grandi capitani così innamorati dei loro eserciti. Poi però li ha visti tutti anche a casa di Gadda: Lavisse, Bainville, La France Galante... Potrei anche uscire.
Però bisognerebbe fargli vedere come ha torto a considerarmi sempre l’elefante né smoothie né softie alla Walt Disney che ha sempre avuto più soldi di lui, e il carattere che doesn’t give a damn. E che qualche anno fa gli ha insegnato a fare il prepotente nei pubs della Royal Navy a Londra, quando gli altri proponevano tutt’al più un drink in casa di qualche antiquario travestito da marinaretto col pompon, e poi nei bar del cuoio di mezza Germania, prendendo di petto die Seele oltre che die Formen in un momento che aveva l’anima a pezzetti e non ce la faceva a guardar le forme a nessuno. Forse crederà, siccome sta a Roma e ci si vede ormai poche volte all’anno, che io sia sempre lo stesso Dumbo lì fermo sul lungolago d’Ascona. Non si rende conto che senza averlo mai né sopra né sottovalutato oggi si possa essere in grado di giudicarlo in base al comune buon senso europeo in tutto quello che fa, o che lascia. E sta lì invece a perder tempo a raccontar le sue trame a questa ansiosa creatura; e si può star sicuri che non si intendono.
«Bisognerebbe scriverlo, sì. In fondo è anche giusto» gli fa Antonio abbastanza tranquillamente, adesso. «Ma mi parrebbe di tornare indietro. E in un certo senso mi vergogno. È inutile cercar di pretendere che il romanzo sia un’altra cosa. Tutti preferiremmo che fosse un’altra cosa. Avventura stilistica al di fuori delle regole di un giuoco d’azzardo...». «E allora, anche giocare a tennis senza le regole del tennis?». «... Ricerca conoscitiva di una qualche verità sbadatamente sprofondata nel gouffre abominevole. Colloquio formicolante e vertiginoso con noi stessi, facendo tutte le voci, senza testimoni né amanti. Inventario delle bassezze d’una società che ci fa vomitare... ma questo è già stato molto fatto: e la preoccupazione della verosimiglianza “fino ai fili d’erba” ti porterebbe pericolosamente a confonderti con le inchieste dei settimanali d’attualità... il romanzo “di denuncia” non è una denuncia giornalistica che arriva ben vestita e in ritardo?...
«È – scusatemi tanto – soltanto un romanzo... Cioè soltanto una narrazione di fatti. Più o meno rozza o sofisticata o tendenziosa. Ma in sostanza sempre il medesimo affare che benché si vada molto indietro fin dalle parti del solito Omero, non è poi mai cambiato moltissimo».
«C’era una volta come ponte levatoio che s’abbassa verso...
verso...» esclama Jean-Claude spalancando gli occhioni. Non si può certo dire: una di quelle case dove si passa tutta la sera davanti al televisore, o chiacchierando dei programmi della sera prima.
«Da un genere letterario puoi uscire quando vuoi. Soltanto, dopo, non sei più dentro. Sei appunto fuori. E Forster qui colpisce ancora: si è tutti lì come quel signore di Sheherazade che domanda sempre “e adesso cosa succede?”. Oppure, la solita tribù intorno al fuoco. Per un po’, sta a sentire il narratore. E poi, una delle due: o si addormenta, o lo ammazza».
«Questa mi sembra proprio una stronzata». Bisogna che qualcuno glielo dica. «Spero che tu non l’abbia già scritta. Quando mai la tribù spacca il televisore, o dice all’edicola di non tenerle più “Oggi” perché è stufa di Princess Grace?».
«Ma il romanziere, noi, lo ammazziamo, sbadigliando, ogni giorno. E lui tenta di salvarsi, e non si salva, trasformandosi in macchina fotografica o in registratore dei suoni della natura o del traffico. Si addobba di immaginette ideologiche: si è tenuti a riverirle? “Dis bonjour à la dame”?... E la sensiblerie psicosomatica, mai stabile: deve seguire le mode?
«Sfoggia mansioni assistenziali: quanta sollecitudine per i disturbi dei disgraziati, per i malanni degli umili... quante premure per venire incontro agli appetiti di un pubblico perfido, che si diverte a piangere sulle sofferenze di ebrei e negri e piccoli martiri, o pretende un delitto dopo l’altro per il gusto di scoprire qualche atroce assassino, ora che non è più possibile affittare un balcone sulla ghigliottina... E mai che il metodo di Sherlock Holmes venga applicato per lo svago di trovare chi è l’autore di una misteriosa stazione, di uno strano ponte... Ma l’esercizio del romanziere, se non bada a raccontare senza troppi escamotages delle storie, semplicemente non è più un romanzo. Come un edificio, quando non vi si può abitare, sarà tutto: un arco, un arengo, un nuraghe, una piramide, un monumento ai Caduti. Ma non certamente una casa.
«Non-se-ne-vie-ne-fuo-ri! Un dipinto o una composizione musicale vanno benissimo, finché non pretendono di guarire alcuni acciacchi o farti votare per un partito politico. Così un romanzo o una pièce di teatro si arricchiranno – non possono non arricchirsi – per l’irruzione di qualunque contributo interdisciplinare... Magari non la sociologia sceneggiata
del neorealismo fatto in casa, o la psicanalisi con le perdite e i riacquisti di memoria tipo “Remember! September! No-no-November!”... Piuttosto, le trame politicanti del Lucien Leuwen e dei Demoni... le matematiche ironiche di Musil... o quelle conversazioni “molto adagio, molto lento” di dodecafonia diabolica nel Doktor Faustus, che ci affascinavano quando eravamo piccoli, e forse adesso ci parrebbero più medioevali dell’Angelo di fuoco di Prokofiev...».
«Non sono ancora arrivate nei nostri istituti di medicina legale» racconta Federico «quelle tesine così suggestive di Thomas Mann sulla creatività della spirocheta in musica; magari nei Lieder di Hugo Wolf. Quando ho fatto un pochino di università a Roma, il massimo che ci davano da studiare come monumento dell’immaginazione infettiva era il Palazzo di Giustizia, dove l’ornamento prolifera ed emette segnali molto specifici quanto più il morbo del progettista avanza, mentre le fondamenta affondano nel Tevere...».
Ma qualcuno glielo dovrà pur dire. «In un’epoca di arsenobenzoli guglielmini e nazisti, quella lue diabolica del Faust compositore non potrebbe risultare un accorgimento da vecchia Traviata tedesca economa? che vuole spremere tutti gli effetti apocalittici del suo fatal morbo in tempi lunghi? più lenti della solita vecchia tisi che non accorda che poche ore?... Ma perché il vecchio Diavolo non fa mai patti infernali con le donne? Non gli interessa proprio, trascinarne qualcuna all’Inferno? È “men only” come un club?...».
«O le ficone non hanno l’anima, e i ficoni invece sì, dal punto di vista di Mefistofele?».
«Che cosa vorreste insinuare?».
«Niente, io! Ma ci sono ogni tanto dei pettegoli, e fanno delle insinuazioni balorde su una supposta omosessualità di Don Giovanni, per esempio, che è impossibile perché in tutto il Don Giovanni non esiste un uomo che potrebbe interessargli! Se invece di Leporello avesse come servo Jacques le Fataliste, forse...».
«Lo fanno per esigenze di completezza. Nel catalogo dei “pires excès” del Libertino ci dev’essere sempre la sodomia, per regolarità, altrimenti non sono più pires».
«Preferirei un Diavolo che va a trovare Giovenale, va a tentare Marziale... E lì, doversi presentare, doversi spiegare... E Cicerone, e Seneca: ma chi è, questo? ma che vuole, ahò?».
«Ma perché non provare con la cocaina invece che con la
vecchia sifilide, essendo questo Adrian Leverkühn un musicista così moderno? Fa troppo café society, rispetto al contrappunto e alla dodecafonia? Troppo dispendioso, con un Mefistofele travestito da spacciatore e ricattatore al tabarin degli scettici blu?».
«E il vecchio assenzio, bibita per dannazioni anche cheap?».
«Darebbe un’Apocalisse troppo francese e Moulin Rouge, totalmente sputtanata da Toulouse-Lautrec!».
«E perché non il vecchio whisky di Hemingway e Faulkner, che tanti eccellenti risultati aveva già dato con O’Neill ed E.A. Poe?».
«Faulkner diceva: “Civilization begins with distillation”...».
«La cultura del bourbon va a finire in jazz... Ma certamente il Leverkühn non voleva spendere in bibite cosmopolite. Nazionalista e parsimonioso: Thomas Mann conosce bene i suoi polli tedeschi. Mica rischiare il Diaghilev o il whisky sour!».
«... Magari un grossissimo romanzo sulla vita di Kant, che si mantiene vergine e poi muore d’arteriosclerosi o cirrosi...».
«Cose positivistiche! C’è piuttosto un nostro conoscente americano molto preparato che ha preso le spirochete del Doktor Faustus molto sul serio. Quando ha scoperto che se le era pigliate in qualche palestra d’università Ivy League, o a Tangeri, non si è curato subito ed è venuto in Europa a scrivere un romanzo alla Malcolm Lowry, perché gli sembrava un rinforzo all’ispirazione più che l’hashish o il gin. Bella roba, Doktor Mann! Ha incominciato a curarsi solo dopo aver finito il libro, e un medico di Lisbona gli ha dato del bismuto anche per bocca, oltre alle iniezioni. Lo vedevi succhiare continuamente queste pastigliette al Caffè Greco, in spiaggia, la sera in giro...».
«Eppure, avendo la lue in quegli anni così intellettuali, ci si poteva rivolgere in Germania al dottor Benn e in Francia al dottor Céline: non avevano tutt’e due un ambulatorio celtico?».
«E se il Leverkühn si prendeva una blenorragia al posto della sifilide, che musica avrebbe composto invece dell’Apokalypsis? Atonale?».
«Colonne sonore per film di successo?».
«Boogie-woogie per la Germania anno 1?».
«Qualche Song per il Berliner Ensemble?».
«Altre Lole per il ritorno di Marlene?».
«E che nuovi linguaggi artistici potrebbero venir fuori da morbi di gran nome come il Parkinson o l’Alzheimer?».
«Non sono contagiosi, e dunque non sono poetici. Guarda l’infarto e i tumori e il diabete. Grandi stragi, poesia niente».
«La poliomielite potrebbe essere una grande metafora come la tisi?».
«La tisi oltre che contagiosa è femminile e sexy, ma provate a guardare la peste e la spagnola: una è metafora grandissima, l’altra è come un’ernia del disco. Eppure fanno gli stessi morti».
«Colpa del nome: la spagnola sa amar così... E basta. La peste invece è di Londra, dei Promessi sposi, di Camus...».
«E se invece del sanatorio di Davos fossimo al Rizzoli di Bologna? Tutti ingessati, non è metafora? Qui non si dà il giusto peso a stampelle e minerve».
«Già. E ai dialoghi in bolognese non ci avete pensato?».
«E se il Diavolo senza spirochete né cocaina né hashish né Jack Daniels e neanche un prosecco friulano si presentava al Leverkühn onestamente col suo cartellone: da me, la stagione comprende almeno Don Giovanni, Tristano, Carmen, Franco cacciatore, e Berlioz, mentre lassù ti tocca Monsignor Perosi e il Palestrina di Pfitzner tutte le sere, con Suor Pasqualina e le arpe delle beate e l’intera troupe dell’Osservatore Romano”... Questi sono i patti diabolici che mi piacerebbe vedere: Faust, o Brecht, che si fanno fare i preventivi della famosa cura di lunga vita svizzera come il Duodecimo e Adenauer, col trapianto degli organi freschi dei poveri puledri appena sgozzati per loro... Costa troppo! E allora il Diavolo patteggia il conferimento di un Premio Carlomagno – milioni di marchi – a chi comporrà un Pange Lingua seriale per l’anima buona del Cancelliere Federale...».
Questi vanno e vengono per le stanze, parlando di Webern e Mahler. Ma Antonio rimane tutto intiero avvinghiato alla sua preda: «Il romanzo-saggio! Cioè, sempre il meglio dei due mondi. Come appunto dimostra il Doktor Faustus, oltre che ovviamente Musil. Magari come finta autobiografia di idee, l’unica forma narrativa che possa interessarci oggi: come una pittura di avventure mentali, che del resto si fa e si espone in tanti musei of Modern Art e in tante mostre;
e piace molto. Naturalmente, risolta in conversazione di tipo musicale: il ritmo ti entra ascoltando buoni dischi, invece di leggere molti giornali».
Künstlerroman, ci siamo: big deal!... Però, c’è da far notare: «Quanta musica, quanta pittura, quanto cinema, erano disponibili per Dante, e poi via via per gli scrittori in seguito, come suggestione o background?».
«Künstlerroman proprio come romanzo di formazione artistica, discorso di idee che ti cambiano la vita come gli incontri con certe persone o musiche durante l’apprendistato dell’artista da giovane... stagioni che non ritornano: dopo, a vent’anni passati, non hai più tempo di leggere Fogazzaro o Maupassant...
«Macché battere continuamente la testa contro l’edificio del romanzo tradizionale “ristrutturato dall’interno”... anche se poi in pratica Novel o Romance mi diventano un’altra cosa, perché il progetto parte sempre geometrico: il tracciato di un bel giardino all’italiana... Entrare in un mondo che è un organismo, un sistema... E poi durante la realizzazione è tutto un lasciar correre il vento dell’inconscio, dell’irrazionale, dell’automatico, dell’onirico...
«... finché ti trovi in un bel parco all’inglese, un complesso tutto diverso dotato di leggi proprie e destino autonomo... cresciuto apparentemente da sé...
«... con tutti gli elementi extra-narrativi subordinati al Disegno, alla Trama, divorati dalla struttura romanzesca... Sennò, che fai? Saggi tramati narrativamente, reportages di new journalism che mimano schemi di Fiction illustri...».
«Ma tanto, la finalità del romanzo o del dramma dovrebbe essere prima di tutto il Divertimento. Peccato solo che in italiano sia una parola sospetta... che odori tanto di avanspettacolo e di barzellette... quella spiritosaggine che rimane attaccata per tutta la vita a chi ha fatto l’università con le associazioni dei preti...
«Andrebbe usata in senso più alto: non solo “entertainment”, ma ancora più nobile: il Diletto!... Fino a comprendere Mozart, Diderot, Watteau, Congreve, Orazio, Wilde!... Se invece il fine diventa soprattutto pratico... Anche il più onesto, di edificazione intellettuale rispetto a chi si comporta male o malissimo con la cultura... o il più magnanimo, come incitare al rovesciamento della tirannide con un coro politico eletto... Allora si entra in quei generi letterari tutti diversi a cui appartengono volenti o no la propaganda elettorale,
i codici di procedura, le istruzioni per le medicine, i manuali di analisi del testo...
«Non scandalizziamoci per gli esempi pratici: sono tipici di una certa critica anglosassone empirica e senza schemi, la sola che mi persuade quando i pregiudizi ideologici in Italia e in Francia trattano la Letteratura e le Arti come discipline di servizio che devono analizzare situazioni, sollevare temi e problemi, indicare soluzioni alle autorità, anche additare piaghe e compilare ricette...».
E non basta! «Disgraziati! Voi che credevate a una poesia senza secondi fini come Baudelaire e Rilke! Unico scopo della letteratura è sfamare le vittime e allattare i piccoli, messi al mondo a milioni dalla Provvidenza, che prima si dava tante arie con gli uccelli e i gigli e magari i conigli, una volta... ma quando si arriva al dunque ti manda a dire che come al solito devi pensarci tu: Pantalone, paga!».
«Va bene, miti che crollano. La Banca Romana. La crisi del ’29. Ma se la Banca d’Inghilterra invece di concedere i prestiti incominciasse a consigliarvi certe piccole finanziarie...».
«Siete obsoleti! Piccoli idealisti! Nuove partenze, occorrono! Macché valori solo spirituali, macché pensieri fine a se stessi, macché preghiere con distacco dai beni terreni!... Letteratura come nutrizione, piuttosto! Religione come latte in polvere!... Altro che Lepanto, altro che Lourdes, per l’Africa, altro che Crociate contro i preservativi e contro le parolacce nelle canzoni... Qui ci vuole San Pietro in Plasmon, Santa Maria in Mellinn, San Giovanni in Nestlé...».
«Ma questi sono compiti piuttosto dell’architettura! Dare un tetto ai senza tetto! Cosa possono fare cento o duecento Sartre, quando piove? Qui si trascura il monsone!».
«E la pittura, allora? Lei sì può rappresentare vividamente!... La letteratura sulle vicissitudini dei poveretti finisce come imposizione e tormento nelle scuole dell’obbligo, e la cosa si ferma lì, mentre un Guttuso può fare dei “Vogue-Vittime”, si vendono, si guadagna, si devolve, e tutti contenti... Che ci vorrà mai, sora Cecia?».
«E tutti quegli espressionisti così astratti in pittura e in musica, non potrebbero almeno sfoggiare tutto il loro impegno politico intitolando le varie opere “Hiroshima-Buchenwald” o “Carri armati sovietici a Budapest” o “Comitato centrale corazzato” o “Morti di fame”, e non sempre “Senza titolo N. 11” o “Ohne Titel op. 101”, insomma?».
«Mi dicono che tutti i campi di concentramento sono già
depositati come titoli di composizioni musicali. C’è un oligopolio imperfetto che fa pagare diritti salatissimi anche per tutto quanto riguarda bombe atomiche e Cuba».
«Fare i concerti, allora! Ma non gratis! Vendere care le candeline e le bibite, e versare gli incassi subito! Che ci stanno a fare sennò le None di Beethoven e i Requiem di Verdi, senza uno scopo? Con le candeline, ci si sente più buoni! Chi si è mai sentito più malvagio, con un lumino in mano? Ma con un libro, che accendi mai?... Ai diseredati, ai miseri, ci devono pensare le istituzioni sovvenzionate dallo Stato: Biennali, Triennali, Quadriennali, le Opere, le migliaia di enti inutili... Si faccia mente locale: il romanzo di denunzia sulle deplorevoli condizioni, quante buone signore deve far piangere, per cominciare a incassare il 10,5% del prezzo di copertina delle 450 copie effettivamente vendute, omaggi esclusi... Anche perché le buone signore non si farebbero mai prestare una sedia o una pentola, ma i libri invece sì, non si vergognano».
«Li vogliono in regalo. Anche i più facoltosi, morrebbero prima di chiedere in dono una cravatta da Battistoni o una Ferrarelle dal droghiere. Ma il libro, lo chiedono gratis».
«Non sarà più carino il buon cuore di quei mondani che invece di andare al ballo del cancro o della fame staccano un bell’assegno, e via?
«Però poi corrono tutti contenti a vedere i film tipo Terrore nel campo di sterminio».
«Ma è la natura umana! Il principale compito della narrativa sarà di assistere, consolare, soccorrere – letteratura come ospedaletto di casi pietosi! – e il lavoro ovviamente non manca, i disgraziati sono in aumento, di poveretti ce ne sono sempre tantissimi, in continenti interi che andando avanti vanno indietro per colpa mia... Ma bisogna metterci i maltrattamenti oltre che le sventure: la gente vuol solo quelli, guai a dargli l’happy end per unhappy few! Il lettore è malvagio, la lettrice è perfida! Non vogliono che il povero e il negro e l’ebreo stiano bene, esigono che siano trattati malissimo dai loro narratori di fiducia!
«E già parecchi astuti l’hanno ben capito, specialmente autrici alla De Amicis: bisogna venire incontro alle pretese di clienti che non tirano fuori neanche un soldo se il negro è soddisfatto, se il povero si arricchisce, se l’ebreo si salva. Verdi e Puccini lo sapevano bene: botte a Gilda, butta la Tosca, addosso a Manon, kaputt la cinese e la giapponese! e
massacri su massacri! col pretesto peloso che sono orrori da non dimenticare, perché non si devono ripetere mai più... E quindi, rifarli continuamente al cinema, come i polizieschi pieni di morte e di sangue, perché “ti spacco il muso!” non basta più, bisogna aumentare la violenza... E gli ebrei non protestano. Io tirerei le bombe, contro i film di sfruttamento su Auschwitz. Mettono in testa ai balordi idee pessime».
«Anche le commedie con gli ebrei tormentati dalla psicanalisi, mi piacciono poco. Preferisco quelli con belle case, bei quadri, argenteria di Augsburg, ottimi sigari e jokes... Non li fanno mai vedere!».
«Ma anche i marines sono sempre stati famosi per i maltrattamenti che piacciono, con tutto quel masochismo che li spinge ad arruolarsi solo per farsi picchiare da sergenti cattivissimi, che urlano “prendilo da vero uomo!”».
«Finiscila, elefante, qui si sbraca nel pecoreccio come al solito per colpa tua! Non si riesce a tenere un tono elevato né impegnato né smart!».
«Perché? Si arruolerebbero per incontrare delle belle ragazze al boot camp o nelle cuccette delle portaerei?».
«Una generazione prima dei campi di sterminio, vi ricordate la gran voga degli ossari e sacrari, tutto quello sventolìo dei veli neri delle vedove di guerra coi saluti romani, e “che bella cerimonia, che funerale stupendo, che bravo il cappellano militare, quante medaglie, proprio splendide le corone, meravigliose le lapidi, la prossima volta più candele e più lacrime”?».
«Certo, se per tener desto il massacro dovessimo riproporre tutti i giorni i seicentomila caduti sul Carso, brutti tempi per L’uomo senza qualità e il Rosenkavalier... Seicentomila vedove che rivalutano il Duce contro Cecco Beppe e il Jugendstil! In gramaglie da estate e da inverno!».
«Spalleggiate da quelle massaie rurali mentecatte che correvano a dar gli ori in Piazza Venezia per l’orgasmo e l’entusiasmo di zappar la terra tutto il giorno nelle paludi pontine invece di tirar le bombe al famoso balcone!».
«Siamo già a Eros e Priapo?».
«O avremo una memoria prenatale? Me lo dice Attilio Bertolucci...».
«Forse siamo davvero l’ultima infelice generazione» osserva Federico, piano «che per anni e anni ha letto un libro al giorno».
«E certe sere di guerra, con niente fuori e le bombe intorno, magari anche due...».
Non so se andare avanti, o andare a dormire. Sarà una di quelle sere quando inaspettatamente ci si dicono le cose più decisive di tutta la vita?
«... Eppure proprio Musil e Mann e Proust hanno fatto e insegnato a fare un romanzo squisitamente intellettuale – per amici del Romanzo e per lettori di Romanzi – accompagnato da perfette istruzioni interne come un kit di pronto intervento... anche per quel lettore coglione che spinto da insegnanti dementi in tutto il dopoguerra si chiede soltanto se l’Autore “stigmatizza” oppure “non stigmatizza” qualche società frivola e corrotta... e dove stigmatizza, nel caso che rimpianga la Fine di una Società o la Fine di un’Epoca?... Come al cinema: è valido perché sensibilizza? è meritorio perché solidarizza? è lodevole perché affronta un problema, due o tre problemi? ne solleva quattro o cinque?... Anche nei massimi romanzi, non molto altro interessa. Non un’attenzione alla poetica, da anni e anni. E si tratta magari di Faulkner».
«Ma scusa, Antonio, per questi non ci vuole la Letteratura, che è Piacere. Hanno bisogno solo di Dovere: anche per riempire il tempo libero nelle esistenze di noia. Perché un autore dev’essere tenuto a corredare l’Opera di indicazioni di poetica contro quei lettori che il vostro Gadda chiama “moraloni”? Per loro occorre l’oratoria, la precettistica, i seminari e i dibattiti che deplorano e rimproverano e non compendiano un mondo o un testo ma un giudizio sociologico viscerale sui contenuti; e dunque risparmiano la fatica o il fastidio di avvicinarsi direttamente allo spirito e alla visione e alla qualità di un romanzo perché basta tirarne fuori una contestazione dell’ambiente o dell’epoca in un paio di formule demagogiche...».
«Et in Arcadia Super-Ego... la gratificazione di illudersi che un patchwork di luoghi comuni astratti e brutti possa comunque influire su qualche realtà concreta...».
«Un bell’applauso all’orchestrina perseguitata dai generali e dai colonnelli, comunque suoni! Una grande mostra di grafici orfani tanto più valida quanto più nefandi furono i crimini! Ma solo per le vittime settoriali di un regime specifico, perché gli orfani vittime di crimini d’altri regimi sono un altro discorso... E d’ailleurs, senza perseguitati e senza diseredati e dunque senza scopo, l’arte e la grafica e i complessini e la satira che ce stanno affà?».
«Ah, se le Due Orfanelle si fossero esibite in live performance... Se la Cieca di Sorrento avesse fatto delle foto... Se la Muta di Portici avesse debuttato “in concert”...».
«I braccianti, signora compagna, i braccianti!».
«Li gradisce in un microcosmo da portar via, o al cartoccio?».
«Metafora? Chi ha detto ancora metafora?... È di moda la parabola, adesso! Se qualcuno dice ancora “metafora” come l’anno scorso, chiamo la suora del clistere!».
Si sta parlando tutti insieme, all’italiana. «... E allora dove va a finire quel povero tempo libero per cui giustamente l’umanità lotta con tutte le armi, dal dolce far niente allo sciopero al relax... e che va giustamente riempito non con seminari di precetti ma con gli hobbies del Désir...». «E dunque dormire, ballare, far l’amore, immoralità, vacanze...». «Gelati elitari, spiagge sconvenienti, spettacoli di consolazione...». «Giardini, fontane, belle arti...». «E la nostra cara letteratura, che per noi riempie beninteso anche tutto il tempo non libero»...
«Qui viene fuori la differenza tra scrittori e letterati!... Per chi inventa, e ha un’originalità, ha uno stile, è una festa!... sul testo!... Per chi traffica sulle opere altrui, o esegue lavori su ricetta, è impiego, è bottega, è confezione, è cucina... Altro che désir... Altro che edonismo e plaisir... “L’opera che è stata presa in analisi, l’oggetto dei lavori del convegno”... “Gli addetti ai lavori”... Ai lavori!... Ma è roba da muratori!»...
«Si riconosce la burocrazia dell’impresa: l’addetto ai lavori deve sempre consegnare un lavoro alla fine del mese, vive fra i preventivi, sfaccenda, ha scadenze... Altro che “ho divorato un libro stanotte! mi ha cambiato la vita! mi ha dissociato la sensibilità!”...».
«L’addetto timbra il cartellino... È un dipendente, un subalterno del datore di lavoro... Ma poi è un lavoratore?».
«... Forse siamo senza saperlo né volerlo tra gli ultimi a usare ancora i modi e gli strumenti di un’abitudine culturale che si è sempre fondata con naturalezza sulla qualità... sullo standard dei modelli più alti... senza far tanto pesare la mancanza di faciloneria... Anzi, mascherando il rigore spontaneo delle scelte dietro l’ironia o magari i languori...».
«... E invece il divertimento che piacerebbe envisager coincide poi con quel certo realismo che usa strumenti espressivi e critici addirittura tragicomici per rappresentare con violenza immediata una realtà che è appunto tragicomica...
Gadda... Musil... perfino Brecht... Risolvere il dramma in commedia... Deve far ridere, dev’essere un po’ urtante, deve far dire a tanti “però non dovrebbe! fa male!”... E certo, che fa male! “Te ce credo”, che fa male! Deve farti male!... quando va dentro tutto... Deve nutrirsi d’una profonda verità morale, però basta in fondo una tua rettitudine naturale, o ce l’hai oppure niente. Non è come “farsi belli”: è un radar. Anche se i riflessi sono tenebrosi, e alla fine si piange. Magari, non per catarsi, ma per coltelluccio nella piaga. Il Mago di Berlino poi non lo amo moltissimo: però qui ha capito tutto. La rappresentazione come atto creativo che nasce già come giudizio critico: privo di qualunque efficacia “pratica” immediata, però capace di aiutare a formare, alla lunga, un’“aura” giusta... Giusto il contrario di quella self delusion sulle buone intenzioni “operative” che sopravvive da epoche precedenti, infelicissime perché seriose e sceme, anche un po’ minate dal nostro senso dell’inutilità e del ridicolo...».
«Come si vede che sei Acquario!» grida Jean-Claude. «Sono lì tutti, i tuoi amici: il Mago di Berlino, quello di Salisburgo, Pergolesi, Cimarosa, Marivaux, Beaumarchais, Rossini, Corelli, Byron, Stendhal, Schubert, Mendelssohn, Schelling, Fontenelle, Montesquieu, Voltaire!». E come sempre evocato – tormentone! su, su, excelsior, per aria! – «il Signor de Montgolfier!».
A questo punto l’elefante non si trattiene. Anche un mio amico c’è. «Federico il Grande!».
«Dialettica che lega la più sfrenata aspirazione alla vita con una spaventosa attrazione per la morte, da Carlo Quinto a James Dean!» continua Jean-Claude. «Lo dice il mio libretto dello Zodiaco, c’è su tutto, Éditions du Seuil. E muoiono sempre poveri, purtroppo. Non pensano al soldo! Però appaiono sempre giovani! Sono fragili di caviglie, e tu te le sei già rotte due volte in lambretta!».
«Una non conta! È stato Pier Paolo che voleva far vedere com’è forte, e m’ha dato un colpo sul letto della Betti!».
«Anche tutto il contrario del Don Giovanni latino convenzionale, sono! Hanno il gusto dello straniero e della stravaganza! Della luna e delle salse! E un dinamismo folle, Figaro e Julien Sorel parlano chiaro! Poi, “un ascetismo della lucidità”. Sempre dal mio libretto del Seuil. Dice anche: “l’autocritique facile”. E uno straordinario istinto dell’avvenire: Bacone, Darwin, Comte, Joyce, Galileo, Karl Marx, Jules Verne...».
«Va bene» fa Antonio, vergognandosi molto. «Ne abbiamo sfondate tante, di porticine aperte. Lo si sa che in tutti i congressi di letteratura o teatro o restauro si alzerà comunque qualcuno a gridare che in quel momento muoiono cinquecentomila bambini nel suo paese, e dunque cosa stiamo qui. E tutti: come siamo cattivi, già mezzogiorno? E quando hai scritto cinquecento pagine, anni di lavoro, autenticità fino ai fili d’erba su carta India... probabilmente lettori e critici si comporteranno come uno spettatore della Domenica Sportiva che vuol solo sapere se quel terzino è parente o non è parente di un certo cassiere del Credito, mentre dei risultati delle partite se ne infischia...».
«Ma come fate, poi, con la narrativa, quando la realtà e la società regrediscono a trame elementari di personaggi minori in serie? quando non esistono protagonisti di niente ma solo caratteristiche figurette emblematiche di sciocchezze? E le recensioni spalmano la stessa béchamel su tutti i libri, e prendono tutti lo stesso sapore, il fagiano come il branzino o la merda?... Però tu non puoi usare strumenti troppo inadatti alla materia: non lo si fa in nessuna arte, il manufatto non riesce!... Allora, discendi? Dove, ai basics?... O si deve tener dietro agli effimeri di giornata, come quando mandano in tipografia trenta ritagli di giornale con refusi e tutto, e poi lo chiamano libro?...».
«Forse non sarebbero male, dei libri-conversazione dove potersi aggirare come in quei grandi ricevimenti dove si chiacchiera di tanti argomenti in molte sale e salotti, fra persone diverse... e tu entri ed esci, apri o chiudi porte, siedi dove ti pare... trovi sempre dove inserirti dopo due minuti... Romanzi-galleria, romanzi-club...».
«Sarà poi per questo che quando leggo adesso un romanzo-romanzo, m’interessa così poco la storia che mi viene raccontata?... La conosco già, è meno interessante delle cose che ci capitano, o la prevedo facilmente, m’importa poco o niente come va a finire... Insomma, la si piglia come una formalità o una convenzione, come quando si deve fare conversazione per politesse, e io so che tu sai che è un dovere mondano, una cerimonia. Solo a questo patto andiamo poi d’accordo con l’autore. Ci si sobbarca par délicatesse, e si sa che ove havvi délicatesse, ivi ci si rompono un pochino le palle».
«Ma lo diceva già Henry James: bisogna stare al giuoco, accettare come norma-base della narrativa un autore primario
che racconta una sua storia, e viene dimenticato subito dopo le prime pagine, per consuetudine, man mano che la storia si sviluppa. E, semmai, proprio perché è impersonale, “ti avvince”. Perfino nel caso di Conrad, quando i narratori si moltiplicano, diventano quasi numerosi come i protagonisti, si passano la storia di mano in mano tipo staffetta, e il racconto è quasi tutto virgolettato sulla pagina, perché è detto...».
«Andarlo a raccontare al Mago di Berlino, per favore. Io non me lo dimentico mai, non ci riesco. Me lo vedo sempre lì davanti, l’autore, quel ventriloquo esorbitante, fra i suoi personaggi e me, perfino se si tratta di Balzac. Se poi lo conosco di faccia o di maniera, è finita. Me lo vedo travestito da porcona, da ragazzaccio, da prete. Sento la voce di Moravia che fa dei falsetti per non lasciarsi riconoscere dietro i reggipetti e i blue jeans. Però è sempre la sua, la solita, il lupo di Cappuccetto Rosso che finge d’essere la mia cara nonna. Quindi, per forza finisco per interessarmi al come, al perché, ai trucchi di sceneggiatura e make-up, e mica tanto alla sostanza, alla cosa. E raccontare la trama di un romanzo o un film si riduce allora a una spiegazione delle soluzioni tecniche in base alle quali è stata organizzata un’operazione narrativa, col suo birignao di intenzioni e pretese, e un bilancio di quanto me ne arriva come utente dopo che ho pagato il biglietto.
«Anche perché una struttura formale si può descrivere altrettanto narrativamente che le peripezie di una signora. E se il lupo insiste sui “fatti” della nonna, gli faccio la psicanalisi e i conti in tasca, vado a vedere come fa a nascondere le orecchie nella cuffietta, controllo se non gli scappa qualche “ovvìa” o “embè” che non tornano. Abbiamo letto gli stessi libri e gli stessi giornali: non crederà di farla franca. Manuali e prontuari e lupi, ormai si trovano in tutte le tane dabbene».
«Come odierebbe questa tesi di dottorato, il re di Sheherazade».
«Ma come l’amerebbe Jenny delle Spelonche, in compenso. Non sarà una grande scoperta critica, l’applicazione alla narrativa della Teoria dello Straniamento. Però, a teatro, si è abbastanza capito qual è la fonte del ridicolo involontario in scena: l’immedesimazione, da parte di guitti. Se sei una disgraziata, non puoi permetterti di fare Marilyn o Marlene o Maria. Il vecchio Mago invece è prudente: non sai ballare, non sai giocare al football? fai finta di ammiccare al ballo e al giuoco. È stilizzato, dunque fiiine. E “non paghi dazio”.
«Ma quell’ironia critica fra volere e potere, nella distanziazione fra attore e personaggio a teatro, troppo di rado la si ritrova nel romanzo... Lì si vede ancora l’autore che si immedesima nel personaggio, e soffre e spera e singhiozza con lui, e vorrebbe magari con tutti noi... Gran compassione e auto-compassione, un bell’applauso, signora mia: Jennifer Jones e Maria Schell che vedono la Madonna anche al cesso... E addirittura si immedesima nell’alienazione per rappresentare l’alienazione: cioè il tedio rappresentato col tedio... il divertimento, con uno che ripete “come mi diverto”, senza spiazzamenti... Solo autenticità: l’unico monumento possibile al Generale Garibaldi sarebbe il Generale stesso sul suo piedestallo... in person».
«Per rappresentare la noia, Cechov fa alcune delle commedie più divertenti mai scritte, ce lo ripetiamo sempre» osserva Jean-Claude. «Sarà perché in quel teatro non lavora nessuno, mentre nel romanzo vittoriano lavorano tutti moltissimo e fanno troppe fatiche?».
«Ecco» insiste Antonio. «Tu adesso prova però a immaginare cosa diventerebbe Il giardino dei ciliegi se fosse pieno di italiani che si lamentano e singhiozzano perché là proprietà va all’asta; e l’autore lì sotto sotto a provocare la condoglianza come quelle accattone snaturate che dànno i pizzicotti alle creature per farle piangere e chiedere la carità... Sgombero di ninnoli evocativi che si tirano dietro le forfore del povero nonno, della povera nonna, della zia Pina... Come le foglie, Mariuccia! Tieni il fazzolettino, Carolina, tu che hai tanto cuore. A me non serve, perché non ne ho».
«Ma i romanzi della compassione sono sempre perfidi! Un autore malvagio come la megera Frochard delle Due orfanelle, prima mette alcuni disgraziati molto crudelmente a bagno in situazioni tristissime. Poi dà la colpa alla Storia e alla Sociologia e pretende soldi e pietà per gli infelici innocenti che lui, l’autore-megera o autrice-arpia, e non la Società o lo Spietato Comandante, ha premeditatamente cacciato nelle calamità e nei disastri, a scopo di lucro... Ma è più infame che schiacciare i gatti con la macchina...».
«Adesso vi faccio piangere anch’io, quanto mi pagate? Una povera disgraziata, vedova, orfana, inferma, cui andavano male proprio tutte – e qui, un elenco di sventure di repertorio, le peggio – viene finalmente gettata nel più orribile campo di sterminio...».
«Ma allora lì non può venire stuprata dai negri, come la
famosa Ciociara! Nix Rassismus? Avrà almeno una figlia più sventurata di lei, speriamo».
«Dilettanti! Ha un povero bambino bruttissimo, rinnegato dallo zio bonzo, e che non tace mai! (O non parlerà più?). Peggio che andar di notte e tagliarsi col coltello! Lo picchiano sotto la neve!... Gli fanno indovinate cosa in cinquanta, a quaranta sotto zero, suonando la Sonata a Kreutzer e tracannando Courvoisier Riserva con la Vergine di Norimberga ed Ezra Pound!... Versatemi un anticipo, sarete contentissimi, andrà benissimo, si farà subito anche il film!».
«Nel tuo cuor s’annida Scarpia?».
«Come dicono i produttori: da qualche tempo non ci si indigna più per gli orrori in carcere, è ora di fare un nuovo “prison movie” di denuncia strappalacrime! Però sono esperienze che raccontate otto, dieci, dodici volte, mostrano un loro interesse calante: caso tipico, i poveri martiri al Colosseo. Fabiola, un flop. Devono intervenire le componenti malvage dell’animo umano, per tener vive e aperte le ferite, e ridestare la Crudeltà! Sennò i filoni si inaridiscono, come nel caso delle trincee della Grande Guerra, dei gas asfissianti, dei bombardamenti, delle manine tagliate, dei congelati in Russia...».
«Qui si sta trascurando la grandiosità delle coincidenze con la Storia! Sia in Sartre sia in Genet c’è sempre qualcuno che lo prende nel culo mentre i Tedeschi stanno entrando o uscendo da Parigi. Il contenitore conta! Potrei raccontare che l’ho preso per la prima volta a Dallas mentre stavano assassinando Kennedy a pochi blocchi di distanza. La Mort dans l’Âme e Strangers in the Night! Sono sicuro che piacerebbe».
«A cosmic metaphor!».
«E certo. Prenderlo a Brescia, mentre cade un governo Fanfani, è tutt’altra musica. Non reggerebbe neanche un adulterio fra industriali del tondino».
«Fa più soldi la povera vecchietta affamatissima, con tutti che la trattano malissimo. Nei successi di Emma Gramatica, se non moriva di crepacuore per l’ingratitudine di qualche figlio, sempre il gatto rovesciava l’ultimo pentolino di latte rimasto nella soffitta della Damigella di Bard. E tutta la platea del Cinema Roma, in subbuglio per la commozione: el latt! el gatt! e magari anche el ratt! Ed erano gli anni Trenta, non c’era ancora la guerra... E tutte le nostre care zie e prozie e nonne e maestre: che bel film da piangere! andateci domenica!».
«E tu, caro?».
«Ma mi faccia il piacere! Quisquilie! Bazzecole! Pinzillacchere! Andavo a vedere Totò. E tutti: andrai a finir male! È così che sono diventato un bambino cattivo: uno dei primi, nel deep Nord, a fare le corna, toccarmi le palle, rispondere tiè! E so ancora parecchio Totò a memoria, oggi introvabile: Bada che ti mangio, dice l’uomo alla natura, con la faccia scura, e un pranzo al restaurant!».
«C’è una vecchietta anche in un famoso Lied di Richard Strauss» interrompe rapidamente Klaus. «Tempo da lupi, tempesta di neve, tutti in casa. E dalla finestra, si vede una vecchiettina con un lanternino... Dove andrà, la povera vecchietta?... A comprare... e qui, valzerino!... Mehl und Eier und Butter! farina e uova e burro! vuol cuocere una torta per la sua bambinaccia, così golosa e grassa che non si alza più dal letto! Qui però il testo è di Heine».
«Finite le vecchiette, incomincerà coi negretti! Picchiati, tormentati, affamati, trattati malissimo perché i buoni missionari non raccolgono più la stagnola dei cioccolatini! Le Frochard già si leccano i baffi! Buchenwald e Hiroshima non gli bastano!».
«No, no, in Cechov la signora continua a ridere e a gorgheggiare, dice “continuo a perdere i soldi, li avevo qui, ma che sbadata, che stupida, non so proprio come faccio a perderli”...».
«Sembra anche l’unica con un briciolo di buon senso, come dicevano le nostre care nonne. Quando nessuno lacrima sulla distruzione della Villa Ludovisi, come si fa a dar peso alla sorte di un fruttetino in fondo al buco del culo della provincia russa, e che si può benissimo ripiantare qualche metro più in là? Qualunque vivaista ti può confermare che i ciliegi crescono in fretta».
«Sono le fisime delle vecchie zie, quelle belle creature che non stanno mai zitte e mai ferme... Ogni volta che vedo Le tre sorelle, mi metto dalla parte di quel povero bambino Bobik che le ha addosso così animate per tutto il giorno e anche di notte, e mi dico: verrà il Diciassette! al muro!».
«E io, ogni volta che vedo lo Zio Vania, penso al finale più appropriato: ci disintossicheremo!».
«Dobbiamo andare a Heidelberg a vedere Lil Dagover nella Folle de Chaillot» dice piano Klaus a Federico.
Siamo qui da tre ore e mezza. «Malgrado tutti gli Assoluti che ci tirano dietro anche per strada...» riattacca Antonio «... anche se poi non hanno certezze così assolute da far valere...
Insomma un certo distacco “saggistico” nei confronti dei personaggi e delle situazioni rimane sempre l’atteggiamento più savio, adesso... Tanto vero che perfino quando ritieni di star facendo l’autobiografismo più disarmato e smaccato con le milze in tavola, malgrado ogni tua sincerità intellettuale questa immedesimazione in buona fede rischia di apparire un poncif dei più incontrollati e inautentici...».
«Ma il Grande Narratore non aveva come apprezzata caratteristica una grande compassione a tutto tondo per ogni debolezza e miseria umana, una volta?».
«Non farà certamente dell’ironia stilistica sull’interpretazione dei fatti o sulla psicanalisi dei sentimenti, se è un vero signore d’antico stampo, o un bravo borghese col senso del progresso. Quando il Narratore è onnisciente, si esprimerà all’imperfetto e generalizzerà con floride metafore, speranze per l’anima... Non gli costa niente».
E uno scapestrato: «Ne capitano di più e di meglio a Renzo e Lucia, o a Topolino e Minnie?».
«Al Trovatore!». «A Parsifal!». «Alla Callas!».
Si leva il vento...
«... Ma ci sono parole che non puoi più usare sul serio e neanche rivalutare in buona fede... Si sta lavorando in pubblico con materiali sintetici e strumenti senza mistero, privi di qualsiasi “aura” come pianterreni abbandonati... Però, costruendo macchine e giocattoli sempre più complessi e virtuosistici, giacché non è più permesso a nessuno di essere “nato ieri” nel proprio mestiere... E perfino “quel certo non so che”... detto anche, fra gli amici, Magìa... non si presenta più con mille premure ogni volta che un Artefice a tutto sesto scrive una riga più che sublime spergiurando a se stesso che non sa davvero cosa avverrà nella prossima, perché c’è ai fornelli l’Inconscio della Pizia...».
«Ah, ma se lo dicessero anche i musicisti e gli architetti: ignoro la prossima nota, non so immaginare le finestre del secondo piano... E se magari diventasse un tormentone, ripetere che il Critico non può sapere ciò che va scrivendo, poiché è agito da forze superne, che gli buttano giù le recensioni, una frase per volta...».
«No, no, la letterarietà ha cambiato strategie: sopravviene inaspettata e ironica alle spalle di una scelta critica di materiali anche realistici... tagliati e montati con accelerazioni e riduzioni, e giustapposizioni, e gigantografie o miniature talmente ironiche... da sfiorare gli effetti espressionistici di un’attrezzeria dove trovi sullo stesso piano il cigno
di Lohengrin e la gobba di Rigoletto, Bacco e Aronne e gli enigmi di Turandot... Basta che non diciate anche voi Turandò, alla francese... E naturalmente, affidando l’attività comunicativa a un blend espressivo di vibrazioni, frizioni, overdrive dopo il ralenti... e i piccoli relais molteplici nel linguaggio dei corpi...».
«Lasciami lo Scherzo fra la Nachtmusik I e la Nachtmusik II, volete ancora un po’ di mousse?» dice Federico.
«... Ma la letterarietà comico-epica permette poi di usarli tutti, i vecchi arnesi del trovarobato: la trama, i personaggi, i dialoghi, le descrizioni, gli sfondi, le riflessioni d’autore, le voci, i portavoci, i gesti, i passaggi dalla prima persona alla terza, lo switch fra i diversi punti di vista, perfino gli imperfetti!... sostituendo all’identificazione sentimentale e viscerale proprio il commento, il giudizio critico built-in... quindi criticando le strutture e lo spirto gentil del romanzo tradizionale nell’ambito del romanzo tradizionale même... rivisitando dall’interno un congegno da cui si prelevano i tricks adatti ai propri fini... non dimenticando che l’ironia è uno strumento buonissimo per tener lontano il ridicolo... e rendendo intanto qualche omaggio a taluni monumenti del passato coi quali sarebbe anche giusto fare un po’ di conti... giacché tutto sommato gli si vuole ancora un po’ di bene...».
Jean-Claude osserva: «Allora, come quando Picasso rifà un dipinto di Velázquez o di altri Antichi Maestri. Quella forma di omaggio non pastiche, e non à la manière de, che i pittori e i musicisti hanno usato spesso fra il post-impressionismo e il neoclassicismo... e che sarà in parte analisi e in parte parodia, ma soprattutto riconoscimento ed emulazione, da uomo del mestiere a uomo del mestiere, nei confronti dell’abilità tecnica di un artista nel risolvere i suoi problemi, considerando tutte le possibilità della “forma” adoperata...». E come tra sé: «Certo, sarebbe meglio che non ci fosse troppa differenza di statura, fra i due. Sennò, poi, le fotografie di matrimonio fanno ridere».
«Anche per questo mi pare un esperimento inutile disinvestire tanti “interessi del capitale” per trasferirli sulle cose» aggiunge Antonio. «Questi “nuovi rapporti con gli oggetti”, o peggio ancora con oggettini e cosette in sé, paiono soprattutto un cul-de-sac della natura morta... perché un oggetto è un segno, e basta... Sei lì? Stacci... Ha solo il senso che gli si vuol prestare, e non sempre lo regge, è un attaccapanni precario... E se non si sta attenti, a scherzar troppo
con gli oggetti si cade nella trappola di pigliarli per metafore. Come ci casca tipicamente il cinema simbolico, vecchio e nuovo: mattoni diritti e mattoni storti, lo stormir di fronde che simboleggia ribollir di sentimenti, il cancello chiuso che significa perfino per Antonioni “fra noi due tutto è finito”...».
«E lasciamo perdere il treno che entra in galleria».
«Bestia umana! Si finisce nel linguaggio dei fiori! Il giglio bianco non vuol dire la stessa cosa della rosa rossa, dunque attenzione agli omaggi per la Signora dalle Campanule. O si frana nel Pescatore di Chiaravalle, che oltre al simbolo e alla metafora ha il vantaggio di fornire i numeri per il lotto».
Un altro po’ di mousse, no. È diviiina, ma no.
«Ma intanto stiamo ancora aspettando che ci si spieghi perché mai, se la descrizione dev’essere non-simbolica, non-metaforica, e magari anche non-funzionale, gli utenti di un anti-romanzo “obiettivo” dovrebbero osservare un angolino piuttosto che uno stipite messo a fuoco dalla regìa... contare una serie d’oggetti... dormire un po’... e non invece fermare l’azione per chiedere qualche “numero” per diminuire la noia, come nei piccoli varietà?...».
«E dove si anniderà la vera differenza fra le enumerazioni tediose degli antinarratori “obiettivi”, e le descrizioni che normalmente si saltavano tutte intere, presso i narratori meno buoni dell’Ottocento... e invece si assaporano anche a spese della trama, come anticipi di romanzo-saggio, appena all’inizio delle Illusions perdues si spalanca quella mirabolante digressione sulla fabbricazione della carta sopra la quale, dopo tutto, è stampato lo stesso romanzo?... Fra quello sguardo sulla Maison Vauquer nel Père Goriot (“La façade de la maison tombe sur un jardinet, en sorte que la maison tombe à angle droit sur la rue Neuve Sainte-Geneviève, où vous la voyez coupée dans sa profondeur”), e qualunque rilievo di una porta mal chiusa o di un soprammobile sbieco eseguito da un contemporaneo aggiornatissimo, altra differenza davvero non si vede se non che la prima descrizione è un “totale” anche se appare come un quadro da cavalletto, o una panoramica (come il Ramo del Lago di Como, quello sì che è cinema!), e il secondo un “particolare” che andrebbe tagliato nel montaggio»...
«Appunto, dai procedimenti “obiettivi” ci aveva liberato il cinema,» gli faccio osservare «quando invece di descrivere ogni oggetto in una stanza e ogni fase di un’azione fa una selezione, addirittura con stenogrammi. Si sa che entrando si apre una porta, e che incontrandosi ci si dirà buongiorno. Via tutto. Inutile soffermarsi sull’accensione della sigaretta, se non si è almeno Bette Davis. La carezza al gatto e il bicchier d’acqua dal rubinetto, per favore, quando non ci siamo. Ancora una volta quel posacenere pieno di cicche, a significar disordine in questa casa, e non vi compro più un solo biglietto. A meno, si capisce, che la porta non caschi in testa, e che il buongiorno sia la parola d’ordine di Mata Hari».
«E quando un tale qualunque, nel racconto, mi fa perdere del tempo in cose sue insignificanti, tipo andar di là a farsi un caffè... Ci si comporta come nella vita: quando torna, non mi trova più».
«Però, come mi piacerebbe che il realismo si potesse prendere sempre in un senso più ampio, più grand» fa lui a Jean-Claude. «Proprio come rappresentazione “totale” anche se non in presa diretta e storica d’ogni aspetto del tempo e luogo ove nasce il romanzo... Far sentire il più vero del vero per virtù soltanto di uno stile capace di buttar via ogni documentazione... però esatto fino alle punte dei capelli, in ogni dettaglio sociologico, psicologico, linguistico, di costume, di moda... Ogni personaggio o comparsa, definiti da connotati assolutamente autentici di quel particolare ambiente e momento storico... un’autenticità non documentaria ma stilistica...».
Gli risponde: «Ma non senti ripetere qua e là che già dopo pochissimi anni non si sopportano più i vecchi romanzi di Sartre e della Beauvoir perché li si trova datati come almanacchi?... E per la stessa ragione càpita di sentir dichiarare addirittura illeggibili Les faux-monnayeurs, tutto Huxley, e tutti quei realisti americani... che poi... realisti... mah...».
«Certo, nel vecchio esempio di scuola,» osserva Klaus «mentre le signore di Jane Austen prendono il loro tè, chi si accorge che Napoleone sta conquistando l’Europa e per poco non sbarca in Inghilterra?... Ma se questa non è un’intimazione di grandezza...».
«E a quale decennio del secolo scorso si riferiscono i romanzi della Compton-Burnett, allora?» ribatte Antonio. «Se provate però ad aprire Tender is the Night, che è proprio degli
stessi anni di Antic Hay e di Crome Yellow, vedete com’è pieno di riferimenti a grosse e piccole realtà dei Twenties, non meno di Huxley. In Fitzgerald si trovano continuamente Constance Talmadge e D.H. Lawrence, Ronald Colman e “Yes, We Have No Bananas” e Prokofiev e “the Great Jung” e un “Seraphim Tullio” che sarà Tullio Serafin... Continua a citar canzoni e baseball players dell’annata e racconti del “Saturday Evening Post”... Ma senti come suonano per lui non pubblicistici, solo poetici, necessari come in Balzac, pungenti, struggenti nelle nuances, nel restituire proprio poeticamente il colore di un’epoca e i suoi riflessi, molto più di tutto il badinage e persiflage di Huxley o di Gide...».
Jean-Claude protesta. «Se mi prendi sempre come esempio i Faux-monnayeurs...». Ma Antonio non lo lascia stare. «È pur stato un nostro gran mito nella stagione del romanzo sul romanzo... Però se pigli le cose più “secche” o “bianche”, le sinfonie pastorali e le scuole delle mogli e i vari récits “essenziali” tipo Madame de Lafayette o Benjamin Constant, chi sembra più decrepito e anemico e più Duchessa di Windsor, fra il loro consommé in tazza, e quei fiumi in piena di Balzac o Dostojevskij, quando trascinano lutulenti e spettrali le loro bucce e i loro cartocci, e intanto anche una folla storicistica di nomi di cantanti e ministri e giornali e negozi, e magari recensioni con una validità legata a quel mese o quell’anno?...
«No. Sempre più mi convinco che l’autenticità dell’œuvre dipende moltissimo da come proprio sa riflettere il tempo, storicizzando l’attimo perfino nelle sfumature della moda, le voci in strada, il colore di quel momento, “la calda follia delle quattro pomeridiane”, “Oggi il mio cuore è pieno di nostalgia” al tè danzante dell’Albergo Aquila durante le vacanze del ’36... Come si sente per esempio che Hitler va al potere o che sta per scoppiare la guerra mentre un personaggio qualunque di Isherwood o addirittura di Party Going si versa un drink o prende un taxi per Victoria Station e il boat train per Cannes... che non partirà...
«Tanto, nelle epoche alessandrine come la nostra, si costruisce comunque, in tutte le arti, con questi materiali artificiali o già usati, anche industriali, estremamente deperibili... storicistici anche perché effimeri e specifici del loro tempo e non aere perennius o buoni per ogni stagione...
«Già parecchi libri di Hemingway e di Malraux e di Lawrence, indirizzati ai posteri, passato qualche anno difficilmente si possono più leggere... o addirittura Orwell... Figuriamoci
cosa succederà coi nostri... benché una giustizia letteraria in fondo esista, basta vedere come regge il bronzo di Oscar Wilde rispetto al saint-honoré di Claudel... E tra la Wharton e Dreiser, chi sta reggendo meglio?... Proprio per questo si tenta almeno oggi, dopo la perdita di ogni innocenza “creativa”, una creazione artistica che sia già nello stesso tempo un atto critico consapevole...».
«Qui i grandi frivoli come Firbank sono i più rigorosi e i meno ruffiani!».
«Nego però che un Classico Moderno deperisca solo in quanto è legato al colore di una certa stagione perduta... Rifiutandosi di dare o ricevere una testimonianza autentica del proprio tempo, ho una gran paura che si frani in quelle astrazioni generiche... prudenti nell’assumere caratteristiche definite... “il grigio sta bene su tutto”... per tenersi disponibili alla rappresentazione di valori “universali”... assez douteux, d’ailleurs...
«Guardiamo per esempio tutti i maggiori narratori dell’Ottocento... apparentemente intenti a scrivere per i lettori di un periodico ideale... pronti a dimenticare le puntate precedenti all’arrivo d’ogni nuovo numero del feuilleton... E anche quanti scrittori molto più lontani nel tempo... eppure così vicini under the skin, come la maggior parte dei nostri poeti latini adorati... Catullo, Marziale, Giovenale, Persio... Come parrebbero tante volte reggersi specialmente su un pretesto di attualità... addirittura da column... figurine estive che passano di corsa... sentimenti o avvenimenti esistiti per un attimo... e neanche da gridare: sei bello!... labili e delicati come bigliettini di envoi... e che non si ripeteranno mai più con la stessa freschezza... Ma come sopravvivono più a lungo di tanti narratori recentissimi tutti preoccupati di liberarsi dal contingente... per dedicarsi a qualche assoluto già decrepito prima di nascere...».
«Ma non ti accorgi... scusa...» fa Jean-Claude, un po’ ba-balbettando «che te la prendi ogni tanto col ba-badinage intellettuale di Gide e Huxley tanti anni fa... che non si può più sentire... giusto, magari... a patto di non sostituirlo col ba-badinage di Uomini e topi»... «E di Uomini e no!» gridano tutti insieme. «... Ma poi sei sempre lì anche tu allo stesso punto... al romanzo-conversazione... e pretendi di tenerci lì tutti... anche noi...».
«Coleridge, Coleridge, non farmi passare per stupido!» si arrabbia già Antonio. Poi ci ripensa: «... Come se anche Proust, allora, o Musil, coi loro sublimi pranzi non facessero soprattutto delle sublimi chiacchiere... Come se non fossero anche quelli romanzi-conversazione... una parlerie saggistica che però ti racconta e spiega quell’epoca più d’una raccolta di corsi universitari...».
«E nella Montagna incantata?... Quei monologhi, li chiameresti conversazione?... mentre invece, Lotte Lenya...».
«A Vienna, a Vienna, altro che a Mosca o al Faro, quando si parla di cultura fra signore...». Federico si alza, fa appena in tempo ad aprire e chiudere un Littré: «Parlerie: Babil fatigant». Klaus: «In Russia si ammazzano e suicidano le avanguardie, mentre in Mitteleuropa il Moderno muore da sé. Negli stessi anni. Brutta coincidenza». Ma Antonio, back to Coleridge.
«È almeno dalla Biographia Literaria che gli scrittori si fanno la propria metafisica da sé, bricolando con quel poco che hanno in casa. Poi finiscono magari per dubitare che fuori esista dell’altro; o se ne dimenticano, chissà. Si chiudono nel closet, mettono la testa sotto il cuscino, tirano su la trapunta. Nascono il romanzo sul romanzo, la poesia sopra la poesia... Sono belli? Sono necessari? O non “servono” a niente?
«Il metafisico sotto sotto avrà ogni interesse a non interrompere le comunicazioni fra il dentro e il fuori, per non perdere i contatti con una realtà talmente pastosa che non si lascia dissolvere nelle astrazioni della mente... Le ombre di questa realtà solida si riflettono amiche o minacciose sulle persiane, sulle pareti. Si agitano come teatrini di silhouettes. Possono anche servire – che brutta parola – perfino in quelle condizioni lì. Ma ci si accorge presto che sono false, tutte storte.
«Allora lo scrittore può anche decidere che i suoi lavori debbano presentare non l’opacità della persiana ma la trasparenza del vetro...».
«Si l’homme, pour bâtir, n’usait que de cristal: lo dice già Raymond Roussel».
«Anche l’aria, “aria senza ostacoli né complicazioni, just air, unobstructed, uncomplicated air” di Fitzgerald in The Last Tycoon e di Thom Gunn in Flying above California...».
«Coleridge... Coleridge... che considera le Immagini quali agenti del Falso e dell’Opaco, e proclama la necessità di “defecare i miti come il linguaggio e le percezioni per raggiungere
la pura trasparenza”... si trova già d’accordo con Saussure che distingue molto fermamente fra segno e simbolo, nonché con Wittgenstein e l’Erodiade di Oscar Wilde per cui non si pone davvero il dubbio: la luna non è affatto una cortigiana da angiporti, né una vergine circonfusa di crisopazi... È proprio e soltanto la luna...».
«... la luna, la luna di Gertrude Stein. Ma il Poeta?».
«Il Poeta, allora, si libera dei miti che si frapponevano tra la sua neurosi e il Mondo. Inaugura una nuova Maniera. Guarda fuori...».
«E a questo punto?».
«Ah, ma a questo punto, il Poeta, e il suo amico, le Philosophe, volendo, naturalmente possono puririficare i loro mezzi espressivi fino a renderli talmente teeersi da esprimere un mondo solamente di idee!... Prendere mamma eloquenza, torcerle un pochino il collo, infilarle in bocca un torchon...
«Però al Narratore questa trasparenza chic è negata; gli propone dei modelli in pietra dura. Si troverà vicino a un qualche punto di partenza, che è sempre una cosa mortificante, riprendendo ancora una volta a usare le ombre della realtà, cioè i personaggi di cui non può francamente fare a meno, se vuole rappresentare l’espressione, senza sbracare nel micro-saggio... Sennò, cambia genere aristotelico!... Il momento più drammatico viene quando ci si sente così vicini a un mondo di pure idee e privo d’oggetti... Christabel, appunto, oppure L’Infinito, però senza ermo colle... E si deve tornare indietro, ai personaggi e ai paesaggi... intermediari non fantastici... e far magari buon viso...».
«Per questo non lo incominci neanche, il romanzo...».
«Ci voleva tanto, a entrare nel mood... In trappola fra il realismo critico e l’impazienza di epicizzare le nostre realtà profonde più immediate... prendendole di petto... o afferrandole per le palle...».
«No, no, non decadentismo e irrazionalismo à la carte...». (Dopo un sorsino d’una sciocchezza gelata al limone. Si è passati a Bruckner: un Te Deum smisurato. Panorama, giù, sempre più cartolina). «... Quelli sono amici-nemici... senza di loro potresti fare della nuova oggettività tutta calcolata e giusta... Ma perfettamente piatta, morta... Ne càpitano continuamente sotto, muore non Isotta ma una sconosciuta perché è vecchia... Mancano tante dimensioni altre...
«... mentre una certa poesia inattesa o disattesa, si direbbe che venga fuori meravigliosamente involontaria... se per esempio credi d’essere una cosa e sei invece un’altra... marxista o cattolico, sentimentale o tough, Monaldo Leopardi o Fred Astaire... O se hai due o tre anime e non riesci a metterle d’accordo... se parti facendo una cosa, e te ne viene fuori una tutta diversa... rivelatrice come una fotografia a sorpresa...».
Questo limoncino locale è alcoolicissimo: va alla testa.
«... E lì, tutti a individuare il tiranno e il despota nella cultura di massa della società industriale che livella ogni creatività... senza rendersi conto che la piccola borghesia della scioretta proprette non si vergogna più delle proprie vestaglie e dei centrini sopra il televisore, ma li pretende anche nei romanzetti, e ti critica se non ce li metti... Come ci va spiegando un mare di sociologia nata ieri, che pretende di spiegarti con gli argomenti del Trenta com’è poco raffinato il maestro Verdi e com’è dozzinale il maestro Puccini, e come sono eccezionali e straordinari proprio per questo!
«E naturalmente ti sopraffanno se ti gemi addosso e subisci di tutto e non confessi a un Super-Ego di fiducia che il picchiami picchiami fammi male è l’atteggiamento più intraprendente: riuscire a farsi picchiare da qualcuno che si sobbarca lo sforzo, in un milieu dove tutti si voltano il dietro e stanno lì aspettando la percossa, per poi rivenderla...».
«Ma c’è una strategia fin dai tempi di Cocteau: se certi fenomeni nous dépassent, feignons d’en être les organisateurs...».
«Meglio ancora, les spectateurs... i clienti, i pazienti, gli utenti... Fingere di credere che in questi grossi shows di seconda e di terza si lavori solo per il tuo divertimento... Applaudire e fischiare e dire “basta!” come si fa con gli attori più coglioni...».
«Ma il realismo è difficile!» sostiene Klaus. «Sia quello critico, sia quello coglione. Si prende rivincite per certe vie trasverse... La realtà che resiste a ogni assalto... e poi parla da sola...».
«Ah, ma da parte mia, preferirei dir subito a tutti “come va a finire”...» si lamenta Antonio «... per evitare la domanda così irritante dell’“e poi, cosa succede?”. E concentrarmi ovviamente, semmai, sul perché, sul come succedono i Fatti... considerando quindi un gimmick da vergognarsi anche un espediente decoroso e legittimo come il suspense...».
«Ma allora, per essere coerenti, se ci piace che di “fatti” ce ne siano sempre tanti, bisognerebbe essere entusiasti del caro metodo dell’Autore Onnisciente che racconta tutto in terza persona e al passato remoto o all’imperfetto, quando tutto è già accaduto e figé e non si può più cambiare perché siamo all’Archivio di Stato».
«Già. “Per una di queste stradicciole – come ognun sa – tornava bel bello dalla passeggiata verso casa, sulla sera del giorno 7 novembre dell’anno 1628, don Abbondio, curato d’una delle terre accennate di sopra”. E naturalmente, “Le 15 septembre 1840, vers six heures du matin, la Ville-de-Montereau, près de partir, fumait à gros tourbillons devant le quai Saint-Bernard”... Beckett direbbe subito: “Il est minuit. La pluie fouette les vitres. Il n’est pas minuit. Il ne pleuvait pas”...».
«E i Moti del Cuore?».
«Ma quasi tutti gli autori, beati loro, e anche tanti storici, sono sicurissimi di conoscere tutti i pensieri dei loro personaggi, come i loro orari. Caterina II e Winston Churchill minuto per minuto, no? E come li manovrano facendoli andare e venire, salire e scendere, sognare o soffrire o amare o riflettere... as you like it... Tanto, è già successo tutto: è lì sull’agenda; e non si può cambiare. Sono lì morti nella bacheca, come farfalle della Rinascente...».
«Ma non viene una tremenda repugnanza, a scrivere parole come “sperò”, “suppose”, “credette”, che fra l’altro suonano anche malissimo... così catastali... perché non lo so e non lo voglio sapere cosa tu Marisa o Mariuccia ritieni che supposero o credettero quel giorno a quell’ora le Marie Stuarde e Antoniette secondo la storia romanzata che ti fa “evadere” come un bel sogno?».
«Non mi importa, io tendo sempre a identificarmi – come è anche giusto – con uno solo dei personaggi, che naturalmente conosce degli altri quello che vede e quello che gli dicono, e proprio niente di più... E se gli raccontano delle palle, tant pis... E caso mai, si aiuta con qualche congettura da poliziotto... Dopo tutto, nella vita reale e nel realismo critico quando mai sappiamo che sperano o credono gli altri... a meno che non ce lo raccontino... E se fanno gli spiritosini o gli chic?...».
«Allora non lo scrivi, insomma».
«Insomma... Mi sembra pazzesco lo spettacolo di un Conrad che dopo aver raggiunto dei risultati formali impressionanti... quel rifrangersi di suoni e di ombre attraverso sistemi
tutti eccentrici l’uno rispetto all’altro... intorno a un vuoto che fa paura... con punti di vista soggettivi e oggettivi che si scavalcano e interagiscono, come forse neanche a Faulkner è mai riuscito... e se mai solo a Proust e a Joyce per quel che riguarda il tempo... e al sublime Ford Madox Ford quando giuoca a svelare tante verità parziali successivamente, con una pazienza d’altri tempi... così si accumulano modificando ogni volta le somme della verità totale... intorno a un centro che forse non c’è... Veramente, non pare anche a voi che da questo punto di vista Il buon soldato di Ford sia il più bel romanzo di Conrad?...».
«Facciamo gli spiritosini... proprio col sublime autore di Chance?».
«No, senza scherzi... quando tira fuori quelle preoccupazioni incredibili proprio in fatto di verosimiglianza del tempo... Andiamo... Quella prefazione a Lord Jim che farebbe sorridere qualunque critico cinematografico... “Nessun uomo riuscirebbe a parlare tanto come Marlow in una notte sola... Ma dopo averci pensato sopra per sedici anni non ne sono tanto sicuro... Nei tropici si sta alzati fino a tardi... Per ciò che riguarda la possibilità fisica, certi discorsi in parlamento sono durati anche di più, e ci sono i verbali... E poi ci sarà stato qualche bicchier d’acqua minerale per ristorare il narratore anche se il testo non lo dice”...».
«Ma qui prende in giro!». Mi sembra così chiaro, con quel riferimento all’acqua minerale nel monologo esteriore...
«E a Urbino, allora?» viene avanti Federico. «Nel Cortegiano, in ogni session, parlano per una novantina di pagine. Secondo le regole della Rai, mi pare che una pagina corrisponda a cinque o sei minuti. Fate voi i conti. Chissà se si fa più tardi, la sera, in Castiglione o in Conrad».
«Ma a Urbino o a Penang non c’è altro da fare, la sera, che chiacchierare. Fuori non c’è niente, come qui».
«È dell’Acquario anche Conrad?» chiede Antonio, bruscamente come se si informasse «è zia?».
«No. Sagittario» risponde Jean-Claude, seriamente. (Sa proprio tutto). «Un segno di fuoco. Moderazione, benevolenza, spiritualità, aspirazioni lontane».
«Vi faccio portare l’acqua minerale» si alza Federico. «Facciamo finta d’essere a Malacca».
«No, un momento, sentite... Il romanzo, essendo quello che è...».
«Quello che è, cosa?».
«Una narrazione di fatti, baby!... Negata alle aperture teoriche del grande saggio, ai trasformismi veloci del cinema,
alla solennità del cinema stesso quando vuol farsi credere d’Arte... Let’s face it, il romanzo rimane il più elementare e diretto dei “generi”... Come nella situazione medioevale basica: il giovane contadino che dice “prendimi con te!” dalla sua zolla al cavaliere che passa a cavallo. E da quel momento son fritti!... perché parlano, parlano, si animano fra loro, non possono più fare a meno l’uno dell’altro, e così diventano una struttura autosufficiente».
«E certo. Il giovane contadino calcolava: girerò il mondo alle spalle di questo. Poi, però, cade in trappola. “Si affeziona”».
«Il cavaliere, peggio. “Si innamora”. Magari non lo sa. Ma è questa associazione che produce una quantità di situazioni».
«Ma se l’attendente ha doti abbondanti, e non gli spiace venir rallegrato, allora l’ufficiale non va più in giro. E così le occasioni si riducono».
«Ma perché poi, nel Novecento che si conosce, dopo una convivenza fra intellettuale e proletario, chi si ammazza più spesso è questo?».
«Sotto sotto, è l’intuizione sublime di Auden per il libretto del Rake’s Progress: Don Giovanni e Leporello, o Sganarello, e Faust con Mefistofele, come coppie infernali dove sono legati per l’anima, però non si capisce mai bene chi conduce, chi segue, chi modifica, chi viene modificato, chi ha più bisogno dell’altro... Soprattutto quando sia chiaro che Leporello è il Diavolo».
«Ma anche Jacques il Fatalista e il suo Padrone, anche Narciso e Boccadoro, allora...».
«... E Hoffmann, nei Racconti di Hoffmann, con Niklausse che lo segue anche dalle cortigiane e dalle ballerine, e in certi casi è la sua Musa, e lo protegge dai demoni...».
«Ci saranno doppi fondi perfino nella vecchia coppia Don Chisciotte e Sancho Panza, come dovunque un affezionato attendente diventa un compagno indispensabile... Ma chi non può fare a meno dell’altro, poi? Frank Sinatra, o Gene Kelly? Quale dei due è veramente fiero, orgoglioso, romantico, vive nell’Assoluto, rimane mortificato davanti a qualunque cosa che non corrisponde alla sua immaginazione altissima?».
«È più moderno il Satyricon: vanno “al giro” in tre o quattro, il vegliardo non è un maître-à-penser ma uno svergognato, si impazientiscono davanti ai cretini, incontrano quasi più mostri che nel Secondo Faust, e non hanno nessuna voglia di arrivare ai trent’anni!».
«Ma non sono legati per l’anima. Non sono cattolici, sono liberissimi. Chi non può fare a meno dell’altro, volendo?... E piuttosto, chi ha uno spazio soltanto suo, dove gli altri non possono entrare?».
«L’Eroe Romantico, bestia; o il Lupo Solitario nella solitudine-giungla della Gran Città».
«E se questo monologa? e rimugina parecchio?... Abiterà ancora un organismo narrativo, secondo Forster?... Quando per esempio si va zarathustrando su e giù?...».
«Don’t beat around the bush. La narrazione di fatti rimane un fattore comune indispensabile per una quantità di sublimi organismi narrativi, estremamente diversi l’uno dall’altro, e noti appunto come romanzi, anche per Auerbach, anche per Northrop Frye...».
«Allora il Novel, il Romance, la Confessione, l’Anatomia, la Cena Letteraria, la Parodia Enciclopedica, la Satira Menippea, l’Autobiografia Romanzata, il Viaggio come Iniziazione, la Mimesi della Letteratura sulla Letteratura che diventa Metaletteratura... E di lì si ricomincia...».
«La guardia non è stanca? Tapìm, tapùm!».
«Dietro Forster, però,» osserva Jean-Claude «c’è una società ben conosciuta, già descritta da tanti romanzieri, per niente misteriosa o inaccessibile...».
E Klaus: «... Dove l’immaginazione è ragionevole, gli aspetti rituali della vita spirituale non possono lasciare inquieti, perché non sono la sola struttura!... Usciti dal romanticismo, difficilmente incontri qualcuno che non vuole arrivare ai trent’anni, oppure che a trent’anni abbandona la vita scapestrata, e diventa severissimo con se stesso!...».
Ancora Jean-Claude: «Sempre dietro gli organismi narrativi alla Forster, c’è anche tutta la tecnica narrativa di tanti autori “convenzionali” dell’Ottocento... come dietro Conrad... E basta prendere un minimo di distanze, le “rotture” non sono apparentemente rivoluzionarie... Capiterà lo stesso con noi?... Dickens, da parte sua, stava già facendo delle cose abbastanza singolari...
«... In un capitolo si fa sfoggio di onniscienza nei confronti di tutti i personaggi. In un altro, si vengono a sapere i fatti solo in parte. Cioè, si considerano certi personaggi dall’esterno, e altri nei “moti del cuore”. Poco dopo si cede il capitolo a uno di loro, che esprime delle considerazioni estremamente
soggettive. E più avanti si arriva magari al capriccio o al dispetto che tutti i personaggi siano al corrente di un segreto, e se lo sussurrino lasciando all’oscuro fra tutti proprio il lettore. Così per duecento pagine questo viene trattato da stupido: non come all’opera dove sempre sa o sospetta trame che il baritono ignora... Andiamo, se lo venissimo a sapere in tempo anche noi dickensiani, che la vergine perseguitata è figlia di un potente così facoltoso... saremmo tutti molto meno preoccupati per le sue peripezie... E quando le Brontë non vogliono sapere né vedere?... E quando anche Faulkner insiste a nasconderti le cose, nel suo piccolo?...».
«Però come vi divertite, quando Sterne e Diderot incominciano a far gli spiritosi con la trama!».
«Eppure,» sentenzia Federico «se non ci si ponessero dei limiti stilistici, volontari e rigorosi, questo sì questo no, come sarebbero potuti esistere l’ottava rima, il capitello dorico, il valzer? Senza i divieti del romanzo storico, Renzo e Lucia troverebbero pronto un Ippogrifo sulla Milano-Laghi, il Cardinal Federigo si disseterebbe alla fontana dell’amore e dell’oblio, e i nostri amici nelle Mie Prigioni si troverebbero esposti a un eccitante bivio: seguire il Conte di Montecristo verso un Orient-Express in attesa? o anticipare Robbe-Grillet facendo un po’ più attenzione agli spigoli dei mobili oltre che alle sbarre delle finestre?... quel povero Silvio Pellico essendo il Robert Bresson del Risorgimento, no?... Saranno pregiudizi; ma il fatto stilistico si decide nelle scelte negative, anche dovendo arredare una stanza di quattro metri per tre».
«Per esempio,» fa Antonio «essere difficilissimi sulle scollacciature: collet monté! Anche se tendo a “montare” la realtà viva in conversazione, in commedia, perché quando vuoi evitare la terza persona mentale dei “pensò” e dei “credette”, un teatrino orale esprime coi vari dialoghi meglio di ogni altra forma il plot e la sua critica. A tavola, proprio; e anche un po’ alticci: non solo quei tè d’alta Engadina con le fette di Thomasmann-Torte... E il pranzo libresco, cioè quel banchetto dove si mangiano più libri che cibi, naturalmente ha una quantità di precedenti e autorizzazioni illustri, non solo Petronio e Proust e i Saturnali di Macrobio e Nightmare Abbey... e chissà cosa mai saranno le Notti romane d’Alessandro Verri? Ce l’ho lì rilegato in blu, di Laterza... Ma anche le biblioteche di Don Chisciotte e Don Ferrante
non sono pranzi libreschi, au fond?... È sempre stato un mio trip, pranzare con Don Ferrante e con Trimalcione insieme: poi arriva il Commendatore, si liba nei lieti calici, si comportano malissimo, si offendono tutti...».
«Abitare invece quei mondi di totalità: Dante, Sade, Joyce... lontani dai commentatori dell’uno e dell’altro e dell’altro con schemi e grafici alla lavagna...» sogna Federico. «E non perché Dante lascia cader più nomi in una frase di qualunque cronista mondano... Mi basterebbe una grande cucina di convento o castello, anche l’interno di un sommergibile con un pianoforte o un organo...».
Klaus è allibito: «Diventerete come Lukács: trattati di narrativa come quei manuali d’aeronautica della fine Ottocento, dove ci sono dentro delle cose leonardesche, e qualche dirigibile. Sarebbe come se io mi fermassi a Hindemith, scusatemi».
«... E io credevo di credermi un neo-illuminista in ritardo...» va avanti Antonio. «E quando si vedeva la success story archetipa dello scrittore americano tipico, che sempre urla di gioia “I sold my book! I sold my book!”, non mi pareva un’esperienza spirituale, ma piuttosto come aver venduto la vacca!... Se sei un concessionario dell’Alfa, esci forse a tripudiare nella main street “I sold a Giulia!” ogni volta che vendi una macchina?».
«Tu sta’ attento alle vacche! Quando chiedi un goccino di latte così al bar, fai anche tu quel gestino tipico italiano con le due dita? Cosa avete paura, che vi portino lì tutta la bestia?».
«E perché? Quando chiedi a qualcuno di lasciarti qualcosa in portineria, non aggiungi di mettertela in una busta, come se potessero metterla chissà in cosa?».
«... Ma in questa congiuntura di boom e benessere preferisco ostinarmi nel punto di vista del come se... Proviamo a comportarci come se vivessimo in una società civile avanzata, in un paese che va affrontando i suoi vecchi problemi in maniere moderne e definitive... avendo a disposizione un linguaggio scioltissimo e disinvoltissimo, disponibile per qualunque esigenza up to date... in una cultura aggiornata e à la page senza aver perso il meglio della propria tradizione... si parla della letteratura latina, ovviamente... E in una situazione italiana, diciamolo pure, dove ci sono effettivamente più soldi che in qualunque altra fase italiana precedente...».
In casa mia sostengono tutti che spendere da stupidi come stanno facendo gli italiani è molto pericoloso; che dopo
ogni prosperità arriva sempre una crisi, è fatale, è un ciclo; e che la situazione era molto simile nell’età del charleston. Glielo dico: vedrete, quando ai vostri borgatari mancheranno le lire per comprare i topi gigi di peluche alle piccole Sabrine, mentre i nostri bisogni di gin-and-tonic rimarranno più o meno gli stessi... E tutti loro: «Ma che cicli e ricicli! Corsi e ricorsi, Vico versus Keynes, siamo ancora a questi punti! La differenza essenziale è che stavolta più si spende e si consuma, più si fa muovere il denaro e si prolunga il boom! Non si torna indietro! Sono d’accordo tutti gli economisti, i sindacalisti, gli industriali, i ministri!».
«Ma noi continuiamo a metter via oro e marenghini... Perché, voi no?».
«Sono mica matto! E poi non ne ho abbastanza! Li spendo qui tutti! Anche per dovere civico! Keynes in Italia!».
«Ho capito, fra qualche anno dovrò aspettarti alla stazione di Chiasso con la minestrina come quando tornavi da Copenhagen senza soldi».
«Potrei venire a Ascona, come Kerényi e Hesse e Schlemmer e Isadora Duncan and everybody, solo se proprio in Italia non si fosse più liberi né di leggere né di scrivere. Danziamo nudi all’alba sul Monte Verità, bagni nell’acqua gelida alla foce della Maggia, sera al piano-bar con le collezioniste dei più bei Cézanne... Ma non per tanto. Il tempo di preparare un’andata in California come tutti e come Brecht. Una cattedrina di General Views, spero che non me la tolga nessuno. Si potrebbe insegnare Omogeneizzazione senza Uguaglianza, Attivismo senza Attitudini, Aspirazioni Omologhe...».
«... Ma per ora, il più rocambolesco dei miei come se... non riguarda tanto questa funzione del pranzo letterario latino moderno da risolvere in commedia di idee come se si passasse da Casa Senza Qualità a Villino Crome Yellow: non ci siamo, nella nostra cara Italia... Come si fa, a fingere almeno una volta e poi più che quando un gruppo di letterati nazionali si trova a tavola intorno a uno spaghetto e si sente a Bloomsbury, potrebbe almeno una volta discorrere di temi letterari internazionali, invece di domandarsi quanto guadagna Moravia al mese o quali capiservizio vanno in pensione alla Rai...».
«Ma Antonio! Al mese! Ancora a questi punti, siete, ma non è possibile! Perché non addirittura alla settimana come i muratori, o come i disoccupati col sussidio? Davvero con
tutto questo boom non vi è ancora arrivata in Italia la nozione di reddito per annum? Come fate a capirvi, con dei colleghi stranieri abituati bene?».
«No, si è ancora lì This side of La Tredicesima... Si dice “a tavolino” e “cestinare” lasciando immaginare una stanzetta appunto con tavolino e cestino, e l’addetto ai lavori che lavora tristissimo, su Mozart, su Watteau, su D’Annunzio, come al tornio... Mai un bel tavolone, o due, o tre, con delle poltrone, delle cestone... e qualche attenzione alla poetica, e non solo alle pratiche... Però, scusa, tu che dici tanto: ecco qui il personaggio secondario quale testimonio-narratore. Come nel Great Gatsby, nei Demoni, in Lord Jim... È un ruolo di grande responsabilità, tu potresti anche andare: prendono sempre l’Oscar per l’attore non protagonista».
«Ma se certi tuoi amici vanno dicendo che sono un Osservatore Inattendibile! È perché quando scopo, non coincide coi loro saggi sulla teoria della sessualità».
«Nei bei romanzi dell’Ottocento, e nei migliori film americani di serie B e C ai bei tempi, invece di Leporello o Sganarello c’è sempre l’amico del protagonista che gli dà la battuta e le repliche. Una cosa molto maschile, e molto Paramount».
«Mettiamo l’amico di Sartre, o l’amico di Genet, che gli devono organizzare una celebrazione. Che cosa gli farà più piacere? Una solenne onorificenza, con discours? Un congresso di eruditi, con seminari? Un pranzo di dive, con Lollobrigida e Loren? O un simposio di quella cosa che il castigato Bataille chiama “Dirty”?».
«Ça c’est un peu allemand, come diceva il famoso Prence. Pensa invece, come si comportano all’opera le confidenti di soprani lirico-spinti...».
«Fuori! Mi vado a divertir!... Come avrebbero dovuto fare tutte quelle ancelle di Bellini e Donizetti. “Dov’è Alisa? Dove si sono cacciate tutte le Giovanne?”... Sempre dietro qualche siepe a farsi trombare da un rozzo armigero che zufola “tuppe tuppe marescià”... E poi rientrano tutte in disordine col recitativo “Madonna, la mia vita è un vero romanzo!”... Tra una rotonda sul mare e una strada nel bosco... E chissà cosa combinavano Leporello e Figaro, quando si trovavano senza padrone e con le loro porcone all’osteria di Lillas Pastia».
«Però queste varie conversazioni hanno una loro funzione precisa, oltre che sceneggiare la saggistica: rendere sempre più legittimo l’uso di un italiano parlato colto... che di
solito “c’è in qualche casa”, come questo famoso sartù di Napoli, però mai lo trovi nelle trattorie letterarie, cioè nei romanzi di serie. “È un piatto che non conosciamo”... Certo, va elaborato; e presentato come una lingua fra le più sottili e sciolte possibili... senza le cartilagini doverose e seriose della borghesia burocratica di scuola o azienda o televisione o partito... Libera e divertente come la conversazione che si fa in certe case... come se... come se...».
Torna rapidamente Klaus. «Antonio, non mi hai detto che cosa provi tu davanti alla pagina bianca». «Soprattutto erezioni». «Anch’io». Si stringono la mano, Klaus torna di là.
Jean-Claude sembra perplesso. «A Parigi, quando arrivano gli italiani per i balli, questi gruppi di principesse sono impressionanti per bellezza, per charme, per storie che si sentono e che nessuno ha mai scritto... Queste entrate di Visconti, Brandolini, Pignatelli, Torlonia, Arrivabene, Caracciolo, Ruspoli, tutti imparentati fra loro... dei Colonna, dei Romanoff, degli Agnelli, dei Volpi, e tutte quelle Domitille, quelle Giovannelle, quelle Stefanelle, ma quante saranno? sono più antiche o più recenti delle Livie e delle Sveve?... E poi quei nomi straordinari: Topazia, Marozia, Lucrezia, Violante... Myrta, Guelfa... Althea, Idarica, Ginevra, Galitzine... Emanano glamour, flair, allure... Esistono nella vostra letteratura personaggi simili?».
La proustite non gli accorda che poche ore? «Ci sono dei vecchi a Parigi che mi parlano di una certa Ottoboni che aveva il cuoco più buono di Roma, della Santa-Croce coi passaggi segreti sotto il suo palazzo vicino al Tevere, ma per andare dove? da chi?... Di che epoca sono?... Vivono ancora?... E quella principessa di Venosa, che per D’Annunzio era la bellezza più fantastica, lui ne parlava da giovane o da vecchio? C’entra col ministro Visconti-Venosta nella Recherche? e viene prima o dopo la famosa Casati, che (così m’ha detto Diana Vreeland) pare fosse svizzera? E la famosa Morosini, a Venezia, di dov’era? Peloponnesiaca? Quale di loro potrebbe aver fatto a Parigi il Ballo della Grecia Classica o il Bal Proust?... E perché nella vostra narrativa si trovano solo delle poverette che soffrono la fame nelle risaie e non hanno i vestiti?».
Fuori di sé. Quante sono state le famose a Capri con le lenzuola di raso nero e il trucco bianco da Giocasta di gesso?
Quanti i neonati sottratti in culla dal padre spirituale facendo credere alla mère coupable che erano morti in Portogallo fino alla maggiore età? Chi è stato tenuto per decenni dalla moglie fuori dal palazzo, e riammesso dai figli sotto una tenda a ossigeno? Quale è stata ripresa dall’amante, dopo l’incidente che l’ha sfigurata a Montecarlo? Chi potrebbe sapere qui a Napoli se erano più importanti le porcellane in banca a Ginevra, o quelle portate a New York? E quando furono ordinate da Hermès le campane dell’abbazia?
«Già,» si lamenta, con Federico che è diventato muto di colpo «perché poi, nella letteratura italiana che arriva tradotta a Parigi, le funzioni narrative paiono ridotte al minimo della sopravvivenza quotidiana in un paese bombardato dove non succede mai niente, ci sono in giro solo braccianti e mondine, e in quegli appartamentini tutti uguali in città noiosissime ci si guarda qualche volta nello specchio del bagno, ci si infila una sottoveste, ci si toglie una scarpa, e caso mai si prende un caffè. Libri e film italiani si potrebbero ridurre della metà o di un terzo, eliminando tutti i caffè che prendono. Ma io ho sempre conosciuto italiani ben diversi da quelli soliti del cinema o della fiction: molto più belli e divertenti! E con vite da Stendhal!».
«Molti francesi scrivono tutto al caffè» osserva Klaus. «E si sente dall’odore. Ma non hanno il riscaldamento, in casa? Come mai non girano di più il mondo, come hanno sempre fatto gli inglesi?». Federico sospira, Antonio geme.
«Gli inglesi viaggiano soprattutto per scappare da quei loro appartamentini fffetidi. Invece lo scrittore italiano medio sta moltissimo in casa: conosce soprattutto l’androne, il ballatoio, il tinello. Ricorda volentieri le cucine dei nonni e le malattie dei parenti, con dettagli tristi man mano che l’età avanza. All’estero parla prevalentemente col tassista: lo si vede nei reportages. Ma intanto pensa molto a casa. Cosa staranno facendo? Il caffè».
«Céline “under the Volcano”?...» soffia, molto soft, Federico, additando il Vesuvio, spento.
Davvero una di quelle notti ove ci si dice tutto, come da ragazzi in collegio? (Dal cordialino al limoncino si è ritornati al whisky, arriva nuovo ghiaccio. Arrivano suoni di sirene, ma non sono ambulanze giù, è un disco di Edgar Varèse dentro). «Fra i tavoli, i cestini, i centrini»... Si riprende dall’
ebbrezza, Antonio? «... La fiction domestica deve rappresentare tipici gruppi sociali, specifici problemi settoriali, casamenti e vicinati caratteristici... L’Emblematico da portare all’esame di General Views: personaggini che non sono “vvvalidi!” – per gli addetti ai lavoretti – se non coincidono con gli identikit desunti dalla statistica: un tipico operaio deve dire solo aggettivi da operaio tipico! non può certo permettersi avverbi da studente o da reduce! Ci sono gli ispettori apposta, per la convalida del valido, come sul set dei film: guai se un particolare originale si distacca dal cliché del partigiano o del giornalista... E noi, nel tempo libero, lì a divertirci...».
«Ma anche all’Opera, scusa! Vai d’estate a Caracalla, per una qualunque Aida. E vedi tutti i cartelli: “È vietato alle comparse di indossare gioielli personali”».
«Anche nella pubblicità, allora: nelle ricerche aziendali dove si mette a punto come nella fiction l’identikit del consumatore tipico. La massaia dei detersivi e la mammina dei formaggini devono conformarsi a regole rigidissime, come i personaggi della narrativa sui proletari o sulle ragazze. Il papà? Beve il suo digestivo. Il professore? Si pulisce gli occhiali. Il sindacalista? Succhia la pipa. I partigiani? Fazzolettino ben stazzonato al collo. Se non sei emblematico, non esisti».
«Chi potrebbe essere il sindacalista della letteratura? Una saggistica che difende il suo disinteresse? O quella che la mette in stato d’accusa perché non si rivolta?».
«Denunciare il cinema d’arte dove se appare uno scrittore deve sempre dire stronzate con gravitas, e mai bons mots come Flaiano, Antonioni, Fellini...».
«La narrativa, in qualche caso, si crede un procuratore distrettuale della letteratura: contro tutti, e con la coraggiosa mogliettina al fianco...».
«Ma se in Italia non c’è il breakfast! Quando mai procuratore e mogliettina si dicono le cose, allora?».
«Sulla tazzina dell’espresso? Ristretto? Corretto? Macchiato? Lungo? Al vetro?».
«Quando però una tradizione letteraria non riesce più a star sveglia neanche nel proprio tempo, non si chiede nemmeno “cosa voglio dire?”, né è capace di influenzare neppure da giugno a settembre un nostro modo di pensare e di sentire e di vivere, allora l’è proprio morta!... For I have lost the race I never ran!...».
«E i diari, i mémoires?... C’è speranza, dottore?».
«Se sono molto divertenti, alla Goncourt, si possono pubblicare tutt’al più postumi, per evitare meschinità da gossip column in una società molto piccola... Ma poi ogni mot avrebbe bisogno di chissà quante chiose per spiegare il chi e il perché storico e geografico e artistico e politico... Alla Carlo Dossi, ovviamente: le eredità, le stupidità, i passaggi di proprietà, le gaffes patriottiche della madre dei fratelli Cairoli, “la frigna perpetuamente gelata della Grisi”, “la madre di Giuditta Pasta fece la Dea Ragione a Saronno”... Appuntare i detti memorabili di Lily Volpi, e di Mimì Pecci, qualche battuta tramandata da cinquant’anni della famosa Isabelle Colonna, o un mot che m’ha detto l’altra settimana, scambiandomi chissà per chi... a proposito di qualcuno che conosciamo, e che è in giro, e quando si sveglia – “tard!” – il mattino, farebbe meglio a “se rendormir aussitôt!”... E lì, qualche nome?... Quando poi, per il “lettore medio”, ci vorrebbero più note e chiose circa i viventi che su uno scambio di giudizi musicali fra Arthur Nikisch e Felix Mottl un secolo fa... Peggio che dover spiegare le barzellette dopo averle raccontate. E tutti gli interessati, ignoti generalmente al cosiddetto “gran pubblico”, giustamente si adonterebbero di fronte a un diario di cose private, in un paese dove il gusto del diario non c’è, e il pettegolezzo da serve non è divertente!».
«Allora, non si tengono diari?».
«No, si scrivono pezzi e pezzetti per giornali e giornaletti: il journal italiano è questo. Nei cassetti dei morti non si troverà mai niente, sono sicuro. E i più fortunati (si fa per dire) hanno sempre tirato avanti col giornalese, al contrario che in quei paesi dove bisogna insegnare per sopravvivere. Certo da noi è raro sentire: ah, l’Università mi drena tutte le energie intellettuali! La gente morrebbe dal ridere».
Adesso mi fanno sentire come un vecchio diplomatico, se gli rinfaccio che oltre al gossip accademico ameno, inglese, non hanno a Pavia o Padova nemmeno le famose spie di Cambridge, oltre ai famosi esteti di Oxford, in queste loro università di burocrati dove si va solo a prender le firme sul libretto?... Ma è possibile che la sola presa sulla realtà, fra tutti loro, ce l’abbia davvero io, che poi leggo solo memorie di generali e ministri e Palatine e margravie e tutti quei Gotha storici presi all’Aia, con ex-libris tipo Valck-Lucassen e van Amerongen: nomi che si trovavano solo in certi romanzi di Charles Morgan...
Ma tutti questi che dicono «Gotha» per qualunque cosa, in Italia, anche per il calcio e la mafia, sono sicuro che non li hanno mai visti, non sanno nemmeno se il formato è grosso o piccolo e se ci sono delle illustrazioni. Né certamente sanno che oltre alle genealogie ci sono tutti i dati amministrativi del Sette e dell’Ottocento: il Direttore delle Finanze di Weimar, il Presidente della Corte Suprema d’Appello di Jena, il Grand Veneur di Meiningen, diecimila abitanti in tutto a Coburg e sedicimila a Gotha, il Corpo Diplomatico nelle Città Anseatiche... E i due governi repubblicano e imperiale in Messico, la lista delle sultane turche, i consigli di reggenza a Pechino, la regina madre delle Hawaii... E i movimenti nei porti pontifici, l’organico del battaglione di Zuavi, gli interessi del prestito Rothschild-Parodi... Le residenze in Austria e in Svizzera e in convento dei Borboni e Lorena e Austria-Este spodestati dopo il ’59, con tutte le mogli e zie vedove Savoia non Carignano cancellate dai libri di scuola e mai recuperate da Karen Blixen né da Maria Bellonci: Teresa di Parma e Beatrice di Modena, figlie di Vittorio Emanuele I, Maria-Vittoria-Filiberta di Siracusa, figlia del cavalier Giuseppe di Savoia del ramo di Villafranca, e sorella dell’ammiraglio Eugenio comandante della Guardia Nazionale...
«Tacciano» mi fanno questi. Ma perché, poverine?
«Per sentir dire anche dalle Marianne e dalle Marie Pie le tele-battute già ripetute dalle Caterine Cornaro e de’ Medici mentre rammemorano nel flashback con la musichetta della Rai, meglio che stiano zitte, no?».
«Come volevi intitolarlo?» gli chiede mondanamente Jean-Claude.
«Non sarebbe male probabilmente Le Italiche Fatiche, come all’inizio del Decennale Primo di Machiavelli: “Io canterò l’italiche fatiche / seguite già ne’ duo passati lustri / sotto le stelle al suo bene inimiche”. O Le Mura e gli Archi come nella Canzone all’Italia di Leopardi. O Le Piaghe Mortali come nella Canzone all’Italia di Petrarca. I veri antropologi tenebrosi della cara patria... Mi divertiva mettere come epigrafe quel mot del D’Azeglio, credo: “L’Italia è fatta, adesso facciamoci gli Italiani”. Ma poi il tono, il tono... Anzi, come dice Leopardi, il tuono...
«Sai che qui si comincia tutti con la poesia, no?... Metti,
una specie di early Eliot, addirittura con del Dante ritradotto dal suo inglese perché mai veramente letto e capito a scuola... E del Pound inconscio: hommages e collages di materiali prepubblicati alti e bassi, grandi e piccoli... Giustapposizioni e intrecci di varietà e di sublime, per allargare i sensi e la sensibilità, invece di limitarsi a soffrire per i fermenti e le tensioni fra il grumo e il magma e l’ebbra spuma e l’erto arcano sonno... Anche delle belle esercitazioni trascendentali su forme poetiche molto desuete... ma con una sensibilità già Kitsch... che non osava dire il proprio nome... anche perché non lo si sapeva ancora... E comunque, ha sostituito i primitivismi erti e scabri.
«Dopo, strutturando i colori e i suoni, sono venute queste storie abbastanza orchestrate e lunghe, forse ne hai lette tradotte ma è un’altra cosa (si perde il suono e si perde il colore!)... per lo più d’estate e autunno, chiuso in campagna. E poi ci sono state diverse spinte verso questo saggismo dei nessi culturali: proprio con la dimostrazione che l’anima bella funziona a basso profilo se non riesce a mettersi in ordine le idee con la Kulturkritik.
«Dunque, molto “only connect” e “tout se tient” – Catullo e Judy Garland e Pontormo e i Gurre-Lieder – con Edmund Wilson e Cyril Connolly come modelli: Classics and Commercials senza specialismi né gerarchie, badando solo alla qualità e mai ai generi...
«Non rifiutarsi niente per preconcetto: molto “il gusto come criterio di giudizio”. Dunque, un edonismo interdisciplinare, abbastanza stoico; e uno stile sofisticato ma lucido, poco noioso, poco ruffiano, con tutte le informazioni a posto. Tutto sommato, gentile: senza mettere “pittore francese” ogni volta che si nomina Poussin. Così come “La Gazzetta dello Sport” non mette calciatore dopo i vari nomi. Ma d’altra parte, invitando a recarsi in mercatini più cheap quella clientela di sciorette e scioretti che morrebbero di vergogna se dovessero ammettere “questo non è alla mia portata” in una boutique di Saint-Laurent o all’Harry’s Bar, e men che meno domanderebbero “un formaggino al nostro livello” dal salumiere... Però, proprio questo pretendono, e senza arrossire, per i consumi della culturetta...
«Lì, la lezione decisiva fu in una trattoria veneziana buonissima dietro San Stae, dove si fanno solo delle specialità d’alta cucina. E una sera, a una tavola vicina con sciorette, parecchie facevano le smorfiose e le fini: a me bollito... mmm... chissà come sarà questo... no no, a me una cosa ai
ferri... Allora è uscita dalla cucina la signora, e molto gentilmente, in dialetto, ha spiegato: “Noi ai fornelli ci danniamo l’anima per preparare piatti che potete trovare solo qui. Vicino, intorno, c’è pieno di trattorie che fanno del pesce bollito o ai ferri buonissimo. Per favore, andate da loro!”...
«E certo, la caccia ai luoghi comuni della stronzaggine si è imparata da Flaubert, quel santo! Decisivo!
«Però, adesso, facendo apposta a infilare degli errori deplorevoli proprio nei clichés più sicuri della propria stronzaggine... Indegne gaffes proprio nel luogo più comune... come se appunto nella bêtise fosse fatale il lapsus... che scatta come “bad vibration” contraria alle aspettative stronze, già lì pronte...».
«Ma allora diventa un tipo di comunicazione piuttosto corporea, che verbale o logica...».
«Si dovrebbe essere in parecchi! In servizio e in competizione full time! Anche con un po’ di fanfaronaggine finta. La si fa in tante situazioni, sul serio: perché non anche in letteratura, per scherzo?... Bref, queste cosine hanno incominciato a chiederle: come dicono quelli che sono partiti da un negozietto. Niente anima-e-cuore d’elzevirista tappato in casa col telefono e il gatto: “tutto è spettacolo” e “only connect”, un solo circuito con tanti relais fra libri e viaggi e discorso politico e appunto gli spettacoli... “The world is a stage”: i luoghi di massima densità culturale, e i ritratti degli ultimi mostri sacri, dove invece di far passare per stupido un intervistato per mostrare come al confronto sei agonista e protagonista tu... niente, fai come quei fotografi che usando una loro macchinetta cercano di tirar fuori dall’altro cose magari mai viste... Ma senza autoscatto, non sei Velázquez con le Meninas...».
«Un periglio – ci sovrasta!».
«Ahi! Comprendo! Basta! Basta!».
(Gli altri fanno un po’ di show. «Ell’è col duca!». «Verrà qui col barone?». «Quel moscardino di viscontino?». «Marchese voi non siete!». «Io? Padrona di bettola e di bisca, vivo sul whisky!». «... Immenso Ftha!»...).
«... Ma intanto, si finisce per fare la propria educazione sentimentale tardiva e protratta, completa di Grand Tour esaurimenti nervosi neo-illuminismo e tutto... passabilmente in pubblico invece che nella torretta o sugli alberi. La differenza
tra il Settecento e i nostri anni è anche qui: è finito l’avorio, ma forse non si vede. Ci sono state in mezzo le generazioni che hanno scoperto l’America dopo i trent’anni e Lewis Carroll dopo i quaranta, e a quarantacinque gli manca ancora quasi tutto... E un precedente illustre lo trovi sempre, per salvare l’anima... Shaw critico, Auden saggista, Beerbohm “around Theatres”... Chiamiamolo il nostro terzo tempo».
Le vent se lève? Macché, non si leva più, ormai.
«Nella storia recente del Bello Stile in Italia, si sa che ci sono tre fasi.
«La prima è ancora perfettamente falso-Rinascimento, sulla scranna a zampe, con le sue unghie; e i velluti pieni di tarme deluse, e residui d’antiche prostate... La culturaccia lutulenta e marpiona che ha inghiottito e schedato tutti i libri casarecci e inservibili si esprime ancora pre-razionalmente, come i sottosegretari che fanno le inaugurazioni. Fra Riccardo Bacchelli e l’“Osservatore Romano”, mai si capisce chi stia imitando l’altro. E parecchi “bellettristi” emiliani e toscani indulgono ancora parecchio a un’oratoria da predicatori pasquali o presidi pompiers. Feluca, ciabatte e vinsanto coi cantuccini. “Quanto ha parlato!”. (È un elogio). E cos’ha detto? Mah. Oppure si va per nitore, e si fanno in casa le madie del Dugento con strumenti d’epoca.
«Dopo questa fase da cancelleria di tribunale con pretese d’ornato, viene la semplificazione notarile del linguaggio didattico: la prosa neutra e funzionale di Moravia, esplicativa e traducibile come il “Rome by night”. E col limite che tanta chiarezza fattuale, per far contenti tutti in ogni aeroporto e ogni corriera spiegando che essa si recò da A a B e prese un C, lasci perdere ogni mistero, dubbio, ambiguità, enigma, notte, oscurità, poesia.
«Da piccoli ci imponevano ancora la “Ronda”, ma parlava solo di sé, e quel sé era misero. Chi non la darebbe via tutta per un solo disegno di De Chirico metafisico? I Pesci rossi... Ma perché non dei Gatti rossi, allora? una prosa d’arte più moderna, hegeliana di sinistra... accarezzata dalle signore... E per Croce, non si ebbe mai il tempo. Era davvero troppo napoletano e troppo vecchio: leggerlo a vent’anni sarebbe stato da poveri dementi. Lo si farà a ottanta, semmai. Col pince-nez e la catena d’orologio nel gilet.
«Comunque, sulla piattaforma della chiarezza, ci si mette almeno d’accordo su alcuni principii-base pacifici in Inghilterra e in Francia fin dall’Illuminismo; e a vero dire anche
qui, con quei negletti Verri e Beccaria di Milano e del “Caffè”: se qualche idea chiara e distinta si ritiene d’averla in testa, bisognerà essere in grado di esprimerla senza confusioni linguistiche. Anche Carlo Cattaneo, magari: la Lombardia. E l’ingombro stilistico si può anche risolvere buttando via gli idiomi scolastici più pedanti e grulli, prelevando per amor di comunicazione i termini più efficaci dovunque si trovino. Nuovi, o stranieri, senza pregiudizi. A costo di inventare equivalenti significativi!».
«Sarà anche questione di orecchio, di naso...».
«Il Gusto, come ognun sa, ha la sua sede nell’Inconscio! o più giù!... Ma via, non sarà un tormento, è sempre un piacere tirar fuori giudizi culturali diretti, di prima mano, come hanno sempre fatto i latini e gli inglesi, Lichtenberg e Baudelaire e Wilde... Anche i capolavori si possono “risolvere” in poche righe di equivalenti specifici, senza franare in quei dibattiti dove intorno a uno che opera cinquanta discutono, verbosi come commentatori sportivi, e invadenti nel comunicare ciò che sentono... ma ciò che sentono poi non ha premesse né svolgimento né conclusioni né il vecchio wit...».
«Una volta sistemata la prosa di servizio, oggettiva e “bianca” alla francese, e adattissima al miglior giornalismo cool, ecco finalmente la re-invenzione del linguaggio espressivo, che si serve di tutt’altri strumenti: non illuministici o di ragionamento, ma piuttosto gestuali, corporali, ipnotici...».
«... E qui la terza fase è opposta non solo alla seconda ma alla prima, soprattutto perché invece di continuare a usare i soliti vecchi clichés catalogati nei depositi, scatta l’espressionismo espressivo... fantasioso e calcolatissimo... fondato sul Gusto di un Orecchio sensibile alla tensione dei tanti giuochi irresistibili nel tessuto verbale... L’individuazione appassionata di una parola definitiva, inesorabile... Come inventandola ogni volta che una parola “trovata”, investita col flash dell’immaginazione lessicale, si risveglia con la freschezza impressionante di una prima volta stilistica...».
«E qui, Gadda!».
«E Roberto Longhi: i nostri primi innamoramenti, eravamo esigentissimi! facevamo i difficilissimi!... Solo monumenti eccelsi, di sofisticazione sfrenata... ma – chiamiamo pure le cose coi loro nomi – per l’attrazione di un dono... Dono come quella grazia alessandrina miracolosa di Penna, Saba, De Pisis, Comisso... maturata in inverosimili vasi chiusi
di tradizione disperata, petite noblesse onirica, provincia delirante, perfezionismo parossistico, civetterie maniacali in biblioteche paranoidi... Libertà sotto pressione, wow!
«Anche se poi, riflettendoci con un po’ di champagne, sia l’espressività dell’Es esasperato di Gadda, e sia la messa a punto dei circuiti comunicativi europei da parte dei Verri, derivano da una medesima esigenza milanese di ricerca ossessiva dello strumento appropriato, cioè del mot juste... Così come l’apparente birignao di Gianfranco Contini, dietro Longhi, è soprattutto uno sforzo stilistico per soddisfare un’esigenza pedagogica, là dove il trapano a ultrasuoni o anche un ventaglio possono dar risultati migliori di un cacciavite...».
«Siamo in un ristorante a tre stelle?».
«Esce proprio di lì quel gusto della parola-equivalente “ineluttabile” e magari inconfondibile come un soufflé maison... che presuppone una certa specie di cultura alta, e lì si inventa un proprio pubblico adatto... con una sete smodata per ogni segnale dei tempi... una voglia frenetica di ripensarli e connetterli... in una trama che attira gli interessi più svariati; e li collega, li intreccia... prima che arrivi il plotoncino delle formichine burocratiche delle carriere e dei concorsi... cantando la stessa canzone, e dunque rinfrancandosi perché si sta tutti insieme nello stesso momento...».
«Come quei giornalisti italiani che ho visto anch’io a Vienna. Quelli del “Guardian” o dell’“Express” arrivano prima e da soli nei posti caldi, con “commerciante” sul passaporto. Loro invece partono in comitiva dopo avere aspettato che l’ultimo abbia finito il breakfast e telefonato a casa, e si presentano come Stampa Italiana alle frontiere. Venendo giustamente rimandati in blocco dal doganiere mitteleuropeo...».
«Anche nel mondo accademico. Chi è “difficilmente riconducibile” a qualche comitiva sa che verrà declassato a “marginale outsider”, estromesso dai capitoli principali sui filoni e i gruppi, escluso dalla Storia per le Scuole che si fa per legioni o reggimenti... Lì vige l’ingresso per comitive, non il passaporto individuale».
«Noi siam zingareeelle – venute di lontan... Zam! Zam!».
«Ma mi faccia il piacere!... Via! Via! O in MG a due posti con delle Medee sulla radio... O fuori strada, avanti o di fianco tra le dune e i cespugli e i fari o faretti che si spostano continuamente... sorgenti di luce multiple, in movimento
su esterni e interni... cerniere e svincoli tra accelerazioni e ralentis di questo strumentino stilistico sempre oscillante fra lucidità illuministiche spietate e abbandoni romantici nei meandri e negli abissi... e giù nel gouffre impresentabile un ancora di più secondo l’espressionismo espressivo del caro vecchio Es agonista, o giovane edonista...
«... Mentre il romanzo-romanzo, invece, ho ancora questo spleen delirante di concupirlo puro, limpido, senza veli né idoli, cioè praticamente impossibile: non ci sono mediazioni... Intuisco per ora certi avvii, certe mosse: un Esperto di tormenti con l’attesa di una valigetta di strumenti sconosciuti in un albergo di Montpellier, o piuttosto Avignone, tutto pietre ventose fuori – è la fine dell’inverno – e velluti rossi dentro, e penitenti volontari in blu...
«Ma perché poi dovrei trovarmi legato a un letto a colonne alle nove di sera, in un medioevo Secondo Impero e una Provenza che non m’appartengono affatto, quando il mio raccord onirico sarà piuttosto a Saint-Rémy, sul piccolo plateau fra la clinica di Van Gogh e il cenotafio romano col combattimento intorno a Patroclo nudo... che lui mai ha dipinto pur vedendolo lì sotto il naso ogni giorno... e sedendo magari alla sua ombra, dove noi facciamo le fotografie... mentre ha fissato con una verità poetica straziantissima les Alpilles lì di fronte come un ermo colle dell’Angst insormontabile... coi cipressi frangivento come punti interrogativi dell’Es errante verso le stelle assenzio dell’Orsa, e la luna di Erode e Oscar Wilde in cielo... L’ultimo tornante verso mezzogiorno, oggi per noi, prima d’arrivare al famoso ristorante dei Baux, tre stelle: e proprio lì si incomincia a discutere se stavolta vogliamo il pigeonneau o il lapereau o l’anatroccolo...».
«Gli ulivi tormentati sono gli stessi che abbiamo visto a Epidauro e a Pergamo intorno ai santuari di Asclepio: saranno una metafora?». «No, una costante». «Meno male».
«E la Montagne Sainte-Victoire di Cézanne, che è lì vicina, sarà un ermo colle oppure una metafora anche lei?».
«C’è anche il Mont Ventoux di Petrarca, se è per questo: con quelle bellissime acque della Sorgue, che non si è mai capito se in italiano si traduce Sorga o Sorca...».
«Ma la Montagne Sainte-Victoire sarà alta almeno mille metri, mentre les Alpilles di Van Gogh arrivano sì e no ai trecento, che paiono molti di più e fanno ermo colle per la scenografia di falaises e maquis, coi canaloni in prospettiva.
E poi le si può girare intorno, a vedere gli effetti verdi e viola che cambiano d’ombre per tutta la giornata».
«E la Montagne Sainte-Geneviève? Perché è andata a finir così male, la valse chaloupée?».
«Tais-toi, salope. Lui deve sempre buttar giù a terra il tono, appena sente che la finezza incombe. Non andava bene perché era diventata una specie di last chance saloon per i vedovi e gli orfani della Trappa: quelli che prima della guerra sono stati indecisi tra il cabaret e il convento, e andavano a chiedere lumi un po’ a Jacques Maritain e un po’ a Joséphine Baker...».
«Una piccola celletta? in una piccola chiesetta?...».
«Sì, sì, e ma cabane au Canada. E poi, diventati volpine argentate, c’est la valse, c’est la valse... chaloupée. Non ti sarebbe piaciuta niente. Si chuchottava d’amanti decadenti puniti in modo molto strano dall’Onnipotente per aver voluto far l’amore terrestre in un’acquasantiera molto troppo alta, in una cappella di cemento corrotto, di rozzi allievi di Corbusier».
«Scambiandola per un fonte battesimale solido?» fa, per mostrarsi gentile, Jean-Claude.
«Ma lì in Provenza, invece, non sarà sopravvissuta qualche boîte di Templari birboni?... di quelli svelti che non la contano giusta con tutte le cerimonie dei responsori nell’abside, e passano al dunque coi piccioncini e coniglietti locali che son lì per questo? E che poi diventeranno “tortionnaires” di Saint-Genet martire nelle oasi della Légion?».
«Come quei gerarchi fascisti che venivano chiamati Matteo di giorno e Maria di notte?».
«Gli occulti iniziati esoterici, se si divertono per troppi secoli a ripetere come vecchie marmotte scout i loro Abracadabra Belzebù preoccupandosi delle pieghe dei manti e dei rituali da pianeta Bango, finisce che basta un socialista per metterglielo rapidamente in quel po-po-posto, come direbbe Bassani».
«E anche tutti quei maghi dei vostri amici!». Devo dirglielo. «Sempre far passare di tutto attraverso le pareti: e mai un marenghino, mai un lingottino. Profezie su tutto, astrologia, Nostradamus, Paracelso, cosa c’è scritto alla tal riga nella tal pagina di un Tractatus. E tutti lì incantati. E mai una volta riuscire a sapere cosa faranno le Generali e le Fiat alla fine del mese!».
«Ma forse» fa lui «sono ancora troppo giovane per mettere a punto delle trame grosse che mi compromettano e mi
trascinino dentro, solo con dei non-personaggi che sono poi una cosa ben diversa dall’anti-eroe... I non-personaggi hanno capito tutto... e c’è stato un momento in cui hanno perfino creduto di poter riuscire... Ma è presto chiaro che non sarebbe stato mai possibile... E allora non dicono quasi più niente... Emettono qualche bip-bip ogni tanto per farti intendere che continuano a capir tutto, lo stesso... Il romanzo che farei adesso sarebbe ovviamente tutto diverso. Vi ho detto quasi come».
«Altro di me non le saprei narrare» canticchia Klaus per far smettere Antonio, facendo delle variazioni trascendentali su «Sono la sua vicina, che la vien fuori d’ora a importunar...».
«Sempre la parola giusta al momento opportuno, come Wilhelm Meister ad ogni tappa del viaggio» gli osservano.
Starei provando a suggerire il saggio liscio e il romanzo pittorico, ma non mi vogliono dar retta. L’Acquario è la costellazione del pastiche, della contaminazione dei “generi”. Jean-Claude ce lo fa vedere sul suo libretto: «Ce qu’elle représente ce n’est pas la masculinité Bélier, non plus que le chic Léonin, et pas davantage le “chien” Scorpion; c’est le “modernisme” dans son “dernier cri”, avec le souci de ne pas être comme les autres, d’où sa recherche libre de pièces rares, d’arrangements spéciaux... pour obtenir du pittoresque... ou du scandale. Mais le type inférieur tombe facilement dans le snobisme...». Giustamente Antonio si lamenta che si frana nell’autolesionismo, fra poco.
«Ma no... Sarà sempre un arrivare a un risultato di stile» faccio io, un po’ a caso. «Però non per la via diritta... per la cineseria, l’arabesco, la scala segreta...».
«Guarda invece Gluck» fa Klaus seccamente, a me e Jean-Claude. «Christoph Willibald Gluck, nato nel Palatinato come me». (La Palatina!). «Segno del Cancro: sensibilità, emotività, gestazione, tendenze materne. Diverse Ifigenie. Una bellissima opera, la Iphigénie en Tauride!».
«Lo sappiamooo. Ahò».
«L’hai mai sentita, la Iphigénie en Tauride?».
«No. Non ci càpita mai sotto».
«Appunto. E sai perché? Te lo spiego io, il perché. Gluck ha previsto tutto. È preparato, compito, colto, serio, sempre dalla parte della ragione e del bon ton. Sempre molto a posto,
anche alla toilette. E fa la sua riforma. Costituzionale, si capisce. Neanche il tuo Général De Gaulle, caro amico, ha mai avuto le carte così in regola per costruire una bella facciata neoclassica a un ancien régime che casca da tutte le parti. Gluck libera l’opera dalla tirannia dei cantanti... elimina i capricci barocchi... ristabilisce l’unità di dramma e musica... Neanche Gladstone ha mai avuto idee così chiare, come riformatore. Tutti i suoi slogan si basano su austerità, semplicità, naturalezza. Chi nega la nobiltà di una sintesi fra opera italiana e tragedia francese e antichità alla Winckelmann? Chi si sogna di rifiutargli un busto in marmo nel foyer del Teatro Nazionale, o un capitolo tutto per lui nella Storia della Musica?... E allora, come mai non si dà quell’Iphigénie così bella, e tu elefante non l’hai mai sentita, e se vuoi proprio vederla live devi spingerti fino a Drottningholm, dove peraltro molti vanno soprattutto per una notevole Diana ex machina, con i meccanismi lignei originali del Settecento? e i parrucchini, le candele, i paggetti...
«Christoph Willibald aveva calcolato tutto. Abile, coscienzioso, astuto. Come poteva calcolar tutto il Conte Mosca del tuo Stendhal, caro Jean-Claude, poco prima del ’48. Le riforme saranno state anche giuste. Ma Garibaldi era dietro la porta. Non aveva calcolato Mozart. Non aveva previsto che un farfallone dell’Acquario, senza un “sistema”, senza riforme o problemi in testa, senza dibattiti sullo “stile”, senza manifesti “per un nuovo mondo di suoni”, avrebbe incominciato a svolazzare sui palcoscenici, flirtando con tutti i “generi” musicali pensabili – e nessuno di questi sarebbe mai più stato lo stesso da allora in poi... E tranne Federico che sa leggere la musica, nessuno fra voi ha mai incontrato la malheureuse Iphigénie...».
«La commedia è stupenda» canta Antonio. E Federico si inchina, offrendo ancora chartreuse. «Prima la musica, poi le parole! O prima il ghiaccio? Non volete un canarino?».
E via, tutti. «Che soggetto per opera... I busti in marmo nel foyer, autori di Bellerofonti e Sarpedonti omologati e intercambiabili, si avvedono che Donna Anna e Donna Elvira e la Contessa non sono multipli di una stessa serie come le Danaïdes di Salieri...». «Timeo Danaides! Le cattive sono 49 come i Racconti di Hemingway, e la buona si chiama Ipermnestra, come una rara figura retorica o uno spiacevole disturbo...». «Ha uno sposo che si chiama Linceo, ma non vede e non capisce mai niente, la sua drammaturgia è tutta sul “che veggio? che intend’io mai?”...». «Se non è vero,
è ben trovato! Nell’Ade irromperanno naturalmente Leporello e Papageno e Osmin, comportandosi come i Marx Brothers all’Opera!». «Incontreranno Adina?». «Macché, Adina ha rapito Adone, e l’ha trasportato nell’opera Adidas, che si svolge nel reame del Festival di Santa Fe»... «Santa Festival! col Fetonte di Jommelli, che al San Carlo non si può dare, perché con quel nome gli scostumati incominciano: ’nu fetontone...». Ma io non ne posso quasi più.
«Antonio! Sono stufo. Queste Notti Bianche a Urbino quando si fa tardi a parlare sono bellissime, però forse a quest’ora anche il Cortegiano stanco va a dormire: il Cortegiano stanco, non fa la notte in bianco». Infatti sta appena incominciando un nuovo scambio d’intensità: Jean-Claude e Klaus cercano di non farsi sentire, ma davanti al Golfo e alle stelle non riescono più a trattenere i loro entusiasmi per la napoletanità smaccata. Evocano le Sirene, Bernardo Cavallino, Santa Cecilia in Estasi. «Je pense à toi, Myrtho, divine enchanteresse, au Pausilippe altier, de mille feux brillants... Dans la nuit du tombeau, toi qui m’as consolé, rends-moi le Pausilippe et la mer d’Italie...». Si mormorano in un soffio Jommelli, Paisiello, Pergolesi, Piccinni, «l’Ufficio dei Defunti!», «la Pietà dei Turchini!», e dev’esserci anche una gara elegante a chi ricorda più nomi di castrati celebri: sento Zambinella, Caffarelli, Farinelli, Pacchierotti... «Il Senesino!»... Nascerà un’operina, un libretto, uno sketch, un récit?... Se vado lì a suggerire Brontolo, Mammolo, Pisolo, si arrabbieranno?... «Antonio! Ma insomma! Hai deciso qualcosa?».
«Mah! Com’è difficile proporre oggi dei personaggi drammatici che non facciano mai dormire né ridere... Invece pensa che una commedia come il Satyricon...».
«Dài! La scriviamo in inglese, t’aiuto io, e poi la si pubblica nei Traveller’s Companions». Ce li ho quasi tutti, anche The Young and Evil e la prima Lolita. «Ci si mette dentro un po’ delle nostre trame batave: le immortali terme...».
«Ma cosa t’interessa far vedere tre o quattro o dieci in una sauna o in una cantina che fan le Flagellazioni e le Deposizioni fra i San Sebastiani in catene e i San Lorenzi sulla graticola... Son cose da Mattia Preti, da Luca Giordano, ormai, uffa».
«E ce ne mettiamo tanti».
«Sììì, cinquanta bottiglie di Morandi in fila saranno meglio di due o tre!».
L’ingratitudine degli italiani! Dato storico! «Chi è che ti ha dato da leggere Sade per primo quando a Milano era più raro del caviale portato giù fresco?». E anche Genet, se non ci fossi stato io con tutti i Querelle illustrati lì pronti, costosissimi, lui non sapeva neanche com’era. «Ma scusa, non ti diverti, non ti piace, quando l’erotismo diventa pornografia?».
«Mah, per la noia della fica basta già Moravia. E la letteratura del culo è solo settoriale, come i libri sulle barche, sul Molise, sui funghi».
Mi pare afflitto. «Sarebbe bello, ma come si fa a mettere sulla pagina un termine come “pompino”, tre sillabe sopra un diminutivo?... “Suck that dick, baby”, quelle sono frasi carine... Ma come fai, quando al massimo delle sue possibilità una lingua ti fornisce roba tipo “l’energumeno estrasse un membro gigantesco”?... Estrasse... Mah.
«E poi, ci importa davvero far vedere delle scene col solletichino ai paparini delle Sabrine e alle mammine delle Cinzie? Quando fai dei numeri “super” o delle salse di haute cuisine in casa, inviti la portinaia? Nonnò dottore, al contadino, mai far sapere: e se poi il contadino è una pettegola... Neanche un momento in posizioni “extra”! Oltre tutto, se non c’è il vittimismo, o il macchiettismo, veramente non interessano a nessuno. E l’ostentazione? A chi piacciono, le esibizioni dei tifosi out of control, i mangiatori che parlano solo di mangiare?... Quello che si fa di solito, tu o Klaus o Tarzan, lo si sa a memoria: l’intera gamma delle posizioni dalla A alla B... Ma... fare delle descrizioni? in italiano? con termini come “succhiammo”, “masturbando”, “glutei”, “glande”, “pube”?... Quadrisillabi sdruccioli come “testicoli” e “capezzoli”? Pentasillabi sempre più sdruccioli come “profilattici”? E con “sodomizzazione” siamo a sei! Niente di parlato, e meno che meno il “pene”, quasi sempre frainteso per il plurale di “pena”... se non fai attenzione, sulla pagina... E per poi ricadere nella specializzazione e nella fissazione, come i tennisti che sanno tutti i Wimbledon e i reduci di tutte le ritirate dalla Russia! Tu, per esempio, in quale categoria ti metti, se te lo chiedono? Fumatori? Bevitori? Erotomani? Laureandi svizzeri? Automobilisti gourmets? Passanti ventenni?».
«Porschista! La cosa che tengo di più in mano è il volante della 356 di mio fratello, non un membro gigantesco! Ma tu pensi solo per te, non hai riguardi per gli altri! Non sai e non vuoi sapere che sui viali del vizio si addensa tutta una
sofferenza umana dei travestiti, che devono fare i maschi con gli sposati, e si lamentano! E basta con questa storia che la pornografia sarebbe noiosa perché le posizioni sono pochissime! E per sparare e ammazzare, alla televisione e al cinema, quante sono? Eppure la gente è contentissima di veder sparare sempre nello stesso modo. E il sangue, rispetto agli altri fluidi, in quanti vari modi vien fuori?».
Ma il maestro improvvisa. Forse sarà la musica del mare? «Il lato scandaloso... certo che ci vuole. Viviamo in un’epoca che è tutta scandalosa, ce lo ripetono continuamente i devoti e i credenti, ma per altre ragioni... “Lo scandalo della fede”: come piace, come se lo gustano... Ma il letto o il cespuglio, che saranno mai?... Scandaloso va benissimo: però nel senso di impressionante, choquant, non sporcaccionesco... È un aspetto che vedrei se mai nelle situazioni, nei discorsi che si fanno ogni giorno... E non su argomenti di sesso. Troppo facile. Lasciamolo ai moraloni col solletichino, che se lo tengano. Ma invece proprio perché si parla di politica e di cultura... di fatti indecenti! con termini che sono indecenti!... E giù rabbie, furori, empietà, e voci di protesta... e fra persone non “in perizoma” o in un letto ma negli uffici, al caffè, a tavola, per strada... E non dal punto di vista di gruppi sociali esclusi dal Potere de jure o de facto... non come chi protesta perché lo tengono fuori della porta... pronto a star zitto appena gli tocca qualche antipastino del pranzetto evitando la trafila dei poveri... Ma proprio dentro, nel cuore stesso della cosiddetta classe dirigente...».
«È grave il sacrifizio?».
«Ma pur tranquilla udite: lo choc deriverà semmai dal fatto che si apre così uno spiraglio... o si spalanca una porta!... sopra situazioni che sono moralmente o socialmente “esplosive” per il solo fatto di esserci: esserci-lì... rispetto o non rispetto alla “politica ufficiale” della realtà, alle “versioni autorizzate” della letteratura... Tratti, passi, squarci, brani, tagli di autenticità linguistica e del costume: dunque naturalmente politica, e culturale, e sessuale, si capisce... esponendo in maniera efficace, e sufficientemente ridicola, questa tragedia della distanza che separa la vita italiana e la pratica di tutti i giorni dalle leggi scritte, dalle istituzioni dello Stato, dai codici morali della piccola borghesia, dalle rappresentazioni del mondo sui “fogli benpensanti”... dagli anacronismi deliranti che si insegnano sui libri di scuola e in quei manuali di belle maniere che sono i tribunali e l’esercito...
come se si trattasse di Verità... però in un italiano inverosimile, perché non lo si può parlare né scrivere...».
«Guarda però che non ero solo io, prima. C’è anche Monsieur Diderot che continua a chiedere: “Eh bien! Jacques, l’histoire de tes amours? Et le moment d’apprendre ces amours, est-il venu?”. Dice proprio che è un refrain accoutumé, quindi non sono io il maniaco».
«Ma sono jokes strutturali, andiamo! Anche Faust continua a giocare con l’attimo fuggente. Però, se dice “arrestati sei bello!”, e com’è probabile si arresta su un’epifania di Joyce, sarebbe contento?».
«Secondo me, il padrone di Jacques il Fatalista non ce la conta giusta. Secondo me, ha capito che ce l’ha grossissimo, lo capisco anch’io da come parla, e cerca un pretesto per vederglielo parlando del più e del meno. Sono i discorsi che mi sento fare da quando son nato».
«Un coffee... Brenda?... O una tisana... Rhonda?».
«Barattiamo i feticci!». Lo vedo sveglio come un diavolino. «Viviamo in un periodo abbastanza interessante, no?... E anche molto eccitante... Va avanti tutto non per la forza delle idee ma proprio per merito delle cose... e siamo in un paese che nonostante tutto è ancora uno dei migliori del mondo... Cosa vuoi che m’importi di raccontare che “lui lo mise in mano a lei sulla porta fra il cessino e il tinello, però la colpa era tutta dell’Alienazione, elegante e nuova dottrina giunta d’Oltralpe in combutta con la Fenomenologia e la Titanus Film”?... Lasciamolo scrivere ai vecchi brutti, se mai... che affondano nell’impotenza e cercano di mostrarsi à la page e in “Vogue” con le paraculate su Claudia o Sofia...».
«Allora niente, le mie sorprese di Amburgo, per esempio? In una villona di Altona, giù nel sotterraneo, c’è questa sauna indimenticabile con le pareti di finto marmo girevoli. Sparisce la gente da un momento all’altro e poi riappare dal nulla perché il padrone ha delle manie da James Bond».
«Ci vorrebbe piuttosto il realismo di Freud a Vienna e il realismo di Kafka a Praga. Quando si è lì, non ci si accorge appena fuori dall’hotel che sono la guida più precisa per la loro città?...».
«Si incomincia così, e poi mi vorrete far fare le vacanze a Dublino. Ma lì, non ci casco!».
«Chi diceva “il cinema della mia sensibilità”?... Era da quelle parti?».
«A Parigi per Natale ho visto una commedia di Courteline, si svolgeva in un castello di maleducati, e c’era sempre uno tenuto fuori che voleva entrare mentre loro si divertivano a corrersi dietro in mutandoni e camicie da notte. Ogni cinque minuti. Toc toc!... Qui est-ce?... C’est encore Monsieur Cornichon!... Toujours avec sa valise?... Toujours avec!... Un cosiddetto tormentone. La stessa trama del Castello, se vuoi. Però lì faceva morir dal ridere».
«Ma nel Satyricon stanno girando avanti e indietro divertendosi moltissimo in questi stessi posti dove ci annoiamo noi adesso... e compongono tirate di retorica antica e moderna contro i retori e il midcult come facciamo noi fra una scopata e l’altra in alberghi e battelli e piscine e musei, con la morte a portata di mano e allegrissimi... mangiando angurie... e inventandosi il proprio linguaggio “camp” per la strada e a tavola né più né meno come noi, con delle gran villanate di giovanottacci giusti, e follies oratorie scritte magari benissimo... e quand’è necessario in versi... e pettegolezzi scurrili sui luminari e lampadari delle patrie lettere... gli autori di “La specola della temperie”, “In margine alle chimere”, “Per una tensione”, “Dicevo, il grumo”, “Appunti su un periplo della diagonale del magma”... volumi appartati che vanno urlando il proprio ritegno sui tetti e un riserbo che esige subito un premio, due, tre...».
«... E i gerghi delle marchette, e delle madame, e delle sgallettate, e degli stranieri... inventando o recuperando bellissime parole come ambulaia o fulcipedia senza domandarsi se saranno o no alla portata delle mezze-calze che fanno “mmm” sui paperbacks... E tre o quattro citazioni greche per ogni pagina!».
«Al posto del greco, il nostro inglese più “camp”!».
«E più vroom!... brat... bratatata!... Però attraverso i fuochi artificiali fantastici delle vacanze e delle feste... deliberatamente villani e sfacciati, per protesta... dovrebbe trapelare per forza... ma come a fatica... un orrore esistenziale di illuminismo razionale tardivo, semi-soffocato... sotto lo sforzo contemporaneo di ubriacarsi di autoironia (alla romana)... o di assordarsi in quell’alienazione che non oserebbe ripetere il proprio nome, però poi è tutta contenta di telefonartelo in ufficio a Milano...».
«Mi raccomando!». (Bisogna ricordargli tutto). «Ci vuole un Satyricon anche per l’Italia d’oggi, sennò fra poco non
si saprà più niente della sessualità italiana nel Novecento, dovendosi basare solo sulla letteratura da premio!».
È un grave difetto della letteratura italiana! non corrisponde per niente alla vita sessuale degli italiani d’élite o di massa, fa delle congetture di lontano come i giornali di provincia che pretendono di raccontare la Dolce Vita a mille chilometri da Roma. Ma se domani sopravvivessero solo i Ragazzi di vita di Pasolini, gli antropologi che si attengono alle fonti scritte generalizzeranno tutto come quelli che ricostruiscono la sessualità greca solo in base a Platone? Facciamoglielo notare subito.
«E se invece del Convito fosse sopravvissuto un Satyricon greco? La vita di palestra che abbiamo visto noi a Atene è tutt’altra musica! Nel famoso vicolo Socrate, mai visti i signori che porgono assistenza spirituale allo sviluppo dell’adolescente: piuttosto, vecchi con la panza che leccano i piedi ai massaggiatori sportivi e si fanno sculacciare come monellacci, pagando poco ma in dollari».
«Ma Platone non la conta giusta, sul sesso in Grecia: l’abbiamo controllato in tanti. Che brutte figure ci ha fatto fare. Una vergogna. Sarà attendibile per altri paesi...».
«Chi è stato in India, assicura che lì corrisponde, ma solo quando l’uomo è molto grasso, cosa che il giovane magro adora».
«A Atene, no. Non ci credo più, a quello, neanche se mi dicesse: ecco il Partenone».
«Se però lì chiedi se c’è stata una mutazione antropologica, si offendono come se tu insinuassi la verità, e cioè che ormai discendono da vecchi turchi».
«E se da un’Apocalisse, in Italia, si salvassero solo le opere di Calvino? o di Gianna Manzini?».
Ma di là è scattata Eine Vergilianische Nacht: Berlioz, Didone, Enea, Italie, Italie... «Nuit d’ivresse et d’extase infinie...». E a voce più bassa: «Nacht der Trunkenheit und der unendlichen Extase...». (Con un libretto bilingue davanti!).
«Par une telle nuit, le front ceint de cytise... Blumen des Himmels... Son voile diaphane... In einer solchen Nacht, toll der Liebe und der Freude... Italie! Italie!...».
«Vieni un po’ a veder qui, elefantide» chiama ridendo Federico dalla sua stanza. Nereidi e Tritoni, Troiani, Sfingi, Delfini, Driadi. E Klaus al buio. Si vede una stanza illuminata
di fronte, sul tetto appena di là dal vicolo, con uno striptease quasi ghiotto come quelli del palombaro che ho visto sul canale a Chioggia: prima il casco, e in tre lì intorno a tirar via lo scafandro, poi da tutte le parti via maglioni e imbottiture; con un gran paio di stivaloni meravigliosi; rimane in mutandacce sporche, va a far la doccia, e si vede tutta anche quella. Altro che alle Trois Cloches di Cannes, dove «la java du scaphandrier» è un numero costosissimo.
Questo qui ha meno roba. Calzoni bianchi, camicia, e basta. Grazioso, lungo di gamba; con un gran ciuffo. Appena Klaus domanda chi è e se lo conosce, Federico informa che lui non l’ha mai fatto, però gli è venuto in casa qualche volta con degli altri. E ha il numero di telefono. Veramente un bieco e torvo gioco da vecchi satiri di Labiche appiattati nell’armadio in camicia da notte lunga.
Klaus fa questo numero, chiama, e noi tutti lì a vedere al buio che lui s’alza in slip dal suo lettino e va a rispondere, cambia le mutande, si rimette la sua camicia e i suoi calzoni: non i bianchi, un altro paio rosso scuro. Gran colpo di spazzola. E due minuti dopo l’abbiamo qui in mezzo, che entra gridando «ho fatto in fretta, eh?... grazie, una vodka!». Molto allegro, bellone anche, con dei lineamenti grossi, dei labbroni ridenti. E pretende d’insegnare subito il twist a tutti, come se si aspettasse proprio lui. «Dovete fare un rombo, per terra, coi piedi, non un quadrato! È lì, l’errore!». Ben messo, anche: camicia celeste, occhi verdi, la sua canottiera gialla accollatissima sull’abbronzatura, e i calzoni rossi di gran strettezza nei punti giusti. Si chiama Renato, e mi fa ridere molto che sia delle nostre parti. Si sente appena parla, con certe esse del Nord...
«Cosa fai qui a Napoli?» gli domando... «Sto in casa di giorno e la sera esco» risponde, e basta. Ma vediamo tutti l’intermittenza quando Klaus decide che si chiama Amore: mentre fa la dimostrazione di un altro suo ballo, «take three steps and then you kick!»... In attimi così eccelsi, ci manca qui solo Apuleio o Petronio – lasciando perdere Proust?
CAPRI
Come isola, si sa anche troppo. Ci sono già passati tutti, e hanno già fatto tutte le foto: sempre la minaccia di doverle guardare. Italiani con occhiali scuri di notte. Stranieri orridi. Ziacce antiche. Il trionfo del cache-col. Ossigenate d’altri tempi. Sgangherati che fanno i baciamani col golfino sulle spalle e il cagnolino in braccio. Se li mettessero tutti per terra, si camminerebbe sui cani. Bisognerebbe non venirci mai. Dopo un giorno si potrebbe anche andar via.
Ne passiamo lì tre, invece: col dito sotto il rubinetto del bagno, per tutto il tempo, aspettando che si scaldi un po’ il filo d’acqua fredda che scende, in un albergo dove paghiamo come in un Vier Jahreszeiten e che pare un po’ Modena.
Il tempo è caliginoso, giusto per il film invernale sull’isola deserta che Marcello sta sorvegliando; da un soggetto e sceneggiatura suoi, quindi ci tiene molto a seguirlo e a firmarlo: c’è dentro parecchia alienazione, e ha paura che il direttore di produzione ogni giorno ne tiri via un po’. Ma non va più tanto d’accordo col suo regista, e quindi non si allontana dal set. Tutela il suo copione in ogni battuta, e intanto si mette a posto la casa con stoffe tessute a mano, in diverse sfumature di écru.
Girano verso Anacapri, nervosi perché sono in ritardo. Se viene il sole o il caldo, guai. Logicamente non vogliono che si vada a curiosare mentre lavorano. «È come quando ci si sente dietro gente che chiacchiera mentre si sta scrivendo?» gli chiede Antonio. «Anche più fastidioso» risponde lui.
Siamo in un giardinetto sopra il mare grigio. La pausa è finita. Riprendono i cerimoniali del «prima io, scusa», e dei «lasciami vedere un po’», dietro l’obiettivo della macchina, tra lui e questo regista lentissimo: è il minuetto del prestigio fra i due in maglione grigio di fronte alla piccola troupe schierata, che fa dei sarcasmi, mangiando frittata. Così li vediamo solo al ristorante, la sera, stanchissimi e tristi, insieme ai tecnici e alla segretaria, senza voglia di parlare. Mentre la troupe è molto, anche troppo, sboccata.
Una volta siamo da una loro amica di Napoli abbandonata anche da un terzo marito, con una terza figlia, che ha passato qui tutto l’inverno con la mamma e la suocera e una sorella e una zia povera, e si prepara a starci forse anche l’inverno prossimo, a meno che non riesca a trovare un appartamento in prestito a Londra per occuparsi di pubbliche relazioni. Meloni, mozzarelle, tanta pasta, candele, zanzare. Del famoso film L’Italia si chiama Amore non si parla poi molto. Dopo, dopo, c’è tempo, dice Marcello un paio di volte.
«Su... via...» fa. «Anche al mare... anche di sera...».
«Si voleva cominciare a metter giù qualche cosa» dice Antonio.
«Potete incominciare a parlarne fra voi, intanto. Non mi va di pensare a due cose nello stesso tempo, non ci riesco... Sono stanco morto, sai?... Alzarsi presto ogni mattina, lavorare più di quindici ore, dover badare a tutto... anche portar le sedie da casa o trovare un vassoio giusto che manca... Stanotte devo anche scrivere delle nuove battute per domani perché in una certa situazione d’atmosfera si sente come un buco o un vuoto che non ci dovrebbe essere...».
«Allora tornerei a Roma» ripete Antonio.
«Ecco, sì... se ne parla a Roma... La prima volta che ci si vede. Ma davvero, stavolta. Mi date un colpo di telefono...».
Andrei via anche adesso. La temperatura semplicemente non è credibile. Cielo coperto, soffi freddi; tre maglioni addosso. Poi una ventata di scirocco, si suda. Fuori un attimo il sole; fuori i costumi da bagno. E giù spruzzi di pioggia prima ancora d’aver preso la vettura per la Marina Piccola. Stamattina m’han già fatto un po’ di versi quando ho telefonato a Milano: là c’è un sole sfolgorante e si vede il Monte Rosa.
In piazza i soffi caldi e freddi arrivano continuamente d’infilata, dal mare; e ogni tanto ventate di polvere improvvisamente negli occhi; il grido «la tromba marina!». E pioggia che batte ogni tavolo sotto i tendoni; qualche bicchiere per terra. «Odio il paesaggio!» urla Renato prima di buttarsi nell’acqua davanti a Klaus, l’unica ora di sole. Si butta. Molto porcello: bravo, giusto.
«Detesto la natura!» urla uscendo. Assestata alla mutanda, fremito di nidiate di frugole. Domani, piscina riscaldata, se non viene la tromba marina. È freddissima l’acqua ai Faraglioni, fredda come in albergo, e non ho voglia di aspettare il motoscafo quando voglio tornare. Voglio il mio tassì comodo dalla Canzone del Mare, senza la scalinatella obbligatoria e su il golf e giù il golf.
Jean-Claude non lo vediamo più. Dipingerà? Sognerà? Avrà trovato una Barbaresca? una Celimontana? una Rochefoucauld? Dove si aggirerà? È il solo che non sta nel nostro albergo. Klaus e Renato hanno una stanza giusto sopra quella mia e di Antonio. Renato si fa dare dei soldi per la cameriera del piano, ma tanti. E lei cede. Lo lascia entrare in una stanza vicina, a scuriosare dentro l’armadio di due goghe e magoghe che cambiano golfini e foulards sei volte al giorno e pretendono di sembrare zio e nipote di Brescia. Sulla scala ci sto io di guardia, ma bisogna stare attenti perché ci sono due trucibalde che forse stanno facendo lo stesso, loro non mi vedono ma io dal pianerottolo sì: frugano nei cassetti d’una culona di Torino che non si capisce mai se porta o non porta il costume sotto un gonnellino corto, ridicolo. Lui esce dopo un momento gridando «capisco Van Gogh, la follia, i girasoli, avrò visto tutto!».
Rotola per le scale, facendo l’accecato da certe camicie sgargianti con tigri e giungle che i due non hanno ancora osato sfoggiare, per il gran freddo. Gli altri, sconvolti tutti all’idea di una marchetta del Nord che sta nel Sud e sa i pittori. Ancora a questi punti! Che voglia di tornare a St. Moritz, da Segantini, per così poco!
«Ma non ci sarà qualche romito, qui in cima a Capri?» mi chiede Renato molto in confidenza.
«Perché? Hai peccato? Ti devi confessare?».
«No, l’anno scorso ero a Maiorca per caso, molto fidanzato con una finta Fierro che mia madre disapprova nella statura, e là c’è un famoso romito in cima in cima, che non vede mai nessuno. Un giorno non di bel tempo sono arrivato là in alto da solo con dei bellissimi bermudas della Cabella mai visti in quell’isola... Gli ho fatto una santa apparizione, con gli occhioni da Bambi, e gli ho mostrato il mio bel culo da angelo biondo. M’è corso dietro! Impazzito! Facendo le invocazioni in spagnolo, che sono la fine del mondo!... Vedi, come nascono le leggende? E poi li fanno santi, anche per merito mio. Solo però mi piacerebbe vedere, dopo, come vengono fuori i miei bermudas della Cabella, nelle pale d’altare a Maiorca, o nelle vetrate. E piacerebbe anche alla Cabella certo».
«Allora cosa si fa, Antonio?».
«Te’, la tua acqua».
«Com’è questo film di Marcello?».
«Non ne vuol parlare, per adesso. Dice che è difficile da spiegare. Da quel poco mi pare una cosa pericolosissima, molto rischiosa. Tutta sulle nuances. Metterne dieci perché se ne vedano tre. E tutte intense, dolorose, stilizzate, straniate, sofferenti, e non false. Non so se Giuliani è abbastanza bravo».
Al caffè della piazzetta, adesso li sentiamo ridere come pazzi. È piovuto, non si gira. «Cielo rosso!» fa uno. E giù risate. «Cielo giallo, cielo proibito!». Urli, addirittura. «Cieli senza domani! Un’isola nel cielo!». Non si tengono più. «In tutti i titoli di film con la parola “cielo” la si sostituisce con culo» spiega una sgallettata a Antonio. «Non si sbaglia un colpo! Prigionieri del cielo!... Nel regno dei cieli!... I diavoli del cielo!... Il cielo può attendere!...».
«Il cielo sulla palude!» facciamo noi. «Sììì! Lì sopra, fermo, che non si muove!»... «Senza cielo!»... «Sììì! con la Isa de Paolis! Non ce l’ha!»... «Una tigre in cielo! I pascoli del cielo! I pellegrini del cielo!». Tutto un giubilo. «Quel cielo di Lombardia, così bello quando è bello!»... «Due cose riempiono l’animo di meraviglia e terrore: la legge morale dentro di me, e il cielo stellato sopra di me!».
Gli urli, le risate. «Mi par di toccare il cielo con un dito!»... «Apriti cielo!»... «Ma per l’amor del cielo! Sono cose che non stanno né in cielo né in terra!»... Si può andare avanti per ore.
«Il cielo ci appartiene! Il cielo vi ascolta! Cielo a pecorelle!». Ai tavoli vicini, la gente non capisce più niente: che ci sarà di tanto spiritoso, quando qualcuno urla o canticchia «Cielo e mar!», «Cieli bigi!», «A noi si schiude il ciel!»...
Passa gente di loro conoscenza. «Settimo cielo!»... «Il matrimonio del cielo e della terra!»... E ai vicini: «Non ci badi, signora mia! Raglio d’asino non sale al cielo! E ringraziamo il cielo, sora mia, voglia il cielo, questi si aspettano proprio che caschi la manna dal cielo!».
Si incomincia anche a strafare. «Il cielo me la mandi buona, direbbe Don Abbondio»... «Laudato si’, mi’ signore, per sòra luna e le stelle, in celu l’ai formate clarite et preziose e belle». E naturalmente si finisce per sbracare all’italiana con gli uccelli. «... E spiegar gli augelletti al ciel le piume... Gli altri augelli contenti, a gara insieme, per lo libero ciel fan mille giri...».
«Ma non ci sarà un rimario dantesco, in tutta l’isola?» domanda Antonio. «... Perché io mi ricordo solo “li occhi miei ghiotti andavan pur al cielo”, e “sempre l’amor che queta questo cielo”, ci sarà pure dell’altro...».
«Guai a voi, anime prave! non isperate mai veder lo cielo!».
Peccato che sia andato a dormire Klaus: il solo che mi potrebbe capire se proponessi di mettere al posto del cielo tedesco, Himmel, l’augelletto tedesco, Pimmel, nelle più romantiche poesie che ci hanno fatto imparare a memoria per forza, con quelle rime da Lieder tipo Bäume-Träume, Herzen-Schmerzen, Munde-Runde-Stunde-Grunde, Pracht-Nacht... Chissà che Schubert, che Schumann... nella notte stellata e profumata di Eau Sauvage...
Qui invece Rosati, sarto della troupe, detto anche «Rouge, la couturière», è appena sceso a folleggiare per la via Krupp, dunque può diventare di tutto: Roseide, se schiava di un Achille; Rosilde o Rosunda, come walkiria di riserva; Rosette o Roseuse, se ci si butta fra Marivaux e Direttorio; Rosannette, rientrando in un romanticismo minore; Rosiane, o magari Rosinoé, risalendo al Grand Siècle e virando sulla turcheria... Mrs Rosay, o Lady Rosefield, passando nel West End... Se non addirittura Rosalie (governante), Roslyn (call girl), Roseberry (confettura in confezione-regalo da Harrods), Rossana e Rossanda (linea bagno-cucina coordinati per Voi), o Rosillide, ninfa dei catamarani riuniti... Anche Rosamunda, naturalmente, in occasione di una sua magnifica serata, preparata dalla delicata fatina Rosenthal, magari in compagnia di Rosebud, con tanti auguri d’una buona carriera nel cinema “cult”...
«Giù alla Marina Piccola» mi fa Antonio del resto «la prima cosa che ho visto stamattina è una mia amica anoressica di Roma, e m’ha detto che per tutta una colazione ieri hanno continuato con due o tre Rothschild francesi a far dei giuochi sul nome del ministro Pompidou, senza toccar cibo».
«Da Roma! Chi ha chiesto Roma!» gridano ogni tanto dalla cassa del bar. Allora tutto un alzarsi, un rovesciare, un correre. Si travolge la cassiera, cascano i bicchieri e i golf. Montagne di giornali come divorati per terra. Tutto un «venite a sentire quante gliene dico a questa!».
Poi a mangiare tutti insieme quando è troppo tardi, saremo quindici e ci mettono a seder male. Questo vino fa anche malissimo a tutti; e poi il fumo, le candele, il rumore, le chitarre, le urla, tutto rimbomba al chiuso e fanno aspettare da pazzi: per due gamberoni. Antonio mi spiega dopo chi eravamo noi, tutta una situazione di dupes.
Quello che gridava di più sarebbe un suo amico-nemico, non è chiaro, Gigi Guglielmi, il più bravo fotografo e confidente di dive e starlets oggi in Italia, in bianco e nero e a colori e in intimo. Fino a due anni fa niente. Reggeva il flash ai matrimoni e ai compleanni. Attualmente la Maserati, l’agenzia, mucchi di rotocalchi sempre intorno, urli di «sta stronzaaa!», «sta squinziaaa!», «sto mostro che faceva la fameee!», sfogliando bruscamente le riviste, squarciando le pagine, calpestandole sotto il tavolo; e sono le sue clienti, o datrici di lavoro e di fama, che nelle trattative per «farsi sorprendere» in via Condotti sbagliano qualche dettaglio o «sbagliano tuttooo!»... Lì vicino, il direttore di un giornale governativo ma di corrente e apertura con un maglione accollato e la sciarpina bianca e massaggiandosi per il gelo le gambe senza calze, nel mocassino col fiocchetto; insieme a una svedese o danese magra un po’ caprigna, «per niente ficona vichinga da latin lovers» (notano i più estroversi), ed evidentemente in lunga polemica contro di lui perché non la spinge nella sua carriera d’attrice.
Lui le ride in faccia, davanti a tutti; e lei si volta a questo Gigi chiamandolo «signor Gigi» con una reverenza mai vista: è l’unica. A pesci in faccia, reagisce lui, mettendosele sotto i piedi finché non sono niente: domani, trionfanti ai festival, continueranno a subire senza reagire. E lui ci conta. Quello molto grasso? Il regista di Marcello, Lulli Giuliani. Camicia rosa d’oxford X-large, un cashmere legato sullo stomaco tipo grembiule, uno intorno alla vita come ventriera, un altro sulle spalle come tutti. Due doppi menti, dialettale meridionale cordiale, flemmatico; ma molto dogmatico stalinista, mi fa Antonio: molto severo sugli ungheresi, sulla guerra fredda e la contrapposizione fra i blocchi. Soprattutto fra la Panarea Film e Hollywood.
«Quella che lo accudisce?».
«Duchessa della moda! di Verona! Sarta a Verona e a Roma e naturalmente dice lei a Parigi. La prima a lanciare in provincia il gran medaglione d’oro barbaro al collo, insieme alla cappa cardinalizia da sera. Gli ha sopralzato abusivamente un’altana di Topolino sui tetti del Collegio Romano: tutta una moquette a pelo lungo e un chintz lavabile con fiorellin del prato e vista sull’Eccellentissima Casa Doria Pamphilj».
«Pensiero & Azione, chi dei due?».
«Lei Kapital, lui Jane: in un bel vagoncino da Settebello in boiserie, commentando gli editoriali di “Rinascita” col poeta Angeloni, un duro; e sul davanti la porta di casa con tutto il movimento; e dietro la Silvana che beve i succhi e fa le telefonate scoreggiando in letto».
«Una duchessa che si chiama Silvana, adesso? Sarà almeno del Sacro Romano Impero!».
«E le sue sorelle Gigliola e Loretta, allora?... Il loro vero papà, tanti anni fa, faceva il centromediano nella squadra del Verona. E infatti vedi bene che lei ha le gambe da centromediano. Della Brianza: e non per niente, lei, industriosa; due o tre sedi, tre o quattro contessine sotto, valvassine sfruttate e devote, e lei sempre avanti e indietro in aereo. Molto imprenditoriale, con orari del Nord. Doveva capitare con un regista di Ben Hur: gli organizzava tutto, guadagnava di più, aveva più campo... Invece adesso solo ideologia e polemiche, manifesti da firmare, la censura, la Cina, Cuba, Corea, i carri armati, “al muro!”... Non per niente è una sarta del baldacchino, cioè col rarissimo privilegio di dover tenere nell’atelier un tronetto, perché può capitar lì da un momento all’altro, con qualche sua sderenata, Luchino... E apposta, infatti, l’abbiamo seduta vicino al direttore, non si conoscevano. Così magari gli dà qualche buon suggerimento per la gestione del suo giornale; e anche per la linea politica».
Il direttore sta facendo dei veri occhi di triglia. Lulli Giuliani (lei è la sola a chiamarlo Ludovico) lo sta ringraziando pensosamente per una recensione «valida» al suo primo film: questo con Marcello è il secondo. E gli fa intanto un paio di complimenti per un suo sofferto editoriale sul centro-sinistra. Chiude gli occhi gravemente; dice: «... perché noi intellettuali...». Il direttore prende a parlare dei suoi redattori come di camerieri. Si dicono, rapidamente: enfatizza, ipotizza, tematizza, somatizza, banalizza... «Che regista è? Non ho capito bene» chiede improvvisamente la caprigna a Antonio. Vuol sapere se è importante. «Il più importante di tutti» le fa lui. E Guglielmi, tranchant: «Molto più di Fellini e Visconti!».
«Ah, ma allora è la dolce vita...» mi scappa.
«Certo, l’hai lì davanti, may I introduce?...». E mi fa vedere subito ai tavoli vicini un produttore che dava i parties intorno alla piscina sull’Appia che non ha più, col suo bambino; un avvocato dello Stato molto amico di Saragat e molto olivastro, con una diva minore dei telefoni bianchi che si è rifatta gli occhi non bene; una caratterista di prosa e doppiaggio brillante con un caratteristico accompagnatore di americane del Trenta, in casacchina gialla e frontino idem; una nidiata di pittori del proletariato e contesse nuove intorno a un ginecologo molto estroverso con la chitarra in barca di amici costruttori e palazzinari di ex-borgata; un vecchio abbronzatissimo e very popular chiamato da tutti «er Prence» con bermudine hawayane sulle gambette e maglietta da spiritoso gondoliere a righe e berrettino di tweed sulla canizie...
«Vi siete divertiti molto, eh».
«Non fare il morbetto, fino all’altr’anno è stato molto piacevole: una città di vacanze dove si conoscevano quasi tutti, con pochi soldi, quasi tutti senza macchina, eppure si continuava a uscire tutte le sere senza far distinzioni fra i sabati e i lunedì... Party girls eleganti, forse per la prima volta nella storia d’Italia... Colazioni lunghissime al ristorante ogni giorno: con sortite lente perché “le tre del pomeriggio, son l’ora del dileggio”, e il tuo tempo non aveva né un costo né un prezzo proprio come ai tempi di Catullo e Petronio... Si leggeva e scriveva e... solo per diletto...».
Marcello sta alzandosi, come scusandosi con quelli della troupe. «Ha una sua trista vicenda, è caduto in amore» mi fa Antonio. «Per questo rimane tanto sull’isola».
«Dentro nel film?».
«Sì».
«È a questa tavola?».
«No, non si vede. Insomma: colazioni senza fretta, poi le telefonate mai prima delle sette, per combinare i drinks a casa di qualcuno... Sandro De Feo che chiamava per sentire “dove andiamo con le nostre ragazze”... Letizia, Lucia... “the Group”: almeno cinque o sei, bellissime, con storie tutte intrecciate e fantastiche... Quando Mary McCarthy m’ha detto che scriveva appunto The Group e ci avrebbe messo parecchi anni, invano le ho scongiurate di scrivere il loro un po’ per una, lo si pubblicava da Feltrinelli... Al cinema praticamente ogni sera, poi al ristorante anche fuori sulla Flaminia o a Porta San Pancrazio, e verso le due a Via Veneto, tutto aperto fino dopo le quattro come a Barcellona... a dire delle sciocchezze, t’assicuro, molto divertenti...».
La Silvana ha offerto il pranzo a quasi tutti, e ora stanno raccogliendo delle polpette e della pasta su un vassoio, ma nessun cameriere sembra disposto a portarlo fino a un albergo. Sono per un giovanotto del film che s’è fatto male oggi cadendo da una scala, e gli hanno ingessato una gamba anche se è un versamento da poco, perché pare che qui ingessino tutto come in montagna. Intanto ripiove.
Allora forse il film è fermo per una settimana, scattano le assicurazioni e il ripensamento, impiegheranno questi giorni per far delle prove e dormire. E per pensare all’Italia, se si chiama Amore? Marcello e Giuliani stanno parlando in un angolo, già in piedi, abbastanza stravolti e tetri. Piove anche tanto; si affrontano ancora su Gronchi e su Segni; ma il direttore se ne è andato a dormire con la sua caprigna.
Antonio non ne può più e sostiene che è un’isola maledetta dagli Dèi: tutto il peggio che si vede qui, lo si rivede poi identico al cinema, e ahimè viceversa. Fra le poche coppie attardate nel locale c’è un relitto della televisione americana, un ex-divo anziano coi capelli grigi. Prima vuol cantare al microfono e poi si sente male, gli sono andati per traverso «I’m in heaven» e «Tenderly», anche per il freddo. Devono sdraiarlo su un divanino, a pancia in giù, tirargli su la camicia a giraffe e a palme, e gli fanno i massaggi sulla schiena, un po’ per uno. «È la renella, è la renella...». Ma quelli che mi fanno veramente paura sono un gruppo di esuberanti scoreggioni, tutti in camicettine con le maniche corte a rigoni o a pois, e i golfini su, e i golfini giù. Ma chi sono? «Principi del foro napoletani».
E se dopo i corsi all’Aia prendessi anche diritto della navigazione, mi toccherebbe magari fare degli arbitrati con questi avvocati impressionanti? «Ma no, ma non senti che parlano solo del Genio Civile?» tenta di consolarmi Antonio. Però c’è un nano autorevole che discute dell’essenza del Bello bevendo il cordialino al limone, sarà un crociano? La Silvana sta pagando anche il cibo per il giovanotto, e tutti afferrano qualche cosa ancora sui tavoli, anche degli altri, per buttarla sul vassoio: frutta secca, bottiglie. «La pastiera!».
«Ma non vi sembra un po’ troppo, anche lo champagne francese, perbacco?» fa lei seccata, lì in piedi col suo portafoglio da uomo in mano, quando vede portar fuori dal Gigi un “magnum” di Dom Pérignon. Subito dopo le arriva in testa un sacchetto di noci, non meno di cinque chili nella plastica; e uno degli operatori le fa: «Queste sì, duchessa, no? Così armeeeno quello passa er tempo a schiaccialle co’a gamba ingessata: tac! tac! tac! Dico bene?».
«E noi, Antonio, cosa si fa?».
«La tromba marina! La tromba marina!». E via che ricominciano, alzandosi tutti in uno stormir di tovaglioli. E siccome un ex-dolce vita in jeans larghi e lunghi viene lì a dire (si conoscono tutti?) «non vorrei, vero, che vi fosse qualche mancanza di rispetto intenzionale per qualcuna delle Marine che sono care amiche nostre, qui non presenti»... Tant pis per i telefoni bianchi: «La Maria Trombina! La Maria Trombina!». E si degenera: «Ih, ih, il troione!» facendo le corna.
«Qui pare allontanarsi, un prospetto di Napoli si chiama Amore con un’affascinante popolana dalla taille squisita, e gli avvenenti galantuomini del quartiere che le fanno serenate garbate sotto il balcone, tra fruscii di tende svolanti bianchissime... appena stirate fra gioiose strida...».
«Sarebbe forse improprio inserire a questo punto le telefonate di un insigne Maestro d’Arte che “fa le voci”... E con la cadenza da Superiora del Convento invoca la rinomata lavanderia, tra panico e angoscia per certe lenzuola dove l’Innominabile maschile resiste Indelebile... E poi con tonalità da Dry Cleaning – uno dei Quattro Quartetti di Eliot! – chiama la Badessa che intanto era già stata richiamata per l’insolito preventivo...».
«Lì si ricade magari nell’annosa quistione se i più sopraffini frutti d’una grande cultura appaiano al suo stato nascente, oppure al climax dell’apogeo e del vertice, ovvero se la fioritura più autentica non coincida per avventura con una decadenza estenuata o vandalica...».
«Torniamo a Roma domani, hai ragione tu: questa pare la sede del raccapriccio. Ho non meno di tre bei saggettini multipli da finire, tipo “Times Literary Supplement”, tra l’altro: già lì pronti, quasi. E magari un quarto, se si fa in tempo: chiusura frammentaria d’una stagione senza éclat...».
«Bisogna poi ripassare a quel consolato d’Ungheria».
«Sono loro i più duri per il visto. Gli altri lo dànno prima, la Polonia prima di tutti. Questo viaggio... Se il tuo nullaosta in Svizzera è già pronto...».
«Me l’hanno promesso in pochi giorni, sicuro. Ma questo film... Cosa ne fate?».
«Cosa vuoi... Vedi bene che qui è il trionfo dell’autobiografia: dalla vita direttamente nelle opere, più l’autocompiacenza di chi dà il proprio massimo fingendo sempre che sia un minimo, più l’incomunicabilità con l’alienazione sotto forma di senti un po’ sta caciaretta... e non se ne viene fuori né di giorno e meno che meno di notte... L’étalage dei sentimenti e dei dispiaceri, il contrario dell’educazione “anglo”... Klaus poi dovrà pur cominciare a star dietro alla sua opera a Spoleto, è qui per questo. Un mese di prove, non meno».
«E gli attori di questo film?».
«Sono stati con noi per tutta la sera».
«Ma quali erano?».
«Eh, come si fa a spiegare. Dopo. Marcello, dài, se almeno si parlasse... cinque minuti: del tipo di personaggi, se non altro, su. Bisogna pur mettersi d’accordo su una situazione base. Poi si va avanti ciascuno per proprio conto...».
«Cosa chiedi a me...» gli fa lui. «Li abbiamo letti, i nostri classici... Viaggio in Italia. Klaus ritorna qui dopo un po’ di tempo... e si sa bene cosa gli càpita, prima o poi... Ecco la situazione base, lì pronta. Si fa “La morte a Napoli”... O “La morte a Capri”, magari... Sempre obliasti, Ermete psicopompo... Sììì! Morte a Venezia e Trasfigurazione a Chioggia! Anche a Procida! Purché non Ischia! Ischia fa commedia!».
«A Procida! Procediamo! Con la procace corallaia Graziella! Ma il GI americano reduce di Anzio – il caporale mulatto John Jesus Smith, con una mamma portoricana assai devota – non aveva fatto voto alla Vergine di lasciar perdere per sempre quella poveretta, nella tribolazione e nel periglio, e di non ammogliarsi giammai? Adesso basterà la dispensa di un cappuccino, il compianto Ruggero Ruggeri, fra le bougainvillee di Ravello? O ci vorrà un intervento dell’Arcivescovo Carlo Ninchi, magari durante il Miracolo di San Gennaro al Teatro San Carlo?».
«Ci pensa la Lollobrigida! un suo fulgido “cameo” nel ruolo della Duchessa d’Aosta! Madre!». Poi cede, e abbraccia Antonio. «Scusami scusami, volevo dire Marguerite Moréno» fa. «Lo so che non m’avete mai visto così giù, avrei voluto accogliervi diversamente, stare insieme, quest’isola è stupenda per chi la conosce, avrei voluto portarvi verso il Pian dei Castagni, ma sono stanco, stanco, scusatemi tutti...». Prende lui il vassoio, se ne va verso l’albergo.
Fa freddissimo nella piazzetta, e passa improvvisamente una processione. Con dei lumi, una banda, i carabinieri; s’arrampicano tutti a fatica sopra i gradini della chiesa. Scompaiono. Il Mago della Pioggia? Brutta serata a Getsemani?... Ritorna giù zoppicando e parlottando fra sé una Mata Hari finta in cagoule viola, sola... Invece dietro il Quisisana c’è una notte africana chiarissima, con tutti i galli che cantano e soffi tiepidi e un mare anche più chiaro visto dall’alto dei giardini d’Augusto, con una love boat fantasma che passa a luci accese, suona le sirene, e tremila buon’anime a bordo riceveranno l’ordine d’affrettarsi a guardar l’isola dell’amore. Chissà l’animatore.
Ma l’isola dell’amore, che stretta al cuore, col suo squallore da posto fuori moda, gente che gira a vuoto con sguardo non lieto. Luogo di castigatezza, oltre tutto, perché le dissipatezze già riservate ai luoghi eccentrici, ora si sa benissimo che sono privilegio delle grandi città industriali con più di un milione d’abitanti; e qui si viene soltanto per riposarsi o per piangere. Finché si han lacrime...
«Me Anchises, you Aeneas, mi porteresti in spalla fino al Tiberio Imperatore, che non ne posso più dal divertimento?».
«Non voltarti lì subito, c’è un Giudizio di Paride che sta andando a finir male».
«Ma quella lì ingorda, sarà l’Incubo di Füssli, o Venus toute entière all’ultimo stadio?».
«L’Incoronazione di Poppea, guarda cosa si mette in testa! Ma il Ritorno di Ulisse in Patria non la guarda neanche, è da un’ora davanti alla vetrina della Tessitrice dell’Isola!».
«E quei due revenants chi sono? Il padre d’Amleto con lo spettro di Banquo?».
«A giudicare dalle sambuche e dagli amari che hanno lì, dev’essere una morte di Socrate».
«Socrate si congeda dagli amici, e va a battere alla Passeggiata Krupp. Speriamo che non ci sia un arresto di Oscar Wilde al Cadogan Hotel».
«Io andrei un momento a fare l’incredulità di San Tommaso dentro i bermudas del carnefice di San Giacomo, anche per non addormentarmi all’umido, ma ho qui un Belisario che vuole l’obolo, gli si dà qualcosa o poi ne arrivano cento a pretendere perché sei uno che dà?».
«Cambiamo posto, c’è un Filottete che si pulisce i piedi sotto i riflettori del mondo intero puntati su questo palcoscenico internazionale di moda e di eleganza, perché si sa che ogni Fashion Movement parte di qui e poi conquista l’America, no?».
«Infatti. Ecco lì un Riposo nella Fuga in Egitto, con passeggino, poppante, borse di plastica sportiva di Castelfranco Veneto, e il latte da scaldare per il biberon».
«Anche una cenina tipo Emmaus: due hanno rimorchiato un terzo, o forse viceversa, e al momento del conto non si conoscono. Fischi per fiaschi, Caravaggio mio».
«Una Costernazione di Priamo: l’isola non è più quella d’una volta, sta spiegando il vegliardo. E quelli che si è portati da Roma: e te ce credo».
«Andiamo a trovare qualche Clelia oltraggiata da Porsenna con la tisana, o a quest’ora preferisci Leonardo sul letto di morte?».
All’albergo sono infatti lì tutti che ridono ancora, fra le sambuche, rievocando i soprannomi più famosi della Dolce Vita: il tribuno illustrato, il cretino prodigio, il grullo del focolare, l’incantatore di sergenti, il brutto addormentato nel basco, l’aquila a due tette, il Banal Grande, l’autore dei Carmina Burina... Ci sono perfino due fotografi di Via Veneto, appostati per chissà quali coppie da rotocalco. Siedono a poca distanza, per ascoltare, e uno ordina gravemente una caraffa d’acqua ben fresca. Aggiunge, lentamente: del rubinetto. E l’altro: con molto ghiaccio.
«Ah, ma c’è anche “Stai dormendo Giuseppe”, detto anche “Ti sei già addormentato Giuseppe”, perché la sua consorte glielo dice continuamente ai pranzi, soprattutto quando sono seduti molto lontani»... Passa l’omonimo dei Pallavicini, che fa vedere «mon palais» di fuori alle straniere... «Con chi sta?». «Con la madre di Giada». «Zia di Turchese?». «E della piccola Opale». E una specie di Ibsen, con testa pentagonale come nei ritratti di Munch sui programmi a teatro. «Pentagonale come Caprarola?». «E come il Pentagono degli Stati Uniti». Però quando si pasticcia i capelli diventa un hexagone come la Francia, osserva Jean-Claude. «Si vede bene dov’è Deauville, e Brest, Biarritz, Montecarlo, Strasburgo»...
«Ibsen nel suo soggiorno a Roma aveva come guida un giovane gesuita coltissimo, col quale conversava in latino» racconta un finissimo, in golfino color pesca e calze uguali. «Ma una domenica pomeriggio vanno al Teatro Valle per veder la Cavalleria rusticana con Giovanni Grasso, e vengono messi in un palchetto di proscenio. Davanti al verismo, Ibsen si tira sempre più indietro nel palchetto... Ma appena finito lo spettacolo, Giovanni Grasso viene avanti sul pubblico e lo invita a un’ovazione per il più grande drammaturgo vivente! E Ibsen, tirato fuori dal palchetto, a bassa voce, al gesuita: “Horribilis benevolentia!”...».
Ma questo Ibsen si comporta malissimo. Beve le sambuche di colpo, storce gli occhi e il naso, guarda l’ora. «È l’amico della Grande Falciatrice, lei per tutto il giorno si è rifiutata di scendere» informano i gossip. Ma lui chi è? «La smentita vivente del principio “In vino veritas”».
«Sciami di lucciole come bollicine di spumantino, sei contento? Davanti ai Faraglioni che emanano bellezza e metafora di per sé! Proprio qui dove siamo adesso, per definizione, non può avvenire alcunché di banale! Si celebrano addii e dolori paragonabili al Faraglione stesso! E nove su dieci volte, è un dolore cosmopolita! Non come all’Elba o al Giglio, dove amori e spasimi si possono equiparare tutt’al più a un confino politico a Ventotene o a Ponza!... Ecco invece qui la Poesia da mettere nei romanzi da reddito! E in un film con cast internazionale, contano questi sfondi magici, non già le battute del dialogo!».
Mentre nessuno ci sente, mi parrebbe «honest, compassionate, sincere» (come poi scrivono i critici di “Time” e di “Newsweek”, per mandare la gente al cinema) dargli dei consigli possibilmente buonissimi. Anche se forse s’arrabbia o soffre. Ma quando mai si comprerà un appartamento, di questo passo?
«Noi siamo gente avvezza – alle piccole cose – umili e silenziose... Vero?... No, Minnie, non piangete... Voi non vi conoscete... Siete una creatura – d’anima buona e pura... O no?».
«Non vorrei tornar laggiù – a godermi il lago blu – tutto cinto di bambù... E allora? Fingersi un’animuccia che si rivolge ad altre animucce?... Ma in nessuna altra arte! Non nella musica, non certamente nella pittura, dove c’è un grande rispetto soprattutto per il divismo e i prezzi!... Solo in letteratura, sono tutti contenti se scendi giù giù a un livello proprio scadente, e allora sei “popular” in ogni senso. Solo in letteratura, se fai intendere un qualcosa ove si può sospettare intelligenza, si offendono come per una mancanza di riguardo! Solo in quest’arte povera, una letteratura per adulti significa non “di idee adulte”, ma di porcate...».
«E in cotanta miseria?».
«Ricevere nella tua biblioteca gli utenti, e cercare di far vedere il meglio?... Così diranno che ti dài arie? mentre pretendono l’acuto dal cantante, e dal calciatore il goal... O farli accomodare in cucina, dove - conversando di meschinità – si troveranno benissimo e ti troveranno “alla mano” specialmente quando si è parlato di detersivi?».
«Tovagliette, salviette, ripostigli, tendine, ma chi tiene tutto pulito? possiamo andare di là un momentino?...».
«... Piccoli inconvenienti comunissimi, nella vita di tutti i giorni: sono le cose che piacciono! File in banca e alla posta, esclamazioni in portineria e in autobus, perdite di pacchettini alla portata di tutti: questo si richiede a uno scrittore che abita a Roma, non una sua lettura di Schiller o di Nerval. Interessa molto di più il suo bagno e lo scaldabagno che non i libri, trattandosi di un autore contemporaneo, no?».
«Bruscolini! Gelati Algida!... Altro che Champagnisierte Literatur!».
«Semplicità, nella quotidianità! Psicologie ordinarie di gente minuscola, dunque emblematica. Gli stessi gesti che si fanno continuamente, e quindi sarà un piacere riconoscerli. Anche pentolini, rubinetti, interruttori, piccoli problemi di donnette verbose che tirano avanti con frustrazioni e scontentezze, figlie che non dànno soddisfazioni, frasette di malumore che tutti ogni giorno ripetono e ascoltano...».
«Ma non è ancora finito, quel senso di colpa perché si vergognavano di appartenere alla piccola borghesia di merda, e non al proletariato prode e sofferente? È dal dopoguerra che va avanti questo mito, no? E nessuno si vergogna mai, piuttosto, di appartenere a un paese che fa tante brutte figure quando tradisce e scappa nelle guerre? E dove non si può lasciare un pacchetto di sigarette in macchina? I complessini di classe paiono roba da ridere, al confronto».
«Ubi minor, maior cessat. La famiglia piccolo-borghese di cui vergognarsi è lì sotto gli occhi, in casa. Per questo molti si iscrivevano al Pci. E poi si rivergognavano anche lì: logistica delle convivenze obbligate, in ambienti ristretti. Ma finalmente, per la prima volta nella Storia, vincono i valori del centrino: modelli centrali di comportamenti e di gusto per l’intera società»...
«E io? Dovrei pentirmi della neutralità svizzera, non avendo di peggio?».
«Et in Arcadia, Egon: l’Arcadia di tutte le sore e sciorette “al corrente” che gradiscono solo la musica che conoscono già, e squittiscono tutte contente anche trenta volte quando vedono trenta bambini in trenta passeggini, o trenta cagnolini che muovono la coda in un film: cariiini... Non si deve assolutamente sospettare un “mondo di idee” o un linguaggio originale, poetico, nemmeno come ornamento da sfoggiare nel testo. Si è tenuti a riverire soprattutto le tensioni e il travaglio, nel rievocare il tran-tran quotidiano di una famiglia come tante altre, con gli alti e bassi... E gli anni di riscritture dell’Autore per ogni “Ammazza-hò” detto da un ragazzo su motorino, e i “Come stai” ripetuti fra uomini aggiornati e donnette moderne in situazioni comuni e universali... scrivendo poi il sesso come se uno raccontasse il football dopo aver tirato due calci a una palla di stracci in cortile...».
«Anche nei negozi di tinelli, no? Davanti ai buffet uso Maggiolini fatti adesso: quanto lavoro ci sarà dentro, ammazza-hò! chissà che fatica, a farli tutti!».
«Ma se tu racconti delle Edwige Feuillère o Vivien Leigh invece della donnetta standard con problemi in serie, allora sei un poco serio che si dà arie perché “non ci si può sempre divertire”, in quanto Letteratura significa “midcult”, e questo ha la funzione di consolare e commuovere... E dunque senza donnette, senza sciorette, senza mignotte, senza sofferenze né vittime, cessa lo scopo!».
«E il tuo appartamento?».
«... E pensare che gli autori più “popular” di un Ottocento durato fino a poco fa, per venire incontro al loro più caro pubblico, gli davano solo populismo e baronesse: vogliamo tutto tranne la fine della divisione in classi! uguaglianza nei detersivi, non già tra Princess Grace e le vittime!».
«Ma le signore del midcult trovano già tutte le contesse che vogliono sui loro rotocalchi! E tutte le soddisfazioni con gli abiti e i gioielli e le feste! La narrativa è il luogo delle povere, delle malvestite, delle brutte! L’appartamento nuovo, non lo comprerai mai!... Ma non te l’hanno mai detto, da bambino, che il Signore non ti ha messo su questa Terra per divertirti? Non l’hai mai letto, sull’“Unità”, che siccome non c’è un aldilà, tu devi farti un culo così per edificare l’uomo futuro in serie nell’aldiquà?... Lo vedo sempre più lontano, quell’appartamento... Magari un attico, vero? Ma mi faccia il piacere!».
«Ma come si fa a esser sempre seriosi e noiosi, uffa! Non è mica facile!».
«Non vi ripetete sempre fra voi che un libro italiano di cultura mai dev’essere divertente, sennò i lettori si adontano?».
«Questo è vero, lo dice anche Gadda: l’umorismo italiano ha connotazioni soprattutto ferroviarie. E oggi, naturalmente, televisive. Se fai del sense of humour, credono tutti che ti stia divertendo alle loro spalle, non insieme a loro come i comici d’avanspettacolo che dicono mavaff..., dal momento che il romanzo è un testo soprattutto per scuole, problemi, esami, concorsi... L’ironia è la peggior nemica della sora Premiolini! Se legge Evelyn Waugh, giustamente si sente presa in giro, lei, che è al corrente di tutti i fasti della Corte di Monaco e di tutti i bisogni degli ex-braccianti del Fucino – tutti alla sua portata – ma in casa propria esige per lo sciacquone e l’insalata lo stesso condimento e detersivo consigliato dai comici a tutta la gente comune come lei, che pretende la pelliccia però non si dà tante arie».
«Lo dici sempre, e poi non te ne ricordi. La letteratura da casa deve occuparsi solo di casalinghe: eccentrici come Tristram Shandy e Lady Metroland e Lord Chandos e il Cardinal Pirelli non la farebbero franca. Non fanno conoscere cause veramente buone, veramente tristi, dolorose, doverose, meritevoli... Il divertimento è un’altra cosa: è l’umorismo della mossa dei tàcci tùa, del tepòssino coi gesti delle braccia. Vuoi guadagnare soldi? Allora devi fornire tristezza ai tristi, e povertà ai poveretti».
«Ma che bella scoperta: fra Princess Grace e Anna Frank, dove mai c’è posto per Ulrich e Clarisse e Diotima e Arnheim? E Cathy Berberian, non avrebbe più successo come martire armena fra mille e mille, piuttosto che come cantante d’avanguardia sublime e unica?».
«Taci! Il Faraglione ti ascolta. Da’ retta a me: fa’ la coda alla posta, prendi qualche autobus, racconta gli interni degli appartamentini più identici agli altri, senti cosa dicono... C’è dappertutto una che ha successo con gli uomini pur non essendo bella, un’altra di mezza età che sarebbe due donne in una, molte che non vanno d’accordo col marito scadente, con la madre invadente, con la figlia pagliaccia... E bisogna tenere in suspense la sora Cecia fino alla penultima pagina, perché a lei interessa solo sapere se quella rompi di Patrizia gliel’ha data o non gliel’ha data all’ingegnere o al ragioniere... Come puoi parlargli delle Diotime e delle Clarisse, mentre sono lì con Ranieri in alta uniforme da una parte e lo sciacquone intasato dall’altra, e le SS che bussano alla porta?... Chi credi d’essere tu, rispetto alla vicina o alla cugina che consigliano lo stura-cessi Grace e il Romanzo per l’Estate coi mangiarini che preparava la nonna e quante coperte si mettevano sul lettone quando veniva giù tanta neve più di adesso?».
Insistiamo? «E fare intravvedere delle beauties, invece, magari? Delle Zelde, o anche delle ficone bellissime che vanno a finire benissimo, come se ne conoscono e se ne vedono in giro, e mai colpite da terribili preoccupazioni e disgrazie su “Oggi” e su “Gente”...».
«Sono cose da tener nascoste! la disgraziata con le gambe gonfie già dice “chissà cosa ci trovano!” quando vede le più belle foto di Marilyn sui suoi giornaletti!... E te l’insegna l’astuto Manzoni: la ragazza dev’essere insulsa e perseguitata, mai disinvolta, mai spiritosa, mai stata a una festa! Brutte! le vogliono brutte! e brutte-tristi, brutte-vittime, non party girls, non débrouillardes, mai l’anima della serata!».
«Permetti che ti faccia un piccolo piano? Le meraviglie che vedi in una passeggiatina. Ma non incominciamo con Salisburgo o Glyndebourne: sotto casa! Qui non avete molte scelte di livelli... Un marciapiede, una siepe, un gatto (il gatto non può mancare), un uccelletto simpatico... E cosa ci sarà in quel bel cestino?... Benissimo, in bicicletta... Anche le cose interessantissime che si possono sentir dire in treno fra Milano e Saronno o fra Roma e Civitavecchia... e sono cose che ho sempre pensato anch’io, e mi sono sempre detta, “ah, se sapessi tenere una penna in mano”... ma nessuno le ha mai sapute esprimere come lei, dottore!... Come si andrà a finire?... Sempre di questo passo?... A me, scusi, pare proprio di male in peggio, ciò un dolore qui... Ma insomma, non ami i fiordalisi? Non adori le violacciocche? Non prediligi i nasturzi, o i tageti? E metticeli, andiamo, pensa all’attico!... Avanti. “Aaamo gli anemoni... Prediliiigo le primule...”. Una per papà, una per mammà, una per zia Pina... Fallo almeno per la Pupa e la Cocca...».
«Nell’aurea misura dell’elzeviro, sepoffà... Ma il realismo della sora Premiolini è anche ideologico, e trova positivi i personaggi populisti finché sono poverissimi: le minuzie sulle miserie piacciono molto alla sora... Però quando come risultato di tutta la positività il poverissimo si arricchisce – ed eccoci a questo deplorevole boom! – allora l’ex-bracciante in automobile diventa negativo, senza l’arida zolla piace pochissimo, e la realtà non c’è più! Sparisce dai libri di consumo! Così come scappa dal discorso ideologico! L’Italia coi soldi è irreale!».
«Ma la fruttivendola sotto casa ha significato universale, per la sora! Balzac, invece, è per pochissime: anche più di Balenciaga, che almeno fa i profumi. E non dimenticare che quando i personaggi conversano piacevolmente, e mai del mangiare o dei parenti, la sora si sente esclusa e si irrita: se ha pagato, li vuole col tormento e lo sturbo».
«Ma se fossi un cronista sportivo, allora, non si irritano perché tutte le domeniche vado allo stadio, non pago, e mi diverto? Non fa rabbia in quanto privilegio? E per non farmi rinfacciare che mi do arie, dovrei fingere di vedere pochissime partite, non capirci niente, non divertirmi affatto?... E passando ai “gialli”, che invece tutti approvano, non vi sembra proprio turpe una letteratura di delitti “fine a se stessi”, senza la minima adesione alle buone cause dei bambini affamati, dei negri oppressi, della sinistra nel terzo mondo?... Dov’è la solidarietà, nel poliziesco? Qui ci si infischia dei valori positivi, sora mia!».
«E se tu fossi musicista o pittore, cosa dovresti fare per venire incontro alla portata e al livello della sora come coi libri?».
«Mina, o Nilla Pizzi? Scugnizzi con pipetta in bocca? Gatto bianco e cagnolino nero? O viceversa?».
«Un tempo, non piaceva il tema autobiografico? il pittore, l’atelier, la modella, chissà cosa fanno quando lei si spoglia sotto i cieli bigi...».
«Balthus li fa ancora. La sora se ne infischia».
«E con Picasso e gli americani, lo dice ancora che li farebbe meglio il suo bambino? O lo dice già suo marito, il sor, e lei commenta che con questi intellettualismi elitari i prezzi sono una vergogna? O fa già qualche passetto avanti rispetto a Togliatti e a Krusciov?».
«Dipende da sora e sora. Ma sulla pittura e la musica la sora non ha le idee chiare come con la letteratura. Non devono venirle incontro alla sua portata, le altre arti. Si sposta già la figlia, dove le dicono di andare gli striscioni al Muro Torto; e là fa delle conoscenze. Con la musica moderna, invece, ha proprio chiuso: da quando nessuno si fa più carico di farla piangere su qualche vittima trattata male».
«Ma perché solo la letteratura dovrebbe assecondare il midcult delle sore, e non invece le arti che si fanno rispettare perché guadagnano più soldi? Si è mai capito? Rispondi al Faraglione lì».
«Se avessi una trattoria ai Faraglioni, non so se andrei lì ai tavoli a chiedere “cosa desiderano alla portata della signora e al livello del signore?”... Come si fa a domandare: “siete gente comune e ceto medio?”... Magari mi rispondono “lei non sa chi sono io! mi porti il meglio che ha in casa!”... Ma quando la cucinetta della letteratura per la casa ricuoce fatterelli e figurette che ti interessano poco e conosci pur troppo, allora non solo si preferisce leggere Praz sull’estetismo dei decadenti e Longhi sull’officina degli squarcioneschi... Viene spontaneo andare piuttosto a Santa Cecilia per un Mahler o un Berlioz che non c’è in dischi, o metter da parte i soldi per spostarti ogni volta che c’è una mostra di École de Fontainebleau o Wiener Secession che non conosci ancora e nessuno ti ha spiegato a scuola».
«Il libro non deve piacere a te. Mettici le cosine che piacciono alla gente: la vita quotidiana di milioni di persone! A loro non interessano Mahler o Matisse: importa se la vicina la dà o non la dà. Mettici dei malumori e dissapori fra brutti caratteri. I dispiaceri della mamma, della figlia, dell’operaio, del contadino, del bambino. Lo sturbo! Sennò, quando mai riuscirai a comprarti un appartamento al Pantheon?».
«Ma cos’è questa storia del metterci! Non è mica una valigia o un cassetto. Guarda che non mi piace niente. Sembra l’epistolario di Puccini, quando si rivolge a D’Annunzio e a Ricordi per i libretti: “Grande dolore in piccole anime. Metti dei bimbi, dei fiori, dei dolori e degli amori. Poesia, poesia, affettuosità spasimante, carne, dramma rovente, sorprendente quasi; razzo finale! T’ho rotto le balle? non la pigliare a male”».
«Sempre con fè sincera? Che viso da malata!».
«Minnie, ora piangi tu!... Vivi sola soletta! in una bianca ca-a-a-meretta! Non sempre vai a Messa! ma preghi assai il Signor?... Desti fiori agli altar? desti gioielli della Madonna al manto? O desti solo il canto?... Eh?».
«Ma se la spogli nuda? È carne! Carne cruda!».
«Quando rangola il gong – si sa – gongola il boia! Il lavoro mai non langue, dove regna Turandot!».
«E te ce credo. Il ragazzo non aveva più che una gamba, la gamba sinistra gli era stata amputata al disopra del ginocchio, il troncone era fasciato di panni insanguinati!... Così, così si fa! Il ragazzo batté la schiena per terra e restò disteso con le braccia larghe, supino! Un rigagnolo di sangue gli sgorgava dal petto, a sinistra!... Impara, baby!... Questo sì che è Cuore!... Il piccolo eroe, il salvatore della madre di sua madre, colpito da una coltellata nel dorso aveva reso la bella e ardita anima a Dio!... O anche, più semplicemente: gli è passata la ruota sul piede!».
«Io non son che una povera fanciulla, oscura e buona a nulla... e anche tenue farfalla... Però, però... All’anima tua guasta, qual supplizio sovrasta! Sia legata! Sia straziata! Perché parli! Perché muoia! Strappatela di là! Nessun di voi, ha sangue nelle vene? Una gonna vi fa sbiancare il viso? E pensare che il vostro amante ha un cerchio uncinato alle tempia, che a ogni niego ne sprizza sangue! Senza mercé! Tiè... Che gelida manina, comprendo poverina, dammi il braccio mia piccina: ha inizio, la cerimonia! andiamo a goderci l’ennesimo supplizio, sora mia!».
«Ma tu non hai neanche un’opera in via di sviluppo?... Quelle che una volta si chiamavano in progress? Me lo fai il favore, se te lo chiedo per Natale, di metterci almeno qualche africano o asiatico a cui va tutto malissimo? Mettiti nei panni di mia cugina Simonetta che spende i soldi per un tuo libro, parte in vacanza, apre l’ombrellone, apre il libro, i braccianti e i minatori già li conosce, e fra i milioni e milioni che soffrono al mondo non ne trova dentro neanche uno. Con tutti i cinesi che ci sono! Hai perso una lettrice. Ma non avete dei morti massacrati in famiglia?».
«I soliti zii delle varie guerre: famiglie distrutte, pensioni da fame, tragedie italiane tipiche, testimonianze tremende sui dispersi, cadaveri mai ritrovati in Russia e in Albania...».
«Neanche un parente ebreo morto in un lager? Delle trincee, la gente se ne infischia».
«Adesso ti rispondo come Filumena Marturano: i morti so’ mmorti, non stiamo a dargli le tre o quattro stelle come gli alberghi».
«Ma fiction è fiction, scusa: diglielo tu, Faraglione! Così come buco è buco: ripetiglielo un’altra volta, Brecht! Dolori, dolori, ci vogliono! Una compagna di scuola anche finta, purché brutta e deportata a Auschwitz, ti rende più di cinquanta Savoia Cavalleria veri congelati nel Don! Non piacerai mai né agli ombrelloni né alle scolaresche! Non riuscirai a comprarti neanche un monolocale alla Garbatella».
«Ma non riesco mai a divertirmi, con i perseguitati e i martoriati! Mi arrampico sulle tende, mi attacco ai lampadari, mi prendo a schiaffi dicendomi “cattivo! cattivo!”, ma per lo svago e il relax preferisco Piccadilly a Buchenwald».
«Passa un sabbatico a Belsen, non perdere tempo con Salisburgo, dammi retta! Il massacro rende! Certo, devi fartelo piacere. Sennò, la gente non ci casca. La gente è perfida, non vedi che facce hanno certi lettori? Non guardi mai dentro le altre macchine ai semafori? Amano le sventure degli altri: mettici dolori, malattie, sciagure, disastri. I lettori sono come i vicini di casa. Credi che siano contenti, quando ti vanno bene le cose? Se la gente è bella e si diverte, la lettrice si arrabbia. Lei vuole provare l’afflato della sofferenza. Nelle case regnanti, bene l’emofilia, a Hollywood benissimo i tumori, ma qui la gente chiede soprattutto i lager. Non vivere fuori dalla gente. Mettici degli ebrei che soffrono, dammi retta. Devi farti piacere le carneficine e lo sterminio! È la tua sola possibilità di farti considerare buonissimo! E di sistemarti finalmente in un bell’appartamento. Vero, Faraglione?».
«E io, gli ebrei che soffrono, non ce li voglio né li saprei mettere, perché non ne conosco! I miei amici ebrei sono simpatici e divertenti, e stanno in belle case dove sanno ricevere benissimo! Belle collezioni, gusto della pittura, cose che aumentano di valore, argenteria importante, si mangia quasi sempre bene, si ride molto, raccontano storie piene di sense of humour...».
«Disgraziato! Non avrai mai successo! Dovrò portarti la minestrina anche da vecchio!».
«Ma anche tornando all’infanzia, e cioè al grano in erba, in campagna, in guerra, nei peggiori anni della nostra vita... i miei migliori amichetti ebrei erano bambini che già stavano benissimo e poi sono finiti meglio di te: imprenditori quotati in Borsa. I genitori nascosti si sono salvati, hanno riaperto uffici e aziende, nessuno ha tradito, si diceva tutti “sono in Svizzera” e non “nel solaio”, al posto del preside dantista fascista è ritornato il preside dantista ebreo... Erano bambini d’antico stampo, si vergognavano di dire “il culo”, dicevano “la fabbrica del cioccolato”; e si lamentavano delle loro zie iettatrici, non si è mai capito se erano peggio le loro o le nostre cristiane, perché si era appena nel ’39 e nel ’40, e già le une e le altre continuavano a invocare le disgrazie!... E le sconterete tutte, e finirete malissimo, e vedrete la Mano del Signore, continuavano a ripeterci: e non c’erano ancora i veri orrori, si sarebbero saputi solo alla fine della guerra, si andava ancora avanti col Piave e il Carso. Ma loro lì tutte protese e slanciate a invocare i castighi dal Cielo, in campagna, nello sfollamento, in un buco in fondo all’Oltrepò, prima ancora dei bombardamenti... E noi non avevamo ancora imparato a toccarci le palle... E sempre: “Bambini, pregate il Signore perché faccia finire la guerra”. E noi bambini: “Perché? C’è bisogno di ricordarglielo? Da solo non ci arriva? La sciura Pina, c’è arrivata da quel dì!”...».
«E non ci sarà ancora qualche sopravvissuta lamentosissima che racconta solo deportazioni? Alla gente piacciono tanto! Più Oltrepò vi hanno ammazzato e distrutto, e più copie si vendono! Ma certo, se si sono salvati tutti, non ne vendi una. E se oggi vanno dall’internista invece che dallo psicanalista, puoi cambiare mestiere e paese... Pensa però, soltanto, a tutto quello che Puccini sarebbe stato capace di cavare da Auschwitz!...».
«Domani mattina» mi fa lui «passiamo da Capodimonte. Poi compriamo un po’ di costumi da bagno e di cravatte. E torniamo a Roma quando vogliamo».
Ripassando in piazza, solo dei piccoli americani tipo soldati grassi in licenza con un grammofonino a pile, e solo dischi dell’Elvis Presley prima maniera. Non mi vengano a ridire: sono stato nell’isola ed era un incanto, che delizia non c’era nessuno. Senza un po’ di beautiful people, come sanno davvero di poco anche i famosi bei posti.
«Ci sarebbe stata magari una diversa linea di soprannomi e pseudonimi, oltre alla produzione Rosati-Canova» riprende. «Graziosa, ma non fu perseguita. Giacomo Debenedetti, piccolino e trottolino: Debbie. Cesare Brandi, con un bel colorito rosatello: Cherry-Brandy. Giovanni Macchia, essendo francesista: Monsieur Tache... Ha avuto più fortuna la linea in euse: Masseuse e Gazeuse per Massari e Gazzoni, Brandoleuse e Aldobrandeuse per Brandolini e Aldobrandini. Buon momento quando tutte le Violanti sono diventate Violeuse. Diceva Anna Banti: in fondo, Banteuse suona come una professione non priva d’una sua dignità».
Escono le stelle. Vaghe? Dell’Orsa? Stasera, mah.
«... E se vogliamo una deviazione, ci sta dentro il Duomo di Ravello, rimodernato al suo Dugento: come nuovo, buttando via in restauri sei o sette secoli di devozioni e stucchi e arti cosiddette minori... proprio mentre stanno incominciando a romper le palle da più parti per salvaguardare l’archeologia industriale della filanda e della centrale elettrica».
«Se ricominciate quelle belle discussioni, voglio però capire perché proprio nella letteratura si deve perdere tanto tempo con le confusioni tra alta moda e prêt-à-porter».
«Ma quale sarebbe “il nostro mandato”, insomma? Raccontare una città, una società, un’epoca (e non una stanza, una famigliuola, un’infanzia), come hanno fatto parecchi narratori francesi e inglesi e tedeschi e americani dell’Otto e del Novecento?... Oppure voltare le spalle alla realtà e alla vita, non “descrivere” proprio niente, e mettere a punto congegni puramente fantastici, come la musica sulla musica e la pittura sulla pittura di tutto il nostro tempo?... Venire incontro alle aspettative, come i fabbricanti?... O inventare nuovi bisogni, come certi creatori?...».
«Qui non viene più neanche l’acqua fredda. Il rubinetto fa un risucchio che tira dentro l’aria».
«Chissà l’Amazzone del bidet, come farà».
«Si è sempre detto: non è un’attrice, è un portato del fascismo».
«State attenti a Proust, voi, intanto. Basterà cavarsela “facendogli un bel giro intorno”, come Richard Strauss con Wagner?».
Anche Klaus parte domani da Napoli. Per Sabaudia, con Renato: gran valigie bianche. Ha preso in affitto una Mercedes sport nera, rossa dentro, e stanno due giorni nella villa d’una sua vaga suivante di Venezia, con una ex-madre molto well-off, davanti al Circeo; poi proseguono per l’Umbria. Ci si vedrà più tardi nel mese, tutti. Jean-Claude ci viene forse insieme fino a Roma, però senza fermarsi. Prima vuol fare Arezzo e Cortona e Perugia. E di lì forse a Spoleto anche lui.
ROMA
In città ci si alza tardi, tardissimo. Gli ho portato via un bellissimo accappatoio di spugna, rosso bordato di blu, me l’infilo uscendo dal bagno all’aceto di verbena e sto disteso tutto il giorno nella stanza dell’elefante, con questi glicini che sbattono dentro appena s’apre la finestra, come se ci fosse dietro una molla, a leggere le sue libertinaggini americane nuove, mentre è all’opre intento. Lavora come un vero furioso. Accappatoio giallo-zolfo. Non sono ancora finiti i rovesci nel bagno che la macchinetta da scrivere ricomincia, cri-cri-cri, e vanno tutte le musiche, forte. Ma non sento più niente. Neanche la fontana in cortile, che le prime notti non m’ha lasciato dormire (siamo nella parte bassa della città, vicino al fiume, c’è tanta acqua); e quegli storni che per una notte si sono fermati sulle palme del giardino, cantando.
Non solo dormo stupendamente, in questa città: quando leggo mi possono fare quello che vogliono. Lui va, viene, giallo-zolfo, gira intorno. Macché, non sento. Mangio le sue sciocchezze senza accorgermene, al pomodoro, al formaggio, ne tiene dappertutto (rivalsa contro l’infanzia deprivata?), le pralines di Moriondo nelle bomboniere di cristallo, i dobloni di menta nel vaso di vetro blu, che secondo Cesare Brandi è “da pasciulì”. Non da pot-pourri. E «ti verrà il grasso al cuore», si capisce. Anche a casa, aumento di peso, ma là perché il mangiare diventa un fatto nervoso, quando vien la voglia e non si può trovar subito. E tanto, grasso o magro, non è che le marchette mi facciano lo sconto.
Ma qui bisogna far qualcosa per dar giù qualche chilo, nei miei abiti d’estate non c’entro più: il mio bagno turco, il mio tennis. Se sto un po’ senza mangiare, agli ottantacinque scendo ancora con facilità: meglio calar di peso che portare tutti i pantaloni dal sarto, più sano. Delle gran volte, poi, al mare in fretta, avanti e indietro di corsa. Dalle due alle tre.
Il grammofono va continuamente nella casa. Opere quasi sempre, le più tormentose di Bellini e Donizetti (Callas! memorie della Scala! quaggiù, mai più sentita live), oppure musicals degli anni scorsi a Londra, magari non arrivando alla fine, per non perdersi l’ultimo quarto d’ora nei pubs: Oliver, Valmouth, Expresso Bongo, Lock up Your Daughters, e forse ancora My Fair Lady, Leave it to Jane, The Boy Friend... Ivor Novello che fa delle nozze regali in Ruritania, per organo arpa chierichetti e regina, con due sublimi donne del Trenta che si chiamano Marion Grimaldi e Vanessa Lee; e Glamorous Night, Careless Rapture, Dancing Years, Waltz of My Heart, Music in May, con romanze primaverili tipo «coglieremo lillà a Westminster» e «belle lavanderine a Mayfair», in un frullo d’archi softissimi, e tripudi melodici del coretto maschile che accoglie in frac di paillettes la star in chiffon “tea rose” in cima a una scalinata bianca e nera; e fanno ala («ils faisaient la haie? ils la faisaient!»), tutti alti; e speriamo che tutti i gradini lampeggino dall’interno. «Now that lilacs are in bloom... Under the bamboo-bamboo tree!...».
«Fuori le chicche! Hop, hop!».
Florence Foster Jenkins che riesce a fare tutto il valzer del Pipistrello e tutti i picchiettati della Regina della Notte senza azzeccare una nota sola – come riusciva soltanto a Margaret Truman, figlia del Presidente!... Ma è morta verso il ’44 senza poter godere degli inni postumi alla sua libertà ineguagliabile nei registri, fraseggi, e tremoli, specialmente verso i settantasei anni, data del nostro dischetto, quando affittava essendo facoltosissima il Carnegie Hall per le sue matinées benefiche, spesso scendendo in platea a riprendere i fiori gettati al pubblico, per ributtarli allo stesso pubblico nel secondo tempo. Eccola qui, altera, stupenda, sulla copertina del 45 giri, coi suoi giri di perle, le sue piume sulla tiara, le sue ali d’arcangelo come non ne ha mai avute neanche Margaret Dumont con i Fratelli Marx.
E – dragona per dragona – Dame Clara Butt, walkiria illustre del Covent Garden durante la Grande Guerra che intona Land of Hope and Glory a Hyde Park con l’orchestra dei granatieri reali, l’Empire Day del ’27, quando l’Impero era ancora l’Impero, e tutto il pubblico muove le sedie e canta insieme, e par di sentir dietro tutto Kipling. E la maestra di ginnastica inglese contemporanea raccomandata da Angus Wilson, che ordina: «Bambini, prendete le vostre due palle insieme, e alzatele: su! su! Adagio... Ma come mai c’è un bambino con una palla sola?»... Molto Cliff Richard: piace sempre ad Angus. Molto Reynaldo Hahn: malgrado Proust, che coglione. E Marilyn Monroe (I wanna be loved by you, I’m thru with love), con chi metterla, nel classificatore? con Nelson Eddy e Allan Jones? con Germaine Montéro ed Edith Piaf? O piuttosto con la sublime Pia Beck, dal più indimenticabile piano-bar di Scheveningen: che estati, che estasi, che Cole Porter, che cocktails, che marinai senza mutande, che buttafuori e buttadentro biondi con gli occhietti orientali sbiechi e verdi perché «I have a Chinese grandmother in Canton», e magari era vero, fino a due anni fa. «Where are they now?».
Ma tante Divine tedesche dei Thirties, soprattutto: i negozi del Kurfürstendamm furono razziati fin dal primo passaggio! in occasione del primissimo Moses und Aron diretto da Scherchen... Città di rovine e ricordi e Doktor Faustus ancora fumanti... 45 giri neanche cari... Divinette sul pétillant poliglotta come Anny Ondra. Divinacce birbantesse alte un metro e venti e sempre in cravatta e monocolo come Claire Waldoff: ribalda e rauca ma indubbiamente maestra di Marlene come Diseuse da Kabarett e Filmoperette e “mondane Chansonnette”...
Divine maestre dell’arte del porgere rococo e art déco, come Fritzi Massary e la paradisiaca Hilde Hildebrand, col loro carillon e la loro crinolina e il loro birignao su una squisita moscacieca e un sorsino di Sekt. Ma con l’Odeon-Musette di Willi Forst e le Hottentotten-Klamotten delle coppiacce di comici («Zwei Mokka! Fünf Millionen!»), addirittura Max Schmeling – il canto del pugile... com’è Berlino! – che in un film Terra 1930, Liebe im Ring, canticchia e niente affatto asinamente «Al boxeur la ragazza fa male, gli fa perdere il cuore e l’incontro».
E naturalmente tutte le incomparabili fasi di Zarah Leander, Divina più disinvolta di tutte con la sua voce da Leder-giovanottone sexy: certi slow-fox incisi a Berlino nell’estate del ’36, dove par veramente di toccare con le dita la mondanità nazista, le mogli dei gerarchi in crêpe-satin, le volpacce bianche delle dive Ufa, i servizietti di cristallo sui tavoli di specchio... Poi le canzoni d’amore della guerra, con grida tremende di «Liebe! Liebe!» fra cori maschili e cannonate, dove tra l’altro si capisce chiaro che si sta perdendo. Ma poi subito «Mein Leben für die Liebe...» – e lì, una svolta di Settecento, gavotta galante: «jawohl!». E via, pattinando sulle habanere, per tenersi aperta una via d’uscita... E appena finita la guerra, tutto un Sudamerica forsennato e finto fra i tripudi all’americana muggendo dei «Wunderbar!» di Cole Porter come su una jeep, e dei veri ditalini sarmatici con una Rosa di Novgorod accompagnata da tormenta e coretto e slitte nella steppa... E finalmente quei “fox moderni” in realtà fra samba sàssone e boogie-woogie bavarese che s’intitolano Otello e Antonio e Dante, e con questa voce da omone erotico fanno sobbalzare quando li senti in un juke-box perché suonano come dichiarazioni ardenti e imbarazzanti di un carpentiere per un pizzaiolo...
Un po’ “overrated” mi pare invece Marlene: forse perché la si trova ormai in ogni casa e casetta nelle confezioni americane?... Però commovente, quando la si è vista al Tivoli di Copenhagen far due recitals al giorno a due ore d’intervallo per le famiglie di turisti americani con le macchine fotografiche e le birre, e senza capire le nuances di “The Boys in the Backroom”... E francamente insopportabile Marika Rökk, che qui pur non manca: ma sono gli originali tedeschi delle canzoni dell’Eiar che gli aiuti-registi vanno a cercare in 78 giri a Porta Portese con le carteglorie e le opalines. E dietro ogni «Violetta prestami un bacio» c’è sempre la solita Marika: «Ich brauche keine Millionen»...
Eine Berlinische Tragödie, invece, dietro i quattro 78 giri Ariola della Madre Coraggio comprati all’Unter den Linden in epoca epica e in edizione giusta, con Helene Weigel ed Ernst Busch; e testina del pick-up rovesciata ogni volta sul verde per questi Lieder der Courage e vom Fraternisieren e der Grossen Kapitulation. Ma una volta, portati alla Rai in una valigetta finissima del Finzi per metterli in una trasmissione di rarità, i disconi Ariola (materiali di merda) sono usciti dalla valigetta rotti: tutti e quattro. Ed è stata una tragedia ancora peggiore della morte della pera nella bottiglia della grappa di pere, perché si sarebbe dovuta poi aspettare per anni e anni l’uscita dei microsolchi con la Madre Coraggio integrale, però in un’altra registrazione. E le voci dei cantor, e il sound, non sarebbero mai stati più quelli: commoventi e irripetibili come il Don Giovanni “cult” di Fritz Busch, Glyndebourne 1936, dove (lo dicono Gabriele Baldini e Attilio Bertolucci) si sente sottile e squisito il pathos degli artisti in esilio da Dresda per sempre. E lo stesso John Brownlee di quel Don Giovanni si ritrova nelle Nozze di Figaro del ’40 al Metropolitan, dove oltre a “leggende” come Elisabeth Rethberg e Jarmila Novotna e Bidù Sayâo si sente un «Ecco tua madre!» glorious e indimenticabile: è la medesima Irra Petina di «I’m easily assimilated!» nel Candide di Bernstein...
Ma ecco Gustaf Gründgens che fa da giovane dei falsetti isterici: vuole subito un ombrello o un taxi per una Gräfin che deve attraversare l’Unter den Linden carica di pacchetti? E lui sarà un groom in livrea verde e berretto a pentolino? Macché, la Gräfin dell’operetta Liselott del 1932 è Liselotte von der Pfalz, cioè la nostra amata Principessa Palatina – anche nei dischi! – e Gründgens è un esaltato, spiritato Monsieur, quel discusso fratello del Re Sole: «O Gott, wie sind wir vornehm!». Cielo, come siamo chic! Tutte le rime in francese: charmant, élégant, nerveuse, précieuse, capricieuse...
E subito dopo – ormai le ho sottomano, queste combinazioni fra dischetti a 45 – l’«In Xanadu did Kubla Khan, a stately pleasure-dome decree» sparato gelido e perentorio da Ralph Richardson; e il celestiale Adagio per Glasharmonika di Mozart, come una psicanalisi della musica siderea; e un brindisi di Dylan Thomas a una moltitudine di amori; e la Sonata per Flauto Traverso di Federico il Grande, che se la cava abbastanza spensieratamente; e “The Bells of Hell” di Brendan Behan, che «go ting-a-ling-a-ling – for you but not for me», e fa poi «oh Death where is thy sting-a-ling-a-ling – or Grave thy Victory?»...
E cotte e mangiate come un risotto al salto, rivoltando il dischetto, hop! hop!, come un pignattino, Prinz Eugen e Radetzky-Marsch. E via, subito, “Mon légionnaire” di Madame Damia e “Creation of Love” di Frankie Lymon, la Pantomima del Sogno da Hänsel e Gretel e la Chanson Bachique dall’Hamlet di Thomas, “There are Fairies at the Bottom of our Garden” di Bea Lillie e “I soldati delicati” di Gianni Meccia: «tutti lindi e profumati – in divise di cretòn – van tenendosi per mano – canticchiando una canzon!»... È lo stesso programma che una volta divertì molto, pare, Roberto Longhi qui in visita pastorale; e da allora, ne varietur.
Il telefono, sempre suona. Sovente è il poeta professor Tiraboschi, consigliere segreto o di Corte di tutti gli editori e di tutti i giornali: telefonate per niente («allora come va? cosa c’è di nuovo? che si dice, eh? io non esco mai!»), ma rassicuranti. Come la donnina col parasole nei barometri delle baite, sostiene Antonio: quando si fa vivo, è segno che in quella casa si prospetta bel tempo; e non reprimende. Ma intanto («Cosa sta facendo? Chi ha visto in questi giorni? Sta scrivendo? Cosa?») tutto e tutti under control. Sistema! E stranamente anche Marcello continua a chiamare appena tornato. Pare che ci tenga parecchio, adesso, a questo film. Sempre con una certa diffidenza, però, nei riguardi dei due stranieri. Tipo: ma che ne sanno, quelli?... o loro, o noi... Gli abbiamo mandato una cartolina dalla peggiore Pozzuoli: «Rends-moi le Pausilippe, ecc.». Firmato: Gérard de Nerval e Italia Nostra.
Delle gran volte sono però creature di sogno, che chiamano: il ciuchino di Civitavecchia, che arriva quasi tutti i giorni col treno, l’anatrone d’Amburgo, la balena di Brema (con occhi laterali e sguardi anche), Rimini e Taranto sempre insieme per farsi fare le polaroid in divisa bianca, il Cherubino dell’Alaska che però studia da baritono, il giovane papà di Swissair che impara sempre a Bangkok nuove cose a tre, il pizzaiolo con gli occhi di panda che offre la metà della gomma che ha in bocca, il picchiatore nero col labbro spaccato che sbraita «gli faccio a quello un cccc così!» e poi lo fa volentieri senza neanche farsi pagare: un altro che sta venendo preso nel proprio piège... È la Roma aere perennius della miglior poesia classica!
«Se è l’omino di burro in lambretta, il mio corpo non è qui!». Ma se arrivo prima io, faccio venir su di tutto anche se non vuole; e via coi giuochi di forza nella stanza dell’elefante. Uno per far scena gli arriva addosso mentre crea, con in testa la pelle del gattopardo che c’è sul mio letto, gridando «So’ Nerone! So’ Tibberio!». Ma non ha gradito niente. Furibondo. «Dàgli i suoi soldi e buttalo giù per le scale!». Peggiora. Ricade nel suo disturbo. Giù nella carineria, nel sentimento, un’altra volta? A capofitto nel colletto alto e nell’inseguimento fra decappottabili, in chissà quali Parioli alti o bassi, ho paura. E senza vedere come son fatti: di scegliere non è mai stato capace. E di star lì a sentire, neanche.
«Antonio» gli faccio, per tenerlo un po’ su. «Guarda qui, che storia meravigliosa». Pensare che l’ho trovata sul “Corriere della Sera”.
Dunque, sono due mercenari inglesi nell’esercito del Katanga. Uno, ex-sottufficiale delle Guardie della Regina. Sarà certo uno di quelli favolosi che si trovavano fino a non tanto tempo fa a Sloane Square, al baracchino degli hot dogs, molto esaltati, anche molto molto sul tardi, col berrettino sugli occhi, quindi vedendo solo dai lati come i cavalli e la balena, e d’estate sempre senza mutande sotto i calzoni blu di parata o fatica. Thirty shillings a botta, ancora l’anno scorso, quando dico che certi bei tempi non torneranno facilmente... Indossatore non per niente, anche, a tempo perso; e «molto noto a Chelsea», dice il giornale.
Dà le dimissioni da guardsman appunto per andare in Africa e non separarsi da questo suo “buddy” che si era arruolato prima di lui, soldato semplice. Sempre insieme, i due. Un giorno fanno una missione in jeep, loro soli, e cadono in un’imboscata dei Baluba. L’ufficiale viene ferito poco e sarebbe già mezzo in salvo. Ma l’altro è più grave; e rimane per terra. Lui allora torna indietro per recuperarlo. I Baluba li prendono...
«E gli fanno almeno l’estremo oltraggio, in tanti?».
«No, romantica creatura! Se li magnano tutt’e due!».
«È un Traveller’s Companion, già pronto» fa Antonio ridendo. «L’editore Girodias lo si conosce, ha soci a Milano: è un furetto!».
«Scriviamolo. Lo chiamiamo Big Jim come uno che conoscevo al pub irlandese di Pimlico, e un fine letterato dell’“Observer” ripeteva: “È così che chiamavano anche Leopardi in casa per scherzo”... E ci mettiamo dentro anche la storia dei paracadutisti francesi obbligati dai sottufficiali a entrare in due per volta nelle mutande lunghe della marina americana; e poi c’è sempre la scuola russa che addestra i campioni di tennis per ricattare i diplomatici inglesi negli spogliatoi. Può venir fuori una chicca, di particolari ghiotti sulla storia dei parà ne abbiamo finché vogliamo: li ho trovati sulla “Humanité”, era molto indignata».
«Adorerei, anche se permane un certo imbarazzo nello scrivere parole come “glande” e “natiche”, però adesso ho cose diciamo più importanti» mi fa – a me! – molto sul serio. Apre una garzantina, e mi fa leggere: «i Baluba sono abili fabbri e artigiani, nonché esperti musicisti».
«Andiamo alla Spezia, dài!».
«Non ho tempo! Ho da lavorare!».
«Cosa te ne fai dei soldi, se non ti muovi?».
«Vado a San Francisco sotto Natale. Sto là un mese».
«A far cosa?».
«Il freelance, il self-made man, e il cupio dissolvi».
Che invidia! Che rabbia, mi fa!
«E prima di tornare via Texas mi fermo a New York una settimana, a farmi un po’ di mostre e Broadway e grandi magazzini sotto le feste!».
«Lo sai, come ci verrei!».
«Vieni! Ho dei buoni numeri! Le nostre amiche fini direbbero addirittura: tuyaux!».
«Ma se non mi lasciano! Fin là, non posso. A Roma, non lo san mica, sai, che sono venuto...».
«E dove credono che sei?».
«Al mare, con la mia fidanzata. Cannes, o giù di lì».
«Sempre la regina delle cravatte?».
«No, una principessa degli sci. Vuole che la sposi, ma assolutamente. È disposta a tutto. Anche a lasciarmi tenere uno chauffeur tipo Mitteleuropa con berrettino e stivali tutto per me. Ha cinque milioni di dote: che sono poi settecentocinquanta milioni vostri, di lire».
«Sposala, bestia».
«Uffa, adesso intanto devo dare questa laurea... Poi devo pur fare un po’ di pratica in Borsa: comincio a Zurigo col primo di settembre... E passa un anno, un anno e mezzo, intanto...».
«E lei ti aspetta?».
«No. Va in India. Quest’inverno, con la sua mamma, un lungo giro. M’ha detto di andare».
«Vacci a Natale. Eviti i regali qui».
«Non mi piacciono gli indiani».
«Forse i più alti vanno bene, l’ho sentito dire. Un po’ me li ricordo anch’io, quelli che sono venuti in Italia alla fine della guerra di Secessione. Ma ero talmente piccolo che mi facevano paura i turbanti e le barbe, quando mi fermavano».
«Sono troppo tristi. Quando mai, due risate?».
«In nessun paese al mondo i grassi hanno tanto successo come in India, te lo ripeto perché me l’hanno proprio assicurato, e pensavo a te. Vagoni e armadioni corteggiati come vere meraviglie da magrissimi filiformi, e intrattenuti in eleganti pasticcerie sul marciapiede, a Bombay e in altri centri; e tutto intorno, sdraiati per terra, gli affamati e i lebbrosi fra le pantegane che corrono, lunghe un metro».
«Chissà che poca fantasia erotica».
«Manuali colossali, anche per elefanti, con centinaia di posizioni!».
«La sora Cecia e il rag. Rossi possono anche fare migliaia di numeri, ma se manca quel certo nonsoché, meglio una vecchia pippa».
«Allora basta. Lasciami studiare per mezz’ora».
Per farmi star zitto, mi ricopre di sherry dolce e secco e medium, porto, pernod, formaggi, vecchi titbits inglesi. Mi fa una rabbia. Arriva una cartolina di Jean-Claude da Gubbio. Mi pare un posto tremendo.
«Perché non vai un po’ fuori?» mi fa, quando non ne può più. «In vestaglia, grasso come sei, alle cinque del pomeriggio... Non stai mica bene, sai...».
Adesso mi fa venire i complessi, con questa storia. Devo ripeterglielo ancora una volta che bello o brutto quelli che voglio io non mi fanno lo sconto e non s’accontentano di quattro o sei mieli da breakfast come regalo?
«Va bene» gli faccio. La spada Notung colpirà. «Vado alla Spezia. C’è la flotta americana».
«Sarà già ripartita. È sempre appena ripartita. Ils vont revenir, quelle chance pour toi».
«Prendo la mia macchina e mi fermo un momentino al motel di Tarquinia».
È poi una storia che mi ha contato lui. Ma deve averla sentita da una qualche gran fantasiosa, posseduta in una tomba etrusca abusiva (pare) dai benzinai del turno di giorno, poi da quelli del turno di notte, e da loro ceduta ai camionisti che si fermano in cerca. Mito, mito.
«Vengo anch’io» mi fa. Lo sapevo. Cede, sempre.
«Andiamo stasera, allora?».
«Noooh, che non posso! Sabato notte, facciamo».
«I camion non vanno il sabato notte».
«Ma la marineria sta fuori fin tardi. Poi ho chiamato Spoleto. Non vien mai la comunicazione».
«È per Klaus?».
«Naturale. Non si è saputo più niente».
«Lascialo al suo romance. Poi avrà le prove».
«Voglio però anche fargli prenotare le stanze per noi, tra un romance e l’altro. Nella scelta dell’alloggio ha la mano felice, die glückliche Hand. Sempre molto fine».
«Ma ce n’hai per un pezzo?».
«Arriverà, l’ho chiesta mentre dormivi: urgente».
«No, dicevo con questo lavoro».
«Due, tre giorni. Quattro, non so: Isherwood non è un tema sbrigativo come certi credono... A meno che non scatti un corto circuito libidico, e la Berlino fantasma si scrive da sé. Poi si va subito a questa Spezia».
«La flotta americana sta lì fino a domenica, ho chiesto al mio losco Jupien. Poi van via, non aspettano te».
«Non importa. Vengo lì solo per fare un giro».
Che rabbia, mi fa. Sempre la posa di venire solo per accompagnare me, perché, maledetto, lo sa fin troppo che se non ho qualcuno insieme non mi diverto niente. E ne approfitta, infatti: «Se no, se non hai lì qualcuno che vede e che commenta, con chi ne parli, dopo? Magari non ti credono. Va’, va’ pure, da solo...».
Quante botte, gli darei. E non ha memoria. O l’ha a chiazze. Se non ci fosse la mia come archivio di tutto quello che fa anche quando non ci sono, è incapace di ricordare anche the best: come esser vissuti per niente. Ma la pagherà in altri modi. «Non ti do i giornalini».
«Non mi hai detto che li avevi portati!». Salta subito in piedi.
Infatti, novità niente. L’hanno arrestato, quello che mi vendeva i “Physique Pictorial” a Milano. Ho dietro solo un po’ d’Ophelia Press raccattata proprio a Cannes. Ma continuando a petulare apre lui un reliquario d’elegante fattura e mi tira fuori un po’ di avanzi, dall’ultima volta a Londra.
Li porto via tutti, e filo nella vasca da bagno. Non mi vede più, sento solo che borbotta con accento napoletano: «la vera differenza tra erotismo e pornografia è che la seconda appartiene alla sfera dell’economia, della pratica, delle passioni, e lascio da parte altri desiderata che mi stanno in mente: rem tene, verba sequentur... mentre il primo è intuizione, intuizione pura! al di là della distinzione tra reale e irreale! e in questo senso (ma solo in questo senso!) metaforeggiato come sogno... “rêve” diceva il De Sanctis, come anche il Sigismondo Freud ed il Carlo Trenet...».
Arriva la telefonata di Klaus, c’è voluta un’ora da qui a Spoleto. Ma sperando che sia una marchetta, son io che la prendo, goccioloni e carponi. Kolportage!
«Lo sai cosa significa la felicità vera, elefante?». Ha una voce talmente netta e chiara che mi pare qui addosso. «Sciagurati, che non sapete e non volete sapere che cosa è l’amore vero! Elefante cieco! Ciechissimo! Tanto Wilhelm Meister per nulla! Me lo passi, per piacere, il tuo amico Antonio, che m’ha chiamato?».
Questo sta già ridendo. E io con l’orecchio attaccato al suo sulla cornetta sento ancora un po’ di Klaus che va avanti. Ma com’è possibile...
Gli grido un’esclamazione idiomatica, con delle “esse” molto ordinarie. Come si fa a non dirglielo? Ma lui finge di non sentire. «Lo sapete, due cetrioli che ignorate il grande amore vero, quante cose possono fare insieme due esseri che si intendono, e cosa mi sta facendo il mio amore in questo momento?».
Antonio si mette a farmi il solletico con le mani e coi piedi, dovrò metterne tre, di vestaglie. Non ci riesco a sopportarlo e lo sa, questo maledetto.
«Diglielo, Renato, cosa stiamo facendo in questo momento, con le finestre aperte, e le rondini, e musica di Webern che abbiamo qui in tutte le stanze... la sentite la Passacaglia, almeno? quel respiro forte?... Diglielo un po’ tu ai due di Roma...».
Si sente solo Renato che soffia e borbotta «finiscila, dài». Poi un sospiro o una tosse che dev’essere di Klaus, e il volume della Passacaglia che s’alza. Poi: «C’è qui anche Jean-Claude, a Spoleto. Lo sapevate, due stolti?».
Urliamo in due: «Con voi? Cosa gli fate?».
«Nooo! Due stoltissimi! Non immaginate cose! Non si trova con noi. È qui da due giorni. In-na-mo-ra-to!».
«E perché non scrive quell’asino? Non se ne sa niente».
«Una bellissima persona. Molto chic. E donna molto simpatica, anche» dice Klaus. Lo si sente ammirato. «Siamo tutti molto felici. C’è un’aura magica in questo posto».
«Non venite a Roma una sera?».
«Perché non venite su voi? L’aura buona è qui».
«In principio di settimana, è probabile. A che punto sono le tue prove, Klaus?».
«Carissimo ragazzo, fra tre o quattro giorni si può vedere già qualche cosa. Diceva Richard Strauss che deve sudare il pubblico e non il direttore, ma qui è il contrario! Vieni? Sarete ospiti in casa nostra!».
«Hai preso uno dei palazzi in città?».
«Un monastero, fuori. Un grazioso monasterino».
Si sente la voce di Renato: «Deeelizioso!».
«Renato dice che vi saluta» aggiunge Klaus. Parlano un momento fra loro. Sento Renato: «Belloccio a chi? Belloccio non si dice». E poi Klaus: «Allora scendiamo a Roma sabato».
«E le tue simpatiche mondanità?». Lo chiedo a Antonio.
«Una venerdì e una appunto sabato col maestro. Te lo dico addirittura, così puoi mangiare dove vuoi, in quelle due sere. Io sarò a pranzo con delle creature assai fini».
Così, mentre loro due sono insieme a questo pranzo tanto chic, a me rimane addosso Renato, che non ha macchina, e non ne può più dalla voglia di andare in giro senza Klaus. Per tutta, tutta la sera. Sono sicuro che questo mi vuole, subito ci si accorge che mi include nel progetto. Ma se fa tanto d’allungare un ditino, lo butto giù. Grazioso, molto; a modo suo anche giusto. Ma di quel genere presuntuoso-esaltato che siccome avrà fatto un po’ di scuole quando si passa davanti a un palazzo è capace di chiedere se è Cinquecento o Seicento buttando indietro la testa tipo ebbrezza in spider.
Sempre esageratamente espressivo, facendo di tutto per piacere a tutti, anche ai camerieri e ai tavoli vicini, con queste sue fotografie in slip insieme a due o tre Moniche sparse come distrattamente sulla tovaglia. Sotto sotto, però, abbastanza borghese e ragioniere nei giudizi. Convinto anche d’essere molto meglio di quello che è. E invece non deve saper bene quello che vuole.
«Ma si può sapere com’è che ti piacciono a Roma?» mi fa quasi subito, fumando in fretta e frullando i capelli, appena si comincia a andare in giro e io subito gli faccio capire che con me non deve mettersi in mente nulla di nulla.
Così, raccontiamola anche a questo, al ristorante Margana, la vecchia storia degli anni di guerra passati sentendo i bombardamenti di là dal confine, con la leggenda di questa povera Italia dove stavano tutti così male e noi non si poteva entrare, sempre in mezzo a squallide divise svizzere, le meno wow al mondo, e l’elefantessa mamma che dice «però qui a noi non manca niente, soltanto il mare». Quando avevo pochi anni, l’Italia per me erano le facce dei marinai sui vecchi bandi d’arruolamento nella sala d’aspetto del Consolato, o il tipico “culo fascista” così sfacciato, nelle fotografie delle statue al Foro Mussolini. Con quei cinturoni strani su e giù e fin dentro le cosce: che Italia audace, a modo suo. Che reggipalle aggressivi. E poi in guerra, però, picchiati da tutti, mortificati, battuti anche dai greci...
«Ma in collegio non te ne facevi di italiani?» mi domanda questo.
«Naturale. Non se n’è salvato uno. Ma troppo uguali tutti: l’occhione, i bei dentini, le ciglia stupende, e la drittaggine finta; troppi tabù; tutte quelle paure... E sempre giocare a carte, vantandosi, e porco qui e porco là, con le madonne e i crocifissi al collo: non ho pazienza. “Au bidet, au bidet” direbbero i Classici. L’Italia vera, invece, me la immaginavo come un grosso casino a portata di mano e irraggiungibile, dove una volta dentro il giovanotto si può sfogare a far tutto con chi vuole. L’hanno sempre raccontato i viaggiatori! Le famiglie offrivano il loro meglio, cioè le bambine, al signor forestiero. Ma c’è turista e turista, nella storia del paese! Chi la contessa, chi il barcaiolo...
«La prima volta che siamo venuti giù al mare, avevo dodici o tredici anni, ma per poco non muoio d’infarto. M’andava già su la pressione, fin da allora, per le emozioni veneree e della pelle. Il primo bersagliere con le penne me lo son fatto alla stazione di Genova, subito, in un corridoio, scappando via dalla mia mamma con una scusa. Ma ero già alto come adesso. Che batticuore, pensa che sciocchino ero, quando gli ho messo in mano un cinquecento lire... Sai, di quelle lunghe che usavano allora, alleate. Pensa che mi domandavo: le vorrà o no?».
«Le ha pigliate?».
«Scherziamo? Si è lasciato far tutto».
Ma si vede che la divisa non lo anima, perché sta zitto, che disastro di boyfriend. Ci voleva proprio un tedesco in America per prenderlo sul serio. Intanto gradisce, e qui già manca il primo requisito dell’italiano, che in un primo tempo deve subire anche un po’ furibondo, guai se dimostra un minimo di savoir-faire e non gli fa neanche un po’ male: dove va a parare, sennò, l’estremo oltraggio per il maschio latino. Semmai può incominciare a diventare amico solo dopo col suo sorriso largo che vien fuori adagio nel musone imbronciato. Ma proprio quando gliene si son fatte, come direbbe mia nonna, «di cotte e anche di crude».
Questo qui, invece, rasenta continuamente il peggio: genere ambasciatrice sorridente, in cerca di popolarità. Smorfioso-affettuoso, di quelli capaci di gentilezze, di tenerezze: le piccole attenzioni; e magari il bacino. Lì cascano. Ma neanche con un dito.
E come sabato di calda primavera questo poi sta riuscendo una gran delusione. Giriamo per niente, anche in Piazza Navona. Sempre le solite facce romane uguali, stessi pantaloni bianchi e tagli di capelli standard, stesso modo di fare, in serie come supplì. Sora mia, che palle. Al Colosseo, a Castel Sant’Angelo, a Valle Giulia, al Pincio, alla Piramide, luoghi mirabili, ed è vero che non bastano tre notti per farli tutti, però solo un paio di concetti in tutto, e neanche dieci parole per esprimerli: a’ morè, taccittùa, anvééédi, checciài nna sigarééétta, le piotte, i sacchi, vieqquà, mavaffangùùùlo... E si dovrebbe venire fin qui apposta? Per provare emozioni? Culturali e magari anche carnali? Ma io mi addormento in piedi! Perché non stanno un po’ zitti? Perché devono sempre ripetere le loro stronzate? Ciò-da-fà, e-che-ne-sò, sé-po-sa-pé... come giapponesi. E ahò, ahò, ahò, ahò, ahò...
Però, poi, tornando un momento indietro a prendere un golf per questo noioso che ha freddo, troviamo sul portone di strada uno molto grazioso che chiama e mi chiede se sono io l’elefante.
«Me l’ha detto Antonio di stare attento alla targa svizzera,» fa «e son qui che aspetto da più di un’ora: non si può andar su volendo?».
Si chiama Vittorio, e lo facciamo trovare agli altri che salta sui letti in maglione bianco e calzettoni bianchi e basta, già avvinazzato e sfacciato. E il mio berretto da sci in testa che m’ha regalato mia nonna, col pomponcino da Papà Natale giovane in slip.
«Ecco, se si prende la casa a St. Moritz ci mettiamo tutti così» propongo a Antonio. Viene un migliaio di franchi per la stagione, me la dà mia cugina, neanche centocinquantamila lire, con otto letti e piena di camini, appena fuori verso Pontresina. «Ne portiamo su quattro o cinque, con l’intesa che lassù fra le Montagne Incantate del Nietzsche tutti fan tutto davanti a tutti: caratteristica usanza dell’Engadina. Neanche una chiave nella casa, neanche al cesso. Nascondiamo subito i calzoni a tutti quanti appena si arriva, e anche i biglietti di ritorno... con dei bei fuochi accesi in ogni stanza. Li assicuriamo comunque subito contro gli infortuni, tutti: costa pochissimo da noi, si fa la polizza contro le cadute da sci, e si fa da mangiare in casa. Il suo pot-au-feu, salsicce e patate bollite, che possono star lì al caldo anche tutta la giornata, non come la vostra pasta che diventa cattiva subito: se no spendiamo troppo, se cominciano a voler l’aperitivo al Chesa Veglia. Quello ce lo prendiamo noi».
«Not in front of the children» dice Antonio a bassa voce. E va avanti in inglese, non tanto disinvolto. «Ci scappano via subito a St. Moritz. Rapiti nel Suvretta e abbagliati col room service. Diciamo piuttosto Andermatt oppure Hospenthal, quei posti lì dove non c’è niente fuori. Tu ci staresti, Klaus, a prendere un maniero insieme st’inverno? Due metri di neve. Le strade bloccate. Non scappano. Si leggerà finalmente Umano, troppo umano... Aurora... Ci si eserciterà nella forma aforistica après-ski...».
«Un giorno piangerete!» fa Klaus, freddo, indignato. «E tu elefante ti sei già rovinato generalmente, a furia di leggere quei sozzi giornaletti».
«Macché sozzi... deliziosissimi...» gli dico. «Al posto dei Fratelli Grimm, di Wilhelm Hauff, me li han cominciati a dare, i turpi vegliardi che mi tiravano giù i calzoncini: Raperonzolo Raperonzolo, tira fuori il tuo codinzolo... Ero peggio di Pinocchio, mi si allungava il naso per niente! Tutti muscoli moderni, cowboys sotto la doccia, mercati di schiavi in Brasile, motociclette, palestre, prigioni, Legione Straniera... Non quei soliti schiavi romani dei film per bambini con le scene della tortura del cristiano brutto e già vecchio, che dice “non sanno quel che si fanno” mentre lo sanno benissimo, davanti a Pompeo o Crasso che addentano il grappolo dal di sotto col tipico ghigno alla Charles Laughton!».
«Buonanotte» fa improvvisamente Klaus. «Ci vediamo fra tre giorni». E se ne va davvero, tira Renato proprio giù per le scale. Noi facciamo un’ora di tutto un po’ con questo Vittorio che è molto simpatico e ride parecchio. Antonio butta negli armadi l’abito scuro che aveva a questo pranzo fine, ci mettiamo corduroys e magliette e le borse con tutto son già lì pronte. Vittorio ce le vuol portare giù alla macchina. Prendiamo la mia, così guido. Gli ho regalato un accendino piuttosto bello, e lui mi ama tantissimo. «Tutti ingiuliettati» fa, accarezzando le macchine. «Ma sono le tre e mezza, ragazzi!» fa di scatto.
«Dormiamo a Tarquinia, fra un’ora» gli spiega Antonio. «La prossima volta ci vado con te. T’immagini domani com’è piena l’Aurelia, di domenica?... Ci si porta avanti, non ci si ferma all’Argentario!». E s’addormenta, mentre sto sancora avviando il motore.
Vittorio ci grida dietro «telefonatemi! son sempre in casa!» per un pezzo. A Tarquinia, proprio niente. Il motel è pieno, e il posto tranquillissimo. Lo sapevo che eran palle.
«Com’era sto pranzo?».
«Molto ben fatto. Più di trenta, e i tavolini intorno alla piscina. A Porta San Sebastiano, un po’ fascista come architettura, però bella villa facoltosa, e cosy a modo suo dentro. Guttuso, Corpora, porcellane, commodes. E signore della scena. Falk, Valli, Proclemer, Albertazzi, De Lullo... Gran signorilità, gran birignao e gorgheggi. Anche qualche serva di scena e di scema. Mai avuta in Italia una oxtail soup così buona, tu che dici tanto. Sono di Bologna, loro: con una casa raffinatissima anche là, e sempre otto camerieri – tutti alti – fissi».
Ma non c’è posto da nessuna parte, comincia la stagione. Si arriva all’Argentario mentre sorge il sole. Ma anche lì tutto pieno.
Per così poco, eccoci a Grosseto in un attimo. In un alberghetto balordo da periferia, un po’ casino, scende una enorme bionda a bigodini, piena di sonno. «Ho una stanza sola,» fa «ma scusatemi... non ho più matrimoniali». Le ridiamo in faccia, e si dorme fino all’una.
LA SPEZIA
Domenica, adesso. «Diman (cioè oggi, baby!) tristezza e noia, recheran l’ore, vero?»... «Glielo vada a dire a un operaio della Fiat, contessa!»... «Relax, baby, relax... Sennò lo sai che ti fa più male»... «Le dolenti mie parole estreme? Ah, rendetemi la speme, soprattutto on the road!».
È un giorno chiaro, sereno, e l’idea sarebbe di fare un bel bagno verso Calafuria, e mangiare dei meravigliosi pesci alla griglia. Poi parlando di tante vecchie faccende un po’ rocambolesche e un po’ picaresche senza accorgercene si sta già attraversando Livorno deserta a una velocità da multe.
Però questo gran riflesso biondo lo si vede tutt’e due insieme in fondo a una vietta laterale; e Antonio che guida fa una curva pericolosa talmente esagerata che lascia senza fiato perfino me. Ci si ferma con della gran polvere a mezzo metro da questo qui che avevamo visto, chiedendogli se va a fare il bagno. Naturale, che ci va. Ci sta andando con due suoi amici, che ha lì insieme. Uno biondo come lui, che da solo sarebbe splendido ma vicino a questo un po’ sbiadisce. L’altro, il solito mostrino scimmiotto che tutti gli splendidi hanno sempre dietro anche nei film americani e che parla e balla per tutti, non si è mai capito perché.
Lui disinvoltissimo, ci viene subito insieme, anche se di certo sembriamo due insensati milanesi, chiedendo freneticamente di fare il bagno e d’andare a mangiare subito, subito, che si muore di fame. Ci porta infatti in un bellissimo stabilimento con la piscina, e un ristorante interno dove ordiniamo subito un enorme cacciucco, e si può mangiare in costume. È conosciuto, nel locale. E lo si poteva giurare che ha fatto il marinaio e ha finito da poche settimane, insieme all’altro biondo. Tutt’e due a casa a far niente. E molto contenti di sé: ma come hanno ragione. Chissà che storie hanno dietro.
Arrivano gli altri a piedi fieri e orgogliosi e naturalmente beviamo tanto, con sigari e sigarini mai visti da queste parti. Poi dato che il mostrino si agita un po’ troppo, i due grossi facendo tutta una scena di gorilla spiritosi lo pigliano in mezzo, e uno per la testa l’altro per i piedi lo buttano vestito in piscina, senza dire una parola. Poi, pulendosi le mani, fanno a noi «su, andiamo in cabina adesso»: sono di quei marinai estroversi che vogliono stare a far le cose tutti insieme; e non hanno mai smesso di ridere fra loro dandosi delle gran gomitate, qualunque numero si stesse facendo.
Si sono presi i loro soldi, senza neanche guardare quant’era, e dicendo un grazie gentile ma non premuroso né eccessivo, giusto come quando ci si fa accendere una sigaretta e non è il caso di sbilanciarsi per così poco. Sono stati poi lì a vederci mangiare, per essere sicuri che tutto andasse bene. Loro avevano già mangiato, maledizione. Partendo ci fanno vedere un posto dove possiamo trovarli ancora in qualunque momento, dicono: un negozietto con dei gradini che scendono, e sopra la porta la scritta «Vino».
Alla diletta Spezia, invece, American Museum of National Horror. E non è la prima volta. L’altr’anno ci si era arrivati anche allora di domenica, ma da Firenze; e possono venire the uglies entrando d’estate in una città di mare dove si fanno le elezioni locali e non lo si sa: e si vede in giro tutta un’aria stralunata e strana, poca gente, e neanche una divisa bianca per strada, tutti consegnati. Pare la peste in un brutto film simbolico.
... Ma in queste città di mare ancora anni Trenta con tanto bianco nella luce mediterranea gli occhi accesi e l’anima partita nell’aria leggera scendono le terrazze verdi e i portici in abiti chiari... verso gli Eldoradi laggiù ancorati in rada: la corvetta Libeccio e il caccia Grecale, la vedetta Scirocco e il mas Maestrale, magari la torpediniera Tramontana e la fregata San Giorgio, aperitivi e sigarette e branzini e bistecche e amore tra farandole di uniformi bianche, zig-zag di berretti, marine e riviere d’allegre siluranti e motocannoniere e dragamine e maiali da sbarco...
... E dopo le ali rosse dei fanali i vari portieri e le Sofonisbe dei vicoli marini telefonano di sopra per tutta la notte «ne ho qui tre dell’Arsenale, li mando su insieme?»... o «se apre lo spioncino, stanno salendo con due donne al 43»... E moyennant un maggior compenso, ma anche promettendo di non muoversi e tener sotto controllo la manina curiosa, invece d’uno sguardo dallo spioncino straniante si poteva migliorar la vista sedendo e mirando nella stanza scopereccia même, purché immobili e mimetizzati in un angolo sotto una mantiglia nera lunga (ma con buona visuale attraverso i trafori) da regina spagnola in visita al Papa.
Non una divisa bianca per strada, quell’altra volta; né innumeri dal mare i bianchi sogni dei mattini... Non un torreggiare bianco nell’aria, chimere nei cieli di Dino Campana, bianchi arabeschi nell’ombra illanguidita dei palazzi marini... Altro che la poesia dei porti e degli scali, del vento tra i fanali. Altro che la brutta metafora della peste... peggio che St. Moritz in febbraio senza neve.
Stavolta la città è invasa da un raduno di vespisti. Da ogni strada ne sbucano squadre di venti o trenta, tutti in casco e tuta, di colore diverso a seconda della città e del club. Bianchi, verdi, celesti, giallini, o addirittura rossi come formazioni di diavolini, spesso grossi, con cinturone d’elastico nero alto due spanne che li taglia in due, e scritto sulla schiena «Vespa Club» e poi Campiglia o Volterra o Ravenna o Cesena o Cecina. Tante squadre con ancora un distintivo in più, tipo una coda di tasso alla Davy Crockett attaccata dietro il casco; e tanti col bambino piccolo sul sedile dietro, anche lui col suo piccolo casco, la sua piccola tuta, il cinturone, il Davy Crockett. Da tutte le parti ne vengono fuori, cose da fotografie per “Il Mondo”, rubriche di “Italia minore”.
Ma la flotta americana stringe anche di più il nostro buon cuore. Li abbiamo seguiti per tutta la sera, quegli zombies che non sanno dove andare, non san cosa vogliono, e a domandargli qualunque cosa eventually non hanno le risposte. Dopo un po’ li riconoscevamo, i diversi gruppi, ritrovandoli da un posto all’altro. Nessuno ride. Non parlano, non sono capaci, neanche fra loro. Curvi, tetramente, sulle loro birre; e poi, in un momento, andati, perduti, inebetiti, interdetti, via. Nessuno ha peccato. Tre accompagnavano delle povere puttane disperate e stupite fino alla loro pensione, cortesemente e col loro barcollìo senza parlare come si vede nei vecchi film di Hollywood con tutti i colorini a posto e la ragazza con la sua verginità, rispettata, e se la tiene. E loro stesse poverette confermano che con l’americano si conclude poco o mai. Sarà allora un compenso o scompenso emotivo, l’altra faccia di quei film in bianco e nero dove i piccoli martiri di cento chili vengono puniti dai sergenti bestiali come veri uomini?
Altro che da piangere, viene, a vedere come si è ridotta in pochi anni una razza ancora così bella e così ben fatta! Come devono fare a non perderle, le guerre, questi fagotti gonfi e tremolanti e tutti con gli occhiali – non hanno lo sguardo! – quando pare che abbiano paura di tutto, di tutti, e magari di se stessi per primi come nella psicologia per le serve... C’è da spaventarsi, tutte le volte che premono un bottone sulla portaerei...
Sarà la colpa dell’età della televisione? Di già? Ci ha messo così poco? Ma dove saranno andati a finire tutti quei ciuffi sveglissimi sotto il berrettino alla Frank Sinatra, beata navalità del boogie-woogie?... e poi si ritrovavano identici sia nei musicals sia nei giornalini, legati con tutte quelle corde nautiche sui muscoli spalmati d’olio?... On the Town... Ma dove?
«Non te l’ho mai raccontato» fa Antonio mentre stiamo bevendo in un tristo posto, altro non c’è, del triste cedro. «Ho dormito in una caserma della marina, a New Haven».
«Non me l’hai mai detto. Non ci credo. Sarà stato un Ymca».
«Buoni, quelli!... Miti, miti moderni anche lì... Vecchi con delle gran barbe bianche che ti vengono dietro appena t’azzardi a entrare in una doccia!... Nel profondo Midwest, altra musica, ma in quelli délabrés di New York non si può neanche passare da un piano all’altro perché ci sono i lucchetti: se càpiti in un piano di vegliardi è finita! Pensionati residenti... No, non te l’ho mai detto per non farti soffrire, ma è vero. Sento che non te lo posso più nascondere. Due anni fa potevo ben passare per un soldatino come loro. Capelli tagliati uguali, dai loro stessi barbieri. Gli stessi pantaloni chiari e maglietta da estate (in libera uscita, si mettono in borghese). Mi sono preso una borsina blu, come la loro, d’ordinanza, che fra l’altro mi serviva per tenerci i dischi. Con dentro una salvietta e un sapone; e mi sono presentato una sera verso le undici alla caserma».
«Ma gli italiani non riluttavano dal fare il soldato?».
«Avevo studiato il movimento la sera prima. Più della metà arrivano lì ubriachi a testa bassa. Molto rincoglioniti e confusionali, senza una parola. Altro che “Hi Brad, hi Ted”. Il piantone senza chieder niente fa scattare una serratura elettrica, con un bottone. S’apre un cancello di ferro là in fondo, e ci son le scale subito dopo. Ma il cancello si può aprire dal di dentro con le mani. Questo per uscire poi. C’è un rampino. Quindi sono arrivato lì a testa bassa anch’io, bofonchiando adagio senza farmi capire, e m’hanno aperto».
«E tu?».
«Dentro in tutte le docce, subito. Niente».
«Ma ce n’erano?».
«Certo, era tardi, era pieno. Ma tranquilli. Addormentati, proprio. Dopo tanti insaponamenti per niente l’unico che s’è fatto avanti è stato un’annosa maràntega, orrendissima, sergente. Ci vuol altro... Tante volte basta un’espressione come “sergente dei marines”, che suona così bene, vero?... e tu t’immagini chissà cosa... Ma dovevi vedere quella stanza».
«Ma no, Antonio! Sei andato dentro?».
«Solo per vedere... Tanto, ormai, ero lì: serata persa... E lo so che avresti sofferto, nel tuo romanticismo così cantonale... Ma dovevo liberarmi da questo peso con una impietosa e sfacciata confessione, voi che stando qui immersi nella sfrenatezza immaginate chissà quale dream sequence nell’erotico immaginario...».
«Ha dovuto soggiacere alle tue voglie irriferibili, lo sventurato? È stato costretto a venire a patti con un’altra parte di se stesso che credeva di aver soppresso per sempre dopo quella peccaminosa infanzia rurale? Non sarà più rinomato per la sua strettezza in tutta l’East Coast? È venuta giù tutta la caserma per la rumorosità e lo scandalo?».
«Fotografie di pin-up su tutti i muri, tradite da sessanta centrini e tovagliette di pizzo in giro... di plastica... La televisione in un angolo del soffitto, per guardarla dal lettino... Piante finte... Ha acceso un paio di candeline da torta... Altro che piangere su Montezuma, and the shores of Tripoli... Son scappato da qui all’eternità... tà-tà... tà-tà-tà-tà...».
Troviamo verso il tardi un marinaio piccolo ma ben fatto del West Virginia, biondo, bellino, muto. Ma non provocante o succulento da appendere al soffitto del garage per una farandola di elettrauto in salopette. Non con la risposta pronta: neanche la risposta tout court. Piuttosto, il tipico marinaretto delle foto di genere che succhia il biberon in divisa estiva nel lettino da bambino pieno d’orsacchiotti e con le reti intorno, mentre lì davanti sulla pelle di zebra il suo amico in slip e bandanna di leopardo con la divisa invernale buttata per terra si avvolge il pitone vivo inforno al collo. Genere Alan Ladd ma saranno ottanta chili di beef-cake, ho provato a reggerlo anche se non collabora; stomaco piatto, duro, a “washboard”, cioè asse da lavare; e denti tutti a posto, gli ho sentito i molari col dito e lì m’è parso riconoscente, m’ha tirato due o tre poppate. Mi sono accorto subito come in fondo ha ragione, nel suo torto, Antonio.
Lui, si sa, scioccamente ha questa mania di prenderli un po’ in giro per ridere, fa degli scherzi inutili, prende un accento di Oxford caricato, con dei gorgogli da violoncello che loro non possono capire: puro Edith Evans, nei dischi di The Importance of Being Earnest... Ma se è per questo, neanche le marchette italiane capiscono gli scherzi, quando pretende di far lo spiritoso... E lo prendono tante volte per matto o fuori posto.
Questo qui è proprio terrorizzato, però. Trema, non guarda in faccia. Eppure è ben piazzato, come nelle foto dei construction workers col casco. Gli si legge chiara negli occhi la decisione che deve aver preso di far subito qualche cosa di irrimediabile, che dovrà tormentarlo per sempre.
«Come on, let’s go» fa a testa bassa. Gli va giù la voce, di colpo, ma si sforza di dire «I’m ready for everything» lo stesso.
«Ma guarda che non sei mica obbligato se non ti va, sai?» mi sforzo di spiegargli, cordialmente e con calma. «Se ti va vieni, se no sta’ lì. Se una cosa non piace e non diverte, è così semplice: non la si fa».
«No, ho deciso. Andiamo». Sempre senza guardare in faccia. E trema in maniera quasi dolorosa, quasi; non è di quelli che incominciano a discutere e promettere. È chiaro: vorrebbe che facesse tutto l’inconscio senza parlare né muoversi, come se fosse un sogno o un incubo, per poi «O my God, ieri sera ero così ubriaco che non mi ricordo assolutamente cosa ho fatto». Che corrisponde al «lo faccio solo per i soldi» dell’alibi italiano corrispondente: siamo militari, non ciabbiamo ’na lira, per quelli lì mille o duemila lire son niente, per noi significano aver da fumare o no e andare al cinema o no, l’essenziale è non divertirsi troppo mentre ci si sta “sciupando”: la cosiddetta dépense. Anche se alla nostra età per non sciuparsi come si fa: psicofarmaci?
Ma questo qui sta male proprio per il fatto che dicendo la cosa spaventosa ad alta voce, in quel momento diventa vera e la devi ammettere a te stesso. Come i ticinesi che non nominano mai il diavolo per paura di chiamarlo lì.
«Cosa si fa, Antonio? Lo prendiamo su?».
«Chi l’ha voluto? Te lo tieni adesso. Si sa come sono gli americani, ormai. E con le roman ladies fanno lo stesso. In politica estera, anche. È una nazione in crisi...».
Mentre si esce dalla città, ancora una volta m’avverte in italiano di non tentare di mettergli in mano dei soldi, come faccio istintivamente io, né prima né dopo. Neanche quei braccialettini d’oro da poliziotto che mi porto sempre dietro per farli contenti? No, neanche, non ci si pensi. Ma ormai lo so che questa faccenda dei soldi li sconvolge. Uno a Copenhagen rimane sbalordito e per poco non si mette a piangere, con degli «oh, nooo!» singhiozzati che mi spezzavano il cuore. Un altro a Rotterdam tira fuori addirittura il coltello, furibondo, perché aveva dato tutto se stesso gratis.
Cinque minuti dopo, in un bosco, West Virginia chiude gli occhi come se volesse assopirsi; e li tiene chiusi, stretti, lasciando cadere il berrettino bianco; ma lo tiene fermo con una mano per non perderlo. Comincia a lamentarsi forte. Stringe gli occhi e spalanca la bocca. Morsica il plaid, poi ci scivola giù fra le gambe. Trema, ha i brividi, lo prenderà come una prova di iniziazione, «a rite of passage»? Mi piglia forte per un braccio, poi s’aggrappa a tutt’e due insieme, che non ci muoviamo e gli teniamo giù la testa, un po’ di qui e un po’ di là, senza poter fare a meno di dirgli «va’ adagio!» come coi bambini ingordi, «easy, easy», soffocando dal ridere; scomodi poi come siamo, tutt’e due seduti davanti con sempre qualche braccio in più che non si sa dove sbattere, e il cambio in mezzo alle gambe. «Con uno di questi, quanti ne verrebbero fuori di taglia small per Pier Paolo? Tre, quattro, cinque, sei?»... «Sei una bestia, non sei mai stato visitato da Madonna Poesia, meriteresti anche tu di sospirare a un guardarobiere carino “la notte non dormo pensando a te”, come è capitato a un ministro che conosco, e di sentirti rispondere, aiutandoti col paltò, “pensi all’Itaglia, eccellensa, pensi all’Itaglia piuttosto”...». «Ma scusa, Antonio, e tu? Col tuo buon cuore e il buon gusto se ti mettono lì dieci paraculetti romani, cosa dici? che meraviglia?».
Questo però non ride niente. È bravissimo, ma si ferma a tratti facendo dei «Jeeeeesusssss!» stupendi. Gli do qualche colpo con la mano a taglio sul collo per fargli fare anche gli «O my Goddddd!», è la loro preghierina di ringraziamento per quando lo prendono, Agony & Ecstasy.
«La finisci?» mi fa Antonio, che è già stufo.
Uffa. «Ma io non glielo sento mai fare live, il loro “Jesus!”, lo vedo solo nei fumetti tremendi. Per una volta, lasciamelo: è lì che non chiede altro! Un po’ di soddisfazione anche per loro, come direbbero le buone signore».
«Ma non hai ancora capito che ha visto in faccia The Horror, e The Horror sei tu! Leggi Heart of Darkness, bestia!».
«Mi basta Da qui all’eternità, dove più li picchiano, più Oscar prendono; e non mi piace invece quando li ammazzano, perché mi sembra un peccato». Ma quando poi tornando indietro per tirarlo su un po’ gli domando, come nei film più scemi delle sue parti, «happy now?», West Virginia ha un gemito così straziante che Antonio dietro le sue spalle mi fa dei gran segni se son matto, e mi soffia all’orecchio in italiano: «Non dir niente, in questo momento vogliono morire! Lascia che si riprenda da solo. Se mai, facciamo una cosa di consolazione più tardi, abbietta, tipo bicchiere di latte caldo e poi un commiato dei più maschili». Raccoglie il berretto, glielo rimette sul crapino biondo.
Ma per chi mi prende? Ma se ci passava addirittura il pugno, come nelle storie della Legione Straniera. Va bene, non parlo più. Non voglio che magari questo mi stia male dentro la MG nuova. E nel Golfo dei Poeti, poi. Guido io fino al posto d’imbarco. Neanche fumare, vuole. E quando siamo lì, Antonio, semplice e cordiale come non l’ho mai sentito, tutto finto, gli offre da bere, sigarette, regali, amicizia. Gli parla bene degli Stati Uniti. Niente. West Virginia, do not disturb? Vedo che fa fatica a tirar fuori la voce per un «good luck» da rispondere al nostro «take care of yourself», e scappa verso la sua barca, piena di little monsters di massa. «Con tutti gli splendori italiani che c’erano in giro inutilizzati... nevvero?».
Dormiamo in un Jolly. Facciamo dei bagni insaponandoci dentro e fuori con dei “Santa Maria Novella” alla verbena e al fieno, lungo la strada facciamo anche il quarto d’ora dell’intenditore elegante («Illazioni su Danae») circa la Pioggia d’Oro in Cinque Secoli di Pittura Veneziana, e anche nella vita veneziana ordinaria di adesso, e siamo a Spoleto per l’ora di pranzo.
SPOLETO
Sarà alta come noi, sul metro e settantotto. Forse neanche. Ma la figura sembra più allungata, vedendola venire avanti ondeggiando, come un po’ sbandando coi capelli, di fianco. Sottile, un’allure quasi favolosa, certo non realistica, fasciata d’abiti stretti e leggeri, rosa e verdi come il papier-peint nella camera dell’elefante. Con una straordinaria faccia che emana luce, e gli occhi più splendenti che abbia mai visto in qualunque primo piano al cinema. Gambe e dietro perfetti, modernissimi, del più puro “Harper’s Bazaar” e “Vogue”. Ma naso orgogliosamente non ritoccato, da medaglia.
Le sue espressioni vedo che sono due, principalmente. Ironica, sardonica, da «la so lunga, andiamo, si è visto ben altro, venire a raccontar questo proprio a me!». E finta-innocente, tipo «ma davvero? questo può dunque accadere? ma chi avrebbe mai potuto supporre ciò?», coi grandi occhioni luccicanti che si dilatano fra immense ciglia, vere, come inverosimili anemoni di mare. E magari un dash d’alterigia appena dissimulata... «Son chi sono!... Perciò lascio la voiture in sosta vietata... e porto chi voglio al bal dell’ambasciata!». Non c’è dubbio che sia in questo momento una delle più belle al mondo. La più splendida che abbia finora visto io, certo. Molto meglio che nelle fotografie sulle riviste; lì, col collo fermo, un po’ cigno obbligato, viene soprattutto fuori un giuoco di zigomi tra luci e ombre drammatiche, non la mobilità continua dei sarcasmi interrogativi negli occhi. E appena una piccola parte di questo “legendary” modo di fare che ha: citazioni, auto-citazioni? richiami, rimandi, come tra virgolette che ammiccano, segnalano, lampeggiano... si spengono...
Testa avanti, camminando. Questi occhi immensi a tratti guardano dal basso al cielo, stupendi, come un po’ spaventati o stupiti, allungati con matite di due colori o tre. Posa un po’ a zingara Sackville-West, mi sa, stasera, con una parrucca a ciocche chiare e scure, molto mossa. Due anelloni villani alle orecchie, tante collane. Vetro? Vetraccio? Gli zigomi fiammeggianti bucano le guance e le fanno un velo d’ombra sul crespo delle rughine sottilissime inceronate. Ma dev’essere un mood solo d’oggi, lunedì, che deve probabilmente andare con le occhiaie lievemente segnate, con qualche lieve rigonfio sopra il labbro come se avesse preso delle botte poco fa. Una voce incredibile: bassa, opaca, esitante agli inizi, con pentimenti allusivi sulle sillabe, prima di sfrenarsi in una ricchezza aspra di suoni di testa, non da cantante... da strano uccello... Come se non riuscisse a trattenerli dentro di sé... e le gambe magre servissero solo per una spinta leggera al volo...
Fabulous, fabulous, come direbbero quelle riviste; e non solo di portamento. Di tutto. Di voltarsi, di trasalire, di sguardi. Si dirà tràlice o tralìce? L’ho qui seduta due file avanti, a una prova d’orchestra con Klaus. E praticamente le tengo gli occhi addosso per tutto il tempo. È con un gruppo molto straniero: tre o quattro americani e francesi, una coppia di donne con veli bianchi e argento e testine da idolo. Amici di Menotti (mecenati? pique-assiette?), o forse di qualche altro qui. E Jean-Claude vicino che pare fosforescente, tutto addosso a lei, con certi occhi spalancati come quelli finti delle volpi nei manicotti del Trenta. Inquietissimo. Non riesce a star fermo. Parlano piano, fra loro, e pianissimo anche durante gli intervalli. Ma la risata di lei, alta, altissima, infantile, da uccello, un po’ molto neurotica, niente bel canto, scoppia come irresistibile anche durante la prova. Ogni pochi minuti, quasi a intervalli uguali, una volta a destra, una a sinistra, pendolare, con la testa buttata solo un po’ indietro. I capelli che si scompigliano e ricadono...
Antonio s’avvicina a parlare, perché lo chiama qualcuno di loro. Ma non Jean-Claude, non capisce più niente. Lì al bar lei vuol mangiare una pizza, un tortino orribile. Lo addenta come se fosse buono, agitando un polso pieno di braccialetti, affamata; lo lascia subito lì. Con le altre dita cosa fa... nel caffè... Si scotta e non se ne accorge?... Antonio poi mi spiega che le due dame sono telefoni dei più bianchi, mentre uno di questi in blu a righine e baffetti diplomatici è un belga antiquario e décorateur, sempre abbronzato in Brasile, con una collezione dei più bei Braque in Provenza e una madre almeno Rohan-Chabot, d’origine italiana, e anche un fratello musicologo primitivo che lega le vittime in una camera nera a Grottaferrata. Forse intimo (si consultano) di Lady Balmoral, che è segretamente o parzialmente belga? Fautore del notorio Monsignor Quarenghi di Ajaccio, si sostiene... I’ll walk alone, ho visto un fazzolettino trasparente affacciarsi da un polsino pulitissimo e liso. Il magico mondo della black room, siamo qui per questo. Ma bisogna che ci sia dentro qualcuno un po’ swinging, la nappa Pierre Cardin non basta. Altrimenti, meglio Down Mexico Way con tre ananas in testa e un codino da papero.
Vanno via insieme, prima che sia finita la prova. Klaus critica l’acustica, e sta facendo spostare crotali e cimbali. Jean-Claude ha addirittura perso il barlume e il lume, Antonio mi fa: «Ti presento la prossima volta».
«Proposer à des obèses de se lever le matin, c’est leur percer le cœur, lo sai pure. È Brillat-Savarin che lo dice. E tu cosa continui a tormentarmi col pretesto che son grasso? Lasciami a letto, a Roma è grasso che piace, si sa».
«Sono le dodici. Risponde qui il Sainte-Beuve: que m’importe, pourvu qu’on fasse quelque chose le matin, et qu’on soit quelque part le soir. Ieri sera fin troppi, vero, di dégoûtants hommages e di jouissances isolées. Alzati, adesso, dài. Come farai, quando sei a Zurigo st’inverno?». E prende una cintura, e la agita a vroom vroom, questo stolto.
«Allons» mi fa. «Du courage... Vous allez maintenant souffrir très cruellement... L’acte sera scandaleux et long...».
Ci vuol altro. Almeno ci fosse uno scélérat vero, se vogliamo metterci sul Donatien-Alphonse-François a tutti i costi alle undici della mattina... Di quelli che provvedono tutto loro, criminelles caresses et perfides horreurs, senza bisogno di muoversi né di star lì a spiegare. Ma se non c’è qui almeno un Cœur-de-Fer di Justine, les choses sales et crapuleuses non mi va di lasciarmele fare da nessuno prima del caffè.
«Ti potremmo fare les attouchements les plus impudiques» propone. «Preparez-vous, petit fripon, il faut souffrir».
Lo sa che lo patisco, il solletico. Sono obbligato a buttarmi giù dal letto, barrendo. «Povero elefante, che soffre» mi ghigna dietro fino in stanza da bagno. Continua a puntarmi le spazzole di metallo nella pelle, come a quei santi che guardano in su. Lo bagno tutto, con un getto della doccia. «Épisode toujours nécéssaire au complément de la volupté» urla, cascando sulle sue ciniglie blu tutte cinte di bambù. In certi collegi molto educativi sarebbe già finita con un clistere di punizione e cento piegamenti davanti a tutti. Torna con dei jellies freddissimi – «courage and cruelty!» – spruzzandomeli addosso da un tubone. «Non macchia!».
«On perd toujours la moitié du plaisir avec ces sottes attentions» gli faccio osservare. «Regaliamolo a Klaus, in un elegante pacchetto». A un altro, avrei già detto: bevi la tua acqua, Maria.
Ma lui no. «Garde-m’en quelques-unes pour l’instant de la crise!» mi urla in faccia, improvvisamente.
Così gli chiudo in faccia la porta a chiave, per farmi il mio bagno di schiuma. Klaus poi ha fatto preparare delle marmellatine deliziose dal cameriere. Ma non è contento di questo cameriere. Vuol venire giù a Roma al più presto a prenderne un altro.
È furibondo. Ci assale, a momenti: «Si può sapere quand’è che fate un po’ di lavoro, per piacere?».
Io non ne ho da fare, sono in vacanza, cosa pretende?
«Finiscila, Klaus, su...» gli fa Antonio. «Non sei mica il nostro papà... Lo sai che tante volte lavoro di sera».
«Tantissimo. Fin troppo» gli faccio io, odiosamente.
«Fate delle cose orribili...» borbotta Klaus. Ma non risponde a me. Mi stupisco di vederlo con vere lacrime agli occhi, addirittura.
Si avvicina a Antonio.
«Lo sai quanto bene ti voglio» dice, precipitoso. E io credo di saperlo, come si sono conosciuti, una gran bella sera, in abiti sfolgoranti, su una scalinata galeotta, facendosi passare l’uno e l’altro per una marchetta di sogno. E – ambedue – probabilmente cascandoci. (Anche se Oscar lo sa, ma no’l dirà). «Sei uno dei pochi pochissimi amici che ho davvero, mai chiedi niente. Ma come faccio ad avere io per te un po’ di stima, se ti vedo perderti dietro delle sciocchezze?».
Antonio beve il suo tè. Lo so di quante cose si sta pentendo in questo momento.
«Quand’è che incomincerai a fare un libro serio... Hai quasi trent’anni, no?... Come m’hai promesso l’anno scorso, invece di tutti questi sciocchi articoli?... Scusami, lo so che in realtà sono bellissimi e vanno benissimo... Dico sciocchi perché sono di sicuro indegni del talento che dovresti tirar fuori, alla tua età, l’hai capito?».
«Klaus, senti...». (Fra l’altro, è più alto lui).
«Senti tu. Quando...».
«Sono gli ultimi. Promised. Devo finire due o tre cose che ho ancora in mente... Proprio per me solo. Per completare un’esperienza già di parecchi anni, esaurirla, e concluderla definitivamente. Così non lascio fuori niente di quello che volevo; e del resto non è né la prima né la seconda volta che chiudo un ciclo e ne apro uno tutto nuovo: appena sta diventando routine; e allora scappo. Adesso con le cose che succedono mi pare un buon momento soprattutto per la saggistica; e questi articoli sono tutti “materiali per”... Ma poi lo comincio subito sto libro, te lo prometto. Ce l’ho già tutto in testa, compresa la fine, e ti assicuro che non è un solito modo di dire. Ci ho pensato per parecchi anni, e in un certo senso se sono qui è anche per questo. Devo solo proprio mettermi lì molto tranquillo e non fare nient’altro».
«Ma la macchina fantastica è già in moto? Tutti gli impulsi compositivi convergono proprio lì? Sei sicuro? Sta’ attento!».
«Potrei cominciare a scriverlo da qualunque punto, tanto l’ho in mente, come dev’essere, tutto lo schema, momento per momento. Magari incominciando i capitoli dall’ultimo e andando indietro, potrei, riempiendo i buchi: qui un pellegrinaggio a un culto sconosciuto, qui un rito funebre tutto basato su un understatement laico...».
«Ma non è serio, finché stai facendo quattro o cinque cose tutte insieme».
«Qui a Spoleto, cosa credi, dovrò pur fare un po’ di recensioni degli spettacoli. Me le hanno già chieste in parecchi, e oltre tutto mi diverte: ci verrei lo stesso... Mi dànno anche dei soldi, sai? Poi, guarda, comincio subito. Mi bastano pochissimi sopraluoghi ancora. Devo anche chiarirmi se un hommage alle strutture del moderno è ancora un’operazione d’avanguardia o se è già un addio del passato prossimo... Mimesi o repêchage? Dammi tempo... anche tu...».
E invece io, per venirgli dietro in tutti questi posti, come l’anno scorso in Grecia, devo spendermeli tutti dei miei, i soldi. Che rabbia! Gli do un pugno, e sono sicuro che gli ho fatto male. Si capisce che vuol prendermi in bocca la mano, magari me la morsica. Allora gliela tiro via e mi rimetto a mangiare la mia marmellata.
«Hai detto la stessa cosa a New York» gli fa Klaus. «Ti ricordi? Un anno fa? Seduti all’Algonquin? Quando abbiamo lasciato poca mancia perché ti sei confuso coi credit cards, e io mi vergogno ancora adesso, perché avrei dovuto avvertirti?... Quando ti ripetevo le raccomandazioni di Novalis sul pericolo di riscrivere ogni volta il Candide?».
«Il Candide di Bernstein si sta riscrivendo parecchio, no? Essendo già una riscrittura del Rake’s Progress?... Ma dovevo farle prima, ste esperienze... Anche per non comprare come Lucien de Rubempré l’abito da società nel primo negozio che mi pare chic.... Quindi, andare in giro... Esaurire certi giri, che non ho potuto fare a suo tempo, per non parlarne più... E poi, ho avuto bisogno di soldi, cosa credi... in un paese misero, con tutte le mezze-calze contro... Per che cosa, tu, del resto, te ne stavi a Long Island a preparare i balletti sui Sette Samurai, invece di finire i Pezzi per Orchestra che t’aveva chiesto Radio Colonia?... Ti avrà poi fatto un gran bene, tutta quella televisione?... E allora perché non ti è piaciuta l’idea di quella Salomè e i Sette Nani, e ognuno le porta via un velo che corrisponde a un Peccato Capitale in un giorno della settimana? E poi quando aprono la cisterna magari non ci trovano San Giovanni Battista ma San Giuseppe, il vecchio falegname che era lì per riparare i coperchi, come nella Giara di Pirandello, e rimangono tutti gabbati come quando il Conte non trova Cherubino nel boudoir della Contessa... Ma a parte i soldi, si ha sempre bisogno di consolidare delle situazioni civili e non servili, riprendere il controllo del proprio tempo... Adesso sì, forse, posso un pochino di più».
«E cosa aspetti?» gli chiediamo.
«La fine dell’estate. Ne ho un tale bisogno, d’andar via un po’ da Roma... Facciamo ancora questo giro... Se ci dànno tutti i visti...».
«Se passate da Berlino...» fa Klaus.
«Certo! Ma ci andiamo, di’, poi, Antonio?».
«Naturale, che ci andiamo! Cara consuetudine!».
«Non perdete l’occasione di passare per la nuova Opera di Stato, sulla Bismarckstrasse. L’ultima volta che sei venuto non era ancora pronta».
«Figurati se non ci andrà!» gli faccio. «E io lì fuori, con tre marchette, alle dieci e mezza!».
«Ecco, lì il sovrintendente è un mio amico. Andate da lui direttamente. Fatevi dare i biglietti per la Donna senz’ombra, sono difficilissimi da trovare. Sentila almeno due volte, una non ti basta. Rappresenteranno presto una mia opera nuova, anche. È probabile».
«Ne hai già cominciata un’altra, Klaus? Ma come hai fatto, durante gli altri lavori?».
«Sono già avanti. È tratta dalla Pentesilea di Kleist, ma questa è commissionata dall’Opera di Amburgo. Sto scrivendo appunto il finale del primo atto».
«Chi te l’ha fatto il libretto?».
(Questo ormai è un vecchio scherzo. Ai primi pranzi per illustri artisti da festival, Antonio si faceva presentare come noto gigolo. E poi a tavola, piombandoli nelle ambasce davanti a tutti: ti traduco io il libretto! faccio anche la coreografia, ti dirigo l’orchestra benissimo!).
«Io, me lo sono messo a posto. Tagliando un po’ qui e un po’ là, ma pochissimo. Con l’aiuto di un mio amico di Monaco che non è neanche un letterato. È un testo talmente incredibile! Tutto quello che faceva Kleist, gli riusciva selvaggio, sfrenato, molto al di là delle intenzioni. Mi alzo alle sette, cosa credete? Lavoro già da parecchie ore, quando venite giù voi!».
Entra Renato in vestaglia di spugna gialla, sbadigliando. Giallo anche un po’ di faccia. Gli dà una specie di bacio, senza dir niente, sui capelli. Si fa portare del miele dal cameriere. «Va meglio?» gli chiede Klaus. «Macché... ancora un mal di testa... non so cos’ho...» risponde Renato; alza tre dita allargate dietro le sue spalle e me le fa vedere con insistenza, chiudendo tutt’e due gli occhi, con un labbrone gonfio in fuori, e in giù.
«È difficile questo finale» continua Klaus con Antonio «perché pensa a un “Guerra! Guerra!” della Norma già al primo atto e non alla fine dell’opera! Con una immensa differenza, per di più. Norma è una statua di Canova che si è comportata come una cameriera con un trasteverino senza spina dorsale e bugiardissimo... un gelataio che cerca di arrangiarsi qua e là facendo il furbo o facendo lo scemo, e di riportare a casa la pelle col minimo sforzo... l’italiano all’estero col pettinino in tasca, che mette incinta la padrona del garage e poi dice “ahò”... sempre imbronciato perché in Gallia non si trovano le fettuccine bbone come quelle che gli fa la sua mammona a casa...
«La Pentesilea sembra invece uscire delirante di violenza trionfale da quei rilievi giganteschi di Alcione... pieni di meravigliose sevizie coi muscoli, divincolamenti mai visti... ma è come se Kleist li avesse visti!... Si trovano a Berlino Est, nel Museo di Pergamo... sotto un gran fregio d’oro franante, d’aquile di bronzo aggrappate... ai frontoni crollanti, nei partenoni bombardati... in onore di Federico Guglielmo III... il re di Fichte... marito della regina Luisa... morta sul serio di dolore quando la Prussia è stata sconfitta da Napoleone... Cose veramente da Kleist, da Pentesilea...
«Potrebbe essere un motivo a cui Wagner si è affacciato, ma ne è rimasto abbagliato... Gli ha fatto paura: il combattimento nel bosco di notte, con le diverse modificazioni interiori del nemico sottomesso... la fierezza dell’abiezione, come rovescio della sconfitta dell’orgoglio... O forse è già un tema wagneriano rimosso: l’apprendista eroe che nella foresta addormentata, cieca, muta, lotta contro un avversario sconosciuto per costringerlo con l’istinto a prestazioni innominabili che lo faranno sentire vinto due, tre volte... e appagato nell’oscurità fino in fondo all’anima...».
«E se poi il cerbiatto si accorge che la foresta era lì sveglia?».
«Nessuna soavità, nella foresta di Kleist; né flashbacks su conflitti d’interessi per la volontà di potenza industriale... alla mercé di qualunque regista materialista che vestirà due o tre bassi da banchieri, e le Walkirie da tassiste, però non spiega perché Wotan dovrebbe occuparsi d’assicurazioni o d’automobili, e non invece di problemi più grossi come la divisione fra le due Germanie... Pentesilea, invece, non può diventare una signora borghese con le volpi, e nemmeno un’ideologa rivoluzionaria in tailleur!... Piomba come un’aquila selvaggia sopra questo cigno pre-Lohengrin... cioè poi Achille, il disponibile Pelide... che in fondo è un uffizialetto prussiano in calzoni bianchi... pronto a tirarseli su e giù tutte le volte che glielo ordina il suo capitano... ah, l’ubbidienza militare... Non ha mai guardato una donna greca (lo dice lui a Diomede)... E ha un po’ di kleistite anche lui, come il Prinz Friedrich von Homburg: sai che si dorme parecchio, in Kleist, con dormiveglia fantastici, pieni di sorprese...».
«Più che in Calderón?».
«Nella notte e nel sogno del romanticismo demoniaco, non solo vanno in giro immaginario e inconscio, in compagnia del Sublime e dell’Orrido... Avvengono fior di fatti – si vincono battaglie, si rimane incinte – più tardi recuperati in una veglia priva di eventi altrettanto autentici: la Marquise von O. è la migliore smentita a quello stolto proverbio per cui chi dorme non piglia pesci... Ho dormito? Ho sognato? Quale sopore! Ahi, dormiglione! Oh, sonnolenta!...».
«Sta’ attento: si potrebbe anche fare un cartoon di ghiri e marmotte con le musiche della Bella Addormentata...».
«... Mentre la Pentesilea, si capisce, è la condottiera delle Amazzoni barbare-sanguinarie, decadenti-isteriche... Per niente creature di femminilità non disgiunta da signorilità, come le credeva Goethe: macché sportive, corrette, pre-psicanalisi e pre-Elektra di Hofmannsthal... Per Kleist, appaiono come l’epitome della smania forsennata, il climax dello scatenamento frenetico... Passano furiosamente dal sonnambulismo al cannibalismo, e viceversa: sempre smisurate e “assolute”... E terrorizzano sia i Greci sia i Troiani, e sia gli Apollinei sia i Dionisiaci, con la loro tragicità spaventosa e grandiosa, profondamente brandeburgica in Asia Minore...
«Piombano addosso all’armata greca che è al decimo anno dell’assedio di Troia: e in quell’accampamento, se lo chiede anche Omero, come sarà andata?... Lezioni di strategia, letture di Herder, anticipazioni del Faust II?... Chironi, Tritoni, Forcidi?... Capelli lunghi o corti?... Elmi e fucili, lance e stivali e braghette... sere magari galeotte... tenenti che suonano il piano, qualche parrucca... influenze asiatiche... E poi, questi tamburi barbari che suonano minacciosi nella notte... Chi irromperà?... Delle arciere in gonnellini cortissimi tipo stadio di Norimberga?... Delle megere in pelliccia sintetica e stivali col tacco?...».
«Condottiera in sedia a rotelle e tiara di strass sul turbantino di maglia, spero» gli fa Antonio, molto compunto: abbiamo visto gli stessi musei! «E chi tratterrà Zarah Leander?». Ma ho già capito come verrà, speriamo. Chiappe inceronate, e sospensori di cuoio nero. Neanche Luchino Visconti avrà tirato giù le mutande a tanti tedeschi in una botta sola.
«... Perché sapete come fanno le Amazzoni di Kleist per continuare la razza? Una volta all’anno dichiarano guerra a un popolo “casto e forte”, e rapiscono gli uomini per far dei figli con loro...».
«Ma come fanno a eccitarli, spaventandoli? Tremeranno terrorizzati, all’idea di doverle scopare, per continuare secondo l’uso la stirpe amazzonica?» interroga Antonio. «Guarda quante fatiche, la povera Dalila, nell’opera di Saint-Saëns, per farglielo venir su a Sansone. Va bene che è corpulento, e coi magri si fa prima. Però “Mon cœur s’ouvre à ta voix” va avanti e va avanti e va avanti, come se ci fosse da tirar su quelle impalcature degli obelischi. Vedi Piranesi. Siamo tutti gaddiani, in questo: ci preoccupiamo degli aspetti tecnici, le tubature, le strutture portanti, i canali, lo scorrimento dei fluidi negli edifici».
«E se Sansone fosse stato uno di quei turpi che si eccitano solo rasando i peli alle donne, cosa poteva diventare quel secondo atto!».
«E se Oloferne fosse un perverso o un casto e non un conformista, allora, addio tanta pittura?».
«Con Eugenio di Savoia non l’avrebbero fatta franca, quelle là. E con Umberto?».
«Kleist non si addentra. Comunque, poi, le amazzoni buttano i bambini maschi, tengono le femmine, e poi si ricomincia».
«Li buttano con l’acqua del bagno?».
«La vie des abeilles riscritta da Goebbels?».
«Quand’ero paggio, e alle Biennali-Musica» fa Antonio «sentivo di tutto facendo gli avanti-e-indietro tra l’Hotel Saturnia e la Fenice a tutte le ore, ci fu una serata con musiche d’Alfredo Casella, e Giorgio Vigolo appunto osservava, con la sua bella voce rotonda: è un apiario, un apiario, potrebbe servire come colonna sonora a un documentario, udite il ronzio dell’ape regina di Maeterlinck, ed ecco le operaie disciplinate...».
«E se fosse una Vita di Vespe?».
«Le vespe hanno solo un vitino, baby. E poi più».
«Diciamo cantata da Flagstadt, alla preda attaccata!... Ma intanto, come guerra è abbastanza straordinaria... Perché ad ogni momento vincitori e vinti si scambiano le parti. Arriva sempre un drappello che capovolge la situazione. Baci alla terra, ordini e umiliazioni, prigionieri in jeans bianchi a torso nudo dentro una rete che li trascina, drappi neri che calano facendo notte... E sai che durante la battaglia un’amazzone non può battere uno che le piace, e tenerselo? Deve prendere il primo che le càpita sotto, anche se è un rospo, come in quei cinema dove non si può scegliere e devi sederti nel primo posto libero perché la maschera non ti lascia cambiare».
«Ma anche in Algeria, scusate. Mettevano in due file i galeotti deportati e le meretrici pentite, e li facevano sposare numero per numero; ed è così che incominciano i pieds-noirs».
«La Pentesilea, infatti, che nella notte di un Inconscio non cieco del tutto è voluta andar dietro Achille facendo tutta una premeditazione preromantica, si sente colpevole di tradimento per tutto il tempo, e soffre, ma come soffre...».
«Mai però come la povera Ifigenia di Goethe, alle prese col re Toante – il satiro dei parcheggi, il mandrillo delle sale d’aspetto! – mentre i Nostri Due Eroi si struggono prigionieri in un’avventurosa tomba micenea: Oreste e Pilade... Passi rimbombanti che si avvicinano: chi sarà?... Riusciranno a passare per quella porta fatale senza cascare in trappola?... Ehi, tu, come ti permetti di baciare la mia ragazza?... E i due amici, sfiniti, si addormentarono sotto un fico mormorante... Ma cosa conterrà quella cassa?... Occhio a quei due!... Siamo perduti!... Chi vi ha mandati?... Queen Spandex?... King Fragilion?... No way! No way!... Let’s get out of here!... Look at that!... It’s Oreeestes!!!»... Questo sarà già un numero prossimo per un cabaret letterario d’Antonio al Teatro della Cometa?
«La Grecia Selvaggia e la Prussia Fantasma!... Männerjagd in Magdeburger Dschungel!... Ah, scusate: vorrebbe dire caccia all’uomo nella giungla del Magdeburg... Che parossismo di passività prende Achille e Pentesilea dopo aver fatto dei giuochi di forza, spiace dirlo, da palestra di SS nei film di sfruttamento dei bassi istinti... Altro che Weimar! Giù! Giù! Fino in fondo!... Tutt’e due!».
«Già la nostalgie de la boue? senza neanche aspettare la fin-de-siècle?».
«Sai piuttosto come si esprime lei, nelle antiche versioni italiane? “Ebben, ch’ei venga! Voglio che mi calchi, sovra la nuca il suo ferrato piede! Bene mi sta, non vo’ che si discernano, mai più dal fango di che son plasmate, queste mie guance! All’asse del suo carro, per gli stinchi ei colleghi il corpo mio, fiorente e muto, e lo trascini in corsa; e lo scagli di poi, sfranto, alle glebe, pasto di cani e di voraci uccelli! Preferisco tornar tra polve polvere, che conservar questa feminea specie, per cui son muti di un amante i sensi!”.
«Con dentro delle contraddizioni spaventose, quindi, ma stupende. Pergamo non scherza. Non per niente a Goethe piace pochissimo, un’amazzone così poco mite, e diceva a Kleist che è tutta un’irruzione dell’elemento barbarico nel concetto classico della bellezza. Ma ove c’è irruzione, si sa, ivi naturalmente si gode. E arcaico più decadente pare proprio “the grooviest!”, come direbbe la solita Elektra di Hofmannsthal... Senti un po’ Achille, poi: “A chi quei dardi scoccherete, Vergini? Contro il mio petto, che si oppone a voi, senza difesa alcuna? Che bramate? Ch’io mi strappi di dosso pur la serica, maglia che mi ricopre, e ai vostri sguardi, sveli, pulsante qui tra costa e costa, il mio cuor mansueto?”...
«Che calar di mutandina Éminence dei più squisiti... no?... E sentite i greci, visti dalle Amazzoni: “... Ancor più facile, su questi campi, è mieter prigionieri, che non cogliere rose. Attorno affóltasi, per ogni balza messe rigogliosa, di prodi Elleni, che non altro attende, se non la falce della mietitrice”. Notare: affóltasi! Le Amazzoni, invece, viste dalla parte dei greci: “Già scesa è in campo. Ma le stan d’attorno, mute di cani, branchi d’elefanti, stormi selvaggi di cavalcatrici... Terrore incute l’orrido corteo...”. E Diomede: “Fuggiam! Fuggiamo!”».
«Ma anche qui a Spoleto c’è sempre quella mecenatessa con quel profilo, che chiamavate la Mietitrice o la Falciatrice, no?».
«Se è quella che intendo io, si chiama la Nasa, anche perché scruta con un binocolo nelle finestre degli alberghi».
«Non è frequente che il carattere tedesco» ripiglia Klaus «riesca a diventare spettacolo con tanta furia, se non in guerra. Tutto smisurato: lo spavento, l’odio, l’amore, la volontà di morte. Altro che suoni la tromba intrepido. Asprezza, durezza, antagonismo, violenza; e da parte di donne. Basta l’orrore della sconfitta per trasformare la passione dell’assoluto in una ferocia da belva. Altro che la Medea! Pentesilea rovescia a terra le guerriere, sradica alberi, scaglia macigni, come l’Eracle Furente! E Achille, giù, accucciato, sotto un cespuglio, tremante, supplice, agnellino buono da sgranocchiare, batuffolo. Si assopisce trasognato, si risveglia trasalendo... Molto Kleist!
«Il racconto della morte di lui è un pezzo impressionante. Fa la stessa fine della Lulu di Wedekind, e in un’opera può andar bene... In un teatro d’opera italiano, no!... Lei scatenata prima gli tira una freccia dopo l’altra tutte nella gola, poi a quattro zampe in mezzo alla muta dei cani urlanti gli strappa l’armatura a morsi, e lo sbrana, lo divora. Ma anche passato il furore, non si esce dall’Assoluto. Niente Scena della Pazzia: coloratura, fioritura, orgasmo del fantasma... Lei abbaia a quattro zampe. E per tanto tempo non riesce a parlare. Poi fa una doccia e si sente meglio.
«Viene un lungo momento apparentemente apollineo: c’era d’altronde stata una festa delle rose abbastanza incongrua, forse utilizzabile come ammicco ad altri “poter essere”: spiriti beati, acque del Lete. Campi Elisi dismessi con poltroncine dorate e specchiere appannate che riflettono ritratti di Hohenzollern come nell’auletta della Scuola di Guerra désaffectée... Ma ecco questo vortice di petali di rose intorno a stagni narcissici scuri del profondo che rispecchiano loro due a cavallo come in uno zoom televisivo...».
Questo mi piace. «Con capelli lunghi su destrieri bianchi? O con taglio alto su puledri neri? Elmo a coda di cavallo, e pantaloni bianchi strettissimi sul cavallo?».
«Pulsione equina? Feticismo militare con motto disciplinare “Zucht & Ordnung”? Paesaggi letali di un’Ellade fredda completa di mari cupi e colonne rotte e luci da spot? Campagne livide e nordiche? Cadaveri criminali sotto luci sconvolgenti, con mani irrigidite che stringono ancora cuori palpitanti, o inflessibili giuochi d’acqua muscolari in torrenti invernali?».
«Volta a volta in parrucca e polpe, e slip... Forse occhiali neri a farfalla sulle pupille sbarrate da Medusa manierista... Ma poi l’iride gigantesca dell’occhio unico da Ciclope si volta in dentro come un laser verde fra siepi non di ciglia ma di peli di vagina... Un raccapriccio a zig-zag da Géricault fino a Khnopff, mentre la bocca insanguinata, rimasta sola dilatandosi sulla testa appena sbranata, si dichiara costernata per il fatale abbaglio fra le diverse cose che si possono fare con la bocca stessa: baci e morsi. Lo dice Kleist: Bisse und Küsse, Küsse und Bisse...».
«Siamo al Kunsthistorisches Museum di Vienna, a notte fonda. Sale e sale di teste tagliate, posate per terra come angurie: Golia, Oloferne, Jokanaan... È appena arrivato Beckett. Susanna dopo il bagno si asciuga coi capelli di Sansone e Maddalena. Caravaggio vorrebbe dire la sua... Fermi tutti! Arriva Artemiiisia! Un bell’applauso per la nostra Artemisia, che ha qualcosa da raccontarci stasera!».
«Sventurata!... Soccorreeetela!... Sono le altre amazzoni: fuggi! fuggi!...».
«Come le ancelle del Bel Canto? Un gelo mi serpeggia! M’ange il seno! Trema ogni fibra! C’è qui Elvira che si aggira!».
«Macché! Pentesilea è tellurica! “Scendo come un minatore nel profondo del mio cuore! a scavarvi un’orrida frenesia suicida, come un rozzo blocco di metallo gelido. Lo tempro in una lama d’acciaio forbita al fuoco del dolore. Lo avveleno con la droga del rimorso. Lo arroto, affilato come un pugnale... E mi trafiggo il nudo petto così... ferocemente, così, così...”. Pare la spada di un Sigfrido. Invece lei muore di colpo, senza toccarsi, come una Isotta».
«La fusione di Sigfrido è la scoperta delle possibilità della “spada”, da parte di un bambinaccio cresciuto in fretta. Ma qui, che tipo di eros c’è, nel linguaggio?».
«Wagner è un genio nell’uso dei doppi sensi che non ci sono sui vocabolari. Intanto, per la spada, adopera parecchie metafore proletarie per l’arnese maschile, in tedesco sono numerosissime: la mazza, la clava, la stanga, il randello, il pistone, lo stantuffo».
«E quelle grida esuberanti di “Hoho Hoho”, non sono l’intuizione pura di un genio pre-psicanalitico? Neanche nell’entusiasmo crescente il ragazzo vuol farla finita in fretta, con le sorprese della spada; e dunque si prende il suo tempo, con le pause necessarie per non arrivar subito. Ma certo, il pre-orgasmo si sente, è molto giovane».
Mi sembrano dei bambini, nati ieri. «Ma scusate! Voi non andate mai alla partita e non li sentite: sono gli “Hoho Hoho!” anche dei tifosi. E i “Blase! Blase!” che lui grida alla fiamma sono né più né meno come i “Suck that dick!” degli americani. È quello che dice qualunque giovane tedesco fra il lusco e il brusco, se si trova lì davanti uno a quattro zampe nella posizione del cane. Certo, però, se nel parco di notte s’avvicina un vecchio orrendo Mime, tirano calci come un cavallo che non vuol lasciarsi toccare! Wagner lo sa!».
«La fiamma ha lingue, infatti: questo lo spiega bene. Mica solo stride, la vampa: lo vada a dire alla povera Azucena, brav’uomo. La fiamma è bella, invece: “Schwitze, schweisse!” le fa Sigfrido mentre lavora quella che chiama la spada: “Suda tu, che sudo anch’io! Solida! Rigida! Ti levi sprizzando! (Sprizzando...). Ti piace leccare il caldo, tu così fredda!”. E in versi più brevi di Metastasio!».
«Lo si è sempre saputo che Wagner va a fondo. Sono gli Archetipi».
«E il risultato? Non per niente l’effetto di tutto quel blasen è che il pistone diventa incandescente. Ma la strana cosa è che qui l’ingenuo bambinone, viso innocente e calzoncini indecenti, lo chiama “il rossore delle pudende”. Dice proprio Scham, vergogna. Ma allora il senso della vergogna sarebbe più innato di quello della paura, che lui non prova perché è cresciuto isolato?».
«Lo sapete che peli sono i Schamhaare?».
«C’è da arrossire anche noi, dottore. Se si pensa che quando è contento perché lo stantuffo si fa duro, dice proprio steif come tutti i giovinastri spontanei...».
«E a questo punto non ha ancora avuto la lezione di lingua dall’Uccellin del bosco!».
«E allora, quanti linguaggi musicali adoperi stavolta?».
«Capirai, con tutto il mio antico amore per la vocalità e per Rossini, qui il vostro melodramma italiano non può riuscirmi utile in niente. E neppure tutti i messaggi di massima semplicità salvifica tipo “lasciatevi condurre dal piccolo bambino primordiale per la salvezza dell’umanità”, con decine di apparecchi costosissimi in metà dei palchi, centinaia di tasti sulla console dei comandi, chilometri di fili e cavi in tutto il vecchio teatro barocco, al servizio dello zufolo preadamitico registrato sull’atollo e sviluppato da una troupe di tecnici...
«Ho adottato un’orchestra abbastanza insolita. Piccola. Da camera, a momenti. Ma non da happening. Possibile in un buon teatro anche senza impianti speciali, e senza il carisma personale dello Sciamano, lì, live, senza il quale non si fa l’esecuzione (e quando non ci sarà più?)... Forse anche mica male in disco, indipendentemente dalla messinscena... Quelle che erano un tempo le spezie, mi diventano la pièce de résistance. Arpa, chitarra, celesta, sax contralto, fagotto, controfagotto, corno inglese... tante percussioni... ma sì, anche giavanesi... timpani, woodblocks, marimbafono, vibrafono, Glockenspiel, koto, bongos... tam-tam, tom-tom, tamburi disposti in scala cromatica... campane di preghiera buddhista... anche se fra poco saranno più frequentate dell’Attica arcaica e dionisiaca per superare il cul-de-sac immanente nell’Opera su commissione... per inaugurazione, celebrazione, centenari d’avanguardia...
«Tanto più, cercando di risolvere oggi, proprio oggi, le contraddizioni fra l’autosufficienza della struttura musicale e l’autenticità dell’espressione drammatica dopo la morte apparente dell’Arte... L’eco di un gamelan englouti... ma senza niente di Boulez... niente préludes à l’après-midi d’un métallophone... E niente neanche di Messiaen, per favore... Soprattutto, non così naïf nell’affrontare l’immensità con l’immensità, e non con la concentrazione... L’infinito con l’infinito, vi dice niente?... Messiaen propone un trionfo del metodo empirico, entro i limiti di quei suoi sconfinati mondi che in italiano come farete mai a rendere, con tutta quella beatitudine dipendente da tanti uccelli?... Ma io mi sento ancora più aperto nelle diverse direzioni: verso la musica incompiuta del passato remoto oltre che quella virtuale del decennio prossimo... Cosa ne percepirà allora l’ascoltatore?... E comunque, quando avverto in una musica tante insistenze sulla purificazione e la beatitudine, ci sento soprattutto qualche affanno dopo l’imbarazzo d’essere stati colti, chissà quando e perché e da chi, in fallo... Lo dice anche Benjamin Britten».
«Ma non ti diverti con le onde Martenot in Turangalila? Questo dialogo appassionato d’una professoressa francese col suo elettrodomestico preferito, un po’ vecchiotto, ma coinvolgendo Cielo e Terra mentre gli massaggia le manopole?».
«Veniamo al dunque. Stavolta è soprattutto una questione di colore strumentale, di timbro... Dev’essere ellenistica-barbara, la Pentesilea... Ma non da Wagner con lo scirocco d’Amalfi: non si va a trovare un’Erda Cumana con le arance... E il Bosco di Notte non è un Englischer Garten, con Viandanti che cercano il giovane apprendista da strada maestra visto l’ultima volta nelle fotografie di August Sander... però vanno a dormire presto perché all’alba sono già in ufficio... Pentesilea fa il bagno nell’Oder d’inverno... Senti un po’ Kleist sull’amatissima sorella: “Io onoro Ulrike in maniera affatto indescrivibile, ella reca nella sua anima tutto quanto è degno di considerazione e ammirazione; molto ella può dare, ma sul suo petto, come dice Goethe, non si trova riposo. È un’anima di eroe in donna, che del suo sesso ha solo i fianchi. Ma che errore ha commesso la Natura creando un essere che non è né uomo né donna, e quasi come un anfibio oscilla fra i due generi: sorprendente è in questa creatura il contrasto fra volontà e forza, senz’altro difetto che l’essere troppo grande per il proprio sesso”... A Berlino se ne vedono ancora parecchie: “Con freddezza risoluta affronta ogni pericolo, ma se appare un cane o un toro, trema in ogni membro”... Che cosa potrebbero diventare, in un “rumore-musica” ossessivo e coatto, con timpani, woodblocks, marimbafono, bongos, tam-tam, tamburi africani, campane buddhiste?... Anarchiche terroriste che tirano le bombe contro i cadetti biondi che si divertono fra di loro?... Carceriere che scendono ogni giorno nelle celle con gli occhialini tondi e le labbra strette e le valigette dei tormenti?... Questa Pentesilea mi sta tirando in tante direzioni...
«Penso a un ritmo sempre più disintegrato... Sonorità differenziate sempre più sottilmente... in un magma arcaico tellurico più che barbarico: non sono delle Clitennestre né delle Erodiadi, queste... Scale cromatiche con pedali minacciosi e improvvisi “sputters”, “clusters” bruitistici, “dong” anomali e preoccupanti che si ritraggono in accompagnamento e background per il coro parlato dei greci, ma scattano in un crescendo di fortezze volanti per l’approssimarsi delle Amazzoni... Almeno un paio di Mime, fra i greci...».
«E lei, una Rysanek dell’espressionismo?».
«Una Inge Borkh della Nuova Oggettività! Una Christel Goltz che si concentra nella fusione tra suono e significato mentre si slancia tra i riflettori senza disperdere energia... Ma adagio adagio nell’orbita delle percussioni si attira intanto l’arpa, si assorbe il pianoforte magmatico... poi si trascinano dentro chitarra e mandolino da Filemone e Bauci nel tifone elettronico... l’orologio a cucù del Rake’s Progress, abbassato... un po’ di campane di mezzanotte del Trovatore e di campanacci da Jodel nell’Alpensymphonie, demenziali, alle amfetamine... e benvenuta anche tu fra i nostri objets sonores prediletti, cara celesta del Rosenkavalier, preparata per il rock’n’roll nella fucina di Mime... senza tutto il resto dell’orchestra di Strauss, o della live music di Verdi... Nella mia orchestra, già piccola, più di metà degli strumenti sono a bacchette, racchette, martelletti agenti di implosioni asiatiche... Non si preoccupano di articolare un disegno musicale linguisticamente preciso... Non sarebbero neanche in grado... scappando via da ogni nesso linguistico proprio di proposito... per raggiungere, oltre una soglia perduta, proprio l’ambiguità assoluta della musica aperta... l’indeterminazione dell’informale... disponibile come ogni campo di possibilità moderno a infiniti significati diversi... Quantunque, pensa, il Verdi dell’Ernani e soprattutto del Macbeth, alle prese con un Disordine sconvolgente come la Macht und Kraft della Pentesilea...».
«Ma non riuscirà un po’ intonarumori, nei dischi e alla radio, quando non si vede come sono disposte le sorgenti sonore?».
«Si devono sentir subito, intanto, le due facce dell’espressionismo e dello Sturm und Drang. E poi, che cosa c’entra il vecchio bruiteur? Per queste percussioni? Stendhal continuava a lamentarsi per il rumore degli ottoni di Rossini... A te dànno fastidio? Li hai mai notati, poi?... Ogni epoca ha un orecchio particolare per il suono di certi strumenti. Un veneziano contemporaneo dei Gabrieli, con che fatica sarebbe arrivato a sentire che dopo tutto Rossini usa anche degli ottoni... E probabilmente – anzi, certo – Stendhal avrà sentito delle cattive esecuzioni... Negli anni buoni per la creazione non si guarda tanto per il sottile. Gli scrupoli filologici arrivano molto più tardi... Sono sicuro per esempio che non si è mai cantato bene come oggi, in passato... Lo si sa, ormai...
«Dovrò stare attento, piuttosto, a seguir meglio il consiglio di Stravinskij: bisogna esser tirchi con la musica! Sai come s’arrabbia quando gli ricordano adesso le sue prime cose? Gli pare tutta una svalorizzazione del suo lavoro recente. L’ho sentito io, a un party quest’inverno a New York, una brava donna gli diceva: “Ero presente alla première del Sacre du printemps, è stata la mia serata più indimenticabile!”. E lui, subito: “Beata lei! Anche a me sarebbe piaciuto tanto, ma non ero ancora nato!”... Però se non hai visto e sentito la sublime Schwarzkopf nel Rake’s Progress alla Fenice, che faceva Anne Truelove con una pellegrina grigia straziante... e la portentosa Jennie Tourel, barbuta, dalla portantina: “Who was that girl, my life?”... E lo sciagurato rinnega il primo amore... Sono snodi decisivi nella dissociazione della sensibilità moderna... Altro che discorrere se John Cage è l’innocenza americana alle prese con l’esperienza del Vecchio Mondo come in un libretto che Henry James poteva forse lasciarci...».
«Maledizione, l’età! A Venezia ci sono arrivato solo dall’Angelo di fuoco in poi. Appena dentro la Fenice, una tasca mi incappa in una maniglia: rovinato lo smoking».
«Lasciamo stare Prokofiev. Le monache indemoniate, un’altra volta» geme Klaus. Guarda l’orologio. «Ho la prova. Queste orchestre. Tanta armonia e niente contrappunto. Non stanno a sentire i cantanti, col pretesto che là sotto non arrivano le voci. Ma non stanno neanche a sentirsi fra di loro!».
Arrivano ancora delle uova. «Bisogna dar tempo di sentire tutte le note. Bisogna non perdere neanche tempo, non dar l’impressione della lentezza apparente: Knappertsbusch dirigeva con la mano sinistra appoggiata, ferma... Però neanche cascare nei preconcetti italiani del toscaninismo di corsa! Riuscire a far sentire le allitterazioni all’inizio del verso tedesco, e le consonanti alla fine: le “t”, che sono così importanti, non le lasciano sentire!».
Geme ancora. «In quest’opera che vedrai tra qualche giorno, l’Erik... ne riparleremo quando l’avrai ascoltata tutta insieme... Se la dovessi fare adesso, lo so già cosa cambierei, dove non va bene... Avevo deciso che la voce dovesse predominare. Tutto, o quasi, succedere nelle voci. Hai presente Berg, no?... Ma per me qui diventa importante riaffrontare soprattutto il problema dell’orecchiabilità, riprenderlo di petto, affogato com’era nel trionfo del colore e dell’armonia dopo i Wagner-Strauss-Mahler... e riesumato solo da compositori reazionari... per cui niente è accaduto dopo Puccini...
«E così sono stato abbondante» si lamenta, con severità. «Troppo abbondante, capisci? Non abbastanza secco! Come in Mahler... toutes proportions gardées, beninteso... Troppa sofisticazione ebrea, e pomposità cattolica, e Jugendstil che non mi riguarda, ci sento dentro, per il mio gusto di adesso... Addirittura un tristanismo irrisolto, involontario, che non mi compete, post-impressionistico, e mi fa venire una gran nostalgia di musica da camera subito, una voglia di prendere un concetto che mi balena sfogliando Paul Celan, magari: Asche, Asche... e il respiro infinitesimo dei frantumi... per uno strumentale piccolissimo... E lavorarmelo, lavorarmelo, finché...
«Sai cosa mi metto a fare, appena ho concluso questo primo atto?... Ho già qualche appunto, sul fasto del taciuto... Una cosa che m’ha chiesto la Filarmonica Romana... Farei dei movimenti per orchestra. Brevissimi. Castissimi. Una cosa meno che francescana, direi, visto che siamo qui in Umbria... Partendo proprio dalle ultime sezioni seriali dell’Agon di Stravinskij; ma con una scrittura contrappuntistica ancora più rarefatta. Una trentina di strumenti. Forse meno, semmai. Fiati, tutti: tre flauti, tre oboi, tre clarinetti, quattro corni... un mandolino... un trasalimento di arpa e timpani... Però, sempre usati a piccolissimi gruppi per volta, come isolati, distanti: morte della Musica anche come socialità. Mai un tutti. Non più un’orchestra.
«Una dozzina di questi Movimenti, farò. Forse di più. Ma brevissimi! Webern potrebbe apparire al confronto un fastoso... Anche un fast: tema che del resto ho già svolto in Tod und Tango im Palais Palffy, una Kammeroper che tu non puoi conoscere perché è stata rappresentata solo una volta a Kassel. E non è piaciuta perché era troppo in anticipo sui tempi e sui luoghi: tutti bendati, legati e imbavagliati... “ungestillt, unverknüpft, kunstlos”... continuando a portar fuori vecchie valigie...».
«Procedimento per sottrazione?».
«Certo: “schtzngrmm, schtzngrmm, schtzngrmm”... e così, togliendo, creando: perché ne risultava, alla fine, uno spazio vuoto, benissimo disegnato e illuminato... aperto a qualche cosa che non c’era ancora ma forse...
«Però, si capisce, non una di quelle composizioni atomizzate, “verstimmtes klavier abstrakte orgeltrümmer, langsam”, che sono interessanti né più né meno di una sirena di nave o di un cucchiaino che cade. La musica consiste di relazioni ordinate fra suoni... dopo tutto... anche se ci divertiamo tanto applicando un simpatico procedimento aleatorio agli accattivanti giocattoli dei bambini primitivi... Tutti così bravi bambini. Bravi, bravi... tranne quando buttano un gatto sulle scale mobili...».
La casa, che Klaus chiama il conventino, è abbastanza scenografica e pomponnée. Quindi va benissimo per le sue aspirazioni al grandioso. Molto adatta a ospitare una piccola Corte rinascimentale di campagna, dicono tutti appena entrano. A mezza costa, col suo ponte di pietra da un lato per gli arrivi, e il suo precipizio sotto: non un orrido ma quasi. Un fianco aperto sulla vallata, con un immenso spazio di luce davanti a un panorama di montagne lontane.
Buona parte potrebbe essere del Cinquecento davvero: la loggia verso la valle, dove si mangia di solito, con tre grandi arcate, degli affreschi quasi invisibili, e il pavimento di cotto restaurato da poco (ma dentro in casa c’è del grès); la scalinata che scende in giardino, tre o quattro strisce di giardinetto fantasma all’italiana una sopra l’altra, in pendenza, fino alle limonaie: i vasi sono tutti fuori, inquadrati come un plotoncino del Principe Eugenio, in ordine d’altezza; e su, su, in alto, un lecceto scuro come l’Isola dei Morti di Böcklin. Ma poi c’è dietro tutta un’ala gialla di servizi e stanze da letto meno belle; e chiaramente non può avere più di sessanta o settant’anni.
«Tutte occupate, saranno, durante il festival» fa vedere Klaus, portandoci in giro per i corridoi. «Qui i principi Hohenloe, qui la principessa Wittgenstein, qui Benjamin Britten, qui l’ambasciatore del Brasile con la moglie che è una Schlumberger, qui il nuovo direttore di Villa Medici, qui il presidente dello Hessischer Rundfunk con la moglie, ottima scrittrice e illustratrice per bambini... Voi state qui da me, siamo d’accordo: devo saperlo... Vero, Antonio?».
L’interno, visto di mattina, è abbastanza cadente. Subito fuori dalla stanza dove abbiamo dormito, si traversa una sala da biliardo senza assolutamente luce naturale, anche se adesso è mezzogiorno passato. Poi una saletta da pranzo angusta per l’inverno, d’angolo, con dei grevi mobili scolpiti, irriconoscibili per un décapage troppo violento; e una galleria fatiscente con dei bizzarri affreschi d’animali sul soffitto: grottesche di gatti che pescano, cavalli in barca, scimmie che fanno il pane al forno. Subito dietro c’è la cucina. Le piastrelle ballano tutte: verdi, gialline, viola. Per uscire si passa da un’anticamera immensa con due portantine, quattro seggioloni neri intagliati (neogotico di campagna...), mappe sbiadite di fattorie, brutti ritratti di arcipreti, e una gran tavola abbigliata di velluto distrutto nel centro, carica di fiori secchi e conchiglie, vecchie riviste inglesi d’arredamento, cataloghi di pittura surrealista a colori.
Provo a chiedergli, sulla porta, se Kleist era dama o damigella.
«Non so proprio, elefantide... Viaggiava sempre con un amico... e ha rotto il suo unico fidanzamento, perché pretendeva dalla signorina delle condizioni incredibili... star sei anni senza vedersi, per esempio. Ma probabilmente non era, nonostante tutto. Troppo perso nel mondo irreale... Pensa che secondo le sue intenzioni Il principe di Homburg doveva farlo entrare nelle grazie dei Reali di Prussia!... Inconcepibile, no? Per uccidersi, s’è poi ucciso con Henriette Vogel... in un posto sul Wannsee dove i ragazzi berlinesi vanno ancora oggi a portare i fiori... ma l’amore probabilmente non l’ha mai fatto... con nessuno... come del resto de Falla e Ravel».
«Senti...» sta dicendo Antonio, che la sera vuole aver le mani libere. «Ti ringrazio molto, ma son sicuro che anche in uno degli orrendi alberghi...».
«È perché ci sono pochi bagni?» si inquieta Klaus, con Renato che sta borbottando qualcosa come «è un posto dove quando si è in tanti, davvero chi la fa la getti...».
«Non vorrei occuparti sempre una stanza» spiega Antonio. «Vado e vengo».
«Ma non ne troverai una, giù! Sono tutte prese, già adesso, per i primi giorni! Tutte!».
«Grazie... davvero... Ma me ne han sempre trovate, gli altri anni... Poi avendo una macchina svelta... Anche se fosse un posto un po’ fuori...».
«Fate come volete. Se volete sempre libera degg’io... Ma ditemelo in tempo. O magari venite qui più tardi, quando è già finito il festival. Quando non c’è più nessuno».
«Ma fino a quando ci stai?».
«Fino a ottobre, penso. L’ho presa per sei mesi. Così finisco la Pentesilea in pace. Renato!».
«Sì, sì. Pensa a tutto la cuoca».
«Ma la lista?».
«Ce l’ho in tasca io».
«Noi non dormiamo qui stasera, Antonio, vero?» domando, in modo che lo sappiano.
«Come volete voi, naturalmente» fa Klaus uscendo.
Due donne stanno mettendo a posto delle sedie di vimini, e lui raccomanda la disposizione delle tovaglie. «Le più grandi! e giù! giù fino in fondo! e non aver paura che scendano fin sull’erba!».
Deve venir su verso le sette di sera un po’ di gente. Noi scendiamo tutti in paese. Klaus ha una prova all’una e mezza.
«Siete sicuri che non volete mangiar niente prima?».
«No, no, niente».
«Andiamo a colazione molto più tardi» fa Antonio.
Entriamo tutti a vedere la prova. Si sale fino al ridotto dei palchi, e sono già lì pronti i cantanti e le comparse, con un maestro al piano e il regista. Ma siamo in troppi. Non sono contenti che entriamo tutti. Così io e Renato scendiamo, poco male, ma si è visto subito che Klaus è furibondo. Antonio ci raggiunge un’ora dopo al ristorante, ridendo come un matto, e racconta che ha fatto dei giochi molto da bambino con un pompiere giovane papà osco-sabino sopra il lucernario del teatro, nuova come solfa, tipo Fantasma dell’Opéra. Da mangiare non ci sarebbe altro che roast-beef duretto e insalata. «Vogliono le fettuccine o le pappardelle?». Naturalmente le rifiutiamo, e facciamo malissimo. Veniamo puniti. Solo prosciutto scuro e pane triste. «Dopo la prima del Macbeth, per l’inaugurazione del primo festival,» ricorda Antonio (siamo già alle rimembranze?) «con tutte le Domitille e Camille cariche di Balenciaga e gemme si mangiò solo pane con vino locale, al ristorante dell’albergo, perché non avevano creduto che sarebbe arrivata gente».
Renato va a telefonare, e Antonio spiega in fretta l’imbroglio della regìa. Doveva farla Alberico Ghislieri: quarant’anni di carriera senza gavetta, e per il melodramma habillé sempre il più Max Reinhardt di tutti. L’aveva già dichiarato in una quantità di interviste: tre regìe in un mese! Ma pochi giorni fa si è tirato indietro: non vuol più, ne fa solo una, la Maria di Rohan per l’inaugurazione.
«Un po’ perché è vecchio, non se la sente di rischiare sulle novità, ormai tira solo ai successi certi; anche probabilmente ha bisogno di tanti soldi, Felice Dandolo gli costa! e quindi gli convengono soprattutto le opere all’aperto e i film in costume...». Per l’opera di Klaus comunque ha controproposto il suo assistente degli ultimi anni, Peppino. Sarebbe l’esordio, per questo Peppino; e tutti erano un po’ allarmati, perché far l’aiuto di Alberico è considerato una specie di bacio della morte, dal momento che come ogni grande genio scenico tollera intorno a sé unicamente coglioni. «Quelli adoperati da lui non li vuole più nessuno, perché hanno perso l’io dalle sarte».
Ma Alberico ha molto insistito con gli organizzatori e con Klaus, dicendo che dopo tutto Peppino ha l’età di quando appunto il sommo Reinhardt aveva dato a lui la prima chance senza gavetta, quel celebrato Artabano e Artaserse con gli arlecchini in bianco e nero al Maggio. «E poi l’hanno già richiesto per fare uno Shakespeare a Londra quest’inverno, il Mercante di Venezia all’Aldwych». Questo è stato l’argomento che ha persuaso un po’ tutti. Citati e tacitati. Come dicono loro: «Inzomma, tiè».
Dopo colazione si va in giro per la città che è davvero stupenda, ben fatta, seria, piena di palazzi medioevali burberi e di “angolini” uno più baraccone dell’altro, arrangiati in miseria tipo «il Dugento spiegato agli americani», quelli veramente del genere «I asked the signora for a cartoccino»... Un bazaarino di finti oggetti d’artigianato e di insegne soi-disant spiritosine con grullerie francescane, dove il falso-rinascimento da trovarobe abbraccia singhiozzando il rustico di plastica. Trilli e gorgheggi registrati fra praticabili di legno e cartone, maioliche in vendita su cui si mangia, diavolini gialli e celesti in calzabraga che sbucano da tutti i pertugi come da un formaggione traforato per andare alle prove dei balletti, «Ask the contessa for the fagottino»... Che vergogna, andare in giro in questi posti qui... L’intera popolazione ci spia da tutte le finestre. Spunta solo un pezzo di testa, hanno la seggiola sotto, la giornata passa. Pochi televisori, evidentemente. In giacca di nappa tête-de-nègre, Renato fa ancora una figura da star. Si sente chiedere ad alta voce chi sarà. Alle tre quando riaprono i negozi si va dentro insieme in una drogheria sulla piazza del mercato; e lì ci tocca assistere agli acquisti, tipo famiglia, davanti a un piccolo gruppo entrato apposta, entusiasta e per niente classista.
«No, Klaus assolutamente non vuole» insiste lui, mentre compra bottiglie e candele colorate, in quantità pazzesche, e noi ci offriamo di pagarne almeno una parte. Whisky, gin, vodka, succhi, aperitivi, le solite acque toniche, sono già sulla sua lista. Così io e Antonio prendiamo per amena celia delle orzate e degli zabaglioni, dei cherry-brandy, un Centerbe Millepiedi. «Lo stesso nome dello psichiatra a Monza dove m’ha portato la mia mamma quando le ho detto che mi piacevano i tenori!» scoppia a ridere Renato. Li metteremo all’ultimo momento sulle tovaglie fini. «La sua mammà? Figuriamoci che meraviglia, chissà che cappellini...» mi fa segno Antonio.
Klaus ci raggiunge su al conventino alle sei passate, ancora agitato e senza parlare. Il giardino è spazzato, le scale sono a posto senza quelle brutte sedie, ma prima d’andare a cambiarsi fa e rifà il giro due o tre volte da solo, sempre scuro in faccia.
Non viene molta gente: la poca che c’è in città in questo momento. Raimondo è uno dei primi, perché deve tornare a Roma stasera. Magrissimo, lo ritrovo, la metà di com’era l’estate scorsa a Atene, quando con Antonio l’abbiamo trovato per caso sulla spiaggia a Glifada, con tre o quattro di Milano scappati da una barca dove si mangia malissimo. (E si deve passar la sera a giocare a poker. Senza poter scendere!). Poi siamo andati in giro per quasi una settimana in posti di Atridi tutti insieme, con questo rimorso che adesso ci dovremo tirar dietro chissà fino a quando: per non fare una deviazione noiosa, non siamo arrivati fino al tempio di Bassae. E da allora, quasi tutti (si fa per dire) quelli che troviamo tornati dall’Attica: ma come! eravate lì in Arcadia, e non siete andati a Bassae! Ma come avete fatto a non andarci! L’avevate lì!... Faceva quasi buio, eravamo partiti da Olympia tardi, la stradina sulle mappe era segnata poco più che un sentiero... E allora adesso al British, come farete con le metope? E in giro, alle spalle: quelli che sono andati in Arcadia e si sono persi Bassae! E l’avevano lì!
Ma ogni sera, una volta in città, ostinato addirittura più di me a non voler tornare indietro dal Pireo anche dopo che avevano chiuso da tutte le parti. E incapace di star solo anche un attimo, o di star fermo, perfino nella mezz’ora che ci vuole per il bagno e cambiarsi prima d’uscire a pranzo, senza far tante telefonate, versarsi da bere, cambiar di posto ai mobili del Grande-Bretagne... «E quando sei a casa tua, scusa?». «A casa mia appendo i quadri!».
Giallo, quasi completamente, di pelle, sopra o sotto la nuova abbronzatura. So che ha avuto da poco un’operazione; ma questa è un’epatite incidentale venuta dopo, mi spiega. Non entra ancora nella casa, ma ha già detto «délabrée» e «fanée» e aggiunto «dunque giusta!». Klaus e Antonio non si vedono, e dalle porte viene un filo di background music: forse un Klaus che sta a Bernstein come Bernstein sta a Stravinskij... Ma la sua allegria non è affatto cambiata: gli occhi brillanti rimangono accesi, come con due lampadine dietro, e le piccolissime rughe intorno vibrano e ammiccano come segnini di saluto e d’affetto.
Ci avviamo adagio dentro una galleria di foglie già in ombra; mezzo giro intorno a una fontanina; avanti, l’altra metà della galleria; un berceau umido. «Fammi un po’ vedere questa statua». Si piega sotto i rampicanti; le tira su una tendina d’edera per guardarla in faccia. «Bruttina, vero?». Lascia andar giù le edere. Torniamo indietro.
Camminiamo a braccetto come quando al Pireo si scendeva da quei tassì enormi tutti insieme, cercando i posti di bouzoukia dove suonano fino a tardi. Gli altri si precipitano in tutte le direzioni. E lui, dopo dei gran «va’ adagio!» si appoggia al braccio. «Sta’ qui, tu elefante, lasciali correre... fanno come i cani, che scappano sempre avanti, quando si va fuori in campagna». E tutte le volte che mi vedeva sul punto di perdermi dietro qualche chimera di strada, subito lì vicino a ridere, a dire adagio: «Te’ la tua acqua, su...». E poi una volta seguendo una musica lontana in un quartiere deserto, squallido, dietro il porto piccolo, siamo finiti sotto una finestra al pianterreno, l’unica illuminata, ma con una Settima di Beethoven a volume altissimo da una radio, e dentro un vecchio in camice, gran barba nera, che dipingeva un ritratto di monaco fin-de-siècle, in una stanza tutta bianca con mobili tutti nerissimi. E ci si domandava: ma che destinazione? che committenze?
«Te le ricordi le bambinacce del Grande-Bretagne?» mi fa. Ci avevano fatto ridere per una settimana, tutte le mattine, nella stanza di fronte alla sua, sempre con la porta aperta. Tre erano, gonfie, sfacciate, di un sette-otto anni, buttate torvamente sui letti, a pancia in giù. La Schwester, con un Guide Bleu sempre in mano, si sforzava di leggere a voce altissima delle notizie sul Ceramico e sull’Eretteo, per farle andar fuori. Ma loro, niente: mezze spogliate, con su le scarpe, villanissime, mai un momento che alzassero la faccia dai loro mucchi di fumettacci a colori, ingorde, sempre con le dita appiccicose di chicche colorate e cellophane.
«E il povero bambino della Plaka, te lo ricordi?».
Il povero bambino (Raimondo ama i bambini, come io gli animali) era un bel bambinone di otto o nove anni, col suo testone rapato, che faceva il suo compito di scuola su una seggiola, fuori dell’uscio di una baracca fra le più misere, su per la salita al Partenone, al sole; e suo padre, iroso, malvagio, ingiusto, lo sgridava ininterrottamente, da chissà quanto tempo, urlando; e gli dava dei colpi; e gli sputava sulla testa. Evidentemente non aveva nient’altro da fare. E il povero bambino, con gli occhi pieni di lacrime, senza un gesto, senza una parola, andava avanti a fare il suo compito, con dignità. Esser figli di uno stronzo? (Cosa avrà pensato?). Esser figli di un coglione!... Subito è stata raccontata a Gadda, che si è commosso a tavola, alla Campana, perché lo turbano molto le storie di bambini tormentati; e infatti sente ogni volta da Antonio angosciandosi quel nostro famoso dischetto con Frankie Lymon che fa una vocina dell’innocenza straziante, altro che Dickens: parecchi no no no no sempre più disperati e soffocati mentre delle altre voci tipo “castigatio” terribile lo accusano d’essere un juvenile delinquent, ma non viene creduto e si capisce che sarà punito, e lui no, no, no, no...
«La Maria, la teniamo per dopo». Già, quando ci sono anche gli altri. Mi tiravano ogni giorno per tutta l’Argolide sitibonda alle prove della Norma-Callas, con una Mercedes da galline, penne e meliga dappertutto sui tappetini. E là a Epidauro, gruppo Wally, gruppo Onassis, gruppo Serafin... E «in mia mano alfin tu sei!» in giro... La sera, il Grande-Bretagne pareva il Biffi-Scala, anche con dei milanesi che si facevano arrivar lì la posta per sembrare di casa, però passando tutta la giornata sui divani giù perché avevano una stanza fuori: si sono fatti anche degli elenchi... Finalmente, il grande sortilegio maghesco, però ai danni della maga: questo violentissimo temporale, in Grecia, alla metà di luglio, proprio all’ora della prima, uscendo dal cielo stellato, quando si era già tutti lì abbigliati e senza un solo ombrello! E la Divina che si salva per mare, lasciando anche i devotissimi nel fango!... No, no, qui bisogna essere in parecchi, prima di dar la stura alla rievocazione. Tanto più che ci si domanda: poteva capitare con la Medea, maga locale? No, signora, sono cose che succedono quando una druidessa gallica di Irminsul pretende di officiare in un santuario di Asclepio. Gli ulivi, scambiati per querce col vischio, si vendicano. Graecia capta, capo ha.
«E a Bisanzio cosa avete fatto?». Lui non c’era voluto venire.
«Nella Moschea dei Conquistatori, con un bellissimo tappeto rosso per terra, un teatrino di tre muti. Due tedeschi, uno alto e uno piccolo; e uno turco, alto, grosso, molto giovane, gradevole, sposato, con la sua vera al dito. Non facevano altro che additarsi i soffitti, che sono bianchi e neri, barocchi, a rabeschi, come nella chiesa dei Gesuiti a Venezia. Ma che incredibile, com’era fitta quella conversazione. Come faranno, dei muti di lingue diverse, a dirsi per esempio “Solimano” o “mihrab” o “madrasah” o “Kemal Ataturk”, solo coi segni? “Omayyade”, come sarà?...
«Il tedesco piccolo era curiosissimo. Di mezza età, con una zazzerina rossastra, camicetta corta di nylon verde, calzine alte di nylon nero, calzoncini da scout color pantegana, si vedeva che era avidissimo di schiarimenti. Continuava a tirar per le braccia i due alti, mai contento... È chiaro che ci metteva tantissimo del suo, allusioni, metafore, jokes... Però si dovevano capir bene, perché erano contentissimi, tutt’e tre... E all’uscita c’era ad aspettarli un altro muto tedesco, che era rimasto lì fuori a far la guardia alle scarpe, e loro gli han raccontato tutto, sempre a gesti, e lui ci ha creduto senza entrare!».
Ma come fa buio presto, qui. Alle cinque del pomeriggio l’ombra della montagna sopra incomincia a coprire il conventino, e poco dopo il giardino è completamente scuro quando la pianura è ancora piena di luce.
Raimondo si diverte molto a raccontare le sue giornate con tutta la gente in clinica due mesi fa, con la sua stanza diventata una passerella per défilé di principesse e d’attori, con delle Marie Immacolate d’Aquara Sangemini o d’Aquino Sanpellegrino come maggiordome maggiori e aiutanti di camera, un boxeur che fa l’allenatore della Morelli-Stoppa come provveditore de’ materiali per le ducali fabbriche e delizie... Le cavaliere del lavoro, le mogli di ministri che hanno comprato dei quadri da lui, e le vecchie amiche di Ciano e di Balbo sedute fin per terra in mezzo ai fiori e ai fondants, con tutte le mosse giuste dello chic fascista, l’abito di imprimé fasciato, la scarpa bianca, la cavigliona grossa, la disinvoltura 1939, lo scatto sul grazie sì e il grazie no! e la tipica repartie d’epoca tipo «a chi la lonza? alla più stronza!»... La vecchia più ricca e più tirchia di Venezia gli ha mandato un plaid di pelliccia! La stessa che dice agli imbucati «ma che sorpresa incontrarla in casa mia!». Da cui lui ha ricavato, sempre per gli imbucati, «non vi ho mandato un invito, perché sapevo che sareste venuti lo stesso!». Da New York, un’altra vecchia, che ha i più bei Max Ernst, gli ha spedito non un Max Ernst ma tanto pot-pourri di Mary Chess da profumare tutta la casa per mesi!
In cima alla scala compare adesso Renato con le due donne vestite di bianco, e fa dei cenni con le dita in su e in giù. Klaus esce un attimo e rientra.
«Prendo ancora la casa dell’anno scorso» dice Raimondo. «Antonio te l’avrà detto com’è stata una cosa divertente, cosa non si è visto! Ci sei anche tu stavolta, vero?».
Le candele sono finalmente accese, dentro i loro globi gialli, un paio anche tangerini; e Antonio dormendo in piedi intrattiene da bravo un vecchino inglese tristissimo vestito color corda. Da una finestra le due donne mezze nascoste si sporgono a guardare, goffamente. Neanche qui è arrivata la televisione, si vede.
«Senti! Una festa, almeno qui, tutte le sere!» grida quasi, illuminandosi, Raimondo. Scendiamo incontro al gruppo che arriva. Lei è una meraviglia, ancora vestita di seta a gran fiori, bianchi e neri, con una collana d’oro che mi sembra importantissima, ridente.
«In un certo senso la conosci già...» mi fa Raimondo.
«Io no...».
«Non ti ricordi, l’anno scorso, proprio a Atene, quelle cartoline buffe degli evzoni, con quei gran baffi, che abbiamo firmato tutti?... Hai firmato anche tu... Erano tutte per lei...» mi fa Raimondo ridendo.
Certo che le ricordo. Su una: «Meglio il baffo / che la Moffo / e la Moffa / che la Saffo». Su un’altra, quando non si è arrivati fino a Bassae: «Le micie di Micene / hanno mèches di Mikonos / le cene invece / sono da cani». E dopo il famoso uragano Callas: «Principessa dispettosa / che non sei con noi venuta / or non sai qual ghiotta cosa / con l’Edipo hai tu perduta / se a Epidauro non si canta / Peeping Tom corre a Colono / e se piove si rintana / nella gonna dell’evzono».
Raimondo le fa: «E la prima sera, un ballo in maschera! Splendidissimo!» baciandole la mano.
«Benissimo!» ride apertamente lei.
Si sale insieme, e dentro poi c’è parecchia gente; solo candele, sulla tavola dei bicchieri. Quando si è in molti, si notano improvvisamente certe esitazioni piccolo-borghesi di Klaus fra i gruppi che stentano a mescolarsi: intrattenerli, girare, interromperli? o lasciarli chiacchierare o star zitti con chi vogliono, senza tante presentazioni e didascalie?... Per correggere gli impacci, si irrigidisce in una freddezza quasi altezzosa; ma i gruppetti stasera sono effettivamente un po’ troppo gruppetti, c’è poco da fare col «vieni a parlare con questo che ha delle cose interessantissime...» fra musino e musetto e Maus... È quasi buffo osservare che quando lui saluta qualcuno in tedesco è secchissimo e rigidissimo, mentre non potrebbe essere più mondano e sciolto quando fa delle ciarle in inglese... Pensare che lei si chiama Desideria Branciforte! Vien voglia di domandarle come sta imaginifico. O Ranuccio Farnese? O qualche vecchio Cenci? O Lord Byron? Si capiscono bene le vertigini rinascimentali di Jean-Claude. Penso come rimarrei se mi dicessero all’improvviso «ecco Astorre Manfredi, may I?».
Così mi presentano, Raimondo e Antonio insieme. Lei sta dicendogli che ha visto delle cose sue e le piacciono. Lui storce scioccamente il naso. Lo so, che le trova quasi sempre scadenti, e ha paura che gli si legga in fronte cosa pensa: ma allora, non hanno capito niente. «Gliele ho date io» interrompe subito Raimondo.
Ne ha dietro quattro, stasera, vestiti uguali come se si fossero messi d’accordo. Jean-Claude, leggermente più in chiaro degli altri tre, mi fa dei sorrisini bianchi senza espressione, dilatando gli occhi.
«Ma tu dove stai?» gli chiedo. Mi vien voglia di chiamarlo Topolino o Minnie. «Dove sei andato a finire?».
«In un castello immenso, tu! Diroccato; sopra Narni. Di un’amica d’una mia amica di Parigi, Guidobaldina di Castellabate, una Guidobaldini che discende da una regina di Spagna che si è risposata due o tre volte. Siamo lì tutti. Non si dorme mai».
«Cosa fai tutto il giorno?».
«Oggi siamo stati giù al Trasimeno, da un’altra ragazza, una certa Strozzi, ma non degli Strozzi di Palazzo Strozzi. Mangiato benissimo, su un’isoletta bellissima, non si fa altro che mangiare, però si è anche molto passeggiato. Domani a Bolsena tutto il giorno, su un’altra isola, e in serata rientrano a Roma; io anche».
«Ma com’è lei? anche simpatica?».
«Ad-mi-ra-ble! Innn-croyable! Non possiamo parlarne qui... ti pare...».
Stanno poi andando via quasi tutti. Lei, con la sua risata squillante, altissima, quasi un trillo d’uccello notturno, lungo le torce a terra, fino in fondo al giardino. Si è fermata solo pochi minuti perché deve pranzare da qualcuno giù a Spoleto, e là sono puntuali; e poi c’è un aeroplano che parte verso mezzanotte da Fiumicino, o qualcuno che arriva. «Mi porti giù con la tua?» chiede a Raimondo. «Dobbiamo ancora combinare per le lacche di Lucca». E partono insieme, oiseaux exotiques sulla Jaguar di lei, con perfetti capelli controluce.
Inutile quindi aspettarlo per pranzare a Terni come si era prospettato con Antonio in un posto dove pare che si mangi benissimo. Salutiamo Klaus. Le bottiglie guitte serviranno per una volta prossima; noi andiamo giù subito. Facciamo qualche sciocchezza rapida a Terni in un parco bombardato a voragini, e lungo la Flaminia su e giù per camion capricciosi ma a modo loro anche esigenti, che fanno i segnali coi fari appostati fra gli alberi; e qualche tramestio dietro, fra il carico. «Niente, sono i vitelli». Mi pare che ci sia molta simpatia reciproca, e anche curiosità per le novità, in questi posti; ma la natura è forse un po’ troppo semplice.
Una Flaminia come quella di Raimondo ci sorpassa in un momento d’estenuazione a Prima Porta (ma è poi la sua?), verso l’alba. Comunque non ci si ferma. Siamo un po’ stanchi.